Dalla fine del New Italian Epic alla collana #Quintotipo

Copertina New Italian Epic

di Wu Ming 1

«Il New Italian Epic è morto. È morto perché recava in sé il suo epitaffio con tanto di date: 1993-2008; ed è giusto che sia così, in un paese in cui non sembra morire (né nascere) mai nulla, in cui il ciclo della vita è arrugginito, inceppato.»

Così scriveva Jadel Andreetto sei anni fa, nel gennaio 2009, e proseguiva:

«Il più grande pregio [del memorandum di Wu Ming 1] è stato quello di rimanere liquido, di individuare una nebulosa di opere; che si intrecciano, si sfiorano, si muovono su direttrici simili anche se lontane; senza congelarle irrimediabilmente in un genere o in una definizione. Il New Italian Epic è un punto di partenza non un punto di arrivo, la sua decomposizione rende il terreno fertile, le sue caratteristiche non sono regole ma ancoraggi provvisori per un banco di meduse in movimento nei flutti della letteratura italiana. E questo la critica ufficiale non sembra averlo colto.»

Qualche anno dopo, nel 2013, mi è capitato di riassumere la vicenda in questo modo:

«Ai tempi del “memorandum” sul New Italian Epic, lo ricorderete, io proposi di cercare quello che chiamavo l’allegoritmo comune a molti libri scritti in Italia più o meno a partire dal ’93, dall’inizio della cosiddetta “Seconda repubblica”. Quel termine un po’ bislacco e non utilissimo, “allegoritmo”, lo avevo preso dagli studi sui videogame, anche se il mio uso era diverso. Quel che intendevo dire era: cerchiamo l’algoritmo delle allegorie, le allegorie profonde che stanno alla base di questi libri. Mi sembrava che al fondo, pur nella diversità apparente delle forme o delle ambientazioni, quei romanzi raccontassero una stessa storia di base, mettendo in atto una sequenza di “istruzioni” (appunto, una sorta di algoritmo) che ricevevano dall’ambiente e dalla fase storica. Lo facevano ciascuno a modo suo e senza che i loro autori fossero consapevoli della parentela, della strana “aria di famiglia” che trasmettevano i loro libri. Provvisoriamente, proposi di indicare quell’insieme di libri con l’espressione “New Italian Epic”. Scelta infelice, perché la maggior parte dei critici si fermò lì, spernacchiandomi per la scelta “esterofila” etc. […] Le proposte critiche abbozzate nel “memorandum” furono descritte in modi caricaturali e poi rigettate in blocco, così anche il discorso sulla “morte del Vecchio” cadde nel vuoto e non se n’è più fatto nulla.»

Esageravo a bella posta. In realtà diverse proposte critiche abbozzate nel “memorandum” sono state recepite, riprese, modificate, discusse in convegni e seminari (soprattutto fuori d’Italia), fatte oggetto di saggi (alcuni li indichiamo in calce a questo post), “rimesse al lavoro” da altri scrittori e scrittrici e usate come fonte d’ispirazione in altri ambiti (si pensi al lavoro sulla “magia militante” di Mariano Tomatis).

Il “fuoco di sbarramento” e le reazioni “de panza” sono stati aggirati semplicemente smettendo di usare l’espressione “New Italian Epic”.
Poiché la maggioranza dei detrattori si era fermata al nome, che per noi era un dettaglio trascurabile, non vedendo più il nome hanno creduto di essersi sbarazzati della cosa.

Nella loro immaginazione, la cosa era il tentativo da parte di Wu Ming di lanciare «un movimento letterario a sua immagine e somiglianza». Di questo movimento, New Italian Epic era ritenuto il manifesto da respingere con violenza.

Abbiamo assistito più volte a prese di posizione ostili che avevano come premessa l’esatto opposto di quanto scritto nel memorandum e nel libro.
In un libro uscito di recente, giusto per fare un esempio, una collega scrittrice afferma che «l’autofiction [è] un genere assai inviso dal New Italian Epic». Chi ha letto NIE ricorderà che svariate delle opere prese in esame sono libri di autofiction (si pensi a Medium di Giuseppe Genna), e del resto noi stessi abbiamo praticato l’autofiction in Grand River e in alcuni racconti.
La medesima autrice pone come premessa del suo riassunto di terza mano l’osservazione che in NIE  «prevale […] il giallo e il criminale», quando invece noi recepivamo in pieno la tesi avanzata da Tommaso De Lorenzis nell’articolo Termidoro, pubblicato su Carmilla nel 2005: il cosiddetto “noir italiano” aveva ormai poco da dire, conosceva una deriva reazionaria e – aggiungiamo – oggi è la narrazione consolatoria del presente.
Quanto al dibattito avviato col memorandum, viene descritto dalla collega come «aggressiva autorappresentazione e autopromozione mediatica di un gruppo deciso a dar battaglia a tutto ciò che non rientra nel suo gusto sotto una bandiera che è stemma o etichetta commerciale, senza sostanza.»
Boh.

Illustrazione e titolo dell’articolo di Emanuele Trevi, da Alias del 14/02/2009

Illustrazione e titolo di un articolo apparso su Alias il 14/02/2009

“Demolito” il manifesto immaginario. Abortito il presunto movimento. Piegate le supposte velleità degli infami Wu Ming (rappresentati sul supplemento Alias del “manifesto” come cinque pinocchi bugiardi). Cachinni di vittoria, Yuk! Yuk! Yuk! Scampato pericolo, ritorno alla routine.

