ALTAI
Il nuovo romanzo di Wu Ming

Valter Binaghi su Nazione Indiana

Written on 30/11/2009 – 12:47 pm by Wu Ming 2

valter_binaghiQuesta mattina, sul blog Nazione Indiana, è comparsa una lunga e articolata recensione di Altai, firmata dallo scrittore Valter Binaghi.
Qui sotto ne riportiamo alcuni stralci, invitando solo chi ha terminato il romanzo a leggere la versione integrale, che contiene molte anticipazioni sulla trama e sul finale.

Altai. Tra romanzo ed epopea

Altai. Ovvero, il Mediterraneo alla vigilia della battaglia di Lepanto.
Per epoca ed ambientazione, l’ultimo romanzo di Wu Ming si colloca a metà strada tra il lontano “Q” (a quei tempi il collettivo di scrittura si firmava “Luther Blissett”) e il recente “Manituana”, nel tentativo evidente di rendere esplicito un senso storico della modernità, illuminandone episodi talmente significativi da costituirne la contrazione allegorica. È questo percorso, e la filosofia della storia che lo sottende che fanno dei romanzi di Wu Ming qualcosa di più che pregevoli occasioni narrative: si tratta di finzioni letterarie che rivelano in filigrana, per chi sollevi e guardi in controluce, l’intento speculativo e l’operazione colta, senza che questo impedisca al lettore medio di abbandonarsi al romanzesco in quanto tale. È comunque anche alla luce di queste ambizioni di secondo livello che ognuno di essi va collocato e giudicato, il che proverò a fare. [...]
Diciamo subito che Altai è il migliore dei romanzi storici di Wu Ming. Avvincente e serrato nel ritmo narrativo, sontuoso nell’ambientazione e ferocemente carnale nell’umanità rappresentata, capace di restituire psicologie complesse che vanno ben oltre il puro e semplice “carattere” e splendidi personaggi femminili che incarnano il fulcro sapienziale della vicenda, ovvero il centro che catalizza gli eventi senza apertamente manifestarsi, quel “femminile” metafisico di cui la cultura femminista ha fatto scempio ma che il narratore di razza ritrova sulla sua strada una volta liberatosi da ipoteche ideologiche.
Del pari, l’elemento religioso vi è presente come l’anima segreta dell’agire politico e, a differenza di quanto accadeva in “Q”, la componente mistica e quella tradizionale- istituzionale del fenomeno religioso non vengono esibite come contraddittorie e incompatibili, il che faceva di quel romanzo un buon fumettone complottardo ma senza vera aderenza al dato antropologico, e quindi senza la profondità che la rappresentazione storica si merita. È vero che tutto questo veniva superato in “Manituana”, in cui la terza dimensione dello spirito dava sostanza e superava la sterile dialettica ideologica (colonialismo sì o no, globalismo sì o no, ateismo sì o no), ma qui la narrazione presentava qualche discontinuità e soprattutto l’inizio risentiva della mancanza di una focalizzazione decisiva su un protagonista, per rendere credibile la voce narrante.
Altai è un romanzo ben riuscito, dunque, ma il motivo per cui esso è un vero romanzo storico (per intenderci, qualcosa che è agli antipodi degli Aristotele o dei Dante detectives) va cercato più a fondo, e precisamente nella capacità che il romanzo storico ha di includere l’orizzonte intemporale dell’epos nella cronaca dei fatti narrati, i quali risulteranno non interamente assorbibili dal presente mobile e onnivoro del lettore, ma allusivi di ciò che nel futuro lo attende come un destino.
[...]
Che cosa c’è in comune tra “Q”, “Manituana” e “Altai”? In ognuno di essi si racconta di un’utopia sconfitta: la rivolta anabattista e il tentativo di fare della città di Munster una Gerusalemme celeste, la federazione irochese dilaniata dagli interessi contrastanti delle potenze coloniali, il sogno di fare di Cipro una patria per gli ebrei della diaspora e per i perseguitati di ogni dove. In tutti e tre i casi (ma con crescente maturità storica e letteraria) la componente mistica di queste tre visioni è crudelmente smentita dal trionfo della violenza e dall’immarcescibile efficacia del potere, e in questo si assolve compiutamente la vocazione della narrazione storico-romanzesca.
Eppure i conti non tornano, il gioco non è mai a somma zero. C’è un resto ineliminabile, ed è costituito dall’intemporale e dunque epica persistenza della visione di una comunità compiuta, sempre più consapevolmente trasposta nel futuro piuttosto che relegata all’eden di un passato immemoriale e, in Altai, garantita dalla sopravvivenza di un reduce che non mancherà di avere dei “figli spirituali”, eredi di null’altro patrimonio che quello della trascendenza. Trascendenza dell’epos sul romanzo, certo, ma anche, aggiungerei, trascendenza dello spirito sullo sfacelo della carne e sulle macerie fumanti della battaglia perduta, trascendenza dell’allegoria sulla nuda brutalità dei fatti, come un enigma ancora da decifrare eppure remotamente intuito, che reclama nuova comprensione. Per questo ogni conversione in realtà è un ritorno all’origine, e a venirci incontro da ciò che appare come futuro è il passato ancora inespresso, non l’eterno ritorno dell’uguale.
La fondazione da parte dei reduci di un disastro, cioè da parte dell’eroe sconfitto il cui archetipo occidentale è Enea, fa grande la nuova polis, purchè il dolore sappia farsi sacrificio e fecondità, purchè sia memore, purchè la fondazione sia un trapianto più che la pretesa della palingenesi totale. Se il tempo non è un girare a vuoto, qualcosa della città distrutta sopravvive nella nuova, come un tempo si custodiva la lievitina per dare vitalità ad ogni impasto nuovo, o come la vite trae origine dall’unico antico ceppo.
[...]
Ho bisogno di aggiungere che di questa letteratura abbiamo bisogno, non solo più di quanto serva al diletto dell’anima il puro e semplice intrattenimento, ma anche più del raffinato solipsismo minimalista che fa dei sommovimenti intestinali dell’io narrante la misura del mondo e delle cose?
 Come ho scritto tempo fa, non mi era piaciuta la macchina situazional-promozionale con cui Luther Blissett-Wu Ming hanno annunciato al mondo la loro esistenza letteraria prima ancora di dimostrarla, ma alla resa dei conti devo ammettere che in questa impresa collettiva c’è molta sostanza, e oggi come oggi seguo con interesse quello che ne deriva: il loro è tra i pochi progetti letterari che realmente reclamino il futuro, nel desolante mordi-e-fuggi che è diventata la cultura in questo povero paese di vincitori senza dignità e di reduci che non hanno mai pagato il prezzo della sconfitta.

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