Un feticcio di «working class», ovvero: il mito razzista dei «proletari che votano Trump»

Donald Trump a pugno chiuso

[Chi ripete la narrazione tossica su Donald Trump che ha avuto, tout court, «il voto della working class», ha una minima idea di cosa sia la classe lavoratrice americana, di come abbia votato o non votato, e perché?
Plausibilmente no.
Quanti sanno che Trump è stato votato da una netta – anche più netta che in passato – minoranza della società americana, e la fascia di reddito dove ha ottenuto il miglior risultato è quella dai 250.000 dollari all’anno in su?
A quanto pare, pochissimi.
Ecco perché pubblichiamo un contributo che ci è appena arrivato dagli Usa e ci sembra contenere importanti spunti.
N.B. Il titolo è nostro, quello di Valentina era «Benvenuti a Trumplandia».
Buona lettura. WM]

di Valentina Fulginiti

1.

Lavoro in un’università della Ivy League nel nord-est degli USA: una piccola isola felice di politica liberale e di privilegio economico. I miei studenti sono gentili, miti, studiosi. Forse sarà perché insegno nel collegio delle arti liberali, ma i giovani che incontro quotidianamente sono idealisti—anche se rispettosi delle regole fino all’ossequio—attenti a riciclare, aperti alla diversità sessuale e di genere, educati, sensibili, colti. Molti di loro sono privilegiati dalla nascita (come chiunque in questo paese possa permettersi di sborsare fino a 50.000 dollari annui tra retta e spese di vitto e alloggio). Anche i conservatori (pochi, per la verità) sono gentili, civili — ragazzi che sembrano usciti da un film dei primi anni ’50, con le loro cravatte regimental, i pantaloni beige, i blazer blu, la riga tra i capelli. Tutto è ovattato, quasi irreale. Anche nelle discussioni politiche (rare, perché tra persone beneducate non si parla di politica a meno che non si sia già tutti d’accordo), si avverte la costante preoccupazione a non urtare le altrui sensibilità, a non emettere alcuna nota dissonante.

È la mattina del 9 novembre, e il campus è avvolto in una calma innaturale. Nell’ultimo anno e mezzo la nostra comunità è stata segnata da diverse tragedie. In agosto, il suicidio di un ragazzo giovanissimo e talentuoso. All’apertura dell’anno accademico, l’assurda morte di un diciannovenne in una rissa scoppiata ai margini del campus. La scorsa primavera, la morte inaspettata e prematura della Rettrice, stroncata da un cancro fulminante. Occasioni tragiche, che hanno portato a momenti di silenzio, riflessione, raccoglimento. Eppure in nessuna in queste occasioni il campus si era immerso in un silenzio tanto raggelato e spettrale.

Gli studenti dei miei corsi sono traumatizzati. Per quasi tutti si trattava del primo voto: il paragone con i loro fratelli maggiori, diventati maggiorenni nell’epoca di Obama, è impietoso. Ripenso all’entusiasmo che, appena un anno fa, alcuni dei miei ragazzi avevano mostrato nel promuovere la campagna di Bernie; ricordo le loro animate discussioni, i capannelli cospiratori nei cambi d’ora, gli zaini e le bottiglie riutilizzabili per l’acqua tappezzate di adesivi, e la progressiva delusione a mano a mano che la vittoria del loro candidato alle primarie si faceva sempre più irreale. Tutto ciò sembra appartenere a un passato ormai remoto.

Nell’attesa della lezione alcuni — i più giovani — provano a sdrammatizzare, chi con una battuta, chi con la promessa di emigrare in Canada. La lezione di lingua italiana li distrae. Per un’ora, alle prese con i verbi riflessivi e il presente indicativo, dimenticano l’attualità; ma mentre lasciano la mia aula, li vedo ripiombare nello stesso silenzio apatico e disperato. Nella mia seconda lezione (un corso sulla cultura italo-americana e le sue intersezioni con razza, genere e sessualità) il clima è decisamente più cupo. Robert*, studente di lettere, entra in classe e annuncia con voce rotta (ma in perfetto italiano) di essere «senza parole». Mike, un ragazzo riflessivo e sensibile, senz’altro tra i più diligenti e motivati della classe, fatica a trattenere le lacrime mentre partecipa alla nostra analisi testuale e deve uscire brevemente durante la lezione. X, figlia di due immigrati, le lacrime non prova nemmeno a nasconderle: a più riprese si lascia andare a un pianto tanto silenzioso quanto incontrollabile. Mi viene difficile trovare paragoni. L’unico che mi viene in mente è l’11 settembre (un paragone sentito più volte ieri sera rispetto al tonfo del Dow Jones, 800 punti persi in un solo giorno). Mi tornano in mente le reazioni sgomente e traumatizzate che seguono un attentato terroristico. Si apre così l’era Trump: il terrore al potere.

2.

In facoltà tra i colleghi il clima non è molto diverso. Alcuni hanno lo stesso sguardo vitreo dei miei studenti. «Buona giornata», scandisce con voce rotta E., una delle ultime colleghe assunte, naturalizzata da quasi vent’anni eppure incredula di fronte alla caporetto democratica.

Poi ci siamo noi: gli italiani che ricordano fin troppo bene i tre cicli elettorali dominati da Berlusconi, quasi due decenni passati a fissare in volto la Gorgone; noi che l’abbiamo visto subito, fin dalle primarie, che la minaccia di Trump non andava né sottovalutata né derisa ma presa terribilmente sul serio; noi che abbiamo riconosciuto i segni e speravamo (pregavamo!) di sbagliarci. Noi che abbiamo visto l’insipida inconsistenza della campagna di Clinton e la sanguigna volgarità del Capo, e abbiamo tremato. La stessa terrificante sottomissione all’avversario; una campagna elettorale sbagliata dall’inizio alla fine, perché priva di un’identità e di una narrazione proprie, e di fatto asservita all’agenda dettata da Trump, il quale ha saputo invece imbastire una narrazione potente, accattivante, galvanizzante, per quanto retorica e superficiale.

Nel pomeriggio, al silenzio segue il vociare; piccoli capannelli si formano; tra gli spezzoni di frasi, «electoral college», «rust belt», «nobody» e «the polls were wrong» sono i più ricorrenti. Si cerca, invano, di ricomporre i pezzi del puzzle.

La cosiddetta fallacia del giocatore, la difficoltà estrema di immaginare un sommovimento dello status quo, il fatto che i sondaggisti e gli analisti fossero tutti pro-Clinton (con l’eccezione di Nate Silver che ha saggiamente evitato di sbilanciarsi fino all’ultimo), lo schieramento pro-Clinton di quasi tutta la stampa tradizionale e di area liberal, dal New York Times fino a diverse testate locali di tradizione repubblicana, e la stessa impensabilità di Trump presidente: sono molti i motivi che spiegano lo choc. Ma viene quasi da pensare che i sondaggi abbiano sbagliato anche perché a volte non bastano i numeri: quell’immagine che i sondaggi restituivano mossa e sfocata forse avrebbero potuto darcela i tanto vituperati saperi umanistici e discorsivi: la retorica, l’analisi delle strategie comunicative, l’analisi critica. Per fare un esempio, il regista Michael Moore ci aveva azzeccato, con mesi d’anticipo, anche quando le statistiche davano la Clinton in netto vantaggio. Sarà un caso?

3.

Com’è possibile, mi domando, che nessuno si aspettasse la vittoria di Trump?
Certo, noi che viviamo nella piccola bolla liberale di Ithaca—un isolotto blu nel mare rosso repubblicano che è lo stato di New York (ben distinto dalla città di New York City) corriamo il rischio di separarci dal resto della società, convinti che la nostra quotidianità fatta di zone pedonali, biciclette e mercati della terra sia la normalità. Ma bastava allontanarsi di una ventina di chilometri per respirare un’aria diversa. Si esce da Ithaca per andare verso Groton, Dryden, Cortland, in direzione di Syracuse: un mare di cartelli blu per Trump/Pence, raramente punteggiati dall’azzurro chiaro di qualche cartello pro Clinton e – un po’ più spesso – da quelli per Bernie. Diamine, anche dentro Ithaca bastava andare a fare la spesa al Walmart locale per vedere le magliette «HILLARY FOR PRISON 2016» (per tacere di altri slogan ben più volgari) e i pick-up ricoperti di adesivi strillanti, più «maleducati» di una canzone di Vasco.

C’è ben poco a tenere a galla queste aree semi-rurali, tra laghetti da cartolina e dolci colline: molte fattorie, alcune pericolanti e abbandonate, altre riconvertite in vigneti e birrerie, più che altro popolate di turisti e di qualche festa di addio al nubilato; qualche piccola università statale e qualche college a vocazione professionale; case fatiscenti e macchine lasciate ad arrugginire sotto un eterno cartello “Vendesi”; qua e là un ambulatorio, magari specializzato nel trattamento del dolore – che si tratti di un «pill mill», una di quelle discutibili cliniche spuntate come funghi negli ultimi dieci anni e che distribuiscono legalmente ricette per oppiacei? Ogni tanto appare uno strip mall, un susseguirsi amorfo di supermercati e grandi magazzini. Pochissimi i servizi: un raro ufficio postale, un bar sgangherato, un diner di provincia dove consumare caffè, uova e bacon a qualsiasi ora del giorno. Un’abitazione dove ha soggiornato qualche personaggio storico trasformata in attrazione turistica. Una Main Street lucidata e pulita, con mattoni a vista e coccarde tricolori, circondata da vie deserte e case in rovina. Lungo le strade semi-abbandonate di cittadine un tempo fiorenti, la metà dei negozi ha le vetrine coperte di compensato. E se pure in questo stato la grande mela, con i suoi 8 milioni di abitanti cosmopoliti e post-razziali, è bastata pressoché da sola a controbilanciare la marea rossa dei collegi rurali regalando alla Clinton tutti i 29 voti dei grandi elettori in blocco, vista da qui la fotografia appare nitida. Non stupisce che Trump, con la sua virulenta retorica anti-cinese, abbia vinto nella cosiddetta «rust belt», la fascia del nord de-industrializzato e arrugginito, tra le contee dell’industria mineraria ormai smantellata e nelle aree rurali devastate dall’epidemia di oppiacei.

4.

Eliminiamo, una volta per tutte, un clamoroso fraintendimento: una delle più grandi menzogne di queste elezioni post-fattuali (in cui la verità è stata sostituita dalla continua riscrittura di una finzione, e in cui le narrazioni hanno riaffermato, ancora una volta, il loro potere attraverso media vecchi e nuovi) è che «la classe operaia» si sia schierata per Trump. C’è un elemento di verità in questa affermazione, ma la questione è molto più complessa di così; e non solo per via di altri fattori come la maggior astensione del voto nero e di tutto il voto democratico (oltre sette milioni di voti persi dal 2012 a oggi), le politiche di soppressione del diritto di voto attive soprattutto in Wisconsin, North Carolina e Arizona (guarda caso), la sopravvalutazione del blocco latino da parte dei Democratici oppure la «sorpresa» nel voto delle donne bianche laureate, che si è rivelato più pro-Trump di quanto non ci si aspettasse. Sia ben chiaro, questi fattori sono tutti reali e hanno avuto un peso determinante; ma decine di analisti li già hanno rilevati, scrivendone in modo ben più approfondito e corretto di quanto non riuscirei a fare io con la mia laurea in Lettere Moderne.

Ancora Trump a pugno chiuso

Quella di Trump non è la «rivolta della classe operaia». Perché dire che i «Reagan democrats» della «rust belt» corrispondono, in toto, alla «working class» significa cancellare la pluralità di altre esperienze, voci, conflitti e facce che pure compongono la classe lavoratrice in questo paese. Le contraddizioni sono moltissime. Gli elettori bianchi della West Virginia, dell’Ohio centrale, della Pennsylvania e del Michigan rurali rimpiangono i bei tempi in cui un diploma di scuola superiore dava accesso a lavori di fabbrica ben pagati e dignitosi, ma non rimpiangono necessariamente i sindacati forti che quei salari dignitosi li garantivano. Come imprenditore Trump è a dir poco ostile ai sindacati, e come candidato è contrario all’innalzamento del salario minimo a 15$; anzi, una delle sue presunte strategie per riportare le fabbriche negli USA è deprimere gli stipendi della classe operaia per renderli di nuovo «competitivi». (Queste cose Trump le ha affermate in campagna elettorale anche se, bisogna ammetterlo, le ha dette un po’ di sfuggita tra una giravolta e l’altra).

In questa particolare visione della «working class», non si trova alcuna solidarietà con le altre voci che pure compongono la lotta di classe in questo paese: le madri single che beneficerebbero di politiche lavorative attente al genere; tutte le persone a cui l’Affordable Care Act (per quanto imperfetta, parziale e criticabile) aveva garantito un minimo di copertura sanitaria e che si troverebbero senza assicurazione dall’oggi al domani; i lavoratori e le lavoratrici precari e sotto-qualificati che devono mettere insieme due lavori per portare a casa un mezzo stipendio. Al contrario, fra i sostenitori di Trump con cui mi è capitato di parlare (qualche conoscente purtroppo ce l’ho anch’io), si avverte un profondo risentimento all’idea che le proprie tasse siano usate per aiutare chi non se lo merita, gli altri. Chi sono gli altri? I parassiti. Gli immigrati. I rifugiati. Gli ispanici. (Questi ultimi sono sempre tutti visti come «clandestini», anche se magari hanno la green card da quindici anni e probabilmente pagano più tasse di quante ne abbia mai pagate Trump in vita sua). Le madri single. I neri. Gli «Islamici». Gli «Orientali». I vituperati Millennials—una definizione pseudo-generazionale ed anti-intellettualistica dei giovani, che mette insieme i diciottenni e chi ormai va per i trentacinque.

È successo, a farla breve, che la sinistra (tutta: quella radicale e quella moderata) si è lasciata rubare il semantema della classe operaia. E il principale artefice di questo disastro culturale e politico è stato proprio il clintonismo (così come le varie declinazioni del centrosinistra europeo), nell’illusione che tutti fossero diventati ricchi di colpo grazie all’esplodere dell’economia dot.com e del terziario globale. In questo vuoto si sono fatte strada le narrazioni tossiche, la nostalgia, la paura della complessità, la xenofobia, il razzismo, il discorso esclusivo dei suprematisti bianchi e dell’integralismo cristiano.

Sempre Trump a pugno chiuso

La sinistra si è così disfatta dell’identità di classe: la sinistra moderata con il suo appeal centrista alla classe media; e quella radicale prima col suo slogan, tanto inclusivo quanto ingenuo, «Siamo il 99%» (come se non ci fosse differenza tra chi frequenta l’università e chi nelle aule ci va a passare lo straccio), e poi con la sua preferenza per le determinazioni identitarie. Così facendo, tra l’altro, si è privato il lavoro de-strutturato (quello ai gradini più bassi della scala dei servizi, quello sotto-pagato e sotto-qualificato, spesso femminile, talora illegale) di una propria identità di classe. Non è un caso che, a fronte del tradimento storico dei sindacati ufficiali, le lotte più radicali siano quelle che partono dall’autorganizzazione in luoghi atipici e quelle per l’innalzamento del salario minimo, dai lavoratori nei fast-food a chi fa le pulizie nei grandi alberghi, dove spesso i lavoratori (e di conseguenza i sindacalisti) parlano in spagnolo.

Ma dall’altra parte dello schieramento politico, esser parte della «working class» conferisce di colpo una nuova visibilità politica, una credibilità e un’autorevolezza altrimenti perdute. Così i membri della classe media bianca che sentono scivolare la loro egemonia e rimpiangono i bei tempi andati si presentano come la classe lavoratrice, indipendentemente dal loro effettivo reddito. Basta dare un’occhiata ai dati: Trump ha prevalso tra le fasce dal reddito medio e alto, da cinquantamila dollari all’anno all’insù. Negli USA 50.000 dollari sono il salario annuale di un insegnante con anzianità di servizio o di un impiegato con un lavoro decente: non per forza dei nababbi, ma nemmeno parte della classe operaia. Per alcuni l’emergenza economica percepita non sta nell’effettiva povertà ma anche e soprattutto nell’ansia per un potere d’acquisto perduto, nella paura di scivolare più in basso e anche nella certezza di «aver perso il proprio legittimo posto in prima fila» – un posto che, non bisogna dimenticarlo, era garantito anche dal razzismo istituzionale e sistemico, dall’esclusione delle donne, dei marginali, del «diverso».

Quella che ha spinto alla vittoria prima la Brexit e oggi Trump è un feticcio di working class: depurata di ogni diversità, non inclusiva ma esclusiva, fondata non su un comune ideale di solidarietà ma sulla comune appartenenza razziale; una comunità che rimpiange i tempi in cui si dormiva senza il chiavistello alla porta, ma che sogna muri, cancelli e divieti d’ingresso. È, soprattutto, un’immagine prevalentemente maschile, virile, di una classe che si vorrebbe operaia o artigiana (nessuna solidarietà per chi lavora nel settore dei servizi, magari ai ranghi più bassi). È una classe che rimpiange i tempi in cui studiare non serviva o comunque non era richiesto, e che infatti, indipendentemente dal titolo di studi posseduto, si fa forte di un certo anti-intellettualismo (nessuna solidarietà per i neolaureati indebitati fino al collo, visti come dei mocciosi viziati, o per i professori a contratto pagati 2,000 dollari a corso, il cui lavoro non viene considerato «serio»). Se non interamente maschile, è comunque una classe rigidamente «eterosessuale», i maschi nelle fabbriche o al fronte e le donne al loro posto, in pochi ruoli codificati e rassicuranti. È, infine, un’immagine di un bianco uniforme e monocromatico. Così definita, questa non è una classe sociale, ma un mito delle origini.

5.

Ho aspettato un paio di giorni per scrivere questa conclusione. Come sempre accade in questi casi, dopo i primi giorni di panico, confusione e disperazione, le situazioni si sedimentano e si viene a patti lentamente con quanto è accaduto. Mentre nelle grandi città la protesta incendia l’aria, il vento della protesta è arrivato persino nella mite Ithaca: veglie a lume di candela, un sit-in notturno, una marcia pacifica e affollata sul campus. Nel frattempo attraverso la nazione si moltiplicano le testimonianze di aggressioni e intimidazioni razziste (non tutte vere, ma purtroppo molte confermate); e i quotidiani alternano acute e pregnanti disamine del fallimento di Clinton ai primi tentativi di normalizzazione. Fra i miei studenti c’è chi, galvanizzato dalla sconfitta, intende moltiplicare gli sforzi, mobilitarsi e protestare e magari riprendersi la DNC; ma molti sembrano semplicemente esausti da una campagna elettorale lunghissima e dalle molte delusioni, e vorrebbero che tutto questo potesse essere cancellato con un tratto di penna. È un desiderio umano e comprensibile, anche se, purtroppo, moltissimi non potranno permettersi il lusso di chiudere gli occhi.

La negazione, la rabbia, il tentativo di venire a patti, la depressione, l’accettazione: sono queste le fasi (non per forza in quest’ordine) dell’elaborazione del lutto secondo il modello Kübler-Ross. Le vedo riflesse nei mille atteggiamenti delle persone che incontro ogni giorno. La rabbia di chi urla «not my president», non è il mio presidente. Il tentativo di venire a patti con la sconfitta, per esempio aggrappandosi alla vittoria popolare, o all’assurda speranza di un salvataggio in extremis da parte dei grandi elettori. La negazione di chi promette di emigrare in Canada o vorrebbe che tutto ciò non fosse mai successo. La depressione di chi da quattro giorni non fa che piangere e ripetere, «I can’t even», «non riesco neppure ad articolare le parole, a finire le mie frasi». E la bieca accettazione che già fa capolino da qualche editoriale, nei giornali che fino a ieri dipingevano Trump come il demonio e che hanno già attaccato col mantra del «lasciamolo lavorare».

La mia speranza è questa: che la rabbia prevalga sulla depressione apatica, sul tentativo di normalizzare l’orrore, sul tentativo di venire a patti con la marea fumante che già monta; ma che si tratti di una rabbia razionale, lucida, organizzata e nonviolenta.

* Tutti i nomi sono stati modificati per proteggere la privacy.

ALTRE LETTURE UTILI

Donald Trump a Gorino – di Euronomade

Perché non c’è nessuna «rivoluzione» – di Bruno Cartosio

Reflections on the recent election – di Alain Badiou

Please stop saying poor people did this – di Julianne E. Shepherd

Non han vinto Trump e il populismo, han perso Hillary e il centrismo – di Mazzetta

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123 commenti su “Un feticcio di «working class», ovvero: il mito razzista dei «proletari che votano Trump»

  1. Almeno per me non è affatto sorprendente ritrovare a livello macroscopico dinamiche molto simili a quelle che posso osservare nel mio microcosmo. Alcuni giorni prima delle elezioni americane, quassù nel “nordest” è accaduta una cosa che ha straziato l’anima a molt* di noi. Monfalcone è finita in mano ai fascisti. Monfalcone non è una città qualunque: è una città la cui classe operaia ha dato il sangue all’antifascismo. Gli operai dei cantieri di Monfalcone l’8 settembre del ’43 si sono aperti la strada a mani nude per unirsi alla resistenza jugoslava sulle alture del Carso. E da Monfalcone partirono in migliaia nel ’46 per costruire il socialismo insieme ai compagni jugoslavi, finendo poi nel tritacarne del conflitto tra Tito e Stalin nel ’48 – ma questa è un’altra storia, e come disse un tale, son poi cazzi nostri. La tradizione operaia e antifascista di Monfalcone è tuttora viva, anche se acciaccata. Cos’è successo, allora? Sono successe varie cose. Ad esempio è successo che il PD locale ha perso da tempo ogni credibilità come argine al fascismo, concedendo persino a Roberto Fiore una sala della biblioteca per una conferenza, o autorizzando un concerto di Casa Pound dopo il corteo del 23 maggio 2015. E poi è successo che Fincantieri negli ultimi 20 anni ha smantellato la contrattazione collettiva, subappaltando il lavoro a microcooperative esterne. Il potere contrattuale degli operai è diminuito ulteriormente a causa della logica xenofoba delle leggi su lavoro e immigrazione. Infatti metà degli operai sono immigrati, soprattutto dal Bangladesh. Sono soprattutto loro, quelli in ostaggio delle cooperative: ricattabili a causa della paura di perdere il permesso di soggiorno, e spesso costretti ad affidarsi ai caporali. Il tutto è avvenuto senza che sindacati e “sinistra” al governo della città dicessero né a né ba. Ed è così che la lega ha avuto campo libero nell’indicare negli immigrati – invece che nella politica *contro* gli immigrati e nella deregolamentazione contrattuale – la causa del generale peggioramento dei salari, dei diritti e delle condizioni di lavoro degli operai “autoctoni”. A monfalcone alle elezioni ha votato poco più del 50%. Il che significa che lo scontento, la rabbia e la frustrazione della classe operaia si sono risolti in gran parte nel non voto. Ma il problema Lega esiste eccome, perché una parte degli operai che ancora lavorano come dipendenti fincantieri e temono di perdere diritti conquistati dai loro padri e nonni con anni di lotte, ha creduto e crede che votando lega e allontanando gli immigrati tutto tornerà come prima. Sbagliano: più xenofobia significa maggiore ricattabilità per gli operai immigrati e di conseguenza peggioramento ulteriore per tutti. Ma chi dice che la classe operaia vota lega dice una menzogna con una piccola parte di verità, perché 1) sono classe operaia anche gli immigrati, e 2) anche tra gli autoctoni la rabbia sociale si manifesta soprattutto nel non voto.

    • Cazzo! Ho fatto servizio civile li, nei preistorici anni ’80… Ricordo che quando tornavo dalle licenze all’alba in treno mi salutava la scritta “Anarchy in Bisiacary”… Mi apriva il cuore ogni volta! ;-)
      Non posso pensarla in mano ai fascisti!!!!