Nella realtà vissuta da chi il memorandum l’aveva letto davvero, New Italian Epic non era che il nome transitorio di un corpus eterogeneo – la cosiddetta “nebulosa” – di opere letterarie raggruppate  da uno sguardo retrospettivo. Come lapidariamente riassunto da Andreetto, il memorandum, lungi dall’annunciare il futuro, parlava di un’epoca già trascorsa, una fase già terminata della letteratura italiana: quella che andava dai primi anni Novanta alla fine degli anni Zero. Il memorandum proponeva una riflessione su quanto appena accaduto, cercando di cogliere l’allegoria profonda di quelle opere.
Opere i cui titoli, nel 2010, apparvero all’improvviso sugli scudi del cosiddetto “Book Bloc”. Evidentemente, non eravamo i soli a vedere un insieme.

Book Bloc

Dopo il dibattito sul NIE, tutto è cambiato molto rapidamente, e così doveva essere. Oggi, nella letteratura italiana, non sembra esserci nulla di paragonabile alla “nebulosa” descritta nel 2008. E’ quello che ho dichiarato nell’intervista rilasciata nel corso del 2013-2014 a Simone Brioni, ora inclusa nell’opera collettanea Subalternità italiane, percorsi di ricerca tra letteratura e storia, a cura di Valeria Deplano, Lorenzo Mari e Gabriele Proglio (Roma, Aracne, 2014). La riporto integralmente di seguito.

Dall’intervista, al contempo, risulta chiaro che la riflessione post-NIE si incentra soprattutto sullo “sguardo obliquo” e sui cosiddetti “oggetti narrativi non-identificati”, altro nome che di suo ha poca importanza, come specificato nella presentazione della collana Quinto Tipo che da poco dirigo per le edizioni Alegre.
Questo è il motivo per cui, dopo l’intervista rilasciata a Brioni, propongo un articolo apparso sul “manifesto” pochi giorni fa, a firma di Mauro Trotta, dove si passa dal NIE a Quinto Tipo e si recensisce il primo titolo della collana, Diario di Zona di Luigi Chiarella (Yamunin).

POSTCOLONIALISMO, SUBALTERNITÀ E NEW ITALIAN EPIC

di Simone Brioni

Il New Italian Epic memorandum (2008) di Wu Ming 1 è una mappatura critica dello scenario letterario in Italia dal 1993 al 2008.i L’importanza di questo testo si può misurare dall’acceso dibattito critico che ha suscitato e dalle parole di Alberto Asor Rosa , secondo cui il memorandum rappresenta «l’unico tentativo recente di sistemazione teorico-letteraria di tale materia degno di questo nome», ed è «altamente meritorio per il solo fatto, – raro, ripeto – di entrare nel merito» (2009). L’obiettivo di questo intervento è quello di discutere alcuni dei temi contenuti in quel saggio alla luce del recente interesse per gli studi e le narrazioni postcoloniali in Italia, di cui proprio alcuni dei membri del gruppo Wu Ming si sono di recente occupati con le opere collettive Point Lenana di Wu Ming 1 e Roberto Santachiara (2013), e Timira. Romanzo meticcio di Wu Ming 2 e Antar Mohamed (2012). Sul loro blog, Giap, i Wu Ming hanno definito questi due scritti come «la prima multi-opera della nuova epoca» del processo artistico del collettivo, mossa dall’«esigenza di allargare, di estendere le collaborazioni, di ibridare le scritture e di creolizzare Wu Ming» (2013c).ii In secondo luogo, questa intervista vuole mettere in luce alcuni aspetti legati alla rappresentazione della subalternità nel NIE, discutendo i legami tra la riflessione teorica proposta da presente volume e la pratica artistica. L’intervista è il risultato di due conversazioni avvenute con l’autore a Roma, il 5 Giugno 2013, e a Pisogne, in provincia di Brescia, il 22 giugno 2013. L’intervento è stato poi completato per corrispondenza nel 2014.

Simone Brioni

Nel New Italian Epic memorandum non parli mai esplicitamente di (post-)colonialismo, nonostante questo tema sia centrale in molte delle opere del vostro collettivo. Per esempio, Point LenanaTimira affrontano in maniera diretta la questione del colonialismo italiano, mentre 54 (2002) e Altai (2009) sono ambientati in territori liminali – rispettivamente il confine tra Italia e Slovenia e quello tra Oriente ed Occidente che si verrà a definire dopo la battaglia delle Curzolari – e Manituana (2007) racconta la conquista europea del Nord America e il massacro degli indiani americani. Inoltre, tre tra gli articoli più commentati di Giap nel 2013 hanno riguardato rispettivamente la vicenda dei marò italiani in India (Matteo Miavaldi 2013), la questione del neo-irredentismo a Trieste (Tuco 2013), e il ‘diritto al paesaggio’ transnazionale che reclamano i cittadini di Istanbul a Gezi Park come gli abitanti della Val di Susa (Wu Ming 2013a).iii Non credi che proprio la riflessione riguardo a questioni irrisolte relative ai confini nazionali o al ruolo geopolitico dell’Italia, all’eredità del colonialismo e alla persistenza di una retorica neocoloniale possa costituire una delle caratteristiche distintive di alcuni dei testi che hai incluso nel NIE?

Wu Ming 1 

Fino agli anni novanta l’Italia è stata un luogo importantissimo dal punto di vista geopolitico perché era al centro del Mediterraneo, allungata verso i paesi del Medio Oriente e del Nordafrica. Inoltre, aveva il movimento operaio e il partito comunista più forti dell’Occidente e confinava con la Jugoslavia, un paese della Cortina di ferro. Per queste ragioni era un ‘sorvegliato speciale’ degli Stati Uniti che vi hanno installato basi militari, così tante che si potrebbe parlare di una ‘colonizzazione atlantica’. Con la fine della guerra fredda il paese ha perso ex abrupto questo ruolo geopolitico: il socialismo reale e il pericolo del panarabismo erano terminati, e l’Italia è entrata in uno stato di crisi e di irresolutezza dal punto di vista identitario e della sua caratura sul proscenio internazionale. Il fatto che l’Italia fosse un paese “colonizzato” ha contribuito a rimuovere il suo passato coloniale e ha creato una schizofrenia di fondo, che resta ancora da risolvere.

