La Q di Qomplotto, nuovo speciale | La verità su True Detective 1, La Q di Podqast 4 («Di(s)visioni»), recensioni e interviste

Foto di scena da True Detective, prima stagione, 2014. Sullo sfondo, il «crazy wall» di Rust Cohle.

Svariate novità sul fronte de La Q di Qomplotto più una sensazionale rivelazione, che terremo per ultima o quasi.

■ L’intervista di Giuseppe Genna a Wu Ming 1 preannunciata nello scorso speciale è uscita su L’Espresso ed è ora disponibile sul sito del settimanale. Fatta salva l’apparizione (subito all’inizio) dell’aulico termine «regesto», lo scambio è comprensibile. Genna e WM1, che quando hanno occasione di interagire s’involano nel cabalistico, stavolta si sono contenuti. Si parla anche del potere dei libri, dei motivi per cui il romanzo rimane importante e dei tragitti sovente ingarbugliati che compie l’intelligenza collettiva.

N.B. C’è chi vede il contenuto “in chiaro” e chi lo vede solo per abbonati. Pare dipenda dai browser e dalle extension per la privacy e/o antipubblicitarie installate (nel senso: chi ce le ha, come noi, vede la pagina “in chiaro”).

Quando il «game» ci è scappato di mano. Su Linkiesta, a partire anche da La Q di Qomplotto, una riflessione di Guido Vitiello sulle dinamiche della «singolarità cospirazionista» e sul fondato rischio che con QAnon, come suol dirsi, non abbiamo ancora visto niente. «Da secoli le famiglie cospirazioniste hanno la fregola di ricongiungersi, se non altro perché condividono lo stesso codice genetico, ossia sono cresciute intorno agli stessi processi mentali sbilenchi, allo stesso stile paranoide, alla stessa ermeneutica deforme: quando si incontrano, sentono aria di casa. Questi viaggi di ricongiungimento potevano compiersi un tempo solo lungo mulattiere sconnesse e su mezzi di fortuna, di modo che le teorie del complotto si agglutinavano a gruppetti di due, di tre, di quattro. Ora, viaggiando sulla grande Rete e sul filo del chiacchierìo social, finalmente hanno trovato il modo di radunarsi in un grande sabba familiare […]»

■ È on line la quarta puntata de La Q di Podqast, intitolata «Di(s)visioni» (una citazione dal collega China Miéville). Puntata condotta dall’antropologa Stefania Consigliere, autrice di diversi libri tra cui il recente Favole del reincanto. Molteplicità, immaginario, rivoluzione. Registrata il 22 aprile scorso, la chiacchierata prende le mosse da un quesito prettamente antropologico – cosa succede alle collettività “prese” dalle fantasie di complotto? – ed è (finora) quella che più interroga l’emergenza pandemica, con le sue insensatezze e aporie, i suoi danni per nulla “collaterali” e il cospirazionismo come risposta spesso disperata alla situazione. Una disperazione che andrebbe compresa, senza pensare di cavarsela col dileggio.


Come sempre, la puntata è su Vimeo, su YouTube (niente link perché cerchiamo di tenere questo blog il più possibile degooglizzato) e, solo audio, su Archive.org e Apple Podcasts.

■ Nel nuovo numero – il decimo – della sua newsletter L’Indiano metropolitano, Matteo Pucciarelli ha pubblicato la versione integrale dell’intervista a Wu Ming 1 apparsa su Repubblica-Bologna (vedi lo scorso speciale). Ne La Q di Qomplotto, scrive Pucciarelli nella sua intro, «[QAnon] rappresenta un po’ la scusa per parlare di noi, come mondo occidentale, Europa e Italia. Del resto con gli Stati Uniti c’è una lunga storia di reciproci condizionamenti e influenze culturali. Quindi si parla anche della nostra realtà fatta di paure, sospetti, inquietudini, false ribellioni, esigenze di semplificare, catalogare, affibbiare comode etichette.»

■ Ed eccoci all’alluvionale rimuginazione su La Q di Qomplotto scritta dal collega Lorenzo Mari – scrittore come noi padano, poeta, studioso di letterature in lingua inglese – e apparsa su Pulp Libri. Come definirla? Una recensione-spinoff? Un incontro di wrestling col libro da godersi in modalità smark? Un esperimento mimetico, di “calco” sullo stile – inteso alla Hofstadter: stile paranoico – di cui La Q di Qomplotto ricostruisce genesi e peripezie?