  2. Monfalcone è stata la Caporetto del PD(partito destro) nella ricorrenza della rivoluzione d’ottobre, e Trump la distruzione dell’ipocrisia facciale USA. Condivido in larga parte quanto scritto in questo post, molte delle cose dette per molti noi sono scontate, per altri no. E comunque è interessante notare come pur vivendo lontano dall’America si è capito cosa accade in America da un pezzo. Ma su quello che sta accadendo ora in America, sono abbastanza incazzato. Trump ha avuto meno voti rispetto alla Clinton, ma ha vinto ugualmente le elezioni. Sui social la battaglia era già stata vita da Trump, e la sua vittoria era prevedibile. Se non è stata prevista dalla stampa è perchè la stampa era di parte, dunque ha smesso di essere stampa ed ha tradito il suo spirito e la sua anima, forse, o forse no, visto che la stampa è sempre finanziata da gruppi economici privati. La Clinton ed il suo clan erano il bene, Trump e famiglia, il male. Chi lo ha deciso? Entrambi insostenibili, ed ha vinto Trump. Non è stata la vittoria dei poveri contro i ricchi, o contro i poteri forti. Minchiate assolute. Ben ribadite qui e scritte da tempo in rete da “non allineati”. Un miliardario ha vinto le elezioni, punto. La democrazia americana fa schifo, come tutto il suo sistema. I candidati alla presidenza erano in diversi, ma a livello mondiale ne hanno presentato solo due. La par condicio in America non esiste. Hanno un sistema elettorale pessimo, hanno un sistema di giustizia sociale pessimo, sanitario pessimo, scolastico pessimo, universitario pessimo, lavorativo pessimo, sono guerrafondai, e che minchia ci si poteva aspettare? Ora tutti scendono in piazza a protestare. Ma se avesse vinto la Clinton con il cavolo che queste proteste avrebbero avuto il risalto che hanno oggi. Certo, in parte sono espressione di lotte pregresse, di chi non si ritrova nello schifo del sistema americano. Esiste una parte, piccola, minimale, di america che si ribella. Ora però avrà il supporto di chi ha tifato o votato per la Clinton e questa cosa rischia di strumentalizzare la ribellione per altri fini funzionali al clan clinton e compagnia brutta. E questo è poco ma sicuro. In America si spara per ogni minchiata, le armi circolano ad una velocità impressionante, cosa aspettarsi in un Paese che pare essere rimasto ai tempi del West? Che una mattina ti svegli, scopri che ha vinto l’impresentabile assoluto, perchè espressione dello schifo assoluto che è l’America oggi, e ti incazzi, e protesti, perchè dici non essere il tuo presidente, e che la democrazia fa schifo. Ed ora riscopri l’esistenza di razzismo? Neonazismo? Neofascismo? Quando sono decenni che esistono? Certo, ora verranno sopravvalutati all’ennesima potenza, ma non saranno i quattro coglioni di neonazisti il problema dell’America, ma il problema razziale non mi pare che Obama sia stato in grado di risolverlo. Dopo un presidente nero, ora doveva arrivare una donna? E per cosa? Avere la coscienza facciale in serenità? Certo. Tutto vero. Ma se avesse vinto la Clinton? In un Paese dove il potere è famigliare, come piace alla Chiesa e forse anche alla mafia?

    Su Monfalcone riporto succintamente qui alcune considerazioni, in merito ad una vicenda che ho seguito da vicino per diversi motivi, visto che si tratta di un caso politico molto, ma molto significativo e Tuco ha agganciato alla questione americana.
    La destra a matrice leghista non ha il 60% dei voti dell’intero corpo elettorale, ma del 51% circa di chi si è recato alle urne. E sono due cose diverse. Con astensione vicino al 50% anche al secondo turno. Ancora una volta una democrazia rappresentativa debole, che non appassiona più, e questo è un problema enorme. Non ha perso la sinistra a Monfalcone, ma un modo sbandato di concepire la sinistra. L’errore degli errori è ben noto, il tradimento della questione morale sull’amianto. Non ci si costituisce parte civile in un processo per soldi, ma per una questione morale e ritirarla il giorno prima della sentenza è una cosa che a Monfalcone ha pesato tantissimo, che non poteva essere perdonata e che peserà per sempre, e non poteva che essere così. I fattori della sconfitta sono molteplici, il principale sicuramente è stato questo, ma a ciò si aggiunge l’insostenibilità di qualsiasi alleanza con un PD odiato tanto a sinistra, quella reale, che a destra, per i disastri che realizza a livello politico regionale e nazionale, così come anche il modus con cui è stata condotta la campagna in sede di ballottaggio. Scaricare la giunta, fare intendere che la prossima volta si nomineranno assessori competenti, perchè si guarderanno le competenze, come se oggi fossero stati incompetenti quelli che hanno governato, (questo è quello che almeno si è percepito) prendendo a schiaffi indirettamente politicamente anche alcuni propri alleati, avere una sorta di tutore politico, muoversi in via tardiva sulla Fincantieri con l’aiutino della Presidente della Regione, per niente amata da queste parti, non sembra essere stata una buona mossa. E’ stata presentata come la lotta tra il bene ed il male, una sorta di americanizzazione del duello, ma i monfalconesi non sembrano proprio aver concepito questo scontro in tal modo, la prova è data dall’astensione. A Monfalcone così come a Codroipo, a Trieste, diverso il caso di Ronchi, ci sono i segnali di cosa si prospetta in futuro in regione ma anche a livello nazionale. Il M5S in via generale ma anche nel locale, come continua a dimostrare il quadro sussistente, è più funzionali a far perdere la sinistra(?) che la destra, salvo quelle poche volte che non vincono loro. Insomma da Monfalcone all’America la strada è una sola. E’ colpa della sinistra sinistrata governativa che ha sostenuto la globalizzazione sfrenata in tutte le sue diverse vesti se oggi la destra stravince, pur con punte di astensione molto elevate. E che rabbia quando come no global ci massacravano, eppure avevamo ragione.
    mb

  3. “Trump può essere spaventoso e pericoloso a numerosi livelli, ma non si era sbagliato quando ha sottolineato (nel suo solito modo goffo) che i Clinton e altri democratici prigionieri di Wall Street hanno venduto come schiavi la gente che lavora e gli operai della nazione in nome del libero scambio. Sia la co-presidenza dei Clinton ‘del North American free Trade Agreement “libero scambio”. – un disastro per la classe operaia degli Stati Uniti – sia il notevole impegno di Barack Obama nella arch-autortaria e global-corporativa Trans Pacific Partnership (TPP ) la dicono lunga circa il servizio alla nazione della neo-liberale era dei democratici e della situazione nascostamente regnante in profondità a favore di una minoranza contro il beneficio di molti e il bene comune. E Trump non ha sbagliato quando ha detto che Hillary Clinton ha chiamato il TPP il “gold standard degli accordi di libero scambio”, quando era segretario di Stato di Obama – o quando lui ha ipotizzato che lei si si sarebbe mossa pro-TPP se si fosse installata alla Casa bianca.

    Un momento rivelatore della campagna elettorale è stato quando Trump stava parlando del NAFTA e delle sue conseguenze negative per i lavoratori americani durante uno dei “dibattiti presidenziali.” C’ era uno schermo televisivo diviso che mostrava il volto di entrambi i candidati ‘allo stesso tempo. Mentre Trump parlava, si poteva vedere la signora Clinton che roteava gli occhi con un grande sorriso come se i commenti di Donald sul cosiddetta libero commercio fossero altrettanto folli della sua affermazione di un tempo che Obama era nato in un paese straniero.
    Il NAFTA, va ricordato, ha assestato alcuni seri colpi mortali al movimento operaio degli Stati Uniti già in declino, la cui decimazione negli ultimi quattro e più decenni ha contribuito non poco a far sì che vaste aree della classe operaia americana potessero essere arruolate a votare per l’ ala destra repubblicana. .(…)E qual è il grande contributo della presidenza Obama alla classe operaia, di grazia? Il dollaro Obamber ha portato un continuo flusso di concentrazione verso l’alto di ricchezza così estremo che – come continuava a dire in modo esplicito Bernie Sanders più e più volte – l’ 1per cento all’ apice della nazione possiede più ricchezza di quanto ne possiede in basso il 90 per cento della nazione.
    Gli americani hanno anche potuto constatare come Obama passò ad approvare una riforma dell’ assicurazione sanitaria (il cosiddetto Affordable Care Act) che solo le grandi compagnie di assicurazione e farmaceutiche potrebbero amare, buttando alle ortiche la popolare alternativa (single payer “Medicare per tutti”) mentre si dava da fare per passare un programma elaborato dalla Heritage Foundation repubblicana e la prima volta effettuato in Massachusetts dal arch 1 percenter Mitt Romney. E ‘stata una brutta presa in giro corporativista di “assicurazione sanitaria universale” , con la possibilità di una opzione pubblica gettata via senza tanti complimenti.
    Come Obama ha poi spiegato ad alcuni dei suoi amici ricchi a un evento chiamato The Wall Street Journal CEO Council: “Quando si va in altri paesi, le divisioni politiche sono molto più forti e più ampie. Qui in America, la differenza tra democratici e repubblicani è un combattimento all’interno delle linee 40-yard … La gente mi chiama un socialista a volte. Ma no, avrete avuto modo di incontrare veri socialisti. (Risate). Avrete un senso di ciò che un socialista è. (Risate). Sto parlando di abbassare il tasso di imposta sulle società. La mia riforma sanitaria si basa sul mercato privato “. Avrebbe potuto aggiungere che la sua” riforma sanitaria “è stata inventata dai repubblicani.
    Il candidato Trump non si era sbagliato nel dire (nel suo modo maldestro e in malafede) che il sogno americano è morto per milioni di “dimenticati” lavoratori degli Stati Uniti, mentre i Democratici hanno portato avanti il programma di Wall Street di frantumazione di posti di lavoro e salari dietro la copertura della correttezza politica ipocrita. In una delle tante ironie classiche della neoliberale Nuovo Gilded Age, al magnate nativista brutto e nemico del lavoro e dei lavoratori Trump è consentito di atteggiarsi assurdamente a tribuno “populista” dell’ oltraggiato lavoratore americano.
    Il candidato Obama ha parlato in termini condiscendenti in merito ad una classe operaia bianca che vive nelle piccole città e che amaramente si aggrappa alle pistole, alla religione, e alla xenofobia. Hillary ha alzato la posta dell’ insulto chiamando la metà dei sostenitori di Trump “déplorables” – intendendo così definirli razzisti viziosi, omofobi e sessisti. Come l’attivista di sinistra Tom Wetzel mi ha detto la scorsa estate, “Sembra che ultimamente la politica dell’identità abbia finito per funzionare come una maschera del disprezzo dei professionisti delle classi alte nei confronti della classe operaia.(…)
    Non fraintendetemi: l’elezione di Donald Trump è un disastro abietto a numerosi livelli: i diritti civili, la civiltà culturale di base, gli incarichi giudiziari e la giustizia penale, il suo brutto sessismo, la tolleranza religiosa, i diritti degli immigrati, i diritti delle donne ad abortire, la politica delle armi nucleari, e – forse più inquietante di tutti, in termini di possibilità umane per la sopravvivenza – di energia e clima. C’ è almeno qualche cosa di buono? Forse. Hillary Clinton sembrava determinata ad accrescere le tensioni con l’altra superpotenza nucleare, la Russia, sulla Siria (il suo appello per una no-fly zone è follia) e altri focolai. Era molto pericoloso. Trump preferisce un approccio meno bellicosa nei confronti della Russia, per qualsiasi ragione, la terza guerra mondiale sembra meno probabile.(…)
    La presenza di questo pagliaccio vizioso nella carica più potente del mondo è semplicemente assurda. Mi chiedo se ci piacerebbe affrontare, tra le altre cose, il nostro continuo attaccamento autodistruttivo e feticista ad un sistema elettorale istituito dagli aristo-repubblicani apertamente antidemocratici del XVIII secolo. Il collegio elettorale è, beh, … è assurdo, Monty Python-esque. Io personalmente non ho alcuna intenzione di riconoscere la legittimità del secondo presidente degli Stati Uniti nel corso della mia vita che è stato nominato dopo aver perso il voto popolare. Non è una cosa seria. Un Trump alla Casa Bianca è qualche cosa di assurdo. Ma allo stesso modo, ad un serio esame critico, lo sono la maggior parte delle strutture di potere in carica e dei sistemi nella società americana.”

    Paul Street, CounterPunch

  4. Qualche rilievo su 2-3 cose (tutto il resto lo quoto, soprattutto la considerazione generale e finale sul feticcio della working clas):

    1. il voto delle donne bianche laureate pro Trump mi sembra poco significativo, si tratta di appena il 9% dell’elettorato [faccio riferimento agli exit poll della Edison Research usati da Valentina e linkati all’niterno del testo]: dico poco rilevante perché dopo tutto c’è un 14% di elettrici donne che sono rimaste fedeli al partito repubblicano cui afferiscono, e potendo incrociare con certezza questi dati (ci aggiungerei, se avessi la scomposizione, anche la differenza di voto femminile fra “married” e “unmarried”) credo si potrebbe ricondurre quel dato all’interno della fedeltà politica, che qualcosa negli USA conta; in ogni caso le donne laureate bianche pro-Trump sono meno delle donne bianche “non-graduate” (10.5%), per le quali la determinazione di genere rileva meno dell’incidenza del titolo di studio (questo sì che mi sembra un dato da approfondire);

    2. nel suo pezzo dell’11/11 sul manifesto [qui] Bruno Cartosio spiega bene, dati alla mano, come nelle città operaie HR Clinton abbia vinto; se ha perso negli stati della “rust belt”, è perché la fuga dalle città rimaste inoperose ha fatto sì che la campagna prevalesse sulla città: «In Pennsylvania, Michigan e Wisconsin – quegli stati della rust belt che avrebbero dovuto dare, ma non hanno dato, la maggioranza a Clinton – i centri industriali o ex industriali hanno effettivamente votato per lei. Non c’è dubbio che la conferma del voto democratico sia anche il frutto delle politiche di sostegno alle imprese e all’occupazione e di estensione dei sussidi ai disoccupati messe in atto in quelle aree da Obama negli anni della crisi. Ma in quelle città tante industrie hanno chiuso o se ne sono andate e hanno lasciato dietro di sé macerie tanto fisiche, quanto demografiche ed elettorali. Per esempio, nella Wayne County della disastrata Detroit, Clinton ha perso 79.000 voti rispetto al 2012, e ha poi «perso» il Michigan per 12.000 voti. A Milwaukee ha avuto 43.500 voti in meno e ha perso il Wisconsin per 27.000 voti. La Pennsylvania è stata persa per 68.000 voti, nonostante le maggioranze democratiche a Filadelfia, Pittsburgh e negli altri centri. In altre parole, quel voto “operaio” che non è solo bianco, e che Obama aveva trattenuto nel 2012, e che ora molti hanno sbrigativamente assimilato al voto “bianco” e “arrabbiato” per Trump, è stato molto probabilmente perso, più che per i limiti di Clinton (e nonostante i meriti di Obama), a causa della fuga dalle città una volta operose». Il che è un altro dato importante, ma diverso dal fantasticare una working class filo-Trump.

    3. Quelli che la classe operaia ha votato per Trump spesso sovrappongono i dati delle primarie con quelli delle nazionali (che al più sono dati dei sondaggi dei giorni precedenti, quindi scambiano le intenzioni di voto con i voti reali), e ne concludono che se Sanders ha battuto Clinton a Neverland, e a Neverland Clinton è stata battuta da Trump, allora gli elettori di Sanders hanno votato Trump (un po’ come dire che Grillo ha vinto le elezioni del 2013 perché per lui hanno votato i renziani sconfitti da Bersani alle primarie del PD). Di analisi a cazzo di cane così, nelle quali il wishfull thinking fa una doppia capriola e si trasforma in una profezia autoavveratasi, ne fioriscono come il trifoglio in Irlanda in questi giorni – ma che te lo dico a fare?

    4. Che il voto della Brexit non sia stato determinato dalla working class urbana, ma dalla lower middle-class rurale, credo di averlo dimostrato, dati elettorali alla mano, qui. Lo dico non per citarmi, ma per sottolineare che la stessa allucinazione di allora ritorna adesso con gli stessi “analisti” che cianciano di “analisi materialistica della composizione di classe” senza andare un pelo più in là delle fini letture di Lucia Annunziata, con la quale evidentemente si sentono in buona compagnia.

    • Ciao Girolamo,
      grazie delle tue riflessioni, che in generale mi trovano molto d’accordo. Le semplificazioni che descrivi al punto 3 e 4, per esempio, sono marchiane eppure si leggono da moltissime parti. Sul voto femminile per Trump (aspettando ovviamente le analisi dei flussi elettorali, più approfondite dell’immagine che ci danno gli exit poll), l’ho citato per dimostrare quanto la fotografia di queste elezioni sia complessa, non riducibile a singole opposizioni binarie.
      La mia personale lettura (quindi non scientifica) è che il problema per i Dem sia stata l’astensione. Anche nei segmenti che dovevano fare da “muro” (e ce n’erano diversi), la Clinton non ha fatto bene come si aspettava. Se pure ha prevalso, non è riuscita ad accumulare un margine sufficiente a compensare le perdite in altri settori che erano orientati verso i Repubblicani. In soldoni, HRC non ha saputo galvanizzare i propri elettori, mentre i suoi voti DJT li ha raccolti tutti fino all’ultimo. L’astensione a queste elezioni è stata molto maggiore che nei precedenti due cicli, che poi è il motivo per cui spesso si sente dire (correttamente, a mio avviso), che queste elezioni non le ha vinte DJT ma le ha perse HRC.
      Sul peso della demografia (e dell’esodo dalle zone rurali verso le città) mi trovi d’accordo; è una considerazione che si è letta anche su alcuni media outlet qui in nordamerica. Certo non so quanto abbia specificamente pesato in queste elezioni, ma sicuramente contribuisce a creare questa divisione tra centro rurale e coste urbane che è emersa anche a questo ciclo.

      • Ciao Valentina, ricambio i saluti e rilancio segnalando questo editoriale di connessioni precarie che, in modo diverso, mi pare ponga al centro del discorso di nuovo la mitizzazione, o feticizzazione, della working class, dalla cui feticizzazione taluni fanno discendere l’esistenza di rudi razze pagane e nuovi barbari convertibili.

  5. Oltre a quanto già menzionato, altre osservazioni:

    1) Clinton ha vinto le elezioni, i voti saranno contati per altre settimane (soprattutto in California che, essendo lo stato più lontano da Washington, ha più tempo per farlo), ma pare che abbia già più di 2 milioni di voti di quanto abbia preso il pussy-grabber. Le ha perse a causa di una legge elettorale dell’800 (la stessa che appunto concede agli stati dell’ovest maggior tempo per la conta) che assegna maggior potere elettorale all’America rurale rispetto alle aree ad alta densità di popolazione. Lo stesso, sebbene in misura minore, era già successo ad Al Gore nel 2000, e ad altri due candidati.

    2) Secondo alcune analisi il 53% delle donne ha votato il salesman arancione, e così ha fatto il 25% dei latinos. Tanto per dire.

    3) Il 9 novembre nessuna delle mie tre classi era interessata alla lezione, e le ragazze erano parecchio scosse. Nel retrogrado Oklahoma questo è molto incoraggiante.

    4) Tutti gli stati della Rust Belt sono andati al pagliaccio, qualcosa vorrà pur dire.

    5) In Wisconsin i democratici non hanno fatto campagna perché pensavano di vincere, e hanno perso. Piccoli Renzi e Serracchiani crescono, perdendo.

    • in quel 53% di donne (bianche) pro-Trump le donne laureate sono pochissime, come ha fatto notare Girolamo, teniamolo presente

    • Al tuo punto #1 aggiungo solo una cosa, che il collegio elettorale non è “solo” un retaggio del sistema elettorale ma un meccanismo che affonda le sue radici nel sistema della schiavitù. Anche questo, qualcosa vorrà pur dire.

      • Uhm, correzione: nella mia risposta precedente volevo dire, “non è solo un retaggio del sistema elettorale 800esco.” Ho fatto invio prima di pensare e gli effetti si vedono. :-)

        • Vanno anche segnalate alcune cose positive, da questa tornata elettorale: in Arizona (of all places), Oregon, e nello stato di Washington (oltre ad un quarto stato che ora mi sfugge) sono passate misure di innalzamento dello stipendio minimo. A livello locale i sindacati e le associazioni hanno ottenuto risultati concreti, lo sceriffo Arpaio in Arizona, trumpista e razzista della prima ora, è stato battuto dopo vent’anni.
          Ma l’autolesionismo dell’establishment democratico e del suo elettorato si può capire anche da cose come queste: un collega, Ph.D. dall’università di Wisconsin, Madison, mi ha detto che quando i comitati pro-Sanders hanno paventato il boicottaggio della Clinton, Sanders stesso è intervenuto dicendo loro di soprassedere, e che se nei primi due anni di mandato la Clinton non avesse mantenuto le promesse, l’avrebbero sfidata alle primarie. Anche qui dando per scontato che vincesse. Non so dire quanto veritiero sia questo aneddoto, ma immagino che si possa tranquillamente dire che la sconfitta democratica abbia moltissimi padri e moltissime madri.

  6. un bellissimo articolo, complimenti. Riesce a rendere lo sconcerto dei molti americani contrari a Trump, in particolare lo sconcerto dei giovani studenti che vivono in un ecosistema privilegiato ed elitario. Sono pienamente d’accordo con l’analisi sul voto a Trump espressa dall’autrice, e ho apprezzato molto il passaggio sugli italiani che certe cose le hanno già provate, in qualche modo..

    C’è un punto in particolare che mi interessa sottolineare e che penso sia importante per capire il dibattito odierno, e sono lieto di poterne parlare in uno “spazio sicuro” come Giap:

    “La sinistra si è così disfatta dell’identità di classe: la sinistra moderata con il suo appeal centrista alla classe media; e quella radicale prima col suo slogan, tanto inclusivo quanto ingenuo, «Siamo il 99%» (come se non ci fosse differenza tra chi frequenta l’università e chi nelle aule ci va a passare lo straccio), e poi con la sua preferenza per le determinazioni identitarie.”

    questo è il punto centrale del dibattio politico dell’America tra Obama e Trump: il discorso della razza, di come i “non-bianchi” vivono la società americana percepita come razzista e di come i “bianchi” tentino di fare i conti con i propri sensi di colpa.
    La scrittrice nigeriana Chimamanda Ngozi Adichie in una intervista alla BBC sul razzismo di Trump si è trovata a discutere con un interlocutore (di colore “bianco”) che diceva che Trump non è razzista. Ngozi Adichie ha risposto testualmente:
    “You don’t get to define racism if you are white”.
    https://www.youtube.com/watch?time_continue=238&v=eloHoAvArCo

    Come prendere questa frase?
    Abbiamo il caso di una intellettuale “non-bianca” che nega ad un intellettuale “bianco” la possibilità di ‘definire’ cosa è razzista oppure no. Un/’ omosessuale potrebbe dire la stessa cosa: se sei etero, non puoi definire cosa è o cosa non è omofobo.
    E’ un tema assolutamente scivolosissimo (“very troubling” dice la stessa Ngozi Adichie, il cui intervento è per il resto assolutamente condivisibile), me ne rendo conto, ma credo sia collegato a quello che Valentina Fulginiti chiama “preferenza per le determinazioni identitarie”, la cosiddetta “identity politics” che nella sinistra americana sta soppiantando la lotta di classe e il marxismo propriamente detto (checchè ne dica il sostenitore di Trump che discute con Ngozi).

    Il meccanismo è lo stesso che l’autrice fa notare riguardo alla retorica del 99%. Le differenze particolari sono sfumate e, partendo da istanze di liberazione, si arriva a dividere il mondo in compartimenti stagni: nella retorica del 99%, chi insegna e chi passa lo straccio fanno parte dello stesso popolo; nella lente della cosiddetta Identity politics, noi bianchi siamo tutti uguali: non importa che tu sia un operatore di call center precario o l’imprenditore che minaccia di licenziarlo, sei pur sempre bianco e maschio, quindi oppressore. Stupid White Male è un famoso libro di Michael Moore tradotto anche in Italia.
    Purtroppo molti fra gli antirazzisti americani sono scivolati in questo cul-de-sac intellettuale: ricorderete il comizio di Bernie Sanders interrotto da due attiviste di Black Lives Matter. Lo stesso Sanders, che venne arrestato negli anni ’60 per le sue lotte antirazziste e che certamente era il candidato con più sensibilità verso la working class reale, ha avuto fra gli elettori afroamericani un supporto quasi inesistente, forse addirittura meno di quello poi ottenuto da Trump alle elezioni.

    E d’altronde c’è un motivo se l’autrice non parla di Black Lives Matters, un movimento genuino e meritevole di sostegno, che però per certi versi incarna alcune delle derive appena descritte: in un campus dell’Ivy League gli attivisti afroamericani più arrabbiati non hanno di certo una forza numerica considerevole, ammesso che ve ne sia alcuno. La realtà, al di là della Identity politics, ci parla di un conflitto di classe alla base del razzismo.

    Ora, come affrontare questi temi qui in Italia? Come possiamo confrontarci con le parole di Chimamanda Ngozi Adichie sul fatto che i “bianchi” non possono neanche “definire” i contorni del razzismo?
    Io personalmente uso la tecnica suggerita da Malcolm X nella sua autobiografia. Un passaggio fondamentale, quasi una parabola, in cui il grande filosofo del Michigan spiega ai “bianchi” cosa possono fare per combattere il razzismo.
    Una giovane studentessa “bianca” e bionda si avvicina a Malcolm X dopo un comizio dei Black Muslims, e gli chiede cosa può fare lei per aiutare i “non-bianchii” nella loro lotta contro l’oppressione “bianca”. Malcolm risponde molto duramente: non puoi fare assolutamente niente per noi; l’unica cosa che puoi fare è combattere il razzismo nella tua comunità, noi neri non abbiamo bisogno di te; se vuoi aiutarci, devi impegnarti coi razzisti della tua comunità di “bianchi”.
    La ragazza andò via in lacrime, e se vogliamo evitare anche noi di cadere nello sconforto dobbiamo impegnarci in prima persona contro i razzisti più vicini a noi: amici, vicini, parenti, autorità.
    Bisogna però provare ad evitare la retorica eccessivamente manichea, anche perché da questi episodi nasce quel sentimento di esclusione percepita e di accerchiamento percepito che ha spinto l’America dei ceti medi più o meno impoveriti a votare per Donald Trump.

    mi scuso per la lunghezza e vi ringrazio per lo spazio concessomi!

    @Girolamo
    analisi assolutamente condivisibile!