A complicare questa riflessione va notato inoltre che il nostro paese deve fare i conti con una colonizzazione interna, con le enormi differenze che esistono tra sud e nord, e con la pesante eredità legata al processo che ha portato all’unità. Per molti versi, il meridionalismo è la nostra teoria postcoloniale: Gaetano Salvemini, per esempio, potrebbe esserne considerato uno studioso, perché si è occupato della situazione di una Parte del paese che è stata conquistata e sfruttata, anche se ancor oggi questa colonizzazione non è riconosciuta come tale. Questo statuto irrisolto e questa condizione di forte crisi d’identità si manifesta in alcuni momenti come un rigurgito neoborbonico. Penso per esempio al libro Terroni di Pino Aprile (2010), che in corrispondenza del centocinquantesimo anniversario dell’Unità d’Italia ha contestato il processo unitario non dal punto di vista meridionalista, come Salvemini, ma attraverso un revanscismo meridionale, sostenendo che a sud si trovino gli eredi di popolazioni colonizzate con la violenza da un esercito di occupazione.

L’Italia ha avuto una guerra coloniale fin dall’inizio della sua storia unitaria, vale a dire quella contro il brigantaggio. Questa guerra o, per meglio dire, la guerriglia resistente contro un esercito alieno fatto di piemontesi, lombardi e, più tardi, veneti, diventa più comprensibile se la inseriamo nella storia del colonialismo italiano, confrontandola con le guerre di liberazione che libici ed etiopi combatterono pochi decenni dopo. Io credo non si possa prescindere dall’eredità della guerriglia italo-meridionale se vogliamo comprendere la dimensione postcoloniale dell’Italia. Considerando tutti questi aspetti e queste sfaccettature c’è molto di postcoloniale nella letteratura italiana, ma ben prima dell’arrivo di scrittori immigrati dalle ex-colonie e del NIE. Le riflessioni legate a problemi molto simili a quelli affrontati oggi dalle teorie postcoloniali hanno da un lato condizionato tutto il dibattito nazionale e dall’altro causato una rimozione.

Simone Brioni

L’assenza di un dibattito circa il colonialismo interno può forse permetterci di comprendere meglio il successo di un partito come la Lega Nord, che ha utilizzato in maniera tutt’altro che ironica una retorica anticoloniale per rappresentare il Nord come ‘oppresso’ da un sud inoperoso e parassitario. Come Ottiero Ottieri ha descritto nel romanzo Un’irata sensazione di peggioramento (2002), la Lega Nord non è altro che il sintomo della schizofrenia di un paese che non ha saputo fare i conti con la sua storia.

Vorrei però soffermarmi su uno degli aspetti che hai menzionato, vale a dire la scrittura di autori provenienti dalle ex-colonie italiane che si è sviluppata dall’inizio degli anni Novanta. È significativo notare che il 1993, la data che indichi nel Memorandum come l’inizio di una nuova sensibilità narrativa, coincida con la pubblicazione di tre testi fondamentali – o, per utilizzare il lessico del Memorandum , tre ‘oggetti narrativi non identificati’ seppur con una chiara ispirazione autobiografica –, i primi che raccontano il colonialismo italiano dalla parte dei colonizzati, vale a dire ‘Scirscir N’Demna/Andiamo a spasso’ di Maria Abebù Viarengo (1992), Aulò. Canto Poesia dell’Eritrea di Ribka Sibhatu (1993), e il romanzo autobiografico Lontano da Mogadiscio di Shirin Ramzanali Fazel (1994).iv Seppur adottando una prospettiva del tutto diversa rispetto a quella del NIE, anche questi lavori si concentrano sulla congiunzione, la tensione, e la giustapposizione di macro- e micro-storia in relazione alla condizione postcoloniale del mondo in cui viviamo. Esistono a tuo parere punti di contatto tra queste esperienze? Possiamo parlare di uno Zeitgeist letterario innescato da questi testi, e poi raccolto in forma diversa da altri autori?

Wu Ming 1 

Non ho incluso questo tipo di scritture nella mappatura molto sommaria che avevo redatto, perché il memorandum è costituito da appunti senza pretesa di esaustività o di sistematicità. Tuttavia questi legami sono stati rilevati nel periodo di massima discussione sul NIE  tra il 2008 e il 2010, in particolare in relazione all’opera di due scrittrici le cui famiglie provengono dal Corno d’Africa, Igiaba Scego e Gabriella Ghermandi. É evidente che quando parli di rimosso e di rovesciamento dello sguardo sul colonialismo non puoi non impattare con questo tipo di produzione letteraria. Se fossimo più attenti riconosceremmo però che queste opere parlano di una condizione già presente nella storia nazionale. Sono le caratteristiche geopolitiche di cui ho parlato in precedenza a predisporre l’Italia a un incontro-scontro con scritture che si occupano del tema del colonialismo.

