ALTAI
Il nuovo romanzo di Wu Ming

Wu Ming, Falcones, Lerner: una lettura comparata – da L’Unità

Written on 23/12/2009 – 4:49 pm by Wu Ming

Gad LernerDa L’Unità del 23 dicembre 2009:

ROMANZI, SE LA TOP TEN PREMIA MARTIRI, VIAGGIATORI E RIBELLI
Tre autori. Il collettivo Wu Ming, Falcones e Lerner e il singolare filo rosso tra le loro opere

Tommaso De Lorenzis

Sono storie di perseguitati e proscritti, di esuli e dissidenti. Sono racconti di carneficine e massacri, di fughe precipitose e peregrinazioni estenuanti. Compongono le trame di tre titoli che, a dispetto della diversità di generi e stili, si richiamano in un gioco di suggestive assonanze, piazzandosi ai piani alti delle rispettive classifiche di vendita. Se l’accostamento tra La mano di Fatima dello scrittore spagnolo Ildefonso Falcones e Altai dell’atelier Wu Ming può risultare ovvio, inaspettata appare la corrispondenza tra la coppia di romanzi e Scintille, l’ultimo lavoro del giornalista Gad Lerner. Le analogie sul versante romanzesco dell’ipotetico trittico narrativo sono evidenti. Falcones e Wu Ming scelgono il XVI secolo come ambientazione dei loro intrecci, con uno scarto temporale praticamente nullo: in un caso siamo nella Spagna del 1568, nell’altro a Venezia nell’anno del Signore 1569. I due libri, quindi, si collocano agli antipodi del medesimo scacchiere politico. Le rivolte dei moriscos andalusi trovano un’eco nella Costantinopoli di Altai, mentre la presa di Cipro e la battaglia di Lepanto causeranno – anche se indirettamente – la sconfitta della sollevazione musulmana in Spagna. Tuttavia, al di là della pur significativa consonanza di contesto, suona stupefacente la somiglianza dei protagonisti. Ex agente della Serenissima costretto a un’imprevedibile fuga, Emanuele De Zante – io narrante di Altai – patisce lo smarrimento di un’identità sospesa tra due fedi: quella cristiana del Leone di San Marco e quella della diaspora ebraica che ha trovato rifugio a Costantinopoli. Sotto il cielo del medesimo intreccio di culti e culture si muove il morisco Hernando Ruiz, figlio di una musulmana violentata da un prete cattolico. Cresciuto nella dissimulazione del proprio credo islamico, Ruiz subirà alterne, dolorose sventure che lo porteranno a pregare rivolto verso la Mecca e a invocare i chiodi della croce di Cristo, salvo poi scoprire che la verginità di Maria è un dogma riconosciuto da entrambe le religioni. Abiura e apostasia cessano così di valere da infami apposizioni del Rinnegato per farsi legittimi presupposti della convivenza tra diversi. Il gioco d’identità sfuggenti e i conseguenti conflitti interiori legano saldamente questi spaccati romanzeschi del Mediterraneo cinquecentesco. “Lo sguardo di Hernando vagava sui presenti, musulmani e cristiani. Chi era lui?”, domanda il narratore de La mano di Fatima a proposito dell’uomo che i cattolici giudicano un infedele e i confratelli moriscos appellano con disprezzo il “Nazareno”. “La fuga era una crisalide, ma il bruco non diveniva farfalla: soltanto un altro bruco”, risponde – dall’altro estremo del Mare Nostrum – l’io narrante di Altai, esplicitando dubbi e incertezze sulla natura del mutamento. Dunque, chi sono costoro? Chi sono davvero questi (dis)simulatori e apolidi, martiri e convertiti, ribelli e viaggiatori? Chi sono coloro che continuano il cammino “con parole cangianti e nessuna scrittura”, recando il fardello di tanti nomi e troppi battesimi?
Come risposta, esitante e pensosa, a questi interrogativi procede l’avvincente narrazione di Scintille. Non è un caso che il sottotitolo reciti “Una storia di anime vagabonde”, omaggio alla dottrina chassidica delle anime inquiete che vagano nell’erranza chiamata gilgul dai mistici della Qabbalah. A debita distanza dalle secche di un’autobiografia colta e vezzosa, lontano dalla monotonia “di un’altra saga familiare ebraica nei gironi infernali del Novecento”, Lerner intraprende un cammino nello spazio e nel tempo: sui luoghi della memoria, sì, ma con lo sguardo saldamente rivolto al futuro. “Nessuno può tornare indietro. Era avanti che bisognava guardare”, scrive Wu Ming. “Si deve viaggiare in avanti, facendo un uso parsimonioso della retromarcia”, corregge lievemente il tiro il conduttore de L’infedele. Il senso, però, non cambia e l’invito a liberarsi dal malinconico gravame dell’Esiliato è lo stesso. Da Beirut alla Galizia orientale, dai tramoniti libanesi alle foreste ucraine, Scintille illustra le vicende dei Lerner e dei Taragan, la famiglia materna dell’autore, rimbalzando senza posa tra fatti privati e grandi eventi della Storia. L’oscuro oggetto del racconto giace oltre quel silenzio – disarmato e anestetico – con cui i Lerner, trapiantati in Medioriente, avvolsero l’eliminazione dei consaguinei nel mattatoio nazista di Boryslaw e Leopoli.

“Gilgul”, l’erranza
Ed è a quresto punto che la dominante della tragedia parrebbe collegare i tre titoli in un funesto catalogo d’ingiustizie, violenze e abiezioni perpetrate sul crinale in cui la domanda “Chi sei?” diventa la linea che separa la vita dalla morte. Eppure, c’è dell’altro, qualcosa che ha a che fare con la fine del vagare e l’avverarsi delle promesse. Lascia stupiti come la sfiducia nei confronti del “messianismo politico” vibri con uguale intensità nelle pagine di Altai e in Scintille. Poco importa che sia l’utopia d’un regno libero nel Mediterraneo del Cinquecento o la realtà di Eretz Israel. E poco importa che si tratti dei vagheggiamenti di Giuseppe Nasi, il potente giudeo introdotto alla corte del Sultano, o della ferocia di Ariel Sharon. L’inquieta sfiducia che monta nei confronti del separatismo statuale – illuminato ed “entusiasta” o ultranazionalista e finanche razzita – attraversa Altai e riverbera con sfumature differenti in Scintille. In questo senso, il gusto amaro della sconfitta non fa in tempo a impastare la bocca, perché il rumore della tenace lotta di sempre già riecheggia nelle parole che Primo Levi consegnò, nel 1984, al giornalista de “L’Espresso” Gad Lerner: “Bisogna che il baricentro d’Israele torni fra noi ebrei della Diaspora, che abbiamo il compito di ricordare ai nostri amici israeliani il filone ebraico della tolleranza”.

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