  7. Interessante tra l’altro notare che quando il termine “classe operaia” o semplicemente “classe” viene utilizzato dai movimenti radicali, magari associato alla parola “lotta”, i liberalprogressisti alzano gli occhi al cielo con un sospiro di compatimento. Invece utilizzare il termine “classe operaia” a cazzo di cane per scaricare su chiunque la colpa delle proprie sconfitte, va benissimo.

    • …e una parte dei suddetti movimenti radicali, soprattutto certi «veri comunisti», ci casca pure.

    • totalmente d’accordo con Tuco.
      e secondo me è lo stesso identico meccanismo che porta ad esagerare le sparate di Trump, senza rendersi conto che in Italia succede ben di peggio da anni.
      un piccolo esempio odierno: l’intervista di Trump alla CBS, della quale la stampa italiana ha riportato solo il passaggio “deporteremo due milioni di immigrati”.
      In realtà non solo trump ha detto altro (vuole espellere i criminali e soltanto dopo affrontare il tema degli irregolari “onesti”, a me è sembrato anzi ammorbidire i toni della campagna, link http://www.cbsnews.com/news/60-minutes-donald-trump-family-melania-ivanka-lesley-stahl/) ma la stampa italiana si indigna per qualcosa che ACCADE QUOTIDIANAMENTE IN ITALIA.
      I rimpatri degli immigrati regolari, soprattutto verso Marocco ed Egitto, sono pratica quotidiana in Italia nel silenzio dei grossi media, ma se lo dice Trump diventa un mostro pericoloso. Gli stessi media che danno ampio spazio a Salvini, che tacciono sui rimpatri e sulle condizioni di vita degli irregolari in Italia, si stracciano le vesti per le sparate di Trump. Un caso di miopia simile a quello notato da Tuco riguardo le questioni di classe.
      Un po’ come i tanti famosi giornalisti che appena accade qualcosa in Egitto, o in Turchia o comunque lontano dall’italia, sono pronti a scrivere articoli commossi e indignati, ma quando le stesse cose accadono in Italia (vedi la tragica morte di Abd Elsalam a Piacenza) tacciono o minimizzano.

  8. giustamente va detto chiaro e tondo che la classe lavoratrice (e in generale le classi più basse) non hanno votato per Trump o almeno non nei termini in cui certi commentatori dicono.
    Detto questo, il grafico postato però manca di un dato (secondo me importante): le percentuali di persone che hanno votato (rispetto al totale dei votanti) in ogni fascia di reddito.
    Mi spiego meglio, mi aspetto che nelle fascie più basse di reddito ci sia la maggior parte della popolazione, quindi i votanti delle fasce 0-50000 e 50000-100000 saranno la maggioranza dei votanti (o quasi). Considerando che i votanti sono stati circa 120 milioni di persone (circa il 50% dell’elettorato), se la fascia 0-50000 rappresentasse il 30% (percentuale ipotetica dato che non ho dati) dei votanti sarebbero 36 milioni di votanti. Di questi il 41% ha votato Trump, cioè circa 11 milioni di persone. Credo che sia compito di una sinistra di classe capire come è stato possibile che 11 milioni di persone che guadagnano poco o niente abbiano votato Trump.
    Poi, vabbè, per me la Clinton non è che sia meglio. La Clinton e Trump rappresentano esattamente le due facce della stessa medaglia, in queste elezioni non esisteva il male minore, esistevano solo due mali peggiori, anche se diversi.

    Aggiungo solo una cosa, da quello che ho visto con i miei amici austriaci e tedeschi su facebook, l’intervista con Waltz è diventata virale anche perchè ad un certo punto Waltz definisce l’apporto dato dai social network (tipo /pol/ su 4chan) a Trump come “Brunzdummer Irsinn”. Una traduzione letterale è impossibile in italiano, ma più o meno sarebbe “stupidaggine di un imbecille pieno di piscio” (la parola Brunz in tedesco è molto più volgare della parola piscio/pisciata in italiano). Inoltre la parola Brunzdummer non esiste in tedesco e praticamente viene inventata da Waltz sul momento (e vorrei tanto aver potuto vedere la faccia dell’intervistatrice nel momento in cui la dice).
    Qua http://tvthek.orf.at/profile/ZIB-24/1225/ZIB-24/13895097/Schauspieler-Waltz-zum-US-Wahlausgang/13911154 si può vedere l’intervsita integrale (in tedesco senza sottotitoli), lo dice al minuto 3:04

    • Io credo che nel post la risposta sia già contenuta: la razza. Persone che guadagnano poco possono votare un miliardario, clamorosamente contro il proprio interesse, perché l’andazzo, l’ambiente intorno, la peer pressure, l’educazione ricevuta, le finte emergenze mediatiche e in generale il funzionamento del sistema portano a odiare o comunque temere chi guadagna ancor meno di te, *soprattutto se nero* (e di solito lo è) o *immigrato*. Negli USA – non solo negli USA, certamente, ma là avviene in modo più eclatante – la classe viene “tradotta” in razza.
      Questo sempre tenendo presente che questi ipotetici 11 milioni di persone equivalgono al 3,4% della popolazione USA. Come dicevi anche tu all’inizio, cerchiamo sempre di ragionare includendo l’astensionismo. È quello a farci capire che il consenso di Trump non si basa sulla working class, e quanto minoritario sia nel Paese.

      • In pratica l’elite economica e politica repubblicana promette il mantenimento del privilegio bianco e patriarcale come ultima scialuppa di salvataggio a chi rischia la proletarizzazione. Come ho detto prima, è una scialuppa che fa acqua da tutte le parti, perché ogni politica discriminatoria nei confronti dei lavoratori non bianchi finisce in breve per danneggiare anche i lavoratori bianchi.

      • ma è il sistema elettorale americano ad essere stato studiato dai Padri Fondatori per tutelare le elite econimiche. Parlate come se il sistema elettorale americano lasciasse un’ alternativa a Trump, a parte votare per la Clinton. Il popolo non aveva scelta, (dico popolo per farla breve). Bernie Sanders è stato fermato dagli stessi che avevano interesse che salisse al potere Hillary, e sappiamo chi è, chi la finanzia, da chi prende i soldi la sua fondazione; sappiamo che sono a favore, lei è Obama del TTP, delle multinazionali, di una politica finanziaria che stritola alla radice anche solo la possibilità di una classe operaia negli USA. Forse alla Clinton la notte appare il volto di Gaddafi coperto di sangue, come nel Macbeth, forse no, che i potenti usano il crimine come normale mezzo di gestione del potere, (probabilmente no).
        E’ il sistema elettorale americano che è classista e sbagliato, costruito per favorire le elite economiche; sono le strutture economiche e politiche americane ad esserlo; non serve stracciarsi le vesti e scandalizzarsi per il razzismo, come se gli esseri umani non fossero animali, dunque soggetti a pulsioni e egoismi in situazioni estreme. Quando Trump se la prendeva con il Nafta, dicendo giustamente che ha causato danni enormi alla classe operaia americana, la Clinton rideva vanesia.
        Non si può tappare il luogo legittimo, costruttivo, di fuoriuscita della rabbia popolare, come poteva essere il socialismo di Bernie Sanders, perché la rabbia esce fuori lo stesso, magari dal posto sbagliato e travolge le vecchie strutture del potere, insieme alle parole d’ ordine edificanti (giustizia, libertà, diritti,..), dietro cui si sono fatte scudo le elite per arricchirsi in modo selvaggio e criminale sulle spalle della maggioranza dei cittadini. E forse è proprio quello il loro fine: sbarazzarsi anche delle ultime parole d’ ordine del 900, per fare piazza pulita per sempre dei vecchi diritti ormai inapplicabili nel mondo globalizzato, o meglio, applicabili solo in un vero sistema socialista universale.
        Ora citazione: “In questo caso è proprio come Karl Marx scrisse nel suo Manifesto del Partito Comunista, “Tutto ciò che è solido si scioglie nell’aria, tutto ciò che è sacro viene profanato, e l’uomo è finalmente costretto a fare seriamente i conti con le sue reali condizioni di vita “…
        Che alla gente piaccia o no, la globalizzazione ha dato origine a società multiculturali in tutto l’Occidente, ed entrambe le cose costituiscono due facce della stessa medaglia. In altre parole, le persone non possono aspettarsi di godere dei benefici della libera circolazione dei capitali, senza la libera circolazione delle persone.
        E qui arriviamo al nocciolo della questione. Donald Trump e Brexit sono sintomi di un aumento di anti-politica in risposta alla diseguaglianza di massa che ha travolto sia la società britannica sia quella degli Stati Uniti negli ultimi anni. Troppo ricchezza è ora di proprietà di una minoranza davvero esigua, con il risultato che la gente è arrabbiata e non ha più nessuna intenzione di continuare a sostenere lo status quo ampiamente considerato come corrotto e irrimediabilmente compromesso dal suo sostegno agli interessi delle elite e delle multinazionali.
        Il mondo è cambiato, forse completamente.” John Wight, Counter Punch

      • perfettamente d’accordo, infatti rileggendo il mio post mi sono accorto che non ho sottolineato abbastanza che la “working class” si è astenuta in maggioranza (o almeno secondo i dati che sono riuscito a trovare).

        Riguardo alla tua frase “Negli USA – non solo negli USA, certamente, ma là avviene in modo più eclatante – la classe viene “tradotta” in razza” non capisco se questa sia una critica (la classe viene “tradotta” in razza e non è così) o se sia una constatazione. Nel primo caso, vorrei far notare che il rapporto classe-razza è netto. Se si cercano le statistiche delle distribuzioni della popolazione nelle varie fasce di reddito si trova che nella fascia >200000$: 4,8% per i bianchi, 1,5% per i neri, 1,9% per gli ispanici; mentre nella fascia <15000$: 11,2% per i bianchi, 24% per i neri, 16,8% per gli ispanici (dove la percentuale è calcolata considerando solo la razza selezionata). Quindi mentre solo un decimo dei bianchi vive sotto i 15000$ l'anno, ci sono un settimo degli ispanici e un quarto dei neri (i dati sono del 2012, ma dubito che ci siano grandi variazioni rispetto al 2016), qua ho trovato i dati (pagine 35-38) http://www.census.gov/prod/2013pubs/p60-245.pdf

        essenzialmente, anche vedendo l'andamento per anno, le valutazioni di tuco sono esatte secondo me

        • È una constatazione. Ma è anche una critica. Non nel senso del «non è così»; nel senso che, se non si va oltre, la razza “nasconde” la classe, la natura di classe del razzismo, l’uso del razzismo per impedire la ricomposizione di classe. È quello contro cui metteva in guardia Kareem Abdul Jabbar dopo Ferguson:
          http://time.com/3132635/ferguson-coming-race-war-class-warfare/
          «Tradurre è tradire», no? :-)

          • P.S. Naturalmente, quando parliamo di “razza”, intendiamo la *questione* della razza, la sua rappresentazione, la costruzione culturale razzista. Bisogna sempre tenere presente che, da un punto di vista oggettivo e scientifico, le razze non esistono.

            • Le razze non esistono, ma il razzismo e i razzisti sì. Esistono perché sono funzionali allo sfruttamento. E ora che il razzismo biologico non è più socialmente accettabile, il razzismo si presenta come culturalismo, come identitarismo.

            • sì ovvio, infatti era incerto se usare o no il termine “razza” nel mio post, ma supponevo che su questo blog si capisse il senso ;)

              Per quello che riguarda classe e razza, guarda con me sfondi una porta aperta, essendo marxista. In ogni caso, io sono proprio l’ultimo in grado di parlare del tema, in quanto sul rapporto tra razza e classe negli Stati Uniti ho iniziato ad informarmi seriamente solo da un anno (invece di usare solo la “lente” della classe). Il problema è che in Italia stiamo andando a tutta velocità verso quella direzione, provo ad immaginarmi la situazione socio-economica degli stranieri fra 20-30, quando non si parlerà solo di seconde o terze generazioni ma di quarte e quinte.
              Per il momento sto cercando più di capire i movimenti di classe statunitensi e in che modo si rapportano con il problema della discriminazione economica (oltre che sociale) delle varie minoranze e capire che spazi di manovra abbiamo noi che viviamo in paesi (nel mio caso la Spagna) con ancora bassa immigrazione

  9. […] detta «anfibologia», l’uso intenzionale dell’ambiguità sintattica o semantica. Come nel titolo del post precedente di Giap: «Il mito razzista dei “proletari che votano Trump”. Frase che ha due possibili […]

  10. D’accordo, affermare che «Trump ha vinto grazie alla classe operaia» è assurdo, ma anche attribuire la sua vittoria principalmente a un rigurgito maggioritario di razzismo, xenofobia, omofobia, misoginia e quant’altro mi sembra poco utile.
    Alcuni degli elettori di Trump sono indubbiamente operai; alcuni degli elettori di Trump sono indubbiamente razzisti, xenofobi, ecc.; e in alcuni casi si tratta delle stesse persone.
    La classe viene tradotta (da alcuni: non da tutti) in «razza» quando (a) non esistono più canali attraverso i quali difendere gli interessi di classe, e (b) la «razza» e altri aspetti identitari (tipo il genere o l’orientamento sessuale) vengono spacciati dalle ex-sinistre come surrogati della classe. In questo senso, lo stratagemma usato dalla finta sinistra, non solo americana, per conservare il voto dei lavoratori (politiche spietatamente padronali imbellettate da chiacchiere sui «diritti civili») le si ritorce conto. Cioè, se è assurdo che un operaio voti per un miliardario cialtrone che gli promette falsamente di difendere i suoi interessi, è altrettanto assurdo chiedergli di votare per un’altra miliardaria che ha chiarito da un pezzo che dei suoi interessi non gliene frega un cazzo. Il primo è razzista, xenofobo ecc. e la seconda è politically correct? Stica, sembrano aver detto in molti. Anche operai, e non solo operai razzisti e xenofobi.
    Hanno votato contro il loro interesse? Garantito. Sarebbe stato lo stesso se avessero votato Clinton? Altrettanto garantito.

    • Però: perché venire qui a sfondare porte aperte? Chi difende Clinton su Giap? Chi difende i “centrosinistra”? Nel post c’è scritto che il clintonismo è il principale responsabile dello sfascio della società USA, e noi diciamo da anni la stessa cosa – anche con più radicalità – a proposito del centrosinistra, del PD e della società italiana.
      Nel post c’è anche scritto che non ci sono più canali politici per difendere gli interessi di classe, e anche questo della classe è un nostro leitmotiv.

      «Attribuire la sua vittoria principalmente a un rigurgito maggioritario di razzismo, xenofobia, omofobia, misoginia e quant’altro mi sembra poco utile»

      La sua vittoria è principalmente dovuta alla massiccia astensione elettorale per i motivi più volte detti. Questa è la premessa dei discorsi che stiamo facendo tutti.

      Ad ogni modo, far finta che la maggioranza di chi l’ha votato non l’abbia fatto – rivendicandolo o meno, essendone conscio o meno – per difendere il *privilegio bianco* (che è sistemico: il razzismo regola il mercato del lavoro), non porta da nessuna parte.
      O meglio: sta portando alcuni a dire, anche nell’ex-sinistra radicale: «Se i proletari votano Trump, facciamo come Trump!» Una premessa falsa per una conclusione abominevole.

      • Non mi pare di aver detto che su Giap qualcuno difende Clinton o i centrosinistra.
        Quanto al discorso «razza», ho semplicemente un’opinione diversa dalla tua: io penso che molti abbiano votato Trump non per «difendere il privilegio bianco», ma semplicemente fregandosene di questo aspetto.
        Avrebbero votato per qualsiasi cosa tranne che per l’establishment (identificato correttamente con Clinton), anche *a costo* di votare per il candidato prediletto dei fautori del suddetto privilegio bianco.

        • Scusa, ma un bianco che “se ne frega” del privilegio bianco sta semplicemente perpetrando il privilegio bianco. O si rifiuta di riconoscerlo e farci i conti (ci è cresciuto dentro e non è in grado di vederlo da fuori), oppure gli va bene così. Qualcuno lo dice esplicitamente, la maggioranza lo dà per implicito o non ci pensa mai.

          [Così come un borghese che “se ne frega” del privilegio borghese sta perpetrando il privilegio borghese, e un maschio che “se ne frega” del privilegio maschile sta perpetrando il privilegio maschile.]

          Un bianco che ha votato Trump, le cui posizioni e il cui seguito non potrebbero essere più esplicitamente razzisti, antisemiti, anti-minoranze, anti-immigrati, “se ne frega” del privilegio bianco esattamente nell’accezione di cui sopra, quindi sceglie il candidato che più esplicitamente, sguaiatamente, violentemente lo perpetra e lo difende.

          E non mi sembra che questo sia avvenuto *a costo* di. Però un costo c’è. Lo pagheranno soprattutto afroamericani, latinos, nativi, migranti, minoranze ecc. Cioè la maggioranza della working class reale, a cui la “working class” immaginaria (idealtipicamente bianca) di cui blatera troppa gente, e che in realtà è una porzione di middle class, fa esplicitamente la guerra.

          • Io credo che quel costo i membri della working class l’avrebbero pagato in ogni caso, proprio perché membri della working class: al di là che siano afroamericani, latinos, nativi, migranti, minoranze o bianchi.
            Così come qui lo pago io, così come lo paga mia moglie (che appartiene ad almeno due delle categorie suddette).
            Faccio fatica a prendere sul serio il discorso del razzismo, in tutti i sensi. Lo considero solo uno degli strumenti usati dai padroni per creare divisioni tra i lavoratori, quando fa loro comodo usare questo strumento e non altri. Certo spesso funziona, ma la tendenza a considerarlo «il» problema o anche solo uno degli aspetti principali del problema mi sembra fuorviante.
            «Mi sembra», ripeto.

            • Forse è su cosa sia il razzismo che non ci intendiamo.

              Il razzismo è il principio regolatore della divisione del lavoro su scala mondiale, e giustifica lo «scambio ineguale» tra paesi ricchi e paesi poveri.

              Questi ultimi, in realtà, sono ricchissimi di risorse e materie prime, ma sono esautorati di default dall’esserne padroni perché implicitamente dichiarati inferiori, immaturi, sottosviluppati. E così sembra del tutto normale che l’Africa sia da secoli terreno di razzia e land grabbing per europei, nordamericani e ora cinesi, che interi paesi siano proprietà di altri.

              L’accumulazione di capitale che ha costruito questo sistema planetario è avvenuta nell’era del colonialismo, e non sarebbe stata possibile senza il razzismo. Intere fortune di individui, famiglie, mega-aziende sono letteralmente *fondate* sul razzismo. La maggior parte del capitale è ereditata e il “self made man” è un mito o comunque una rara eccezione, nessun ricco sarebbe ricco senza quell’accumulazione, quindi senza il razzismo. Né potrebbe restare ricco senza i meccanismi che perpetuano il razzismo ogni giorno.

              Il razzismo non viene usato solo «quando fa comodo usarlo», a volte sì e a volte no, ma agisce in ogni momento, perché è sistemico, è una delle condizioni del nostro esistere. È il mercato del lavoro a essere costantemente «etnicizzato». Certi lavori vanno di default a chi sta al fondo della scala sociale. La quale, anche se non viene mai riconosciuto, è anche il fondo della scala razziale.

              Non solo: il razzismo ci *desensibilizza* in tutto o in parte di fronte alla fame, allo sfruttamento, alle guerre, ai genocidii che avvengono nel mondo, perché anche chi di noi non lo ammetterebbe mai, percepisce un diaframma tra sé e quelle vittime. Sono *diverse*. Il nostro benessere è la loro distruzione (il litio e il coltan dei nostri telefonini, per fare un solo esempio), ma la loro distruzione è il nostro benessere, il “mors tua vita mea” è implicito: hanno la pelle più scura, hanno un’altra cultura, secoli di ideologia occidentale premono sulle nostre sinapsi per farcele sentire lontane.

              Il razzismo non è semplicemente una «idea sbagliata» in testa a qualcuno o un «espediente». O meglio: è *anche* un’idea sbagliata, che però è costantemente “messa al lavoro”; ed è *anche*, strettamente inteso, un espediente, ma l’espediente non funzionerebbe se il razzismo non fosse sempre lì, non fosse un principio sistemico, un “bordone” che – se solo ci fermassimo ad ascoltare – non lascia un attimo di silenzio.

              Non lo sentiamo perché ci siamo dentro, ci siamo nati e cresciuti dentro. E siamo bianchi. Ti assicuro che un nero lo sente, eccome. E lo prende sul serio, eccome.

            • Se il razzismo sia o no un problema lo possono dire solo quell* che lo subiscono sulla propria pelle. E le mobilitazioni delle comunità afroamericane dell’ultimo anno ci dicono che lo è.

    • Nel tuo discorso manca un tassello fondamentale: è il capitalismo che ha bisogno di creare discriminazioni, di razzializzare il mercato del lavoro, di dividere il lavoro in base al genere, ecc. Ne ha bisogno proprio per impedire la ricomposizione di classe. I diritti civili non sono un lusso da borghesi. Avere o non avere la cittadinanza significa avere maggiore o minore potere contrattuale, ad esempio. E poi: forse che le persone LGBT non sono nella stragrande maggioranza dei casi persone che lavorano e devono confrontarsi con qualche padrone che usa la loro debolezza civile per ricattarle e pagarle di meno? O pensiamo che i gay siano tutti parrucchieri per signore bene… Poi possiamo parlare di pinkwashing, di blackwashing, di qualunquecosa-washing, e criticare radicalmente l’uso propagandistico che viene fatto della difesa dei diritti civili svincolata dal discorso di classe. Ma evitiamo di considerarli lusso borghese.

  11. Io da queste elezioni traggo l’ennesima conclusione. Che i numeri delle elezioni contano poco, proprio dal punto di vista matematico/statistico. E che dalle elezioni non si capisce niente di quello che il paese pensa, soprattutto la famigerata pancia del paese. I numeri dicono che alla fine sia Trump che Clinton sono quasi pari con percentuali di votanti risibili rispetto al totale degli aventi diritto (e ancor piu’ considerando quelli che potrebbero votare ma non ne hanno diritto per cavilli legali). La “working class” e’ indefinibile e nessuno fino ad ora l’ha catturata in numeri se non restringendo il campo di studio a realta’ locali e alcune categorie di persone. Alla fine come ogni elezione discutiamo di un numero di votanti che i partiti e le coalizioni maggiori si spartiscono quasi equamente. Numeri che hanno dentro di tutto, bianchi, neri, borghesi e working class che a seconda del momento si muovono a destra o a sinistra.
    Questo per dire che ogni analisi sul voto e’ veramente un esercizio di retorica e non puo’ essere utilizzata per raccontare la realta’, se non una parte minoritaria di essa. Questo vale non solo in USA ma in tutto l’occidente. Scommettiamo che anche le prossime elezioni in un paese del blocco occidentale finiranno con un quasi pari e patta, e la vittoria schiacciante del’astensionismo?
    Gli unici dati certi sono due: 1) le minoranze, soprattutto afroamericani, non hanno votato Trump; 2) La stragrande maggioranza della working class non vota e da tanto.
    La discussione portata avanti qui su Giap e anche su twitter mi sembra l’unica che tiene la barra dritta su questi punti.

  12. […] Fulginiti, docente di Studi Romanzi alla Cornell University di Ithaca, nello stato di New York, ha scritto su “Giap”, il blog del collettivo Wu Ming, a proposito dei miti sul voto “popolare” (della […]

  13. Trump non è un fulmine a ciel sereno e nemmeno l’inizio di nulla. È un esito storico abbastanza scontato. E del resto negli USA hanno eletto, solo negli ultimi cinquant’anni, gente come Nixon, Reagan e G.W. Bush. Certo, Trump non solo è ricco ma lo ostenta anche. E dice esplicitamente cose che normalmente si pensano senza dirle. E non le pensano in pochi, negli USA.
    Ma su questo ho già provato a dire qualcosa altrove e non mi ripeto qui (e perdonate l’auto-link).
    Volevo invece concentrare l’attenzione sulla questione dell’astensionismo. Ormai è un fenomeno dilagante non solo negli USA ma anche in Europa. È un problema, perché si tratta della manifestazione di una esclusione, non solo e non tanto di un disinteresse o di una normale dinamica democratica (come spesso è stato presentato).
    I sistemi politici (con i media a loro organici) e le regole elettorali sembrano essere fatti apposta per scoraggiare il voto di chi non si riconosce nell’establishment e non ha interessi da mettere in gioco nei rapporti di forza che l’establishment rappresenta. Persino tutta la retorica sulla “cattiva politica”, sulla “casta” sono risultati funzionali a una riduzione della base elettorale e della rappresentanza istituzionale. Potrei farvi un esempio pratico che conosco direttamente, citando le ultime elezioni regionali sarde e la legge elettorale che è stata approvata alla loro vigilia, per corroborare il discorso, ma ve lo risparmio.
    Richiamo invece un caso concreto esposto durante un convegno (nell’ambito del Festival dell’economia di Trento, di qualche anno fa) dall’economista Esther Duflo. Lei si occupa di economia sperimentale, quindi poca teoria, poche equazioni, ma molta analisi fattuale e verifica sul campo. Spiegava quanto possano risultare decisive le elezioni, specie in un contesto di grande diseguaglianza. Non in un regime autoritario dove le elezioni non esistano nemmeno, ma in una condizione di democrazia formale e di regolare rispetto delle scadenze elettorali. Lei e il suo staff avevano studiato le condizioni economiche precarie di uno degli stati della federazione brasiliana. Una zona povera, con una forte esclusione sociale. La politica locale sembrava incapace di dare risposte adeguate. Tra le altre cose avevano notato che il sistema di voto era particolarmente cervellotico e in particolare che le schede elettorali erano pressoché inaccessibili a chi fosse poco o per nulla alfabetizzato. Una grande parte della popolazione locale era sostanzialmente analfabeta, perciò tutta questa massa di persone era di fatto esclusa dalle dinamiche democratiche e dalla rappresentanza. Ad un certo punto – non ricordo per sollecitazione di chi – erano state modificate le schede elettorali in modo che anche un analfabeta potesse esprimere validamente un voto ed erano state semplificate le procedure. Alla prima occasione, aveva vinto per la prima volta la formazione politica di ispirazione popolare. Erano state immediatamente varate misure contro la diseguaglianza e l’esclusione sociale e pianificati investimenti in infrastrutture pubbliche e quant’altro.
    Non so poi come siano andate avanti le cose, ma ai fini del discorso questo ha un’importanza relativa. La cosa importante è che nel contesto di una democrazia rappresentativa la partecipazione popolare, la “voce in capitolo” di tutte le fasce sociali e il loro accesso alla rappresentanza istituzionale hanno degli effetti concreti molto grandi. Se la working class statunitense è rimasta sostanzialmente tagliata fuori dalla scelta del presidente, non è un caso e non è nemmeno un fatto contingente. Il che si riverbera direttamente sul tipo di politiche portate avanti da Congresso e governo.
    La riduzione della rappresentanza e la chiusura oligarchica (in Italia oggi auspicata esplicitamente da alcuni fautori del “sì” al prossimo referendum, tipo Eugenio Scalfari) sono uno dei problemi macroscopici di questa epoca. Non l’unico, certo, e sarà più sovrastrutturale rispetto ad altri, ma ha il suo peso.