Simone Brioni

Tu e Wu Ming 2 avete parlato a più riprese di una ‘nebulosa’ di opere che parlano della condizione postcoloniale dell’Italia, di cui fanno parte anche i romanzi di Carlo Lucarelli e Andrea Camilleri, solo per citare i lavori di due degli autori più noti al grande pubblico. Tuttavia, queste opere e quelle di cui tu e Wu Ming 2 siete coautori rispettivamente con Roberto Santachiara e Antar Mohamed descrivono l’alterità coloniale da diversi punti di vista, più o meno distanti dai soggetti subalterni, e immaginano le colonie e i colonizzati in maniera dissimile. Quali sono le differenze principali tra le opere della nebulosa? Qual è la prospettiva che avete scelto tu e Roberto Santachiara per rappresentare il colonialismo italiano in Point Lenana?

Wu Ming 1 

É possibile collocare tutti questi testi in una sequenza di progressivo avvicinamento all’ ‘altro’, anche se questo movimento non rispetta l’ordine cronologico in cui le opere sono state scritte. La presa di Macallè (2003) e Il nipote del Negus (2010) di Andrea Camilleri non operano un rovesciamento dello sguardo e sono italocentrici, nel senso che si svolgono a Vigata, una città immaginaria della Sicilia, e alludono continuamente a come la vita quotidiana di questo paese è modificata da eventi apparentemente molto lontani come la guerra d’Etiopia. Il bambino superdotato protagonista de La presa di Macallè, Michilino, e i suoi compagni mimano le battaglie coloniali a scuola seguendo per copione i resoconti abbelliti che arrivano dal fronte etiope in quegli anni. I bambini sono suddivisi tra quelli che quelli che fanno da italiani e quelli che si colorano la faccia di nero, per impersonare gli abissini. Questa operazione affronta in maniera interessante un groviglio di temi cruciali nell’esperienza coloniale, come la percezione dell’altro visto da qui e il rapporto tra dominazione e sessualità. La presa di Macallè è un testo molto duro ed è il mio preferito tra quelli scritti da Camilleri, anche se molti dei suoi lettori affezionati l’hanno rigettato. Tuttavia questo romanzo non mostra com’è il mondo visto da un’altra prospettiva, non ‘fa il controcampo’, come si dice nel cinema. Il nipote del Negus compie un’operazione narrativa meno radicale del testo precedente perché mantiene una dimensione di commedia e parla degli scompigli causati dalla presenza di un nobile etiope giunto a Vigata per studiare. A differenza de La presa di Macallè, ne Il nipote del Negus viene rappresentato per la prima volta un soggetto colonizzato che però non parla mai e viene sempre descritto attraverso lo sguardo altrui o grazie al supporto di fonti documentali fittizie, come lettere e dispacci.

L’ottava vibrazione (2008) di Carlo Lucarelli si svolge invece in Eritrea e ci sono personaggi eritrei, anche se la rappresentazione di una donna-strega-mendicante-prostituta eritrea di nome Aisha non mi ha convinto molto. É un libro coraggioso e ammirevole perché ha cercato di andare contro alcune delle aspettative del lettore, anche se alcune delle sue scelte formali, come il cambiamento repentino dal presente al passato remoto per creare una sorta di zoom, o il tentativo di far ascoltare il plurilinguismo –salvo però inserire sempre la traduzione in italiano a seguire –, non sono forse riuscite del tutto.

Timira

In maniera del tutto diversa fra loro, sia Timira sia Point Lenana cercano di rovesciare lo sguardo e di riposizionarlo poi ‘di sghembo’, creando quindi non un controcampo perfetto, ma obliquo. Wu Ming 2 e Antar Mohamed (l’ordine dei nomi degli autori sulle copertine di Timira e Point Lenana è stato voluto dall’editore per ragioni di marketing) hanno assunto completamente lo sguardo dell’ ‘altro’, quello di Isabella. Isabella è cittadina italiana, conosce a memoria Virgilio e Dante, ma è profuga nel suo paese. Vive in Somalia per trent’anni, ma parla l’italiano, la lingua dell’invasore di ieri, invece del somalo. Il rovesciamento dello sguardo in Timira è spiazzante perché è posto ‘di sbieco’ tra diverse culture, non si cerca di raccontare semplicemente la prospettiva di una ‘donna nera’. Molto del fascino di Timira sta in questo, nei tratti cangianti della protagonista, che ha un profilo caratteriale nitido – è una donna forte, ma con delle asperità –, e dall’altro ha un profilo sociale sfocato. A volte il lettore empatizza con Isabella, a volte per niente. Timira offre una rappresentazione dell’alterità che è altra rispetto alle caratteristiche che spesso vengono associate ad essa.

Timira e Point Lenana sono due gemelli eterozigoti, anche se io e Santachiara (che a differenza di Antar è co-autore, ma non co-scrivente insieme a un membro di Wu Ming) abbiamo compiuto un’operazione ulteriormente diversa, occupandoci in maniera più diretta del rimosso coloniale e del rapporto tra la conquista e le insicurezze del maschio italiano sulla sua virilità. A differenza di Timira, abbiamo rappresentato molti personaggi africani, senza però andare in profondità. L’effetto che abbiamo voluto creare è stato quello di continuo spostamento: entriamo nella testa di tante persone attraverso un discorso libero indiretto che però, tutto a un tratto, cambia punto di vista.

Per esempio, il capitolo che parla dell’opinione popolare subito prima della prima guerra di Libia dà le vertigini, perché c’è un continuo slittamento di prospettiva. In questo parte del romanzo, si passa dalla vox populi, al discorso indiretto libero, al discorso indiretto di un personaggio, al dialogo tra i due autori, per poi ritornare alla vox populi, scoprendo che in realtà sono due persone che stanno litigando e che fanno parte del pubblico che sta ascoltando Giovanni Pascoli recitare La grande proletaria si è mossa (1911) in un teatro. È uno dei capitoli più virtuosistici del libro, infatti quando l’ho letto dal vivo ho dovuto cambiare voci e accenti.