Che è o che non è, lo scritto si apre e chiude con un’ipotesi conturbante: che Wu Ming 1 sia il vero sceneggiatore di True Detective 1.

Il titolo lo dà per certo: «Qomplotto! Wu Ming 1 è il VERO autore di True Detective!!!»

Fotogramma da True Detective 1. Cavalcavia della superstrada Ferrara – Porto Garibaldi. Siamo nel comune di Ostellato, l’auto è rivolta verso nord. Sullo sfondo, la fabbrica Fox Bompani.

Tra gli indizi che Mari squaderna o piuttosto squinterna, tuttavia, ne manca uno fondamentale: l’ambientazione tra pianure subsidenti, archeologie del moderno e paludi d’acqua dolce o acqua salsa. La prima stagione di True Detective mostrava luoghi e tipi umani inquietantemente identici a quelli del Basso Ferrarese e del Delta del Po, tra il Mezzano, le Valli di Comacchio e la Sacca di Goro.

Luoghi e tipi umani, perché non si tratta solo di somiglianze geografiche ma di risonanze etnografiche. Non pochi Reggie Ledoux s’aggirano nel nordest cispadano. Ma qui ci vorrebbe un’antropologa. Forse non a caso Mari menziona la succitata Stefania Consigliere.

Ad ogni modo, il Satanic Ritual Abuse rimane una fanfaluca tanto in Louisiana quanto in Emilia.

■ Notizia dell’ultimo minuto: pare proprio che La Q di Qomplotto sarà tradotto in francese. Maggiori dettagli nel prossimo speciale. Intanto, si può leggere su Lundi Matin, e diffondere, la traduzione francese degli ultimi due post di Giap sulla situazione in Valsusa e sulla presentazione del libro a San Didero: «Merci à la vallée de Suse qui nous ouvre le cœur et nous ramène à la vraie vie !»

Per ora è tutto. Buoni ascolti e buone letture. Da qui alla prossima rassegna, aggiornamenti sul nostro canale Telegram, qui.

La Q di Qomplotto è in libreria ed è anche ordinabile dal sito delle Edizioni Alegre.

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5 commenti su “La Q di Qomplotto, nuovo speciale | La verità su True Detective 1, La Q di Podqast 4 («Di(s)visioni»), recensioni e interviste

  1. In merito al “fondato rischio che con QAnon, come suol dirsi, non abbiamo ancora visto niente”. Terminare la lettura de La Q di Qomplotto, complice la concitazione del “finale”, mi ha restituito una sensazione d’ansia che solo in seguito sono riuscito a definire meglio. Il libro è un lavoro a dir poco encomiabile, che offre la possibilità di uno sguardo organico sul fenomeno, nonché la facoltà di distanziarsi quanto basta per formulare un esercizio critico sufficientemente libero da pregiudizi e mancanza di dati. E ciò nonostante la materia sia in quella continua corsa ben resa dalla forma scelta per l’ultima parte dell’opera.
    E la mia ansia viene proprio dalla domanda: fino a quando sarà ancora possibile fare una cosa simile? Se le fantasie, le post-verità, le loro stratificazioni e strumentalizzazioni diventano sempre più polverizzate, veloci, più vicine a un sistema che si autoalimenta che a un ordito con precisi autori e responsabili, allora per quanto tempo ancora un lavoro come Q di Qomplotto sarà alla portata delle umane possibilità di un gruppo di autori, di osservatori (figuriamoci un solo autore, come nel caso de La Q di Qomplotto). Come ci si difenderà, come ci si orienterà per comprendere? Grazie per il vostro lavoro.

    • Grazie a te. Già fare oggi quel tipo di lavoro d’inchiesta e ricostruzione è più difficile rispetto a solo qualche anno fa. In prospettiva, diventerà sempre più difficile. I flussi di segni sono immani e ultrarapidi, la rete produce ogni giorno un sapere che non è più un sapere perché non è sintetizzabile, non è nemmeno assimilabile.