    • Ecco, questa cosa che hai appena detto a proposito del suffragio è importantissima, perché sento questo metadiscorso della limitazione del diritto di voto sempre più presente negli ambienti che frequento, e lo temo. Lo temo perché mi sembra che abbia la forza pervasiva e persuasiva del discorso sulla “casta” che è ad oggi un po’ invecchiato, lo sento sulla bocca di “insospettabili” – il mio professore di filosofia della storia dell’università! e si appoggia tra l’altro su quello stile edgy (“noi che siamo intelligenti, laureati & ironici…”) che va per la maggiore sui social.
      Ecco, se questa minchiata politica prende piede, siamo veramente fottuti.

  14. A lato di queste ottime analisi socio-politiche, per chi non l’ha letto, consiglio anche l’analisi psico-sociale di Bruno Tinti, su Il Fatto Quotidiano di oggi, dal titolo “Trump ha illuso l’elettorato bisognoso di credere nella vittoria”. Merita.

    Vi riporto solo le prime righe:
    <>

    • Lo riattacco che non è venuto:

      Nel 1998 People Magazine chiese a Donald Trump se avrebbe mai corso per la Presidenza degli Usa. Lui rispose così: “Se mai dovessi correre lo farei come Repubblicano. Loro sono il gruppo di elettori più stupido del Paese. Credono a ogni cosa che dice Fox News. Io potrei mentire e loro se la berrebbero fino in fondo. Scommetto che i miei numeri sarebbero terrificanti”.

      Il 9 dicembre 2004 Berlusconi presentò a Palazzo De Carolis un libro di Bruno Vespa (Storia d’Italia, da Mussolini a Berlusconi). Disse: “Uno studio corrente dice che la media del pubblico italiano rappresenta l’evoluzione mentale di un ragazzo che fa la seconda media e che non sta nemmeno seduto nei primi banchi”.

      Trump e Berlusconi sono identici: miliardari, evasori fiscali, consumatori compulsivi di donne, sprezzanti verso chi crede in loro. Sono lontanissimi come tenore di vita, modo di pensare e di agire, problemi esistenziali, dal 99% dei cittadini. Dichiarano apertamente il loro disprezzo nei confronti delle persone che hanno affidato loro le proprie vite. Eppure queste persone gliele hanno affidate. E alcuni si chiedono come questo abbia potuto avvenire; come sia possibile che cittadini-pecore abbiano rifiutato la custodia del pastore e – al limite – del cane – e si siano rivolti direttamente al macellaio. Le spiegazioni sono due.

      I beni sono “finiti” e i bisogni “infiniti”. Di questa legge economica le persone non vogliono sentir parlare …

  15. Due considerazioni

    1) Non riesco a capire perché siamo così tristi che una criminale di guerra abbia perso le elezioni
    2) Che credibilità possono avere le stime del NYT sulla divisione del voto per fasce di reddito?
    Lo stesso giornale dava il 93% di possibilità di vittoria della Clinton

    • Ecco, questo commento lo abbiamo sbloccato solo per usarlo come cattivo esempio. Un commento lasciato senza aver letto nemmeno una riga del post, senza sapere dove si sta intervenendo, a chi ci si sta rivolgendo. Due righe buttate a cazzo dopo una rapida occhiata e uno “pfui”. Un commento consistente in due domande, una intenzionalmente provocatoria ma all’osso soltanto stupida (non tanto per il contenuto quanto perché rivolta alle persone sbagliate), l’altra basata sulla confusione già segnalata da Girolamo qui sopra, tra intenzioni di voto ed exit poll, e sul principio dello “shoot the messenger”. Un esempio di pessimo uso di uno spazio, di abuso della volontà di discutere degli interlocutori, di mancanza di rispetto nei confronti di Valentina e di tutte e tutti noi. Una cagata.

      • In generale, noto che non si vuole commentare il dato di fatto – alla base dei ragionamenti qui sopra – che Trump è stato eletto da una ristretta minoranza della popolazione americana. Queste non sono stime dei perfidi giornali liberal, sono i dati ufficiali dell’affluenza, comparati al numero degli “eligibles” e della popolazione tutta.

        Non c’è nessuna “riscossa popolare”, c’è un voto borghese, quando non alto-borghese, che è diventato risicata maggioranza della minoranza che ha votato. La destra è stata votata dalla base sociale della destra. Incredibile, no?

        La working class – che, appunto, non è il feticcio ariano immaginato da chi celebra Trump a destra come a “sinistra” – è in gran parte rimasta a casa, perché si è stancata da tempo della logica del (presunto) «meno peggio». Allo stesso tempo, non trova granché spassosa la logica – esattamente speculare e altrettanto funzionale al sistema – del «tanto peggio, tanto meglio».

        Per il «tanto peggio, tanto meglio», invece, facevano e fanno il tifo i nostrani pantofolai, spaparanzati a migliaia di miglia di distanza, tutti grandi strateghi geopolitici col culo degli altri, e naturalmente tutti bianchi come pezze lavate. Quelli che il-razzismo-dove-lo-vedete? Quelli che Trump-è-un-nemico-dell’imperialismo (ci sarà da ridere; tra l’altro, come se le guerre le facesse questo o quel presidente e non fossero una necessità del capitalismo! Bordiga, a proposito di questo focus ingannevole sul “personaggio”, parlava di “culto del Battilocchio”).

        E se provi a richiamarli alla realtà, facendo notare che Trump è un miliardario suprematista bianco, militarista e sessista fino al midollo, perfetto rappresentante della classe dominante americana, uno che caga letteralmente su un water d’oro massiccio, uno che sta già portando alla Casa Bianca perfetti rappresentanti dell’establishment, ribattono parlando di Hillary. Filo-Trump e Hillary-centrici.

        Ma Hillary non c’è più, compagni trumpisti. L’alibi è caduto, al potere c’è il vostro beniamino. Non siete più all’opposizione. Adesso tifate per la Casa Bianca. Siete dalla parte del Pentagono. Avete *tifato* per avere questa Casa Bianca, e questo commander-in-chief. Siete compagni del Pentagono, di quel Pentagono a cui noi ci siamo opposti ieri e continueremo a opporci anche domani. Siete voi i veri filo-americani. Cominciate a prendervi le vostre responsabilità :-)

        • A quanto scritto sopra da WM e WM1 aggiungo solo questo: da nessuna parte nel mio post si evince un giudizio positivo verso HRC o il clintonismo (anzi). E figuriamoci quanto mi dispiace per accordi come il NAFTA o la TPP, visto che contesto tali forme di governance globale da quando avevo 16 anni. Non sono “triste” perché ha perso la Clinton; sono incazzata perché chi ha vinto è un demagogo razzista, fascista, misogino, anti-abortista, xenofobo e islamofobo. E non parliamo solo del singolo candidato; parliamo di un Vice-Presidente famoso, tra l’altro, per aver firmato il disegno legge che imponeva il funerale ai feti; parliamo di personaggi dell’estrema destra già in queste ore catapultati alla Casa Bianca; parliamo del supporto ufficiale ed esplicito del KKK e della supremazia bianca, perdinci. Caso mai, alle moltissime colpe e responsabilità della Clinton (e del partito che l’ha espressa) andrà aggiunta anche quella di non aver saputo evitare l’elezione di Trump, la quale sarà una tragedia per minoranze, immigrati, LGBT, persone di colore, musulmani, donne e classi lavoratrici.
          Penso che queste posizioni siano quasi scontate visto il contesto in cui si sta discutendo, che è Giap, con la sua storia e la sua politica coerente. Visto che la *mia* posizione politica personale non è altrettanto nota, la rendo esplicita qui una volta per tutte a scanso di fraintendimenti.
          Ciò detto, nel mio contributo ho voluto fare attenzione a un aspetto particolare di questo evento storico, la manipolazione della “classe lavoratrice” e la sua trasformazione in feticcio razziale: un aspetto che a mio avviso è estremamente mistificatorio e che rischia di far danni *enormi* se assunto acriticamente in futuri discorsi politici, soprattutto quelli a sinistra. Consapevoli che si tratta di un aspetto in una questione enorme, non riducibile a un singolo fattore.

        • io credo che ci sia poco da commentare sul fatto che Trump non è stato eletto dalle classi lavoratrici (e dalle persone con redditi bassi in generale). Cioè questo è un fatto. Punto. Chi dice il contrario o mente o parla senza sapere di che sta parlando. Riallacciandomi al mio primo intervento di sopra, ho fatto una breve ricerca ed ho trovato:
          Hanno votato solo il 41,3% di chi ha un reddito 18 anni, non ho considerato i minorenni che non possono comunque votare)

          da qua ho preso le percentuali dei votanti http://www.businessinsider.com/exit-polls-who-voted-for-trump-clinton-2016-11/#by-income-clinton-led-only-among-voters-with-a-2015-family-income-under-50000-a-group-that-included-36-of-the-voters-in-the-exit-polls-4
          da qua le percentuali per fascia di reddito http://www.statisticbrain.com/presidential-election-voter-statistics/
          da qua i dati sul reddito (è un programma che permette di visualizzare differenti statistiche) http://www.census.gov/cps/data/cpstablecreator.html

          Quindi, dire che le fasce basse di reddito hanno votato in massa per Trump è sbagliato e non c’è veramente altro da aggiungere su questo punto

          • scusate non so perchè mi è stata tagliata la parte centrale del mio post. Riposto la parte iniziale

            io credo che ci sia poco da commentare sul fatto che Trump non è stato eletto dalle classi lavoratrici (e dalle persone con redditi bassi in generale). Cioè questo è un fatto. Punto. Chi dice il contrario o mente o parla senza sapere di che sta parlando. Riallacciandomi al mio primo intervento di sopra, ho fatto una breve ricerca ed ho trovato:
            Hanno votato solo il 41,3% di chi ha un reddito 18 anni, non ho considerato i minorenni che non possono comunque votare)

            • scusate credo che sia un problema dei segni minore e maggiore

              io credo che ci sia poco da commentare sul fatto che Trump non è stato eletto dalle classi lavoratrici (e dalle persone con redditi bassi in generale). Cioè questo è un fatto. Punto. Chi dice il contrario o mente o parla senza sapere di che sta parlando. Riallacciandomi al mio primo intervento di sopra, ho fatto una breve ricerca ed ho trovato:
              Hanno votato solo il 41,3% di chi ha un reddito minore di 10000$ e solo il 48,2% di chi ha un reddito compreso tra i 10000$ e i 50000$ (e già questo dovrebbe bastare).
              Insieme compongono solo il 36% del totale di chi ha votato, che corrispondono a (circa) 45,4 milioni di persone. Di queste (circa) il 42% ha votato Trump, che corrisponde a (circa) 19 milioni di persone.
              Dai dati del 2015 (gli unici dati che ho trovato, si può supporre che i numeri non siano troppo diversi per il 2016), negli USA il 41,5% ha un reddito inferiore ai 50000$ l’anno, che sono circa 101 milioni di persone.
              Per concludere, i 19 milioni di persone (al di sotto dei 50000$ l’anno) che ha votato Trump sono solo il 18,8% di tutte le persone con un reddito al di sotto dei 50000$ l’anno, sono il 31,8% dei voti dati a Trump e sono 7,8% della popolazione totale (maggiore di 18 anni, non ho considerato i minorenni che non possono comunque votare)

              • Tutto quello che appare tra i segni “<" e ">” è interpretato da WordPress come un comando html, quindi viene nascosto.

  16. Rovesciare l’ordine del discorso su HR Clinton è un artificio retorico di bassa lega, che denota la bassa lega dei (pochi) neuroni di chi lo formula. È, pari pari, lo stesso discorso del “chi vota NO vota come CasaClown, Salvini, Meloni”.
    Chiarito questo, due brevi considerazioni. La prima: dire che il problema è Trump per un verso prescinde dal risultato elettorale e dall’eventuale alternativa, perché pone il centro del discorso nel dato che il 48-49% dell’elettorato attivo americano ha votato per Trump, condividendo i pieno i suoi discorsi. Basta vedere cosa pensano questi elettori delle priorità politiche (perché dire che l’elezione del settimo giudice della Corte Suprema è la priorità significa dire che la priorità è vietare l’aborto), dell’atteggiamento del sistema verso i neri (perché sostenere che i neri sono trattati come tutti gli altri significa legittimare l’uccisione dei neri per le strade), e via dicendo. Questo dato è rilevante indipendentemente dal fatto che Trump abbia vinto o perso, lo sarebbe stato anche se avesse vinto HR Clinton.
    La seconda: Trump ha vinto, e dispone della maggioranza nelle due camere e alla Corte Suprema, quindi le sue idee, quali che fossero quelle di HR Clinton, si tradurranno in atti governativi, legislativi e costituzionali, cosa che avrà effetti a cascata sul mondo intero – e questo è un problema.

  17. Un effetto interessante della vittoria di Trump sarà quello sulla geopolitca. Se tiene fede alle sue enunciazioni, vedremo Trump sostituire l’attuale politica del doppio contenimento attivo nei confronti di Russia e Cina con una politica di accordi finalizzati alla spartizione delle aree d’influenza.
    Quindi, in base al principio di certi presunti “antimperialisti” che chi si mette d’accordo con Putin e/o la Cina è un antimperialista, allora, dopo Erdogan che flirta con Putin e il macellaio filippino che flirta con la Cina, come potrà anche Trump non essere un antimperialista? Sarà un mondo tutto di antimperialisti e per trovare l’imperialismo dovremo cercare se ci sono veramente gli Ufo nell’area 51. Ma se poi Trump, come annunciato durante la campagna elettorale in Florida, riprende a far pressione su Cuba e Putin si volta dall’altra parte nella logica delle zone d’influenza, Putin resterà lo stesso antimperialista?
    Alcune considerazioni sul tema specifico del thread.
    Non credo ai dati sul reddito del NYT non solo perchè il giornale non è credibile viste tutte le stupidaggini che ha sfornato, ma soprattutto perchè quei dati sono in contraddizione con quelli reali espressi nel voto. Come si è visto nella mappa del voto per contee, a prescindere dal risultato totale degli Stati le contee che hanno votato in maggioranza per H.Clinton sono quasi tutte contee delle aree metropolitane, mentre per Trump hanno votato quasi tutte le altre. E questo succede tanto negli Stati dove vince H.Clinton quanto negli Stati dove vince Trump. Le contee delle aree metropolitane hanno un reddito medio più alto delle contee non metropolitane urbane o rurali e quindi l’elettorato di Trump ha un reddito medio più basso di quello di H.Clinton. Ma questo ci dice qualcosa in termini di classe? Decisamente no perchè anche nell’Argentina del secondo dopoguerra gli elettori peronisti erano di un reddito medio più basso di quello degli elettori dei radicali, ma i peronisti non rappresentavano certo interessi di classe (neanche i radicali, ovviamente). Che gli operai possano votare non in base alla classe, ma su altri presupposti identitari non è certo una novità.
    Non è neanche una novità che Trump rappresenti una minoranza com’è sempre stato nelle elezioni americane, dove vota più o meno la metà degli aventi diritto e ad astenersi o a venire astenuti sono soprattutto poveri, esclusi e minoranze, per cui il più basso reddito medio degli elettori di Trump in confronto a quelli di H.Clinton non è un dato assoluto, ma un dato solo relativo alla parte degli aventi diritto che va a votare, mediamente la parte più benestante.
    Quindi la critica al sistema elettorale U.S.A. deve essere radicale e se ne deve contestare la matrice classista che ne fa una democrazia incompiuta. Invece non ha senso, a mio parere, la critica “moderata” e “interna” che si richiama alla vittoria di H.Clinton nel voto popolare. In base alla costituzione americana il presidente non viene eletto dal popolo e nemmeno da alcun collegio elettorale come molti credono, ma viene eletto dagli Stati. Non si riunisce alcun collegio elettorale centrale. In ogni Stato i grandi elettori (corrispondenti al numero di parlamentari dello Stato) si riuniscono e comunicano l’esito del voto dello Stato al Senato. Quindi il Presidente non rappresenta il “popolo” americano nel senso della somma degli individui elettori, ma gli Stati dell’Unione. Se anche questo sistema cambiasse facendo eleggere il Presidente dai cittadini e non dagli Stati, resterebbero comunque le procedure formali e sostanziali che tendono ad escludere non solo dalle candidature, ma anche dal voto la parte più debole della popolazione. Questo è il problema essenziale di democrazia mutilata.

    • Se non va bene il New York Times, può andar bene il Los Angeles Times, che invece la vittoria di Trump l’aveva prevista?
      Anche loro dicono che non c’è stata riscossa popolare trumpiana e che la classe lavoratrice è rimasta a casa.
      http://www.latimes.com/politics/la-na-pol-election-turnout-20161111-story.html

      Sulla questione geopolitica, certi sedicenti “antimper” ci hanno abituati a ogni torsione, ogni riorientamento, ogni capriola. Li abbiamo visti giustificare l’impossibile. Li abbiamo visti ripetere per mesi che Erdogan era il capo dell’ISIS per poi, da un giorno all’altro (cioè dopo le strette di mano tra Erdogan e Putin), passare ad altro argomento come nulla fosse. Nei giorni scorsi hanno paragonato Trump a Lenin. Nulla potrà sorprendermi.

      • Un esempio di cosa si è arrivati a credere nel magico mondo dei «comunisti per Trump».


        N.B. È lo stesso magico mondo dove ci si indigna per qualunque analisi sul rischio di un «rossobrunismo diffuso».

      • Che quella di Trump non sia politicamente una “riscossa popolare”, ma anzi sia roba reazionaria siamo pienamente d’accordo. La composizione sociologica di un elettorato non corrisponde certo alla sua direzione politica che la guida e agli interessi di classe che questa guida rappresenta.
        Ma, in termini di analisi sociologica del voto per fasce di reddito, il voto reale delle contee – non i sondaggi fantasmatici dell’uno o dell’altro – mostra chiaramente che le contee dove vince Trump sono conteee con un reddito medio più basso delle contee dove vince H.Clinton. Il reddito e il patrimonio immobiliare medio di chi sta a NYC (vittoria di H.Clinton) è molto più alto di quello medio delle contee dello Stato di NY fuori da NYC (dove vince Trump). Questo elemento si ripete in tutti gli Stati, sia quelli vinti da Trump che quelli vinti da H.Clinton. Questi sono dati reali, non sondaggi. E’ successa la stessa cosa a Trieste, dove il candidato del centro-sinistra ha vinto nelle circoscrizioni a reddito medio e valore immobiliare più alto, mentre quello del centro-destra ha vinto in quelle a reddito medio e valore immobiliare più basso. Con questa nuova caratteristica della base elettorale della destra bisogna fare i conti. Sembra segnare la svolta da una destra liberista a una destra protezionista e ri-nazionale. Non a caso ho fatto l’esempio dei peronisti argentini come matrice storica della situazione che si sta configurando. Roba reazionaria senza dubbi, non certo “riscossa popolare”.

        • OT. A Trieste ha votato il 47% degli aventi diritto, e Cosolini ha perso perché i suoi potenziali elettori se ne sono stati a casa. Ha pesato moltissimo la ferriera, senza dubbio. Ma c’è dell’altro. Erano stati proprio gli spin doctors di Cosolini, tra uno spritz e l’altro in Cavana, a spiegare che affidarsi ai pugili dà una sicurezza psicologica incomparabilmente maggiore. Così chi ama i pugili si è affidato ai pugli. Invece chi non ama i pugili (a meno che non si chiamino Muhammed Ali), ha mandato a cagare Cosolini e la sua banda e se n’è andato ai topolini a fraternizzare con le gang balcaniche.

    • Non credo ai dati sul reddito del NYT perchè il giornale non è credibile viste tutte le stupidaggini che ha sfornato.
      @ginseng, abbi pazienza, ma la stupidaggine l’hai detta tu. I dati degli exit poll non sono del NYT o della CNN, ma della Edison Research, alla quale fa riferimento il NYT, ma anche una vastissima platea di organi di stampa, dal Washington Post al Wall Street Journal, alle televisioni CNN, ABC, CBS, FOX. Organi di stampa concorrenti fra loro, e di orientamento politico contrapposto, che avrebbero un evidente vantaggio nel poter sbugiardare i dati del concorrente, e che invece concordano (se non lo facessero, si rivolgerebbero ad altri istituti di ricerca, come accade con le rilevazioni degli ascolti per il mercato publbicitario): quei numeri, in altri termini, li trovi non solo sul NYT, ma anche su organi di stampa apertamente trumpisti. Quanto al fatto che butti via i dati empirici e li sostituisci con tue personali deduzioni logiche, che dire? Una contea può essere più povera di un’altra, ciò non toglie che al suo interno ci siano a loro volta elettori più ricchi (che hanno votato Trump, con tua buona pace) ed elettori meno ricchi (che hanno votato Clinton, idem come sopra): ma tu questa differenza concreta (che qualcosa in termini di classe dovrebbe dirti) la appiattisci nella media statistica astratta della contea.

  18. C’è uno che da ieri cerca di lasciare commenti dove ci chiama «fascistelli», «fascisti», «deficienti», «questo blog non lo legge nessuno», «vendete 4 copie», «siete 4 gatti».
    Noi ovviamente non li sblocchiamo e li gettiamo nella rumenta dove meritano di stare. Al che lui dice che per il fatto di non sbloccarlo siamo «fascisti». Andamento autogiustificante ricorsivo.
    Accenniamo a questo microaneddoto perché emblematico. Gli “argomenti” che costui infila tra un insulto e l’altro sono quelli tipici dei «comunisti per Trump» e più in generale dei cultori di ogni falsa soluzione che il sistema propone loro in base alla solita logica binaria e bidimensionale – e all’etica del (presunto) «nemico del mio nemico» che è automaticamente mio amico.
    In base a tutto questo, noi saremmo fascisti perché facciamo notare che Trump è di estrema destra, nominerà una squadra di estrema destra, farà politiche di estrema destra e a favore del grande capitale.
    E perché saremmo fascisti?
    Perché «e allora Hillary?», «e allora Obama?»
    Come si diceva sopra, Hillary non c’è più. Obama se ne sta per andare. Tra poco non potranno più essere usati per sostituire gli argomenti col benaltrismo. A capo dell’imperialismo americano ci sarà Trump. A tutelare politicamente e militarmente gli interessi delle multinazionali americane in giro per il mondo ci sarà Trump. A presiedere lo sfruttamento nordamericano del sud del mondo ci sarà Trump. Allora li vedremo, i tifosi di ogni falsa soluzione, ridotti a penose contorsioni per difendere gli USA.

  19. Dall’intro: “ha ottenuto il miglior risultato dai 250.000 dollari all’anno in su”. Dopo: “Trump ha prevalso tra le fasce dal reddito medio e alto, da cinquantamila dollari all’anno all’insù”. C’e` un bel po’ di differenza tra 50 e 250 mila dollari l’anno.

    • Scusa, ma prima di lasciare questo commento non potevi fermarti un momento a pensare che «ha prevalso tra» e «ha avuto il miglior risultato in» non sono la stessa cosa? Per capire il rapporto tra i due dati citati bastava guardare il grafico, che mostra Trump prevalere tra chi guadagna dai 50.000 $/anno in su, in tutte le fasce sopra quella soglia, e in quelle più alte ottenere il miglior risultato (un distacco di due punti) tra chi ne guadagna più di 250.000. Ha vinto nella borghesia, dalla middle class in su: tra i benestanti, tra i ricchi, tra i molto ricchi e tra i ricchissimi.

      • Guardando il grafico mi pare che il miglior risultato sia tra i 50.000 e i 100.000 (distacco di quattro punti). Sarebbe bello avere dati piu` dettagliati, incluse le percentuali di voto per fascia di reddito come dice Kente un po’ di commenti piu` in su, ma anche una fascia di reddito meno ampia per i “benestanti”.