Giovanni Pascoli

L’Africa è la fica
L’Africa è la fica. Reading/anteprima da Point Lenana a sostegno di Bartleby,  Bologna, 17 ottobre 2012 (cinque mesi prima dell’uscita del libro).
N.B. Il capitolo è stato ridotto per la lettura. Manca, ad esempio, un paragrafo (divertente ma difficile da leggere) sul truffaldino Trattato di Uccialli del 1889.
Durata: 15’38”. Il reading completo è qui.

E poi entriamo nella testa di altre persone, come Omar al-Mukhtar e Hailé Selassié, che a un certo punto parla attraverso un discorso indiretto libero.

Il fulcro di Point Lenana è proprio il meta-discorso attraverso il quale mettiamo il lettore di fronte alle scelte che dobbiamo fare come autori. Point Lenana è un libro più rizomatico di Timira perché il rovesciamento dello sguardo non è focalizzato su un personaggio solo. Sia chiaro, anche Timira è un oggetto narrativo non identificato, ha diversi registri e tipologie testuali montate, dato che è al tempo stesso un romanzo, un’inchiesta, un reportage, e una biografia. Tuttavia, la vita di Felice Benuzzi non può essere davvero considerata come il baricentro di Point Lenana perché nella prima parte lui è del tutto assente.

Simone Brioni

Che la meta-narrazione sia al centrale in Point Lenana appare evidente anche dal fatto che il romanzo prenda le mosse dal libro di Felice Benuzzi Fuga sul Kenya (1948) e dalla sua traduzione infedele, o meglio, dalla sua riscrittura in inglese, pubblicata con il titolo No Picnic on Mount Kenya (1952). No Picnic on Mount Kenya parla a un pubblico che eccede i confini nazionali, e offre una visione più accurata della versione italiana sull’esperienza dell’autore in Africa Orientale. In Point Lenana , oltre a Felice Benuzzi, sono presenti altre due figure di traduttori, vale a dire sua moglie, Stefania Benuzzi, e tu stesso, che ti sei misurato in passato con la traduzione di Elmore Leonard e Stephen King in italiano. In che modo la tua esperienza come traduttore influisce sulla tua scrittura e viceversa? Qual è il ruolo che la traduzione svolge nella rappresentazione dell’alterità e dell’altrove?

Point Lenana

Wu Ming 1 

Fai bene a parlare di “almeno tre traduttori” in Point Lenana, perché in realtà ce ne sono molti di più. Per esempio, ci sono la mia amica Karen, che ha tradotto per noi alcuni testi sloveni, e l’imperatore Francesco Giuseppe, autore di numerose traduzioni. Leggere Fuga sul Kenya accanto a No Picnic on Mount Kenya è stato un piccolo esercizio di traduttologia, perché Benuzzi adatta lo humour al suo pubblico e inserisce note canzoni inglesi al posto di canzoni italiane. Per esigenze narrative, in Point Lenana racconto il mio stupore di fronte alla scoperta di due diverse versioni dell’opera, ma in realtà lo sospettavo. É impossibile autotradursi, perchè gli autori non hanno il rispetto necessario per tradurre le loro stesse opere senza volerle modificare. La scrittura e la traduzione hanno confini permeabili: la traduzione è una riscrittura, lo scrittore e il traduttore riflettono entrambi su come trasportare ‘altrove’ una storia che viene da un contesto culturale ben definito. La mia esperienza di traduttore è stata fondamentale per la scrittura di Point Lenana poiché mi ha permesso di adottare diversi sguardi. Per esempio, io e Roberto ci siamo documentati su testi in inglese di storici africani sul colonialismo inglese e italiano, che sono poco conosciuti in Italia. Point Lenana include inoltre alcune poesie di Srečko Kossovel, il più grande poeta sloveno del novecento, che era cittadino italiano, triestino, ma non è conosciuto nel nostro paese.

Simone Brioni 

Point Lenana è un testo in cui la storia di quattro imperi – austroungarico, britannico, italiano e tedesco – viene raccontata presentando un’accurata fedeltà alle fonti. La fusione tra la dimensione narrativa e storico-saggistica mi è parsa una risposta al mancato impatto sulla società italiana da parte degli studi storici critici sul colonialismo, che nel corso degli ultimi quarant’anni hanno ampiamente documentato le violenze, l’uso dell’iprite, gli espropri, le deportazioni, i campi di reclusione e di sterminio, e la segregazione razziale. Come avete ampiamente denunciato anche su Giap (Wu Ming 1, 2013), l’intitolazione di un mausoleo ad Affile, in provincia di Roma, in onore del maresciallo Rodolfo Graziani (poi revocata per intervento della regione Lazio) sembra ancora una volta confermare che esiste un colpevole oblio su questi crimini. Quale impatto pensi che il tuo/vostro lavoro possa avere sulla società italiana?

Wu Ming 1 

Quando Angelo Del Boca nel 1965 ha parlato dei gas e dell’uso delle armi chimiche, è stato vittima di un negazionismo organizzato il cui capofila era Indro Montanelli. Montanelli era arrivato a dire che l’Italia aveva fatto del bene in Africa, che aveva solo costruito strade. Del Boca ha scontato una solitudine spaventosa, ha subito insulti, minacce, denunce, e persecuzioni, ma non si è fatto intimidire, e ha continuato le sue ricerche, documentando l’orrore nero su bianco. Nel 1996 il ministero italiano della difesa ha ammesso l’uso dell’iprite, e Montanelli ha chiesto pubblicamente scusa, salvo poi rimangiarsi tutto dopo solo sei mesi.