      Io penso che un lavoro d’inchiesta sarà sempre possibile, e al tempo stesso che sia un’impresa disperata, che comunque va compiuta, anzi: va compiuta in quanto di-sperata, compiuta di-speratamente, nel senso che non bisogna vivere il proprio lavoro come salvifico o anche solo risolutivo, non bisogna avere la stessa arroganza dei debunker, non bisogna raccontarsi una narrazione tossica sulla conoscenza che automaticamente emancipa e libera, non bisogna dare per scontato che il proprio lavoro abbia chissà quali ripercussioni sul reale, insomma, non bisogna attribuire alcunché di prometeico o messianico al lavoro di inchiesta. Al contempo, come diceva Pasolini, bisogna «gettare il proprio corpo nella lotta». Solo così, secondo me, si otterrà la giusta postura.

      Che rimane una postura illuminista, crede ancora nel fare luce, ma cercando di scansare le trappole del ratiosuprematismo e quindi con una maggiore empatia, una maggiore comprensione nei riguardi del buio, dell’oscuro.

      Certo è un lavoro che va fatto il più collettivamente possibile, questo è uno slancio necessario, perché bisogna allargare, solo vasti movimenti sociali, vaste lotte che toccano il reale possono bloccare le narrazioni diversive, mettere in scacco il cospirazionismo. Anche LQdQ è un’opera collettiva: la responsabilità della sintesi finale e delle tecniche scelte è interamente mia, ma il libro – e lo dichiaro – non esisterebbe senza il lavoro di moltissime persone, senza il dialogo che ho avuto con loro nel corso degli anni, senza le cose che abbiamo fatto insieme.

  2. Bologna, sabato 15 maggio ore 18

    Presentazione del libro di Wu Ming 1

    La Q di Qomplotto. Come le fantasie di complotto difendono il sistema
    (Edizioni Alegre, 2021)

    Arena Orfeonica
    Via Broccaindosso 50 – Bologna
    Ingresso libero con prenotazione obbligatoria
    Inviare SMS al numero 349 1412247

  3. Libro molto bello. Si leggerebbe tutto d’un fiato. Io per evitare di ‘consumarlo’, l’ho dosato (o quantomeno ho tentato di). Tantissimi spunti su tantissimi temi.

    Quanto al merito, una sola parte, di cui ho condiviso diciamo la critica di sostanza, mi ha lasciato un pò così, avendola trovato un pò illogica. Mi riferisco ai capitoli sulla pandemia (già mi avevano lasciate molte perplesse le argomentazioni espresse su questo blog nei post dedicati al tema nella primavera dello scorso anno. Molto utilizzo della presupposizione, sfruttamento delle massime conversazionali griceane, conseguenti fallacie di ragionamento, soprattutto quella del manichino). Nella prima parte si parla di un governo che vuole buttare tutta la responsabilità sui cittadini. Nei capitoli successivi si critica il paternalismo peloso del governo, che tratta i cittadini come infanti. Ora, o il governo butta la responsabilità sui cittadini, o fa del paternalismo. Tertium non datur. In realtà, come accade di regola, credo si passa fare un’equa distribuzione delle colpe. Il governo ha sbagliato tanto nella gestione della pandemia, i cittadini, o comunque una discreta parte di essi, si è comportata un pò alla caxxo di cane. Anche l’episodio del runner sulla spiaggia inseguito dalla polizia presentato come una sorta di eroe, perchè tanto correva da solo, e non c’erano rischi, etc … Il punto è che se tutti avessimo ragionato come quel runner, si sarebbero trovate tante eccezioni implicite all’interno dei testi – dalla pessima fattura – dei vari dpcm succedutisi nell’ultimo anno, quanti sono gli abitanti di questo paese. Ma la legge, in teoria è generale ed astratta proprio per scongiurare tali ‘sovrainterpretazioni’ di essa (nascenti dal fatto che essa, spesso, è sotto- o sovra-determinata rispetto alla ratio che vi è sottesa). Al di là di ciò, come dire. Rimangono i complimenti, rimane un libro che era necessario, e che ho consigliato un pò a tutti di acquistare e leggere. Attendendo il prossimo.

    • Prima di tutto, grazie per aver letto, apprezzato e consigliato il libro.

      Riguardo al tuo “tertium non datur”, non è questione di “tertium” perché l’opposizione binaria che descrivi non esiste.