        • Parto dal fondo: dati più dettagliati ce ne sono, Valentina nel post li ha linkati. Sul sito della CNN li trovi scorporati secondo vari parametri: genere, razza, età, istruzione, religione, e anche varie combinazioni di questi parametri.
          Se ne deduce che il voto a Trump è 1) tutto bianco; 2) in larga parte borghese; 3) in prevalenza maschile; 4) in prevalenza avanti negli anni.

          Sull’altra questione hai ragione, nell’intro la frase come l’abbiamo messa è scorretta, mancava la precisazione fatta invece nel commento qui sopra: *nelle fasce più alte* (dai 100k all’anno in su), quella dove Trump ottiene il miglior risultato è quella sopra i 250k. Vince in tutte, comunque. È vero che la scansione di 50.000 in 50.000 è troppo ampia: uno che guadagna 50.000 dollari non è allo stesso livello di chi ne guadagna quasi il doppio.

          Sul voto guarda anche questa:

          • P.S. Ogni volta che uso questo tipo di dati ci tengo a precisare che stiamo parlando solo di chi ha votato, cioè meno della metà degli aventi diritto. Quando si cerca di fare lo “spaccato” della parte di società che ha votato Trump, bisogna sempre pensare che corrisponde numericamente a meno della metà di meno della metà degli aventi diritto, i quali a loro volta non sono tutta la popolazione che vive negli USA.

      • Ma come fa Trump a vincere nel sondaggio tra i redditi alti e nel voto reale a vincere nelle contee a reddito e valore immobiliare più basso?
        Se quel sondaggio valesse qualcosa di più della carta o dello schermo su cui è stato scritto, allora Trump dovrebbe vincere a Manhattan, a Holliwood, a Santa Barbara, ecc, mentre in quelle zone e nelle zone analoghe di tutte le metropoli vince H.Clinton con percentuali bulgare.
        A me sembra uno scontro tra capitale di orientamento liberista-globalista e capitale di orientamento oligopolista-rinazionalista dove il primo ha intercettato consensi tra i redditi più alti dei bianchi (ma anche tra le minoranze, certo) e il secondo tra i redditi più bassi dei bianchi promettendo di proteggerli dal declino causato dalla globalizzazione.

        • Ginseng, però le zone a valore immobiliare più alto non sono solo quelle che citi, dove vivono intellettuali, artisti e intellighenzia. In California la zona più costosa in assoluto dove comprare casa – e anche la seconda più costosa in tutti gli USA – è Newport Beach, dove ha vinto Trump. In Florida la contea più costosa è Monroe, dove ha vinto Trump. E parliamo di due stati dove Clinton ha vinto. Inoltre, le zone a valore immobiliare alto non sono solo su West e East Coast. Dallas e Houston sono zone a valore immobiliare alto, e ha vinto Trump, come in tutto il Texas. E anche nelle zone ricche dove Clinton ha vinto, non sempre lo ha fatto con “percentuali bulgare”, anzi: Denver è una zona a valore immobiliare alto, e Clinton ha vinto di misura. And so on, and so on.
          Sempre tenendo conto che buona parte della popolazione a reddito basso si è astenuta.

          • Parliamo ad esempio di Manhattan o più in generale di New York. Ancora non si trovano i dati seggio per seggio delle presidenziali, ma questa mappa relativa all’elezione del sindaco (nel 2013 ha vinto il democratico De Blasio col 73%) è significativa. http://www.huffingtonpost.com/2013/11/06/who-voted-for-joe-lhota_n_4227989.html
            A Manhattan i repubblicani vincono in tutto l’ Upper East Side, cioè la zona più ricca in assoluto. I democratici ottengono il risultato migliore ad Harlem, una zona tuttora molto povera a maggioranza afroamericana, nonostante i primi segnali di gentrificazione. Infatti non va dimenticato che Manhattan è sì il posto più ricco degli USA, ma anche quello col coefficiente di Gini più alto (il coefficiente di Gini misura la diseguaglianza nella distribuzione della ricchezza). Un discorso simile penso vada fatto in tutte le zone metropolitane, più ricche in assoluto rispetto a quelle rurali, ma anche con più diseguaglianza sociali.

  20. Sulla working class, capita di imbattersi di recente in queste narrazioni, un poco paradossali:

    a) “la classe operaia non esiste più”;
    b) “la classe operaia è composta da ignoranti che votano a destra” (Brexit, Trump, Lega).
    c) “La classe operaia siamo tutti noi che ci facciamo un culo così” (“e le tasse ci mangiano tutto”)

    Il punto c) è l’asserto più pericoloso, tipicamente espresso dal ceto medio, che scioglie la “classe” nella “gente” e nel “popolo”, diluendone il potenziale conflittivo in un magma nazionalpopolare e fascistoide ed escludendo da questo “noi”, guarda caso, i lavoratori migranti, che sono la vera base della nuova classe operaia. L’indistinto “popolo” gentista-qualunquista è utile anche a chi pensa di scavalcare i partiti tradizionali: se la working class vota per Trump, facciamo come Trump anche noi e ci daranno il loro voto (vedi Salvini e Grillo, ma anche qualche rudere post-stalinista).

    Con Brexit e con Trump, la middle class ha tirato il sasso e nascosto la mano. Poi ha chiamato con un fischio mediatico la servitù: la working class è ancora costretta a pulire i panni sudici dei signori, che quando fanno i fascisti vogliono uscirne comunque con l’abito borghese pulito e democratico. Gli stessi che negano l’esistenza della classe operaia si sbrigano a tirarla fuori dal cilindro ogni volta che devono giustificare una sconfitta della sinistra neoliberale: per uscirne con le mani pulite.

    Di fatto, finché c’è Capitale la working class non può morire. Si riforma da un rizoma, come la gramigna. E non appartiene a nessuno. Né ai partiti, né agli stati. Ed è più fluida di come la pretenderebbero gli apprendisti stregoni del nazional-populismo.

    Sognate una classe operaia di lombardi o veneti, come fanno quelli della Lega? Vi ritroverete con un pugno di vecchi alcolisti, mentre la classe operaia comincerà a parlare bengalese. Quando la Lega prova a segmentare la classe operaia, la compatta altrove. La classe operaia slitta verso i migranti, gli stagionali, i lavoratori della logistica: quelli che la lega cerca di escludere e respingere.

    Perché diventi classe operaia indipendentemente dal colore della tua tuta o dalla lingua che parli. Sei working class quando stai in fondo e lavori senza sfruttare, quando sei sfruttato e oppresso e lotti per i diritti dei tuoi pari.
    E nell’etica working class, devi essere solidale invece che competitivo. Altruista invece che meritocratico.
    E devi astenerti dalle elezioni, piuttosto che andare a votare due quattrinai.

    Al progetto di diluire la classe operaia col solvente del razzismo, rispondere col catalizzatore del conflitto di classe.

  21. Scusate, c’è un punto nella parte finale del testo di Valentina, e poi nei commenti, che non mi torna. L’idea di feticcio. Un conto è ridimensionare la fetta di working class che ha votato per Trump, e connotarla secondo categorie etniche e di genere e anagrafiche (sebbene le donne bianche non hanno seguito la tendenza di genere) e di reddito (ma anche qui, Trump del terzo più povero ha preso oltre il 40%); e un conto è se non ho capito male, dire che non è una classe. In realtà all’inizio del punto 4 Valentina dice che c’è un elemento di verità nel parlare di working class (wwc come nell’articolo che poi mi ha fatto pensare), ma prima di concludere c’è questo riferimento alla comunità, al mito delle origini, che negherebbe poi la classe. Nel complesso è più corretto parlare di comunità, ma questo solo perché le persone si percepiscono assieme così, ma nello specifico c’è una fetta che è working class in toto, e mi pare che vi si opponga un altro feticcio di classe, inclusiva e solidale, fatta dai futuri migranti. E mi riferisco al commento di Alberto. Il conflitto di classe lo hanno espresso i wwc, e tra l’altro il loro odio anti-intellettuale mi pare ben ricambiato. Ma forse il conflitto di classe non esclude il non sentirsi solidali affatto con altre persone che ambiscono alla tua condizione. Io non penso che questo sia opera del capitalismo, ma non ha importanza in questo caso. E non penso che si possa dire che c’è un’etica working class che ti esclude da questa classe se non la rispetti. La comunità bianca perde privilegio e cerca di difenderlo, ma lo stesso penso che faranno le future comunità.

    https://hbr.org/2016/11/what-so-many-people-dont-get-about-the-u-s-working-class?utm_content=buffer50227&utm_medium=social&utm_source=facebook.com&utm_campaign=buffer

    • Il feticcio è l’immagine povera, piatta, monocromatica e obsoleta (anzi, da noi sarebbe obsoleta, negli USA è del tutto mitica) di working class che ci hanno propinato molti commentatori e che sta alla base della propaganda populista e dell’alt-right. In pratica si riduce quasi solo alla lower middle class bianca di provincia. Questo è il feticcio.
      Valentina non dipinge affatto la working class reale come “inclusiva”, se con questo intendi solidale. Al contrario, la descrive com’è: divisa, segmentata dalle etnicizzazioni, indebolita dalle ripetute sconfitte nella guerra tra poveri. Ma è la working class reale: bianca, nera, latina, asiatica e quant’altro, in gran parte urbana ma non solo. Non si può sostituirla con un comodo surrogato monoetnico, scambiandola per il ceto medio bianco che anzi vorrebbe starne il più lontano possibile. Chi cade in un simile abbaglio, è destinato a finire dall’altra parte della barricata, e a guardare con disprezzo le lotte reali della working class reale, che sono anche lotte contro il razzismo che essa subisce.

    • Quale conflitto di classe avrebbe espresso quella parte di wwc di cui parliamo, votando Trump? Un *miliardario* fascista, che ce l’ha coi negri, coi froci, con le donne, coi poveri, coi parassiti, con le zecche rosse, come un tuiach qualunque? Al massimo avrà espresso un rancore sociale vissuto privatamente. Un esercito di Olindi e Rose.

  22. Concordo pienamente sulla “feticciosità” del richiamo alla working class sbandierato dai sostenitori e dagli apologeti di Trump. Vorrei fare una considerazione a latere, forse un po’ off-topic, in merito a un’obiezione che sento spesso, poco fa espressa addirittura da Renzi (in merito al muro).

    Il discorso di cui parlo fa più o meno così: “E quindi? Anche Obama ha deportato tre milioni di messicani, il muro copre già un terzo del confine col Messico, ci sono gruppi paramilitari che lo pattugliano da tempo…” Il discorso enumera fatti veri. Altri fatti veri: Sala chiede più esercito per le strade (già onnipresente nelle nostre città), ci sono le torrette di guardia nei parcheggi dei supermercati, i rastrellamenti nelle stazioni, migliaia di morti nel Mediterraneo, deportazioni, campi di concentramento e detenzione dei migranti, ci sono le leggi speciali in Francia, c’è un’ossessione per la sicurezza in tutti gli aspetti delle nostre vite. L’elenco potrebbe continuare a lungo.
    Quindi il discorso conclude: “Sbagliamo a scandalizzarci di Trump, siamo ipocriti, i governi “non-così-tanto-socialdemocratici” FANNO GIÀ le cose che Trump ha promesso in campagna elettorale, così come Salvini “promette” cose che l’unione europea FA GIÀ da molti anni. Che cosa cambia ora con la vittoria di Trump?”
    Il discorso a volte prosegue: “Forse è meglio così, che il fascismo sia venuto allo scoperto, che non questo eterno fascismo nascosto da tecnocrazia, da “accoglienza”, da gestione dello status quo GIÀ fascista per molti aspetti.”
    Che cosa obiettare a questo discorso? C’è qualcosa da obiettare? È un discorso falso? Non lo so.
    Non conosco così bene la congiuntura americana ma penso che sia vero che Trump abbia vinto anche perché il mondo era già su quella strada da molto tempo. Penso che la sua vittoria si tratti di una consolidazione di un fascismo che era già in costruzione. Un altro gradino di un lungo percorso. Sono moderatamente pessimista al solito. C’è dell’ipocrisia nel nostro sconcerto per la vittoria di Trump? Partecipavamo già a società fasciste? Mi sembra che le nostre istituzioni per sopravvivere alla crisi globale economica ed ecologica siano quasi ovunque sulla strada della fascistizzazione, perché il totalitarismo è più efficace nel gestire le crisi. Non penso che possiamo più permetterci la socialdemocrazia, ecologicamente, economicamente, è uno spreco, e non abbiamo più risorse. Questo penso che in fondo lo sappiano quasi tutti. Le classi dirigenti lo sanno e stanno dirigendo in quella direzione, e la vittoria di Trump è un prodotto delle classi dirigenti e agiate. Anche la “classe media” americana globalmente intesa è come una classe dirigente. Ma lo sa anche la “working class”. Però non riusciamo a dirigerci verso un’alternativa al totalitarismo fascista che viene, che verrà più allo scoperto pure da noi, magari presto, dopo un fallimentare governo grillino, con un governo Salvini o chi per lui. Avrà poco senso allora scandalizzarsi, se non ci siamo scandalizzati tanto fino ad allora, per le migliaia di morti già prodotte ORA dalla nostra società.

    Non credo all’escatologia ottimista progressista. Penso sia vero che larghe fette della working class americana si siano astenute, per non parlare di quelle che proprio non hanno potuto partecipare al voto. Ma che cosa stiamo facendo effettivamente, a parte “non partecipare” alla deriva fascista delle nostre società, guardando la deriva come spettatori, come se non ci riguardasse? Altre e altri qui sicuramente di più, io, lo ammetto, molto poco.

    • Io chiedo scusa davvero, ma questa cosa mi fa impazzire. Sala chiede più esercito, l’ossessione della sicurezza. Ma per te è normale che a milano ci siano degli spacciatori che si ammazzano per strada? Le gang? Io vorrei capire che problema hanno le persone di sinistra su questo fatto.

      • Alla Bolognina – il quartiere dove vivo – c’è la camionetta dell’esercito che fa la ronda di notte. L’hanno piazzata lì l’anno scorso dopo mesi di campagna martellante del Resto del Carlino, di isteria sul “degrado” e quant’altro.

        Alla Bolognina c’è una quota di spaccio assolutamente fisiologica, che si può trovare tale e quale in altre zone della città, ma altrove non si registra una campagna securitaria e spaventogena come quella che ha avuto a lungo per oggetto questo quartiere. Perché?

        La mia risposta è questa: da anni i potentati immobiliari e del cemento cercano di avviare la gentrificazione della Bolognina, ma non ci riescono. Vorrebbero alzare i prezzi, gli affitti, infighettire, demolire, costruire palazzi di appartamenti di lusso, allontanare i poveri. La nuova stazione AV, che dà le spalle al centro e si affaccia sulla Bolognina, doveva essere il “volano” di grandi speculazioni, assieme alla nuova faraonica, orrenda, energivora sede del Comune, in via Fioravanti. Ma alcuni progetti immobiliari si sono bloccati, le ditte sono fallite, ed è ammissione recentissima dei vertici di RFI che la nuova stazione AV è un fallimento su tutta la linea. Un’opera inutile, sottoutilizzata, dispendiosa, cupa, che per ora non fa da “volano” a niente.

        Qual è stato il principale ostacolo alla gentrificazione, quello che mi permette ancora di vivere in un quartiere popolare, sgarrupato e interessante, e soprattutto permette di viverci a molte persone di reddito basso?

        È stato il “degrado”.

        Perché in realtà, per il Carlino e non solo, “degrado” è il fatto che la Bolognina sia il quartiere più multietnico di Bologna. Nel quartiere sono state censite 42 diverse nazionalità. Prima era un quartiere di operai e ferrovieri: è dietro la stazione, e c’erano molte grandi fabbriche (le Officine Minganti, la Casaralta ecc.). È stato un quartiere di guerra partigiana (la famosa “Battaglia della Bolognina”). Ora le fabbriche sono abbandonate o riconvertite, e *quegli* operai non ci sono più, ma resta un quartiere proletario, grazie a quei migranti che – per fortuna – proprio non si riesce a far sloggiare.

        La camionetta dell’esercito è servita a qualcosa? No. Passa tutte le sere più volte in via Franco Bolognese, accanto al capannello degli spacciatori, svolta l’angolo e rifà il suo inutile giro. Metterla è stata una mossa puramente mediatica, propagandistica.

        Nonostante la propaganda, per ora la gentrificazione è ferma, e il quartiere continua a vivere e respirare, con le sue famiglie di migranti che verso sera riempiono Piazza dell’Unità, il parco dell’ex-sede ATC, i giardini Guido Rossa, il parco di Villa Angeletti… E sì, ci sono gli spacciatori. Anch’io preferirei non ci fossero. Ma, come s’è visto, non è stato l’esercito a toglierli di lì, né sarà mai alcuna politica securitaria. Perché il fine di una politica securitaria, e di qualunque discorso sul “decoro”, non è risolvere i problemi, ma esacerbarli, per poi gentrificare.

        • a proposito di “militarizzazione” delle città:alcuni dati- La chiamano operazione strade sicure. Se in un primo momento era previsto un contingente non superiore alle 3000 unità tra proroghe e tanto altro si è arrivati a ben 7050 unità impiegate su tutto il territorio nazionale. Cosa presidiano? “Il controllo e sicurezza dell’area centrale della città dell’Aquila colpita dal terremoto del 2009, la sicurezza dei cantieri dei treni ad alta velocità (TAV) in Torino e Val Susa, l’intervento in Campania per pattugliare e sorvegliare le aree della cosiddetta “terra dei fuochi” per prevenire e reprimere i reati ambientali, l’importante dispositivo che ha fattivamente contribuito alla sicurezza e la sorveglianza dell’EXPO 2015 a Milano. Di rilievo, infine, in occasione del Giubileo della Misericordia, oltre 1500 militari, impiegati su tutto il territorio nazionale e prevalentemente su Roma, garantiscono la sicurezza dei siti giubilari, anche per mezzo di un potenziamento dedicato del dispositivo di Difesa aerea a cura dell’Aeronautica”.

          Dunque si va ben oltre il concetto di strade sicure, come insegna la vicenda della questione della TAV e quanto conferma ora il caso di Bologna. E si tratta di missioni che ogni anno vengono puntualmente prorogate, l’ultima è in scadenza fine dicembre 2016. Insomma, se l’Italia non è un territorio da guerra, è sicuramente abbastanza militarizzato, questo è poco ma sicuro. Poi che questa militarizzazione sia funzionale alla propaganda è assolutamente vero. Ricordo quando qui nel Confine Orientale venne comunicato alla grande che il territorio, per la questione migranti, sarebbe stato presidiato da….una ventina di militari. Non li ha visti nessuno, salvo quando è venuto Salvini, e poi di nuovo, chi li ha visti?

      • Per me non è normale che esista l’esercito, figuriamoci nelle strade a fare “ordine pubblico”. O meglio, come ammettono persino i fautori per “aumentare la percezione di sicurezza”.
        Aumentare. La percezione. Di sicurezza.
        A te fanno impazzire gli spacciatori, a me invece fa impazzire questa frase.
        Per il resto ti ha risposto bene WM1, oltre a quello non fanno quasi niente. A volte nelle stazioni puntano il mitra su chi non ha il biglietto, di supporto ai controllori. A volte, forse per noia, pensano di essere loro i controllori. Ma è tutta percezione.

        • A me non fanno impazzire gli spacciatori, mi fanno impazzire quelli come te di sinistra, che hanno un’idea distorta della realtà e credono che il controllo e la gestione della forza sia il problema, perché altrimenti le persone vivrebbero d’amore e d’accordo. E con questa miopia sulla natura umana e sulla storia neanche riescono ad ammettere che no, la presenza di spacciatori violenti è un problema. No, per carità, il problema sono sempre gli sbirri e il fascismo. Peccato

          • Io ti ho descritto una situazione molto concreta che vivo tutti i giorni, dandoti gli elementi basilari per inquadrarla. Tu invece fai discorsi astratti sulla natura umana e vai avanti a colpi di «voi di sinistra» ecc.

            • Io ho premesso da subito che è una mia questione personale che mi fa impazzire, OT anche. Non ho risposto al tuo commento, non so neanche se sia il caso di discuterne. Sono d’accordo su molto, non su tutto. Vado avanti a colpi di voi di sinistra perché non vedo altro modo di definire la questione. Tutte le persone di sinistra che conosco su questa questione la pensano così, non sto facendo il provocatore. per me questo è un mistero, e penso che sia proprio una tara ideologica e un problema. Tanto le persone di destra sono ossessionate dall’ordine e dal degrado, tanto lo sono quelle di sinistra in senso opposto. Il centro del mio intervento non è la situazione concreta da te descritta, è capire come è possibile che certe persone non ce la facciano o non lo credano, che spacciatori armati in città non ci devono stare. Poi si può discutere su quale sia il modo migliore per ottenere questo risultato. Io parlando con le persone di sinistra ho la sensazione che questo non sia l’obiettivo. E la cosa non è poi nemmeno così astratta, perché si può dire tutto il male possibile della risposta di destra, ma almeno è una risposta. A sinistra pare che vada bene così. capisco che possa non essere interessante e ot, ma a me questo è venuto in mente e per questo ho commentato.

              • Spacciatori armati in città non ci dovrebbero stare, ma la retorica securitaria, le opzioni “militariste” e il giornalismo-spazzatura che le richiede a gran voce non risolvono il problema. Non solo non risolvono il problema, ma hanno proprio altre finalità. Sono “non-risposte” e chi le porta avanti – sindaci sceriffi, editorialisti aizzapogrom, comitati di sedicenti cittadini esasperati – sta prendendo tutti per il culo. Fine dell’OT.

              • Secondo me in città non ci deve stare nessuno di armato ma neanche in campagna. Oppure tutte e tutti armati.
                Forse è meglio la seconda ipotesi, però tutte tutti, anche i bambini! Pum Pum! Sarei d’accordo, seriamente, lo vedi che non tutti noi di sinistra la pensiamo come dici? Il problema politico per me anzi è la difficoltà nel reperire e possedere facilmente armi da fuoco che c’è in Italia oggi. Troppa burocrazia, troppa tracciabilità. Ci vorrebbe un po’ di sana liberalizzazione. Devo poter sparare anche io, devo andare anche io a prendere i mezzi col mitra, se c’è uno col mitra alla stazione che mi squadra, se gli gira mi perquisisce, e perché no, mi spara, perché no! Altrimenti mi sento una pecora, detto col massimo rispetto delle pecore, anche loro, purtroppo, disarmate.

  23. “Quella che ha spinto alla vittoria prima la Brexit e oggi Trump è un feticcio di working class: depurata di ogni diversità, non inclusiva ma esclusiva, fondata non su un comune ideale di solidarietà ma sulla comune appartenenza razziale”

    Se è un feticcio, esclusiva e basata su appartenenza razziale, vuol dire che quella vera è inclusiva e solidale. In questo passo io leggo ciò. Per questo non mi pare buono il termine feticcio, o sto capendo male. E non mi pare corretto ridurla alla middle class. Sono la stessa cosa. Working class che sta meglio di altre working class, non rappresentativa di tutti, ma reale tanto quanto le altre. Trump l’ha agitata come un feticcio, e i commentatori la prendono come unica esistente, e su questo sono d’accordo. Questo non porta a dire ovviamente se i proletari votano Trump diventiamo tutti Trump. Porta a dire che c’è un pezzo di working class che o non si può includere nella propria lotta o forse sì, ma con quelle che sembrano contraddizioni. Anche perché se sono l’espressione di un privilegio perché dovrebbero sentirsi parte di tutta la working class?

    @ tuco, non lo, io non sono per usare le categorie di classe, ma se le usiamo non si possono poi stabilire sempre arbitrariamente quali sono conflitti di classe e quali rancori sociali privati perché non ci piacciono. Quello anti-intellettuale è un conflitto di classe. Quelli che riguadano le questioni di genere no, ma quello contro gli stranieri per esempio, il nodo principale, visto anche il commento di Wuming1 esteso sul razzismo, mi pare che oscilli da un polo all’altro e che non sia tutto razzismo. O meglio tendo a pensare, con tutti i dubbi del caso. Voi la riconducete al razzismo borghese o alla guerra fra poveri indirizzata dall’alto. Io, per questo il riferimento al commento di Alberto, penso che sei working class anche se non lotti per i tuoi pari, ma per quelli che riconosci come tuoi simili, pensando che non ci sono risorse per tutti e con la mentalità meritocratica.

    • La questione di genere è *anche* questione di classe dal momento che la divisione del lavoro avviene anche in base al genere e che mediamente le donne sono pagate meno degli uomini per fare lo stesso lavoro (per non parlare del lavoro domestico, che nemmeno viene riconoscito come lavoro). Che il conflitto anti-intellettuale sia conflitto di classe è una cazzata che non merita di essere commentata. Conflitto di classe sarebbe la lotta per l’accesso all’educazione superiore e universitaria per tutt*. Il disprezzo per chi legge dei libri invece è un atteggiamento fascista.

  24. «Se è un feticcio, esclusiva e basata su appartenenza razziale, vuol dire che quella vera è inclusiva e solidale. In questo passo io leggo ciò.»

    Mah, io, sinceramente, no. Un feticcio sostituisce simbolicamente qualcosa, *sta per* qualcosa, e il feticcio descritto da Valentina sostituisce, nei discorsi populisti e destrorsi, la working class.