Nelle ultime pagine dell’introduzione a La nostra Africa (2003), Del Boca ha chiaramente affermato che gli storici avevano fatto tutto ciò che era possibile per squarciare quel velo di silenzio, e che ora la palla passava agli scrittori. Beh, noi quella palla l’abbiamo presa e abbiamo le idee chiare su ciò che vogliamo fare: usare tecniche letterarie per raccontare quell’orrore minuziosamente a chi non lo conosceva o non ne aveva che il sentore. In Point Lenana abbiamo cercato di abbattere il muro delle rimozioni anche su un’altra storia rimossa di colonizzazione, vale a dire la persecuzione degli sloveni in Venezia Giulia. La stragrande parte degli italiani non ne sa niente, la storia di Trieste è ignorata, anche se l’Italia ha fatto la prima guerra mondiale per conquistarla. Agli scrittori però non si possono assegnare doti taumaturgiche in un paese in cui si legge pochissimo.

Simone Brioni

Nel NIE, la denuncia dell’orrore si accompagna spesso alla volontà di dar voce a chi ne è privo o, per meglio dire, ne è stato privato. Per esempio, nelle opere di Wu Ming sono numerosi i personaggi subalterni, come Momodou, il protagonista immigrato del racconto omonimo contenuto nella raccoltaAnatra all’arancia meccanica (2011). Allo stesso modo, Q di Luther Blissett si apre con la descrizione di un personaggio che si descrive come ‘una delle figure di sfondo nell’affresco’ (IV). In un articolo per Internazionale avete poi raccontato la storia di Marco Bruno – un manifestante contro la costruzione della linea di treni ad alta velocità in Val di Susa, che venne ripreso mentre contestava la presenza della polizia chiamando un agente ‘Pecorella’ –, ‘con l’io narrante, perché solidarietà è anche “dare dell’io a qualcun altro”’ (Wu Ming 2013b).v Queste storie parlano di esperienze di subalternità diverse e non paragonabili, rispettivamente quella di un immigrato in termini di razza e classe rispetto alla cultura bianca dominante, quella di coloro che sono stati esclusi dalla narrazione ufficiale della storia, e quella che un attivista deve subire rispetto alla sua rappresentazione nei mass media. Occorrerebbe forse definire cosa caratterizza la condizione di ‘subalternità’ oggi in Italia e poi come questa condizione possa essere collocata in relazione ad un contesto globale. Tuttavia, la rappresentazione di coloro che non hanno voce pone il narratore di fronte a riflessioni simili riguardo all’etica della scrittura. In che modo il NIE parla dei oppure al posto dei subalterni?

Wu Ming 1 

Dubito fortemente che si possa parlare del NIE coniugando i verbi al presente, a meno che non sia presente storico. Se dovessi fotografare la scena letteraria italiana oggi, sei anni dopo il memorandum, ne risulterebbe un’immagine molto diversa. Già allora la mia era una ‘istantanea del passato’, del periodo 1993 – 2008. Fotografavo una scena che si stava già allontanando nel tempo. Oggi la ‘vena’ di molti autori i cui libri NIE avevo incluso nel memorandum si è inaridita (alcuni sono addirittura morti!), e pochi hanno lavorato per prolungare in avanti le linee di tendenza che cercavo di individuare. La lunga crisi ha accelerato il tracollo dell’editoria, un tracollo non solo economico ma culturale e di idee, e mi sembra che in Italia stia uscendo poco di davvero interessante. O almeno, esce poco che interessi a me. Delle ‘tendenze’ individuate nel 2008, l’unica che procede a grande velocità è quella degli ‘oggetti narrativi non-identificati’, ma non è certo una prerogativa italiana, l’ibridazione delle tipologie testuali è una cosa che sta avvenendo in tutto il mondo. Questo è il motivo per cui non posso parlare ‘a nome del NIE’, analizzare il modo in cui il NIE parla dei subalterni, dire quale sia l’etica del NIE: in Italia non c’è più nessun NIE. Né sono in grado di rispondere su quali differenze vi siano tra le condizioni di subalternità che si vivono in Italia e quelle che si vivono altrove, è davvero una domanda troppo vasta. Posso dire qualcosa su di noi, su Wu Ming, su chi sono i ‘senza voce’ dei nostri libri.