      In realtà paternalismo e biasimo della presunta immaturità dei cittadini vanno storicamente insieme, sono inscindibili, il nesso è del tutto logico e nel libro viene esplicitato. È più che legittimo essere in disaccordo con un’analisi e la posizione che ne deriva, non per questo vanno additate fallacie logiche dove non ce ne sono.

      Nella storia d’Italia paternalismo, autoritarismo e biasimo dei cittadini formano un unico dispositivo culturale e politico. Da ancor prima dell’Unità ogni politica autoritaria è stata paternalistica e si è basata su una rappresentazione stereotipata della popolazione, basata su un’antropologia negativa: gli italiani «da soli non ce la possono fare», sono sempre per definizione immaturi, indisciplinati, irresponsabili, incapaci di darsi dei limiti, di stare alle regole, di tenere alla cosa pubblica ecc.

      Tale rappresentazione, incancrenitasi fino ad acquisire un’apparente ovvietà, è in realtà una generalizzazione indebita, strumentale e profondamente reazionaria. Chi si crede “di sinistra” e vi aderisce sappia che sta tenendo attivo un frame di destra, uno pseudo-argomento usato nei secoli per tenere le classi subalterne nel loro stato di subalternità, per negar loro ogni protagonismo e agency.

      In questa rappresentazione reazionaria, quasi ogni “tara” – vera o presunta – dell’Italia è imputata all’immaturità della popolazione. Quest’attribuzione di colpa è un sempreverde luogo comune, espresso innumerevoli volte in forma di commento passivo-aggressivo, ma anche di aforisma o freddura… Al volo mi viene alla mente Montanelli: «Governare gli italiani non è difficile, è inutile», dove l’apparente rassegnazione è in realtà un auspicio che si governi col bastone. Non dimentichiamo che Montanelli chiese agli americani di organizzare un golpe. Se gli italiani non sanno regolarsi, vanno regolati. È così che si è giustificata ogni stretta.

      Sia chiaro, io mi riferisco all’Italia perché ci viviamo e perché qui questa retorica è più forte e incancrenita che in altri paesi europei, ma in realtà, come spiega George Lakoff, l’immagine dello Stato come «padre severo» che – «per il loro bene» – deve tenere disciplinati i suoi cittadini/figli immaturi è la metafora primaria della mentalità conservatrice, e lo è dappertutto.

      Venendo all’emergenza pandemica: la colpevolizzazione del cittadino e l’enfasi iperbolica sui comportamenti individuali sono state e sono tuttora un gigantesco diversivo. Parlarne ossessivamente, cercare continuamente il capro espiatorio in basso anziché chiarire le responsabilità in alto, mettere in fila campagne sempre più violente contro i presunti «furbetti» tutto questo non solo ha dato un’immagine degli italiani falsata (nella “fase 1” la stragrande maggioranza ha rispettato le disposizioni e le restrizioni in modo persino troppo ligio e spesso paranoide, lo dimostrano i dati del Viminale sui controlli e i big data sugli spostamenti), ma ha sviato l’attenzione:

      1) dalle responsabilità – ben più grosse e di lungo corso – della classe dirigente;

      2) dalle “rotte” più battute dal virus: i numerosi focolai sui luoghi di lavoro sono scomparsi dal discorso pubblico, insieme al fatto che le fabbriche erano rimaste aperte con mille escamotages;

      3) dalle dinamiche reali del contagio.

      Col punto 3 mi riferisco all’insistita demonizzazione dell’aria aperta con conseguente repressione dello stare all’aperto quando ogni evidenza scientifica mostra – e svariati studi cominciavano già a mostrare un anno fa – che all’aperto il contagio è implausibile.

      La proposizione condizionale «se tutti avessimo fatto come quel runner» è stata invalidata dalla semplice realtà dei fatti: oggi tutti facciamo come quel runner, cioè usciamo all’aria aperta. Il consenso scientifico è inequivoco sul fatto che gli spazi aperti siano parecchio più sicuri di quelli chiusi e persino ex-fustigatori mediatici dei costumi come Burioni – che l’anno scorso stigmatizzava chi passeggiava sul lungomare di Catania mentre il lungomare era deserto – lo riconoscono.

      Termino ribadendo il concetto: legittimo non essere d’accordo con questa lettura su come la classe dirigente si è deresponsabilizzata, purché non si dica che è “illogica”, perché è logica ed è storicamente fondata.