    Poniamo che sia come dici tu: chiunque ha un lavoro e non sia ricco è working class. Nessuna considerazione minimente rigorosa sulla working class – storica, sociologica, antropologica, economica – ha mai esteso il concetto in questo modo, ma mettiamo che sia così.
    In questo caso, anziché una sostituzione simbolica, avremmo una sineddoche. La parte per il tutto. Si starebbe spacciando una parte di working class, perimetrata su base razziale ed esclusiva, per tutta la working class. Tu, mi sembra di capire, opti per questa descrizione. Noi invece diciamo proprio che quella là non è working class.

    In ogni caso, nessuna di queste due considerazioni implica che il resto della working class sia allo stato attuale inclusiva e solidale. Tant’è che Valentina non la descrive così. Anche quello sarebbe un mito, un feticcio. Se la pensassimo in questo modo, non staremmo a interrogarci da anni, da decenni, sulla “ricomposizione di classe”. Il problema storico è proprio che la classe è divisa. Mica per caso parliamo di “guerra tra poveri”.

    Quel che Valentina sta dicendo è che un’identità perimetrata su base razziale ed esclusiva non è un’identità di classe. E su questo mi sembra non ci piova. Quando quella gente si descrive come “working class”, sta facendo un transfert. Consapevole o meno, sta occupando aggressivamente una casella dell’ordine simbolico affinché non venga occupata da altri. Altri che, guardacaso, sono neri, latinos, pakistani, mediorientali. Lavoratori che sono *senza dubbio* working class. E che, come ricorda Valentina, sono i protagonisti delle lotte più significative nel mondo del lavoro degli ultimi anni: quelle per il salario minimo di 15 dollari, quelle contro WalMart ecc.

    Anche da noi, se c’è una cosa che le lotte nella logistica ci stanno insegnando, è che da un pezzo la classe operaia non è più esclusivamente bianca. I protagonisti di scioperi, blocchi, picchetti, cortei della logistica sono in prevalenza nordafricani o dell’Africa subsahariana. E le loro lotte sono tra le più radicali. Invece di guardare al cetomediume rancoroso eroe dei racconti “gentisti”, bisognerebbe guardare alle lotte nella logistica, che hanno molto da insegnare anche ai lavoratori autoctoni. Il razzismo, l’odio per gli immigrati serve proprio a impedire che ciò avvenga.

    • In questo caso, anziché una sostituzione simbolica, avremmo una sineddoche. La parte per il tutto. Si starebbe spacciando una parte di working class, perimetrata su base razziale ed esclusiva, per tutta la working class. Tu, mi sembra di capire, opti per questa descrizione. Noi invece diciamo proprio che quella là non è working class.

      ah, grazie, così ho capito meglio. Volevo usare sineddoche infatti

      • Scusate, rispondo un po’ a spizzichi e mozzichi, ma vi leggo anche da qui.
        @Jackie Brown: io sto dicendo tutte e le due cose.
        Da un lato si delimita una “parte” di working class (quella operaia: i minatori dell’Appalachia, i lavoratori dell’industria lasciati a casa dalla globalizzazione, gli infortunati cronici tra cui gli oppiacei mietono vittime, ecc.): è il meccanismo della sineddoche descritto sopra. In questo modo si escludono dalla categoria tutte le esperienze che in qualche modo non fanno comodo, perché di POC, donne, nuovi lavori, terziario scoppiato, etc., che vengono ovviamente negate e/o denigrate. E questa, così definita, *non* è una working class ma un suo feticcio, perché appunto, non è definita sulla base di una identità sociale, ma su un delirio identitario bianco e su un’immagine molto precisa (non per forza attuale) di ciò che è “lavoro” e ciò che non lo è.
        Dall’altro lato, in questa nuova versione della working class così ri-definita in base a markers razziali e ideologici, si identificano poi anche persone che, reddito alla mano, della classe lavoratrice non ne fanno parte ma che si possono invece ascrivere alla classe media o persino medio-alta, e che si fanno vanto dell’essere “produttivi” e del “pagare le tasse” (come se poi gli “altri” non lavorassero e non contribuissero al bene comune) per giustificare qualsiasi porcheria in difesa del proprio interesse.
        Esempi concreti: se fai l’agente immobiliare, se vendi assicurazioni, se fai il rappresentante commerciale, sicuramente non fai parte della classe dirigente, e nessuno nega che tu possa anche avere delle difficoltà a far quadrare il bilancio familiare; ma *oggettivamente* non fai parte della classe operaia; sei parte di una classe media sempre più indebolita, impoverita e impaurita.
        Quindi non si tratta di usare il concetto di classe solo per le lotte che ci piacciono e di negarlo a quelle ideologicamente avverse: è proprio che tra i “forgotten people” di cui ha parlato Trump c’è finito tutto e il contrario di tutto (cioè WWC e classe media impaurita o delusa), mentre a tante persone che di fatto lavorano ai gradini più bassi dei servizi si vorrebbe negare il diritto di identificarsi come working class, e di conseguenza poter beneficiare di politiche di re-distribuzione (che vengono fatte passare invece come azioni caritatevoli o tutele “parassitarie” — their words, not mine).

        Per l’altra questione: il fatto che questo feticcio ora agitato ad arte sia esclusivo non implica automaticamente che da qualche altra parte ci sia una mitica classe sociale multietnica solidale e arcobaleno. Significa semplicemente che questo feticcio esclude una pluralità di altre esperienze e soggettività, che pure farebbero parte della Working Class a pieno titolo. Purtroppo la frammentarietà delle lotte e la particolarità delle narrazioni sono una funzione del momento di capitalismo avanzato in cui ci troviamo, per cui ben vengano esperienze di intersezionalità, di solidarietà (fra classi, fra provenienze, fra generi, etc) che ci aiutino tutt* a connettere I pezzi del puzzle.

  25. Vorrei inserirmi in questo ampio discorso che spazia da Trump fino alla Bolognina perchè la questione ricorrente del “degrado” come potenziale risorsa è emerso anche venerdi 11 al Vag, in occasione della presentazione dell’ultimo libro di WM1. Abito nel centro di Bologna in un affascinante, fatiscente edificio bohemien nel quartiere San Vitale: per definizione un quartiere degradato e centrale, senza voler gareggiare con la Bolognina. I miei vicini di casa sono tutti stranieri. Con alcuni di loro, i più prossimi, abbiamo iniziato a portare avanti una serie di piccolissime rivendicazioni contro un potente “mafioso” ente di gestione del patrimonio. Gli italiani del quartiere non ne vogliono sapere, per una forma di ipocrita perbenismo per cui fingi che se ti comporti “bene” sarai premiato: la trasformazione meritocratica di una codarda passività. La composizione sociale del quartiere è davvero variegata, spesso in centro però rimangono solo i poveri perchè molte case non hanno quasi i requisiti minimi di abitabilità. Eppure il centro è stato investito di un ruolo di rappresentanza importante: fornire l’immagine rassicurante dell’abbondanza,quella di un grande centro commerciale all’aria aperta così “democraticamente” accessibile. Tutti possono lustrarsi gli occhi. A sfregiare questa bella vetrina, poveri sparsi ovunque, studenti “rompicoglioni” loro malgrado, spacciatori, immigrati. La mia strada negli ultimi tempi ha subito più di un’aggressione fascista, la lapide di un giovanissimo partigiano è stata più volte oltraggiata. Non siamo ancora stati in grado di organizzare una risposta forte. L’atteggiamento che prevale è quello di un IDEOLOGICO ASTENSIONISMO. Uno dei tanti risultati prodotti dalle sinistre di governo. IN ITALIA, COME NEGLI STATI UNITI. E pur non essendo neanch’io “centro-centrica” rimpiango i tempi in cui nella stessa notte, a piedi, ci si poteva spostare da un centro-sociale all’altro, disegnando un piccolo perimetro di resistenza Bolognese all’imperante modello del centro commerciale. E questo dilagante “astensionismo” mi preoccupa. Negli Stati Uniti ed in Italia. Mi piacerebbe che il sentirsi orfani di rappresentanti politici potesse equivalere ad una vera rivelazione.

  26. Innanzitutto grazie per il post molto chiaro (ho diffuso la traduzione francese a tutti i miei colleghi).

    Ieri sera, mi sono imbattuto su raitre su un servizio di “tribuna politics” dalla Magliana.

    (Qui il link, il servizio in questione inizia al minuto 19.52:
    http://www.raiplay.it/video/2016/11/Tribuna-Politics-del-15112016-cff3f3ae-234e-4159-822e-0727cfa9fa7f.html)

    Dopo una rapida introduzione sugli scontri della settimana scorsa [è OT e sono totalmente purtroppo disinformato, ma ci sarebbe molto da dire anche su questa parte], il servizio propone principalmente interviste con gli abitanti del quartiere, per testimoniare della nascita, secondo la giornalista, dei primi “trumpisti italiani”.

    Non vedo dimostrazione migliore di quanto sostenuto nel post: le persone intervistate sono tutte bianche, perlopiù non giovani, nessun giovanissimo. Tra chi si lamenta

  27. [Sorry, è partito invio prima che finissi]

    Non vedo dimostrazione migliore di quanto sostenuto nel post: le persone intervistate sono tutte bianche, perlopiù non giovani, nessun giovanissimo. Tra chi dice di aver avuto la tessera comunista per anni ma di aver votato Meloni alle ultime elezioni, chi dice che ormai la politica è lontana dalla gente, non si occupa dei problemi delle persone. A un certo punto qualcuno si lamenta persino che nel suo condiminio sono 20 italiani e 80 rumeni….

    Ma i rumeni, i bengalesi e tutti questi stranieri di cui si parla, non sono forse abitanti del quartiere? Cos’hanno da dire? Se l’80% degli abitanti di un condiminio è di origine rumena, perché non intervistarne almeno un paio? (O persino 4 su 5, che rispetterebbe le quote reali).

    Ecco, mi sembra che questo servizio sia un esempio molto calzante di questo feticcio di cui parla Valentina.
    Purtroppo (o per fortuna?) non ho guardato tutto il programma, mi è bastato vedere chi erano gli ospiti in studio per capire che era meglio mettere un dvd….

  28. «Trump non fa parte del sistema, è vero. Trump *è* il sistema. La risalita di Wall Street si deve in larga misura al boom dei titoli bancari che hanno fatto registrare picchi da record. Il tycoon newyorkese ha infatti rapporti privilegiati con la maggior parte delle banche statunitensi che lo hanno salvato in varie occasioni dalla bancarotta. La Citibank, la Bankers Trust, la Chase Manhattan Bank e la Manufacturers Hanover Trust Co. (ora sotto il controllo della JPMorgan Chase) si sono accollate gran parte delle perdite dovute agli investimenti sbagliati del magnate agli inizi degli anni ’90, acconsentendo al prestito di 65 milioni di dollari che, come riportato dal «New York Times», ha evitato il fallimento del suo marchio. Inoltre più di 70 banche che avevano crediti nei confronti di Trump hanno optato per concedergli il bailout, pagando tutti i debiti che la sua società aveva creato per un totale di 975 milioni di dollari (Investopedia: This is how Donald Trump actually got rich).

    Ma perché le banche sono così felici per l’elezione di Trump? In primo luogo, il neo presidente USA ha sempre affermato di voler eliminare il Dodd-Frank Act, emendamento varato dalla legislazione Obama che prevede una maggiore regolamentazione degli scambi dell’alta finanza […]»

    Prosegue qui.

  29. Mi riloggo dopo mill’anni per lanciare un po’ di schegge impazzite in varie direzioni, perdonate la prolissità e la confusione.

    1) A proposito di classe e identità.
    *Anche da noi, se c’è una cosa che le lotte nella logistica ci stanno insegnando, è che da un pezzo la classe operaia non è più esclusivamente bianca. I protagonisti di scioperi, blocchi, picchetti, cortei della logistica sono in prevalenza nordafricani*
    Proprio stamane ho sentito per radio Gad Lerner dare un’anticipazione sulla sua prossima trasmissione “Islam, Italia”. Ha raccontato di lavoratori della logistica in sciopero che a un certo punto hanno usato gli striscioni del proprio sindacato di base come tappeti su cui poter effettuare la preghiera. E poi ha aggiunto di trovare un po’ inquietante l'”islamizzazione della lotta di classe”. Ma perché, di grazia? Perché un laico aborre istintivamente la religione? bisogna andare a vedere quanto è “conservatrice”, esattamente come tra i cattolici dovremmo distinguere i Bagnasco dai teologi della liberazione.

    2) Sul sistema elettorale USA e il fatto che Clinton abbia perso pur avendo più voti popolari: concordo, assolutamente NON deve essere questa la narrazione. Come è stato scritto sopra *se ne deve contestare la matrice classista che ne fa una democrazia incompiuta*
    Mi associo a @Eilotes e @Omar Onnis, sempre più spesso sento un pericolosissimo discorso sulla limitazione del suffragio universale, giustificato con “così evitiamo che gli imbecilli votino contro i loro stessi interessi”; al di là del paternalismo, un ottimo modo per uccidere le rivendicazioni fingendo di volerle sostenere. E, purtroppo, spesso mi sembra pure detto in buona fede.
    In ultimo, un sistema che “media pesando” voti assoluti con territorio, potrebbe anche non sembrarmi antidemocratico. Provo a chiarire: l’uso di una maggioranza semplice può essere anche uno strumento per “annacquare” (e reprimere). Esempio: fondere tre Comunità Montane insieme nel tentativo di far diventare minoranza la maggioranza NoTav valsusina. Esempio: gli elettori di Torino, determinanti per le amministrazioni di Regione (e Provincia o Città Metropolitana), detengono un (a mio avviso ingiusto) potere di indirizzo sulla gestione dei territori montani, di cui non conoscono le caratteristiche e disprezzano.

    3) ma chi caspita sarebbero sti “comunisti per trump” (che me li sono persi?)

    4) Su Malcolm X e sul fatto che il razzismo lo può definire solo chi lo subisce. Scusate, ma a me sembra una boiata pazzesca.
    Primo, significa che se sono maschio mi devo sentire automaticamente in colpa nei confronti di una donna (se portato al femminismo anziché al razzismo). Il che, uno, è ingiusto a livello personale verso chi vuole lottare contro se stesso, e, due, offre la sponda a tutto quel filone che parla di femminismo come sessismo al contrario e di “liberazione dei maschi”, citando statistiche anche vere (es. che potrei sbagliare, sul tasso di suicidi).
    Secondo, una lotta che si presenta come esclusiva, a me pare un errore tattico.
    Terzo, in altro commento si diceva ad esempio “forse che comunità LGBT non appartiene anche a working class? è il capitalismo che ha bisogno di creare discriminazioni (…) per impedire la ricomposizione di classe”. Mi pare che non solo il capitalismo, ma anche l’approccio identitario di chi lotta abbiano lo stesso effetto deleterio. Per non parlare di quando concentrandosi sulle lotte per i diritti civili individuali si fanno passare in secondo piano quelle di classe.

    5) C’è qualcosa che non torna nella nostra psicologia. Penso che qui siano espresse sensibilità simili, chi più chi meno.
    Ci fa schifo Clinton, poi però la prima reazione all’elezione di Trump, dopo la sorpresa, è la paura?
    “*Non sono “triste” perché ha perso la Clinton; sono incazzata perché ha vinto Trump*”
    Ma qual era il tertium datur? La candidata “verde”? Sanders? Ma allora, posto che le recriminazioni le abbiamo già espresse mesi fa, almeno non avremmo dovuto farci cogliere “di sorpresa” dal risultato di adesso.
    S’è detto che è stato determinante l’astensionismo. Ma anche che la working class s’è stufata sia di votare per il meno peggio, sia del “tanto peggio, tanto meglio”. Quello che ne consegue mi pare inevitabile, purtroppo, e vedo poche alternative… scusate se chiudo con questa nota di pessimismo :P.

    • Ciao Talpa, qual “buon” vento! :-)

      Un paio di notazioni.

      «Almeno non avremmo dovuto farci cogliere “di sorpresa” dal risultato di adesso»
      Valentina nel post dice proprio di *non* essersi sorpresa, e noi con lei. Si può essere incazzati per qualcosa anche se non sorprende, anzi! Si può essere incazzati per qualcosa anche se faceva schifo pure l’alternativa. Si può essere incazzati per il modo distorto in cui viene narrato un esito prevedibile. Si può essere incazzati – anzi, si *deve* esserlo, a condizione che sia un’incazzatura lucida e “diluita” e non uno scoppio di rabbia che obnubila – per lo stato delle cose.

      I «comunisti per Trump», quelli secondo cui Trump spazzerà via i potenti della finanza (come no!) e porrà fine all’imperialismo americano (bum!), si trovano in abbondanza tra gli stalinisti allo sbando e orfani di tutto, quelli che ormai si aggrappano a ogni finta alternativa, a ogni falsa soluzione, a ogni immaginario autoritario che gli capita a tiro, soprattutto se ha l’appoggio di Putin. Sono filo-Trump per derivazione, perché sono fan di Putin (e di Assad, di Kim Jong Un, della nuova star Duterte, anche di al-Sisi…) Hanno un pensiero manicheo: o con Tizio o con Caio! Meglio Tizio di Caio! Per sconfiggere Tizio bisogna per forza stare con Caio! Accettano in toto lo stato di cose presenti, insistono sulle sue contraddizioni più superficiali, si schierano negli scontri puramente spettacolari che il sistema propone. Viva Caio! Anche se (soprattutto se?) Caio è un pezzo di merda, nulla più che l’esponente di una cosca diversa nella mafia capitalista planetaria. Tatticismi, finta “realpolitik”, disponibilità alle più spregiudicate piroette retoriche per descrivere come «nemici dell’imperialismo» i più improbabili personaggi… Adesso si trovano in una situazione difficile: tifare per l’imperialismo americano contro l’imperialismo americano. Ma vedrai che troveranno il modo.

      Alcuni di costoro sono già tout court rossobruni (termine che li fa incazzare moltissimo), nel senso che i loro discorsi sono ormai indistinguibili da quelli dei fascisti di varie provenienze. E infatti spesso combattono – nella virtualità, s’intende – le stesse identiche battaglie, e *sempre* tifano per gli stessi novelli «uomini della Provvidenza». Convergenza che avvera in parte la vecchia profezia di Otto Rülhe in Fascismo bruno e fascismo rosso, che poteva apparire iperbolica all’epoca (o lo era proprio) ma individuava una tendenza, e a scanso di equivoci non c’entra nulla con l’odierno discorso liberal-qualunquista sul «fascismo degli antifascisti».

      Altri – forse la maggioranza – non sono rossobruni ma sono pesantemente “in denial”, rimuovono il problema, rimuovono quel rischio, mentre si abboffano di neosovranismi, patriottismi, populismi e/o logica del «nemico del mio nemico che è mio amico» (o quantomeno un conoscente che stimo molto).

      • Car*,
        vorrei rispondere alla questione delle alternative, che in modo diverso è sollevata sia da @Talpa che da @diserzione. È una questione fondamentale, soprattutto perché il senso della discussione è individuare vie alternative; e, parlando dell’Italia o dell’Europa, trovare delle strade percorribili che non siano dentro la (falsa) equivalenza tra capitalismo oligarchico liberale e miti razzisti delle origini. Alla Disneyland del capitale postmoderno si è sostituita la distopia generalizzata e diffusa, ma siamo ancora pienamente dentro al paradigma TINA = There is no alternative.
        Ed è per questo che, a mio avviso, Trump non rappresenta la fine del neo-liberismo ma la sua logica conclusione—come dimostrano anche gli utilissimi dati su banche e mercati finanziari riportati in diversi commenti qui sopra. Il capitale difende e protegge se stesso; e lo fa con particolare ferocia di fronte alla crisi (ecologica, strutturale, economica) che ci attende.

        Lo so che detta così fa molto retorica alla Pollyanna, ma credo che costruire un’alternativa sia una responsabilità di tutt* attraverso il lavoro politico quotidiano. @Talpa ha scritto che tertium non datur: effettivamente no, il giorno delle elezioni non si dà una terza via. Ma, come i frequentatori di queste pagine sanno meglio di me, la politica non si esaurisce all’espressione elettorale – la logica di chi dice altrimenti è frutto della stessa visione a tunnel che ci è stata propinata fino alla nausea.

        Non per questo possiamo sposare la logica del ‘tanto meglio tanto peggio’. In questi giorni mi ha molto colpito la reazione degli attivisti per Bernie che ho conosciuto in questi due anni e mezzo. (Si tratta di aneddoti, chiaro: non ho pretesa di conoscere chiunque). Parlo di gente che per HRC ha un odio viscerale e profondo, e mica per la fuffa che si leggeva sui tabloid, ma per motivi ben chiari (per fare un esempio: basta pensare al suo ruolo nel golpe honduregno). Gente che ha passato mesi a sostenere la piattaforma Sanders, e non per forza persone privilegiate economicamente o socialmente! Eppure chi era veramente attivo in movimenti di massa (BLM, le varie Occupy, ecc.) non ha *affatto* gioito per l’elezione di Trump. Al contrario: sono già lì che srotolano gli striscioni (per la verità non li avevano mai riarrotolati), che organizzano e prenotano pullman per Washington City, che marciano nelle città, che cercano di riprendersi la DNC (non a caso!), che cercano più ‘scudi umani’ per Planned Parenthood, che raccolgono coperte per i rifugiati, eccetera (e si noti che parlo di una pluralità di soggetti, di forme, di lotte e di azioni di resistenza).
        Ecco, è la loro risposta a dirmi che il “tanto meglio, tanto peggio” è un atteggiamento da privilegiati—da parte di chi, in fondo, non subirà a fondo le conseguenze dell’orrore. Quella che a prima vista potrebbe sembrare un’indignazione politica puramente astratta e retorica, rischia, insomma, di diventare una forma di complicità se non facciamo attenzione….

        PS. @Talpa. Per quel che può contare, io non mi sono stupita per niente! Speravo di non apparire condiscendente, ma la lunga descrizione che faccio della desolazione dell’Upstate NY sta anche a dimostrare quanto mi aspettassi questo risultato elettorale (e invece che dell’Upstate NY avrei potuto parlare dell’Ohio centrale e rurale, in cui ho passato parecchio tempo l’anno scorso; le conclusioni non sarebbero state diverse). Del resto anch’io ho vissuto sotto tre governi Berlusconi e per di più ho abitato a Toronto ai tempi di Rob Ford buonanima (il “mitico” sindaco miliardario ma ggentista, che difendeva la legge e l’ordine e fu poi immortalato nell’atto di fumare crack): ho imparato a riconoscere certi sintomi :-). Ho passato l’ultimo anno a cazziare (cominciando da dentro casa mia…) chi prendeva sottogamba la minaccia Trump, e a ripetere come un disco rotto, “I democratici perderanno le elezioni perché la Clinton ha dovuto vincere le primarie a tutti i costi.” Ma il senso del mio intervento non è quello di “fare i fenomeni” perché ci avevamo preso, è quello di arginare certe letture identitarie—anche e soprattutto per il danno che possono fare a sinistra.

    • con tutto il rispetto per i teologi della liberazione, è un dato di fatto che dal ‘700 in poi tutti i progressi sociali ottenuti nelle nostre sicuramente imperfette società sono stati ottenuti a prescindere dalla religione (se non contro di essa), non certo grazie alla religione (qualunque religione sia)
      Sono “laicista”, lo ammetto e il fatto che non si possa prescindere dall’appartenenza religiosa anche durante una lotta sindacale mi turba come mi turba il fatto che quando Obama se ne sarà andato l’unico leader mondiale che almeno sull’immigrazione dice cose sensate e vagamente “progressiste” sarà Bergoglio (conservatore su altri temi, come tutti i Papi). Scusate l’OT

      • Scusa, ma quindi la lotta è una cattiva lotta perché gli operai credenti pregano? Se pregano bisogna annullare il presidio, sciogliere il picchetto? Si organizza uno sciopero solo se si ha la garanzia che tutti i lavoratori siano atei? La maggior parte delle lotte a livello planetario non si sarebbe mai fatta, con una simile esclusione a monte. Si sarebbero fatte ben poche conquiste. Per rimanere alle lotte nella logistica, non sarebbero nemmeno mai partite, e lo sfruttamento in quel settore non avrebbe incontrato alcun ostacolo.
        È sbagliato porre le questioni in modo astratto. E ostacola qualunque ricomposizione di classe.

        Aggiungo che senza il cattolicesimo di base, progressista e pacifista, anche la lotta No Tav in Val di Susa sarebbe stata diversa. Quello è, da più di un quarto di secolo, un rapporto virtuoso tra religiosità e lotta. Nel mio libro ho provato a spiegarlo, a interrogare e interrogarmi su questo.

  30. non ho mai pensato di escludere i credenti dalle lotte sindacali, sarebbe assurdo. Mi sono espresso male. Chiedo scusa

  31. Secondo me è un grave errore ridurre quelli che definite “comunisti per Trump” agli “stalinisti allo sbando e orfani di tutto”, sia perché non è vero e non rispecchia la complessità e l’articolazione delle posizioni, sia perché, demonizzando in toto una parte, non si ottiene che l’effetto di spingerla verso posizioni che magari non condivide, o che potrebbe comprendere essere errate.