Bisogna tenere presente che, a parte poche eccezioni, i nostri libri non hanno un’ambientazione contemporanea. Noi lavoriamo con la storia, con il passato. I ‘senza voce’ sono dunque coloro che stanno ‘dalla parte sbagliata della storia’. Qual è la parte sbagliata della storia? E’ quella che soccombe nella memoria pubblica, quella la cui battaglia viene distorta o edulcorata o sepolta in una fossa comune. Di solito si parla di ‘storia scritta dai vincitori’, ma se per ‘vincitori’ intendiamo chi ha vinto sul campo, allora è un’espressione semplicistica. Torniamo all’esempio che facciamo sempre, quello della guerra del Vietnam. Lo facciamo sempre perché è il più chiaro di tutti. Sul campo vinsero l’esercito del Vietnam del Nord, ma noi quel conflitto non lo abbiamo sentito raccontare da loro, lo abbiamo sentito raccontare e visto rappresentare da chi, dopo aver perso sul campo, ha vinto nella memoria pubblica. Il punto di vista sulla guerra del Vietnam è sempre quello statunitense, noi ricordiamo film come Apocalypse Now, Platoon, The Deer Hunter etc. La maggior parte dei film post-bellici sul Vietnam non celebra né rende eroica quella guerra, anzi, sono opere dal chiaro taglio ‘autocritico’, ma non rovesciano mai lo sguardo, non ci sono mai personaggi vietnamiti di qualche spessore, il nemico è l’indistinto ‘Charlie’ che si muove nella giungla senza mai comparire oppure è una caricatura, come il tizio che dirige la roulette russa nella palafitta di The Deer Hunter. Come risultato, ci ritroviamo film di propaganda non dichiarata, più subdoli degli altri. La propaganda è quella del punto di vista americano: sì, abbiamo perso, ma solo noi possiamo raccontare che abbiamo perso, solo noi abbiamo la necessaria sensibilità, e soprattutto abbiamo mezzi più potenti, quindi possiamo stabilire un monopolio della rimembranza e del dolore. Sono pur sempre affari nostri, anche letteralmente, perché di quella rimembranza e di quel dolore facciamo mercato. Che io mi ricordi, c’è un solo Vietnam movie dove al Vietcong è concesso diritto di parola e lo sguardo improvvisamente si rovescia, ed è Good Morning Vietnam di Barry Levinson (1987). Credo sia stato possibile perché per gran parte del tempo il film è una commedia, mette in campo diversivi e in questo modo arriva ‘indisturbato’ a uno dei più impietosi atti d’accusa contro l’imperialismo americano che si possa trovare in un film di Hollywood. Sicuramente qualcuno ne avrà fatto un case study, io mi sto affidando solo alla mia memoria. Ecco, questi esempi ci permettono di usare l’espressione ‘la storia scritta dai vincitori’ in tutta la sua complessità. Ed è quella complessità che cerchiamo di mettere nei nostri libri, anche quando vincitori sul campo e vincitori nella memoria pubblica coincidono perfettamente, come in Manituana. Può darsi che in questa parte della risposta io abbia ripetuto, con alcune variazioni, cose che mi avevi già sentito dire. Well, that’s part of the game.

Aggiungo una cosa. Qualche settimana fa un giornalista della BBC, sapendo che sto scrivendo un libro – fortemente schierato – di non-fiction sul movimento No Tav della Val di Susa, mi ha chiesto: ‘Non pensi che dovresti tenere conto anche dell’altra posizione, quella a favore del progetto che il movimento contesta?’ Io ho risposto più o meno in questi termini: ‘La posizione a favore del progetto è già propagandata tutti i giorni, incessantemente, da tutti i media nazionali, dai principali media locali (che fanno sempre parte di gruppi nazionali) e da quasi tutti i partiti politici. I pro-Tav non hanno bisogno di me. Da una parte io vedo un colossale apparato di potere che funziona a pieno regime, dall’altra vedo cittadini che si sono autorganizzati e da vent’anni resistono non solo all’aggressione del loro territorio, ma anche alla criminalizzazione del loro agire. Io voglio raccontare la storia di questi cittadini, e nel farlo I don’t have to be ‘objective’: I have to be honest, which is slightly different’. Non so se ho risposto alla tua domanda, ma è la risposta che mi è venuta naturale.

Postilla di Simone Brioni

La qualità più affascinante dell’intervista di carattere culturale è proprio quella di non risolvere talvolta la domanda nella sua interezza, ma di suscitare nuove occasioni di confronto e di dialogo, di saper generare nuove domande. In che misura il confronto tra diverse esperienze ‘postcoloniali’ a scopo letterario può fornire paradigmi utili per comprendere specifici incontri, determinati nel tempo e nello spazio? È davvero possibile considerare il NIE come un’esperienza senza eredi, situata in un momento storico così ben determinato? Quali sono le differenze e le possibili assonanze tra le opere letterarie che si sono occupate di rappresentare i subalterni pubblicate da case editrici ‘maggiori’ e quelle destinate a un pubblico più limitato e scritte da intellettuali immigrati in Italia i quali, pur non essendo sempre definibili come soggetti subalterni in prima persona, si trovano spesso a raccontare – per dirla con il film Reassemblage (1982) di Trinh T. Minh – ‘in prossimità di’ questi ultimi? Il ruolo degli scrittori e delle scrittrici nella società è davvero sminuito dal fatto che si ‘legga pochissimo’, oppure è responsabilità dello scrittore trovare modi per avvicinarsi a un nuovo tipo di pubblico, per – citando uno dei motti proprio di Wu Ming – ‘raccontare storie con ogni mezzo necessario’ (Peter Aspden 2013)? Quali differenze esistono in termini di classe, razza e genere tra coloro che stanno ‘dalla parte sbagliata della storia’ , e in che misura queste differenze contribuiscono a collocarli e a collocarle in quella posizione? Quali modalità narrative sono necessarie per sviluppare una riflessione riguardo all’alterità che possa avere maggiore influenza nella società civile? La mia risposta a quest’ultima domanda mi ha portato in questo contesto a realizzare la presente intervista. Perché se è vero che gli scrittori del NIE ‘in genere scrivono romanzi, ma non disdegnano puntate nella saggistica e in altri reami, e a volte producono “oggetti narrativi non-identificati”’ (Wu Ming 1, 2008), è anche vero che la saggistica ha il dovere di esplorare nuovi linguaggi per raggiungere un pubblico che non sia esclusivamente accademico. Accorciare la distanza tra saggistica e narrativa attraverso il dialogo permette di creare un utile corto-circuito meta-discorsivo tra chi scrive e chi legge, per interrogare e produrre nuove e forse più consapevoli modalità per il racconto della subalternità. Fermo restando che questo non può essere che un obiettivo strategico e temporaneo di una con-ricerca che si proponga non solo di interrogare testi che parlino delle subalterne e dei subalterni, ma sia determinata a saperne ascoltar le voci, creare le condizioni affinché questi soggetti si possano esprimere, e modificare le relazioni di potere tra chi rappresenta e chi è rappresentata o rappresentato.