    Personalmente mi ha molto stupito che al livore riservato da alcuni alla Banda bassotti, o ad altri settori, non corrisponda un atteggiamento dello stesso tipo verso chi condivide più o meno le stesse posizioni ma proviene da una formazione trotzkista. Credo che, se si ritiene di combattere una posizione, la si debba combattere da qualsiasi parte provenga, non a senso unico. E i trotzkisti per Trump, o per Assad, o filo-populisti in generale, abbondano, basta fare un giro su alcuni social network per rendersene conto…

    Penso che si sia sbagliato il metodo nell’impostare il dibattito e che ciò non prescinda da una certa superficilità nell’affrontare alcuni discorsi. Per quanto mi riguarda, preferisco “smontare” le posizioni che non condivido, non demonizzarle, perché, comunque, essere su posizioni diverse non mi fa dimenticare il rispetto che nutro verso alcuni che le esprimono (siano essi “trotzkisti”, “stalinisti”, o altro), né mi fa scordare che quella gente spesso è stata al mio fianco nel cammino degli ultimi anni, anche se poi quella strada ci ha portato in luoghi molto diversi.

    Nel merito: il post di Valentina è molto bello e mi sento di condividerlo completamente. Nel dibattito che ne è seguito però, un po’ vi siete incartati, e non state aprendo ad altre considerazioni, e ad altre statistiche, che possono dare una visione più ampia di quanto sta avvenendo, sia negli Stati uniti, sia qui da noi.

    Cerco di citare alcuni dati, sperando che possano essere utili alla discussione:

    – Negli Stati uniti il fallimento del neoliberismo è un dato conclamato: le parole con le quali Alan Greenspan, l’ex presidente della Federal reserve, ammetteva, dinanzi a una commissione parlamentare d’inchiesta, di aver riscontrato degli errori nell’ideologia che guidava le sue azioni, sono rimbalzate in tutte le case. Lo stesso non è avvenuto in Europa, e particolarmente in Italia, dove la stampa e la tv non hanno dato grande risalto a quanto avveniva negli Usa nell’ottobre del 2008.

    – Alla certificazione del fallimento del neoliberismo si è aggiunta una mutata percezione degli statunitensi rispetto alla classe sociale di appartenenza: prima della crisi più del 60% degli americani riteneva di appartenere alla classe media o alla “upper-middle class”, questa percentuale è scesa nel 2015 al 51%.

    Prima della crisi, coloro che pensavano di appartenere alla working class o alle classi basse, erano appena il 37%, nel 2015 sono saliti al 48%.

    Tra il 2000 e il 2015 quelli che pensano di appartenere alle classi basse sono saliti dal 3 al 15 percento, mentre coloro che ritengono di appartenere all’upper class scendono dal 3 all’1 percento.

    La classe che più si assottiglia, quella dove si registrano gli scostamenti più significativi, è la middle class, che passa dal 48% registrato nel 2000 al 38% registrato nel 2015.

    – Secondo lo storico Dror Wahrman la “classe media” non è altro che un artifizio retorico inventato in Gran Bretagna negli anni ’20 dell’Ottocento dai politici whig. In altri termini è una fortunata narrazione che ha permesso ai politici centristi di legare a se un elettorato piuttosto eterogeneo che, senza quella descrizione, priva di alcuna valenza dal punto di vista dell’analisi sociale, si sarebbe disperso verso altri settori politici.

    Questa narrazione, che negli Stati uniti è particolarmente forte, è stata devastata dalla crisi economica e dalle conseguenti difficoltà di accesso al credito, che non hanno più consentito a coloro che ritenevano di far parte della classe media di consumare quei beni e quei servizi che contribuivano in maniera determinante a farli identificare in quell’aggregato sociale.

    – A questo scivolamento verso il basso nella struttura sociale non è corrisposto uno spostamento a destra di quei settori della popolazione, come è ben dimostrato nel post che stiamo commentando.

    Se si paragonano gli exit poll di quest’anno con quelli degli anni passati si nota che Trump non ha sfondato in nessun settore sociale, semplicemente è riuscito a convincere più gente, tra coloro che già votavano repubblicano, ad andare a votare, rispetto a quanto sia riuscita a fare Clinton con i democratici.

    Quello che emerge con più forza dai dati è una sostanziale sconfitta di Clinton, che non ha avuto nessuna attrattiva verso una popolazione impoverita. Una popolazione che, non avendo a disposizione vie d’uscita a sinistra, si astiene, piuttosto che votare per candidati ritenuti entrambi “impresentabili”.

    – Questo dato non ha connotati razziali, ma, anzi, paragonando i dati di quattro anni fa con quelli attuali, ci si accorge che l’astensione è cresciuta tra i bianchi più che tra le minoranze, quindi, anche il mito della working class bianca che vota Trump è, appunto, solo un mito. Coloro che tra la working class hanno votato Trump, sono coloro che tradizionalmente votano repubblicano. Trump non è riuscito a conquistare nuovi elettori in questa fascia di popolazione, e la sua narrazione potrà avere presa sulla working class solo se a sinistra non si sapranno proporre politiche radicali per uscire dalla crisi.

    – Anche in Italia, negli anni immediatamente seguenti alla crisi, è cambiata la percezione rispetto alla classe di appartenenza: nel 2006, cioè prima della crisi, circa il 60% degli italiani riteneva di appartenere alla classe media, una percentuale scesa nel 2016 al 39%. Viceversa, sempre nel 2006, solo il 28% degli italiani riteneva di appartenere alle classi basse, una percentuale salita nel 2016 al 54%.

    – A differenza che negli Stati uniti, in Italia non si imputa la crisi economica al fallimento delle politiche neoliberiste, anzi, il neoliberismo stesso è stato espunto dal dibattito politico italiano. Molti italiani sono convinti che la crisi sia una conseguenza dell’ingresso nell’Unione europea e, in particolare, dell’introduzione dell’euro.

    Il 40,1% degli italiani pensa che si debba uscire dall’Euro e, tra questi, ben il 55,5% è convinto che l’euro abbia indebolito la nostra economia (dati del 2015).

    Questo dato può essere ricondotto a una critica del neoliberismo solo tramite una forzatura. Evidenzia invece una narrazione tossica diffusa dai governi, sia di centrodestra, sia di centrosinistra, negli ultimi anni: la colpa della crisi non è attribuibile alle loro politiche economiche disastrose ma alle imposizioni dell’Unione europea. Una narrazione che dal berlusconismo si è tramandata al renzismo e che i 5 stelle si guardano bene dal mettere in discussione, poiché, se lo facessero, dovrebbero criticare i tagli indiscriminati alle tasse per le fasce più ricche della popolazione, e una politica economica e sociale indirizzata a una guerra di classe dall’alto verso il basso che prescinde dalle imposizioni di Bruxselles. Un discorso che Grillo si guarda bene dal fare.

    – Ciò non esclude una critica all’Unione europea e ai principi neoliberisti che animano i trattati che la istituiscono, anzi, un’uscita a sinistra dalla crisi non può prescindere dal mettere in discussione quei trattati. Al contempo si dovrebbe avere ben presente che un’uscita da sinistra su base nazionale è del tutto irrealizzabile, per una serie di ragioni che qui sarebbe troppo lungo spiegare, e che assecondare in toto la narrazione anti-Ue non può che portare a un rafforzamento delle destre e delle politiche nazionaliste che sono frutto del neoliberismo, non di una sua antitesi.

    – Se guardiamo i dati relativi alle elezioni europee del 2014 ci rendiamo conto che in Italia ben il 49,5% degli operai (e categorie affini) non ha votato, mentre, tra i disoccupati, non ha votato il 45,9%. Le casalinghe, invece, non votano al 52,7%.

    E’ riduttivo ed errato scambiare il voto per Grillo o per Salvini come una protesta delle classi meno abbienti. Anche in Italia, non trovando uno sbocco politico di classe, basato su politiche che possono realmente migliorare le condizioni di vita, quella protesta si esprime nel non voto ed è a questo grande spazio che si dovrebbe guardare per ricostruire una forza comunista in grado di mettere in discussione l’esistente e di garantire un’uscita dalla crisi non basata su politiche e ideologie di destra.

    – Se prendiamo in considerazione gli operai che sono andati a votare scopriamo che votano al 35,8% Pd, mentre i 5 stelle raccolgono il 30,5% del voto operaio. Alla lega è riservato il 7,1%, mentre quel partito ha il proprio zoccolo duro nella categoria commercianti/artigiani/autonomi.

    I disoccupati che votano, invece, lo fanno in maggioranza per i 5 stelle (32,7%), il 30,9% vota Pd, mentre la lega è votata dal 3,9% dei disoccupati.

    Al contrario, le casalinghe che si recano alle urne, votano soprattutto Pd (38,5%), il 15,9% vota per i 5 stelle, il 24,3% per Forza Italia e il 5,9% per la lega.

    In definitiva è in parte vero che le forze che si propongono un cambiamento radicale della società devono competere con le forze populiste (e con il Pd), ma hanno anche ampie praterie nella fascia di popolazione che si astiene.

    Competere con le forze populiste vuol dire presentare politiche e soluzioni radicali diverse dalle loro, scendere sullo stesso terreno vuol dire spianare la strada al neoliberismo e alle politiche nazionaliste che pretende per rafforzare il proprio dominio.

    Scusate se mi sono dilungato, spero che almeno qualche dato possa essere utile alla discussione.

    • Giusto rilievo, tra i «comunisti per Trump» si trovano anche soggetti provenienti da altri filoni del vecchio movimento comunista. Anche ex-trotzkisti, che – devo ammetterlo – da un pezzo mi risultano indistinguibili dagli stalinisti. Aggiunta questa specifica, ribadisco quanto detto sopra. È un’ulteriore involuzione del “campismo” e non ho problemi a dire che la ritengo catastrofica, qualunque sia il background o sottoinsieme.

      Riconoscendo le debite differenze, certo: l’ho scritto anche sopra che, a fronte di alcuni che oramai sono pienamente nel rossobrunismo (e i loro siti sono quasi indistinguibili da quelli fascisti), altri si limitano a non riconoscere la deriva, o comunque a sottovalutare i rischi del maneggiare alcuni concetti e simboli pesantissimi, che nella storia d’Europa sono *gravemente* compromessi.

      Credo che la sottovalutazione dipenda da un equivoco di fondo: pensare che “rossobruno” significhi semplicemente “neofascista travestito da compagno”. Non è così, o almeno è un’accezione limitante e obsoleta, ritagliata su misura per i vecchi “nazimaoisti”.
      A essere “rossobruni” – o a rischio di diventarlo – sono prima di tutto dei discorsi, a essere “rossobruno” è l’immaginario che prende forma quando le retoriche di compagni e fascisti cominciano a somigliarsi. Ci sono rossobruni che si dicono (e sinceramente si credono) super-antifascisti, e non si rendono conto di avere molto, troppo in comune con i loro bersagli polemici. Succede, ad esempio, quando si vede l’antifascismo principalmente come una guerra tra bande, fortemente machista e militarista, e si contendono ai fascisti alcuni concetti, segni, valori, icone. L’elencazione non può che essere eterogenea: patria, nazione, arditezza, sovranità, Popolo, radici, Eurasia, nastri di S. Giorgio (simboli zaristi aboliti dopo il 1917 e reintrodotti da Stalin) ecc. Quel contendersi concetti e segni produce una convergenza. Per strappare di mano qualcosa a qualcuno, devi andargli vicino. Succede con gli oggetti tangibili, e succede anche nel linguaggio.

      Già il contesto intorno è quello del confusionismo “gentista”, del “né destra né sinistra” e del culto trasversale di Putin, icona che accomuna leghisti, fascisti, stalinisti e altri. È già un contesto di “rossobrunismo diffuso”. Certi equivoci in aree “di movimento” producono “grumi” di rossobrunismo più densi. Per questo dico che “rossobruno = neofascista” è un’equivalenza che porta fuori strada.

      Detto ciò, non mi/ci interessano tanto i gruppi, le correnti, i personaggi dentro il neo-campismo. Non mi interessa la polemica sulla Banda Bassotti, il problema non sono loro, né la polemica su qualcun altro nello specifico. Quel che va analizzato sono i discorsi, gli enunciati. Gli equivoci, gli abbagli, i paralogismi. Le “tossine” che vengono diffuse. Perché le tossine travalicano le aree, diventano trasversali, aggravano il “rumore di fondo” che rende sempre più difficile a sempre più persone raccapezzarsi con un minimo di lucidità. Ho fatto notare, in passato, alcuni equivoci sul Donbass. Ho fatto notare che in Italia si sono diffuse come parole di compagni dichiarazioni confezionate da think tank dell’ultradestra russa. Quello è stato solo l’inizio. Oggi i fake impazzano ovunque e pressoché *tutti* i commentatori da social sono “esperti” di geopolitica. Parliamo di un fenomeno estesissimo, e qualcuno pensa ancora ai “nazimaoisti”…

      Da tempo è in piedi un gruppo di lavoro – sorto a latere di Giap – su questi temi e si aggiorna un “brogliaccio” di appunti “genealogici”, un tentativo di ricostruzione del percorso che porta all’oggi, a un neo-campismo che spesso è acritico putinismo, alla subalternità di discorso nei confronti della geopolitica, alla capitolazione nei confronti del “gentismo”, e addirittura al trumpismo, al credere che Trump farà “piazza pulita” del capitale finanziario. L’intenzione sarebbe di farci un post o più post o qualcosa di più, ma il tempo è poco e gli impegni tanti.

      Sul resto, con più calma.

      • Nel disordinato elenco di segni e icone contese nell’intersezione tra compagni e fasci, dimenticavo i legionari fiumani e a volte anche lo stesso D’Annunzio (!). Revival molto in voga qualche anno fa, che tutti – anche noi WM – abbiamo sottovalutato e che certo ha contribuito al confusionismo. Oggi si è un po’ spento, rimpiazzato dall’apologia di legionari più moderni, ma nel nuovo mito si vede in traluce quello di prima.

        • Credo che vi stiate concentrando più sui sintomi del male che sulle sue cause, e una medicina che cura i sintomi ma non sconfigge la malattia è poco efficace… a meno che non si ritenga il male incurabile… cosa che, in questo caso specifico, non credo sia affatto vera.

          La narrazione più diffusa a destra, e rivolta alle classi sociali delle quali stiamo parlando, recita più o meno così: “La sinistra pensa solo agli immigrati e alle unioni di fatto, se ne fotte un cazzo di te operaio, precario o disoccupato”.

          Credo che sia soprattutto necessario combattere questa visione per impedire il diffondersi di ideologie fascistoidi, tra le quali comprendo il rossobrunismo. Per farlo è necessario una visione di classe, tesa soprattutto a dare, nell’immediato, prospettive di vita migliori, in grado di dare delle risposte ai problemi reali di chi sente sulla propria pelle il peso della crisi. Altrimenti si corre il rischio di lasciare libero il campo alle destre. Poi aivoglia a parlare di rossobruni…

          Ciò non vuol dire trascurare gli immigrati o i diritti civili, ma includere le lotte in un contesto di lotte più ampio, spiegando che l’elemento di separazione non è la razza ma la classe e, soprattutto, contrastando le notizie false che circolano sempre più spesso, frutto di una propaganda sempre più serrata e organizzata.

          L’altro mito da sfatare è che comunismo e fascismo sono entrambi totalitarismi che negano la libertà. Sia perché non è vero, ma è la narrazione diffusa dalle classi dominanti, sia perché anche questo è un terreno che i fascisti prediligono per fare proseliti in settori della società storicamente antifascisti.

          Altro problema credo sia rappresentato dalla mancanza di una teoria in grado di generare una narrazione forte e inclusiva, con riferimenti storici, culturali, anche relativi a individui, nei quali ci si possa riconoscere collettivamente. L’assenza di questo porta a cercare quei riferimenti altrove, magari a contenderseli con i fasci.

          Mi fermo qui perché gia sono OT, e non vorrei dilungarmi troppo come ho fatto nell’altro commento. Penso che la discussione generale debba restare ancorata alle questioni di classe, perché credo che è all’interno di quel contesto che riusciremo a trovare anche gli strumenti per arginare il fascismo e alcune derive delle quali stiamo discutendo.

          • In realtà, in linea generale non ho nulla da obiettare su quanto hai appena scritto, qui su Giap si sono dette (e cercate di fare) per anni cose molto simili, in particolare questa:

            «includere le lotte in un contesto di lotte più ampio, spiegando che l’elemento di separazione non è la razza ma la classe e, soprattutto, contrastando le notizie false che circolano sempre più spesso, frutto di una propaganda sempre più serrata e organizzata»

            Però il punto è:

            il “noi”, il “noi tutt*” che deve fare tutto questo deve – avere – le – idee – chiare.

            Per noi, questo “noi tutti” rimangono i movimenti sociali, le compagne e i compagni, la sinistra di classe, in particolare quell* a cui possiamo arrivare e con cui possiamo confrontarci direttamente.

            Insieme a questo “noi tutt*” con cui ci confrontiamo, va fatta tutta la chiarezza possibile sui rischi enormi che si corrono ascoltando certe sirene.

            Perché se si ascoltano certe sirene, si cede alle scorciatoie e ci si perde nel labirinto, chi le dovrebbe fare tutte queste belle cose che ti sei appena auspicato?

            Quando ci concentriamo sui sintomi, è perché i sintomi sono per loro natura rivelatori. “Bisogna saperci fare, col sintomo”. Bisogna interpretarlo. Perché se non lo interpreti sbagli cura. E la cura è un lavoro collettivo.

            • Niente da obiettare.

              Sforziamoci anche di prevenire però, anche quello è un lavoro collettivo.

              • Esattamente. E significa anche: prevenire che sempre più compagni cedano al canto delle sirene. Mostrare con la massima chiarezza da quale luogo di merda stiano cantando.

                • Da quale luogo di merda stiano cantando, e che il loro unico interesse è quello di sbranarli.

                  p.s. Non sempre i commenti molto brevi sono privi di senso :-)

  32. Salve a tutti, bentrovati.
    Io di “comunisti per Trump”, devo dire la verità, ancora non ne ho scovati nella rete. Certo il manifesto linkato da Wu Ming 1 qualche commento più in alto fa abbastanza ridere, ma mi sembra (potrei sbagliare) estetica e fraseologia tipicamente rossobruna, più che “comunista”.
    Ci sono però “comunisti” che inseriscono la vittoria di Trump all’interno di un processo sociale ed economico ben preciso, volto a ricercare le cause della sua vittoria. Penso a Slavoj Zizek, o a Carlo Formenti qui in Italia. La sensazione, leggendo un articolo come questo, è che se avesse vinto Hillary Clinton questa levata di scudi non ci sarebbe stata. Questo è il problema, più che accanirsi sullo smascheramento del personaggio Trump, che è un piano del discorso talmente agevole che fa stare comodi tutti, ogni tipo di sinistra, ma non solo, anche la destra liberale. Insomma oggi l’accanimento contro Trump accomuna tutto lo spettro della politica. Ripropone insomma un “campo”, entro cui vale la legittimità della ragione, mentre al di fuori c’è la sragione del suprematismo bianco. Ha senso allora condividere un “campo” che ha come sostenitori il Pd (tanto quello italiano come quello americano)? Secondo me, no. Perchè il principale problema di queste elezioni era Hillary Clinton, non Donald Trump, con buona pace degli studenti della Ivy League. Ed era Hillary Clinton perchè espressione diretta e organica di un potere economico che ha costruito e consolidato il neoliberismo di questi tre decenni abbondanti. Ma so che su questo piano concordiamo, non è questo il punto. Il punto è che Trump è stato votato non dalla *classe operaia* (fate bene a sottolinearlo), ma da un magma sociale assolutamente eterogeneo (che pure qualche anno fa veniva esaltato dalle retoriche del 99%, però, e su cui, come molte altre cose, manca a sinistra una critica post festum) accomunato oggi dal drammatico processo di impoverimento prodotto dalla crisi. All’interno di quei ceti impoveriti, assolutamente eterogenei, va ribadito, dove c’è dentro di tutto, le differenze di classe oggi perdono di valore contestuale (non è che non esistono, ma sono politicamente inefficaci). Non scompaiono, ma la polarizzazione sociale prodotta dalla crisi ne produce anche una politica: di qua vasti aggregati sociali accomunati dall’impoverimento radicale, che condividono sempre più condizioni di vita simili e soprattutto un orizzonte simile di impoverimento materiale; di là un ceto tecnocratico finanziario transnazionale responsabile del governo ordoliberale della crisi.
    Trump e Clinton sono molto più simili di quanto certe retoriche dicono. Però, ecco, 1) va ribadito in ogni dove: Trump e Clinton sono facce speculari del capitalismo statunitense, non c’è un peggio e un meglio, ma questo è poco chiaro nell’approccio utilizzato; ma 2) una parte di quelli che hanno votato per Trump lo ha fatto per protestare contro la globalizzazione liberista che ha prodotto la crisi eccetera eccetera. Quindi indagare i motivi dell’elezione di Trump è utile, mentre lo sarebbe stato molto meno farlo nel caso avesse vinto Clinton (ovviamente parlo nei termini di predisporre un pensiero che serva alla politica). Parlare con quel pezzo dell’elettorato che ha votato Trump (che non è tutto l’elettorato, ma che pure è quantitativamente rilevante) è utile ai fini di una prassi politica, farlo con l’elettorato “democratico” molto meno. Dire che chi ha votato per Trump è solo un rozzo bifolco intimamente razzista, ci preclude ogni dialogo con un pezzo della classe. Che poi la classe non coincida col voto trumpiano, è ovvio; che poi la classe sia molto altro dal feticcio utilizzato per legittimare idealmente un voto reazionario, è altrettanto ovvio; che, soprattutto, oggi parlare di classe significa parlare del proletariato migrante, tutto molto chiaro e sacrosanto. Ma non va confuso neanche il concetto di classe con quello di “fasce di reddito”: l’autrice dell’articolo insegna in un’università dalla retta di 50.000 dollari l’anno. La fascia di reddito 50.000/100.000, oltre all’ampiezza, descrive anche un pezzo di classe operaia che con quello stipendio non ci manda neanche i figli a studiare, negli Usa. E’ ceto medio allora? Improbabile. Ripeto: è assolutamente condivisibile l’operazione di smascheramento di certi innamoramenti facili. Ma il voto razzista che consolidava il privilegio bianco era quello per Hillary Clinton. Solo che, avesse vinto lei, questo pezzo di verità sarebbe scomparso dal sospiro di sollievo globale generato dallo “scampato pericolo”. Insomma, sottraiamoci dal campismo democratico che ci vorrebbe uniti nella lotta al muro contro i messicani: quel muro c’è già, costruito dai governi democratici; la liberalizzazione della finanza c’è già, predisposta dal primo governo Clinton; guerre internazionali promosse dagli Usa ce ne sono già da un ventennio ininterrotto.
    Mi sono dilungato anche troppo, ma la discussione è zeppa di spunti di discussione interressanti impossibili da sintetizzare agevolmente.

    • Per ora al volo ché poi devo mandare la figlia a scuola (appunto :-))

      Alessandro, su, non è vero che i “comunisti per Trump” non li hai incontrati. Sai anche chi è l’autore della vignetta, c’è la firma, non è un rossobruno, disegnava la vignetta quotidiana su “Liberazione”. Questa vignetta l’abbiamo presa dal blog di un guru di certo “antimperialismo”, ex dirigente del PRC. Un altro ex-dirigente del PRC ha salutato in Trump “il Nikita Krusciov degli USA”. Poi sì, si va nel rossobrunismo, ma lo sai bene che nessun rossobruno si definisce tale, il rossobruno si pensa compagno. Un sedicente “bollettino di informazione internazionalista” saluta la vittoria di Trump come “la vittoria delle forze realmente progressiste”, ed è la frase meno squinternata che scrive. Poi c’è tutto il vastissimo campo del “tanto peggio, tanto meglio”. Quindi non facciamo i finti tonti. E questo è un umore più diffuso di quel che dicano i confini dei gruppi, partitini, e blogghettini. Come si diceva: gli enunciati, non i personaggi. I miti, non le sigle. Perché i miti travalicano di parecchio le sigle. Questa roba gira e aggrava la confusione.

      Questo post e questa discussione hanno un intento anti-confusionista, quindi è chiaro che non esisterebbero se non avessimo riscontrato la crescente confusione, l’aumento vertginoso dell’ “‘ndo cojo cojo” e quant’altro.

      Non esiste alcun “campo anti-Trump”, esiste una critica liberal a Trump – che qui non trovi espressa – ed esistono i percorsi autonomi dei movimenti, l’analisi di classe, la critica dell’economia politica e la critica dell’ideologia.

      Su Giap, anche questo lo sai, non c’è bisogno di sfondare porte aperte su Clinton, il neoliberismo, i centrosinistra mondiali. La critica radicale nei loro confronti è la premessa di tutto.

      Ecco, era solo per ribadire i termini e per un chiarimento di fondo e metodologico.

    • Ma il voto razzista che consolidava il privilegio bianco era quello per Hillary Clinton.
      Non ho capito. Se significa che *anche* il voto per Clinton consolidava il privilegio bianco, sono d’accordo. L’ antirazzismo, se non mette in discussione il sistema economico, è (quasi) solo imbellettamento. Se invece, come mi sembra, significa che il voto per Trump *non* consolida il privilegio bianco, direi che possiamo anche chiudere. Evidentemente l’idraulico bianco che vota Trump merita di essere ascoltato più dell’idraulico nero che vota Clinton.

    • Se avesse vinto Clinton, hai ragione, probabilmente tutte queste discussioni non ci sarebbero state. Il fenomeno lo conosciamo già e lo combattiamo da anni.

      Penso che sia uno stratagemma di bassa lega voler associare le posizioni altrui a quelle della “sinistra liberista”, dimenticando che si sta discutendo con compagn* che dalla “sinistra liberista” prendono manganellate dai lontani anni ’90. Sarebbe il caso di riportare la discussione su un piano di realtà e non di artifici retorici, tesi a demonizzare la posizione dell’altro, in uno e nell’altro caso.

      Nel tuo commento citi Formenti, e in un certo senso cogli nel segno: evidenzi tutti i limiti dell’analisi che mi interessa criticare.

      Nell’ultimo libro di Formenti, “La variante populista”, credo ci siano alcuni spunti interessanti, il propblema ritengo siano le conclusioni a cui giunge, poiché tutto si risolve con “torniamo alle comunità precapitalistiche”, “inventiamoci uno stato-nazione “post-nazionalista”, “costruiamo comunità di persone che lavorano, lottano e sperano in un determinato territorio”.

      Più che una via d’uscita dalla crisi, credo che questa concezione sia il frutto della totale incapacità di dare risposte all’altezza delle battaglie che ci troviamo a combattere.

      Si ritorna a un comunitarismo mitico e immaginario, che non avrebbe nessuna possibilità di sopravvivere nel mondo attuale: come si alimentano e si riproducono queste comunità? Come producono quello di cui hanno bisogno? Come entrano in possesso delle materie prime senza entrare in conflitto con le comunità che le posseggono? Come regolano le proprie economie (perché anche se comunità non capitaliste un’economia la devono pur avere)? Come risolvono il problema della moneta? E, se sovranità nazionale vuol dire anche “sovranità monetaria”, come regolano il mercato internazionale della moneta? E come prevengono i conflitti che esso genera, visto che il mercato della moneta, e quello del debito, sono quelli che più di ogni altro permettono a una comunità statuale di entrare direttamente negli affari di un’altra comunità statuale e di influenzarne le politiche?

      Non ci dovrebbe essere mercato della moneta, o quello del debito? E come comprano le materie prime per fabbricare, per esempio, i computer? Come si assicurano le risorse che permettono di costruire, per esempio, ospedali e scuole?

      Eliminiamo i computer, gli ospedali e le scuole?

      Ti rendi conto che la proposta di Formenti si riduce al ricreare una società primitiva di cacciatori-raccoglitori, senza tenere in minima considerazione il fatto che anche quella società non era priva di conflitti interni e che tracce di lotta di classe si possono riscontrare anche in essa?

      Nella pratica: Formenti cita più volte le esperienze Sud Americane, esperienze che affascinano anche me, ma che negli ultimi tempi mi hanno fatto porre molte domande.

      Il Venezuela per esempio: pensiamo davvero che la crisi che lo investe sia semplicemente frutto di un complotto internazionale? O forse è proprio la dimostrazione che uno stato, da solo, anche se è ricco di materie prime, non può farcela nel contesto attuale?

      La Rivoluzione bolivariana ha basato le proprie politiche sociali, che hanno portato a conquiste indiscutibili per il popolo venezuelano, sul petrolio. Petrolio che vendeva sui mercati internazionali. Una volta calato il prezzo del petrolio è divenuto difficile proseguire su quella strada.

      Aveva altre strade la Rivoluzione bolivariana? Probabilmente no, perché solo il petrolio poteva garantire, nel caso venezuelano, l’afflusso dei capitali necessari a finanziare le politiche sociali (a meno che non si creda alla favoletta che basti stampare moneta per garantirsi le risorse necessarie, una leggenda che di questi tempi è particolarmente in voga). E solo l’esistenza di un’economia globalizzata, e dei mercati internazionali, ha permesso, almeno per un determinato periodo, di poter finanziare quelle politiche. In altri termini: quella rivoluzione non ha portato indietro le lancette, era una rivoluzione del nostro tempo, nel nostro tempo, e con le contraddizioni del nostro tempo si è scontrata.

      Formenti nella sua analisi rimuove tutto questo e, per farlo, è costretto a negare alcune delle concezioni marxiane più innovative e più adeguate a interpretari i nostri tempi.

      Ritornare a comunità nazionali vuol dire negare una delle premesse necessarie, secondo Marx, per superare il capitalismo, cioè che gli “individui locali” siano sostituiti da “individui inseriti nella storia universale, individui empiricamente universali”. E infatti Formenti lo fa senza problemi, e lo dichiara apertamente.

      Negare quest’affermazione di Marx, però, lo costringe a negare che le forze produttive e i rapporti di produzione, entrando in conflitto, aprano la strada a una società comunista, cosa che, inevitabilmente, lo porta a negare la forza intrinsecamente progressiva dell’innovazione tecnologica.

      Negazioni che, in definitiva, lo portano a oscurare alcune delle caratteristiche strutturali del capitalismo contemporaneo e a non vedere i punti di rottura e gli elementi di crisi che evidenziano.

      Secondo lo storico Aldo Schiavone, tra le cause della caduta dell’Impero romano è da annoverare l’incapacità di saper sostituire al lavoro schiavistico quello salariato. Molti guardavano indietro, e le idee di chi guardava avanti non si imposero, così si arrivò al collasso.

      Allo stesso modo oggi la società potrebbe collassare se allo stato nazione non si sostituisce una struttura democratica, basata sulla sovranità popolare, sovranazionale, in grado di imbrigliare le forze economiche che hanno tutto l’interesse affinché il mondo continui a essere diviso in una miriade di staterelli senza alcuna capacità di contrastare il loro dominio, e se non si riesce a superare il lavoro salariato, cosa che il capitale sta già facendo e che è un elemento fondamentale di contraddizione in senso al capitale stesso.

      La via d’uscita è il comunismo, e, oggi più che mai, il vecchio motto che lo contrappone alla barbarie è attuale. Il comunitarismo credo che non ci aiuti a liberarci del capitalismo e del lavoro salariato, anzi, asseconda una delle esigenze primarie dell’economia globalista, quello che i popoli siano divisi in piccoli stati incapaci di contrastare il dominio delle imprese transnazionali.

      Scusa se mi sono dilungato anch’io, ma gli spunti erano interessanti.

  33. Pur concordando con la sostanza dell’articolo volevo solo segnalare alcune cose che a mio parere dovrebbero indurre cautela nell’analisi della composizione sociale del voto a Trump, a Clinton e soprattutto, in questo caso, del non voto. Diversamene da come sembrava all’inizio Trump non ha fatto peggio dei suoi predecessori (nemmeno molto meglio) e Clinton non ha perso 7 milioni di voti. Stando ai conteggi ancora in corso infatti siamo messi così: Trump è arrivato a 61,486,735 mentre Romney nel 2012 aveva preso 60,933,504. Clinton è arrivata a 62,825,754 mentre Obama nel 2012 era a 65,915,795. Utah e Washington non hanno ancora finito di contare. E ci sono molti stati al 99% dello spoglio. Non conta nulla di fatto, però i numeri complessivi cambiano.
    Sul fronte working class valgono le precisazione di WM1 sull’astensione e le note di Alberto Prunetti su come si compone nel tempo e a seconda delle condizioni materiali; però a mio parere non basta invece dire che la Clinton vince sui redditi dai 50miladollari in giù. Il confronto va fatto con Obama e Romney 2012 non (solo) fra Clinton e Trump. E capire se – stando ai dati attuali – il maggior successo di Trump fra i redditi bassi (rispetto a Romney) è dovuto solo ad astensione democratica o meno, così come il maggior successo di Clinton sui redditi alti (rispetto a Obama). Trump è un multimiliardario di estrema destra che farà una politica da multimiliardario di estrema destra, forse solo più isolazionista in politica estera come dicono gli osservatori. Ma all’interno la repressione aumenterà e non c’è bisogno di scommettere su quali classi e su quali pezzi della popolazione. Per comprendere la composizione sociale di chi lo ha votato e perché però credo sia ancora presto.

  34. trump mi sembra il prodotto di una sorta di interregno, una lotta tra rappresentanti di mezzi di produzione in declino, emergenti, scalcianti, perdenti, risorgenti.
    la lotta e’ strettamente economica, hillary rappresentava un mix di mezzi produttivi vincenti ed altri in caduta libera, trump rappresentava mezzi di produzione antichi ma immortali, la confusione e’ economica, passata l’illusione della finanza come grande collettore di tutti i mezzi di produzione e come funzione suppletiva dello stato, siamo tornati ad una frammentazione senza nessuna vera prevalenza, la tecnologia stessa non riesce ad avere un ruolo di leader indiscusso perche’ e’ ormai innervata con tutti gli altri settori merceologici e di servizi. secondo me oltre ad una lettura di razza e di classe, che e’ una costante nella composizione del voto americano, l’esito del voto negli swing states ha una lettura strettamente economica, tutti e due i candidati avrebbero rappresentato l’impossibilita’ del passaggio tra il declino capitalistico ed una nuova fase postcapitalista, erano le due facce di una stessa medaglia, mancava la vera risposta.
    probabilmente come dice wuming1 nel “viaggio che non promettiamo breve” , la sovversione e’ stata ribaltare il corso del tempo, trump era un acceleratore del tempo e delle contraddizioni, mentre hillary avrebbe provato a rallentare il corso del tempo. la cosiddetta rust belt ha voluto vedere le carte ed ha deciso l’esito delle elezioni, la stessa rust belt e’ il simbolo del declino del tardo capitalismo, dove ci sono citta’, una volta floride, ora morenti e incapaci di attrarre capitali freschi, ormai invase da eroina e psicofarmaci. bifo tempo fa disse che per capire l’america di trump bisognava leggere “le correzioni” di frenzen, un romanzo del 2001, che dice bifo, descrive la decomposizione del cervello americano, cervello che non riesce ad adattarsi al caos circostante se non con le correzioni apportate da prodotti chimici.
    ma il caos circostante e’ economico, la tecnologia e la sua tanto decantata sharing economy, regina di wall street, dimezza i posti di lavoro, il lavoro nelle fabbriche quasi scomparso comunque svalutato, il lavoro edile minacciato dai migranti, i white collar jobs minacciati dalla tecnologia, il lavoro intellettuale frantumato e sottopagato a causa di una concorrenza feroce.
    non ha funzionato nessuna narrazione positivista per vincere queste elezioni, trump ha preso i voti mancanti dai latinos super cattolici con gli slogan anti abortisti, ha preso i creazionisti con il vice presidente pence, i suprematisti bianchi con lo spin doctor bannon, i temi etico religiosi e securitari hanno sostituito i temi economici, dall’ altra parte il racconto di hillary economico era quasi ridicolo, cosi’ sfacciatamente finto, cosi’ schiacciato su un presente scaduto e obsoleto, il ricorso al richiamo del gender e’ sato chiaramente un altro fallimento annunciato. l’unico candidato che proponeva una piattaforma alternativa seria e’ stato escluso alle primarie da un sistema assurdo e da un partito democratico occupato da neoliberali del terzo millennio. l’aritmetica dice che bernie sanders avrebbe vinto facile se avesse corso alle presidenziali e la cosa triste e’ che i vertici del partito democratico lo sapevano da giugno, ma probabilmente faceva piu’ paura sanders di trump.

  35. Lo scenario è la medioevalizzazione della società moderna, latifondizzazione sotto forma di corporation sempre più aggregate e “latifondate virtualmente” (tramite prodotti e servizi) che vanno a sostituirsi al potere articolato delle città in cui la cultura ed il potere vanno svanendo.

    Fra Trump e Clinton la differenza è piccola, a livello macroscopico la direzione sarebbe stata analoga, Trump è solo una delle due carte che sono state proposte agli americani: Vuoi andare in quella direzione come siamo sempre andati (Neoliberismo democratico) o vuoi dare una grattatina alla pancia e andare in quella stessa direzione con Trump?

    Trump inzierà il processo di cinesizzazione degli states, forse più velocemente della Clinton, non saprei. Il nuovo modello cinese alla fine non deve fare molto schifo al potere americano: Una ricca classe di privilegiati e vari gradi di poveracci che si divideranno il resto, l’importante è che i poveracci non rompano le balle, sopratutto in questa fase di transizione. Il loro problema a quel punto sarà solo tenere sotto livello di pericolo la disperazione degli ultimi.

  36. OT
    (WM1) “su, non è vero che i “comunisti per Trump” non li hai incontrati. (…) Questa vignetta l’abbiamo presa dal blog di un guru di certo “antimperialismo”, ex dirigente del PRC. Un altro ex-dirigente del PRC ha salutato in Trump “il Nikita Krusciov degli USA”. (…) Quindi non facciamo i finti tonti.

    Rispondo io invece di Alessandro visto che la domanda iniziale su chi diamine fossero sti “comunisti per Trump” l’ho posta io, che, ammetto, mi qualifico come tonto autentico.
    So che voi combattete le narrazioni più che i narratori, ma per i comuni mortali credo sia utile conoscere anche il peccatore e non solo il peccato, per sapersi regolare.

    Se potete “indicarli” evitando querele.

    Ergo, una citazione che mi consente di risalire a Rizzo con una breve googolata personalmente la trovo utile. Non mi sorprende troppo (già dieci anni fa mi era sembrato più attaccato al simbolo falcemartello anziché ai contenuti) ma mi conferma di diffidare di eventuali iniziative che lo vedano promotore o sostenitore (si, va bene, la fallacia dell’auctoritas, ma ci siamo capiti).

    Viceversa, non ho capito (l’ho detto che sono tonto autentico) chi sia l’altro ex PRC.

    Secondo me vale la pena di rendere immediatamente comprensibile al lettore di passaggio i protagonisti dello scivolamento rossobruno, poi fate voi ;)

    • Se proprio vuoi… Ma a tuo rischio e pericolo.

      L’altro è Fulvio Grimaldi, ex componente del Comitato Politico Federale del PRC di Roma.
      Un suo illuminato parere su noialtri si trova nella colonna destra del qui presente blog.
      Invece sul suo, di blog, a proposito delle manifestazioni anti-Trump negli USA e del modo in cui Il manifesto (la sua bestia nera, un’autentica ossessione) le racconta, scrive:

      «In un giornale che, per quanto da anni fedele alla linea internazionalista sorosiana di Radio Liberty/Radio Free Europe (frequentata anche da Politovskaja [sic] e G. Chiesa) e autentica talpa dello scavo cripto-imperialista, a tanti utili idioti ancora pareva la voce degli offesi, oppressi e sfruttati, il napalm scagliato su Trump e, ancora per la proprietà transitiva, su tutta una classe di operai senza fabbrica, di contadini senza terra, di emarginati e rasi al suolo dal capitale, è equivalso a un autentico e definitivo autodafé. Mosca cocchiera, la lobby talmudista tirava fuori un po’ di folklore KKK e neonazista filo-Trump al fine di oscurare il ruolo di Hillary quale candidata di quanto nel mondo aveva elevato all’ennesima potenza, tecnologizzato e universalizzato nel tempo e nello spazio, il progetto ultra-fascista di dominio totalitario mondiale, perseguito attraverso l’affettamento del genere umano, l’obliterazione di ogni diritto, pace, libertà. Vale a dire l’intero establishment del potere: neocon,servizi di intelligence, complesso militar-securitario, Wall Street, corporations,massonerie e mafie, tutto lo Stato Profondo che manovra lo scibile e l’esistente.»

      Di Trump scrive:

      «Trump potrebbe anche essere la rara variabile impazzita. Lo farebbe pensare il fatto che abbia contro proprio tutti, da Goldman Sachs a Rothschild, da Rockefeller alle femministe tipo Albright, Rice, Powers, dall’evasore del Lussemburgo e sbronzone UE Juncker al Battaglione Azov, e, si parva licet componere magnis, dal New York Times a Giovanna Botteri, a Norma Rangeri, a Fabio Fazio, a Roberto Saviano, a li mortacci dell’animaccia loro.»

      È una strategia discorsiva ricorrente quella di inventarsi, tramite elencazioni selvagge di soggetti che non c’entrano niente l’uno con l’altro, immaginari “fronti” e grandi complotti contro cui scagliarsi. Una narrazione dove tutto torna, sì, ma come tornano i boomerang. Rothschild e Norma Rangeri. Wu Ming e il Battaglione Azov. L’ISIS e Regeni (descritto praticamente come una spia della CIA). I centri sociali “pacifinti” e Anna Politkovskaja. Tutti ugualmente parte della «lobby talmudista» mondialista comandata – ça va sans dire – da George Soros, lobby che perseguita Grimaldi da anni e, verosimilmente, sta anche dietro il suo licenziamento da “Liberazione”.

      Il punto, però, e non lo ribadirò mai abbastanza, è che simili discorsi non sono esclusiva di questo o quell’oscuro o meno oscuro personaggio. Complottismi derivati da irriflessivi campismi, perorazioni di alleanze (quantomeno discorsive) spregiudicate, professioni di fede nell’antimperialismo di aguzzini ributtanti, ormai tutto questo è possibile trovarlo in molti posti e sentirlo da bocche che fino a poco tempo fa si sarebbero dette insospettabili.

      Importante: la strategia di descrivere gli altri come “frontisti” (nello specifico, inventarsi di sana pianta una sinistra di movimento che “endorsava” Clinton e fa fronte comune col potere liberista) e in generale il resto del mondo come un unico fronte senza differenze l’aveva già denunciata Foucault in un’intervista del 1978:

      «è la vecchia tattica, politica ed ideologica al tempo stesso, dello stalinismo, che consiste nell’avere sempre un unico avversario. Anche, anzi soprattutto, quando ci si batte su più fronti, bisogna far in modo che la battaglia appaia come battaglia contro un solo e medesimo avversario. Ci sono mille diavoli, diceva la Chiesa, ma non c’è che un Principe delle Tenebre [es. Soros, NdR]… E loro fanno la stessa cosa. Questo ha prodotto, per esempio, il social-fascismo, nel momento in cui bisognava battersi contro il fascismo, ma si voleva attaccare contemporaneamente la social-democrazia. C’è stata la categoria di hitlero-trotskismo; o il titoismo come elemento invariante di tutti gli avversari. Essi conservano dunque assolutamente la stessa procedura.
      In secondo luogo, si tratta di una procedura giudiziaria […] Poiché non siete che un solo e medesimo avversario, vi chiederemo innanzitutto conto non solo di quel che avete detto, ma anche di tutto quello che non avete detto [es. l’appoggio a Hillary, NdR], se è uno dei vostri presunti alleati o complici che l’ha detto […] E poi, vedete bene che vi contraddicete, poiché, pur essendo un solo e medesimo avversario, dite questo ma anche il contrario. Render conto dunque di quel che si è detto e del contrario di quel che si è detto.»

      Non è però necessario *provenire* dallo stalinismo per adottare questa strategia. Lo stalinismo, ricordiamolo, può anche essere un approdo. A queste stronzate, spesso, ci si *arriva*.

      • Su quello che chiamate “stalinismo” ci sarebbe tanto, ma proprio tanto, da discutere. Soprattutto rispetto alla storia italiana. Anche se potrebbe rivelarsi una perdita di tempo astorica.

        Il caro Lev non era tanto diverso dal buon Peppino, forse sarebbe stato anche più pericoloso a parti invertite. I trotzkisti non sono mai stati diversi da quelli che definite “stalinisti”, i mezzi che descrivete, spesso, li hanno accomunati nel corso della storia. Non è una novità dell’oggi.

        • A prescindere dalle ipotesi controfattuali, è evidente che l’eponimia del fenomeno segue l’identità del vincitore. Anche in questo caso, comunque, i nomi sono i nomi di *qualcosa*.

  37. Integrazione. Sono proprio tonto. Con la ricerca per immagini di google sono risalito anche al discorso vignetta. Resta però l’osservazione se non sia utile semplificare il “lavoro di ricerca” al passante più o meno casuale :P
    sorry for lo spam

  38. «Andiamo in ordine inverso, partendo dai più coglioni.»

    Un paio di cose su Trump, trumpomani e post-truthologi – Augusto Illuminati su Dinamo Press

  39. Nella risposta di Valentina al discorso che riportavo nel mio commento c’è il punto chiave della questione: il “tanto peggio, tanto meglio” è un atteggiamento da privilegiati. È proprio il privilegio il nodo materiale dietro al trumpismo e mascherato dal feticcio della working class.
    Vorrei arrivare a questo nodo ma prima faccio un passo indietro. Per capire un fenomeno sociale e politico dobbiamo materialmente considerare il contesto conflittuale in cui si inserisce: le lotte reali. Negli USA odierni, così come in UK per la Brexit o in Italia per il M5S, il contesto conflittuale non è quello della lotta di classe intesa nei suoi tratti storicamente noti. Non c’è un conflitto caldo di questo tipo a fare da contorno a questi fenomeni, ammettiamolo, con buona pace di chi a sinistra esprime l’auspicio che possano essere vettori o almeno canali della lotta di classe. C’è ovviamente una “lotta di classe dall’alto” che è la condizione standard del neoliberismo. Ma i conflitti caldi sono altri: sono la guerra ai migranti e il contesto di crisi climatica e crisi delle risorse. I tratti di classe di questi conflitti sono più intricati e comunque si esprimono in maniera diversa da quella storicamente nota, e non vengono colti da chi guarda ai fenomeni populisti come canali di azione politica.
    Che cosa sono allora questi fenomeni, il trumpismo e l’antieuropeismo nazionalista, che si inseriscono nel contesto di questi nuovi conflitti? Sono come ha ben spiegato Valentina Fulginiti l’esito stesso del neoliberismo e non una soluzione di continuità vera e propria dello stesso, soprattutto non su faglie di classe. Ma allora perché anche grazie al feticcio della classe questi fenomeni, espressione materiale della classe dirigente, non mancano di affascinare anche persone di sinistra, anche comunisti?
    Secondo me il nodo materiale, come ho ripetuto da Valentina, è il privilegio. Pezzi della working class dei paesi sviluppati, e, ciò che qui conta, pezzi della sua intellighenzia politica, anche di movimento, non riconoscono il proprio privilegio come tale nel contesto delle crisi globali in corso. Da una parte c’è l’orfanismo e il reducismo da molte sconfitte storiche, la nostalgia per situazioni più favorevoli, per un campismo fuori tempo massimo, per la sua linearità, l’erosione di ciò che si era ottenuto parzialmente senza prospettive di rilancio. Ma ciò che è più grave, ciò che è materialmente in gioco, c’è il riorientamento di queste nostalgie, una loro tecnicizzazione nei conflitti reali in corso. Si subisce così la fascinazione di un feticcio di lotta di classe assolutamente trascendente per posizionarsi materialmente in questi conflitti reali nel modo più comodo: a lato, a lato anche dei potenti, a lato di chi conduce la guerra ai migranti, di chi nella classe dirigente gioca il ruolo del nazionalista antiplutocratico, contro i “poteri forti” della globalizzazione. Si abbandona l’internazionalismo perché tanto si sta dalla parte giusta del muro, a difesa dei propri privilegi e a sacrificio di tutto il resto. Allo stesso modo si snobba il femminismo perché costringe a rompere il fronte internamente, perché è un conflitto materiale che ci mette di fronte al nostro essere anche il nemico e quindi rende insensato qualsiasi muro.
    Come chiamiamo l’adesione a un fenomeno politico che si fa vanto del populismo, lavorista ma escludente verso la forza lavoro migrante, che si fa forte del nazionalismo, del sovranismo, dell’essere contro i poteri forti internazionali, contro la finanza e anticapitalista a parole ma guidato e finanziato materialmente dalla classe dirigente nazionale, che nasce nel contesto storico di una socialdemocrazia in crisi?
    Nel tanto peggio tanto meglio e in “strategie” simili c’è un posizionamento materiale che si fa politico. C’è la partecipazione più o meno attiva o silenziosa a una mobilitazione dettata dalle parti egemoni delle classi dirigenti, in senso fascista, per la gestione dei conflitti attuali: la guerra ai migranti, la guerra per le risorse, lo scaricamento dei pesi della crisi ambientale. L’alternativa certo non è il “fronte popolare col partito democratico” o con chi nella classe dirigente gioca ancora il ruolo della globalizzazione. Queste sono parti materialmente equivalenti che sono giocate anche delle stesse singole persone e dagli stessi singoli governi ed enti sovranazionali, gestite e mescolate in proporzioni mutevoli: un po’ di globalizzazione qui, un po’ di sovranismo là, un po’ di lager qui, ma un po’ la chiamiamo accoglienza. Clinton non è “peggio di Trump”, è parte del percorso che lo ha portato dov’è, così come Obama, e Trump in ultima istanza risponde alla stessa classe dirigente. L’alternativa sono le lotte reali nei conflitti e crisi reali in corso, cogliendone i tratti nuovi, a fianco dei migranti nella guerra reale ai migranti in corso, con la bussola internazionalista ben accesa, contro i nemici interni anche alle nostre teste.

  40. Avevo scritto un lungo commento, era troppo lungo ed è diventato un articolo che mi permetto di segnalarvi http://www.palermo-grad.com/ma-gli-operai-votano.html

  41. Populismi e nazionalismi sono un espediente delle classi dominanti per imbrigliare la lotta di classe?

    Se a qualcuno interessa, qui provo a dare una prima risposta… Mi baso su alcuni dati che avevo già citato in questa discussione e ne aggiungo altri. Per questo ho pensato potesse interessare a chi l’aveva seguita…

    Scusate l’intrusione…