Notevi

Asor Rosa, Alberto. 2009. ‘Ritorno in provincia: le cento Italie dei giovani narratori’, inLa Repubblica , 15 Dicembre.

Aspden, Peter. 2013. ‘Wu Ming’s Magical History Tour: The Italian Literary Collective Wu Ming’s Mission is to Tell Stories “By All Means Necessary , Financial Times, 24 Maggio 2013.

Abebù Viarengo, Maria. 1992. ‘Scirscir N’Demna /andiamo a spasso’, in Linea d’ombra 54, pp. 75-78.

Aprile, Pino. 2010.Terroni. Tutto quello che è stato fatto perché gli italiani del sud diventassero meridionali . Milano: Piemme.

Benuzzi, Felice. 2001 (1948), Fuga sul Kenya . Milano: Corbaccio.

—. 2004 (1952).No Picnic on Mount Kenya: A Daring Escape, a Perilous Climb . Guildford, CN: Globe Pequot.

Brioni, Simone. 2013. ‘“Un dialogo che non conosce confine né di nazionalità, né di razza, né di cultura”: temi, impatto e ricezione critica di Lontano da Mogadiscio ’, in Shirin Ramzanali Fazel, Lontano da Mogadiscio/ Far from Mogadishu .Milano: Laurana, pp. 171-199.

—.2015 (di prossima pubblicazione). ‘Across Languages, Cultures and Nations: Ribka Sibhatu’sAulòin Italian Women Between Boundaries and Borders: Confinement, Writing and Borders. A cura di P. Sambuco. Madison: Fairleigh Dickinson University Press.

Camilleri, Andrea. 2003. La presa di Macallè . Palermo: Sellerio.

—. 2010. Il nipote del Negus . Palermo: Sellerio.

Del Boca, Angelo. 2003. ‘Introduzione’, in La nostra Africa. Nel racconto di cinquanta italiani che l’hanno percorsa, esplorata e amata , Angelo del Boca. Vicenza: Neri Pozza, pp. 1-43.

Lucarelli, Carlo. 2008. L’ottava vibrazione . Torino: Einaudi.

Luther Blissett. 1999.Q . Torino: Einaudi.

Miavaldi, Matteo, ‘I “due marò”: quello che i media (e i politici) italiani non vi hanno detto’, in Giap, 3 Gennaio 2013.

Ottieri, Ottiero. 2002. Un’irata sensazione di peggioramento .Parma: Guanda.
Ponzanesi, Sandra. 2004.Paradoxes of Postcolonial Culture: Contemporary Women Writers of the Indian and Afro-Italian Diaspora. Albany: State University of New York Press.

Ribka Sibhatu. 2009 (1993).Aulò.Canto Poesia dell’Eritrea . Roma: Sinnos.

Shirin Ramzanali Fazel. 2013 (1994).Lontano da Mogadiscio. Far from Mogadishu . Milano: Laurana.

Tuco, ‘TraumStadt. Paradisi fiscali, oleodotti e ritorno del rimosso: viaggio nel neoindipendentismo triestino’, inGiap! , 15 Ottobre 2013.

Wu Ming, 54 . Torino: Einaudi 2002.

— Altai . Torino: Einaudi, 2009.

— Manituana . Torino: Einaudi 2007.

— New Italian Epic. Memorandum 1993-2008: narrativa, sguardo obliquo, ritorno al futuro . Torino, Einaudi 2009.

— Anatra all’arancia meccanica. Racconti 2000-2010 . Torino: Einaudi 2011.

— ‘#Occupy Landscape’, in Internazionale , 4 Giugno 2013.

—  ‘Storie No-Tav. Un anno e mezzo nella vita di Marco Bruno’, inInternazionale , 1 Luglio, <>.

— ‘Speciale #Timira e #PointLenana: quattro autori, due libri, molte voci, la storia’, inGiap! , 20 Novembre 2013.

—. 2012. ‘Affile, Grazianilandia. L’eredità razzista e il mausoleo delle sfighe’, in Giap, 9 Settembre 2012.

— e Roberto Santachiara. Point Lenana. Torino: Einaudi 2013.

Wu Ming 2, L’inattesa piega degli eventi di Enrico BrizziNandropausa 14/15, 2008.

Wu Ming 2 e Antar Mohamed, Timira. Romanzo meticcio. Torino: Einaudi 2012.

ii In corsivo nell’originale.

iii Come è scritto nella pagina di apertura di Giap, il blog dei Wu Ming è uno spazio virtuale in cui non si leggono solo le iniziative e gli articoli del gruppo, ma in cui si forma una vera e propria comunità di lettori. Matteo Miavaldi e Tuco, gli autori dei due saggi in questione, fanno parte di questa comunità e sono guest bloggers del sito.

iv Riguardo alla difficile classificazione ‘di genere’ di queste opere, rimando rispettivamente a Ponzanesi, 2004: pp. 143-166; Brioni, 2014; Brioni, 2013.

v Ringrazio Kate Willman per avere dialogato con me diffusamente circa la costante presenza di figure subalterne nella narrativa di Wu Ming e di Luther Blissett .

vi Per evitare ambiguità, mi riferisco a nomi di persona di origine somala e tigrina con il loro nome proprio seguendo la forma corretta in uso in queste lingue.

Diario di zona

Da “Il manifesto” del 28/12/2014:

EDITORIA | OGGETTI NARRATIVI NON IDENTIFICATI

di Mauro Trotta

Il 28 aprile del 2008 usciva sulla rivi­sta on line «Car­milla» (www​.car​mil​laon​line​.com) un testo di Wu Ming 1 incen­trato su di una nuova cate­go­ria let­te­ra­ria: il «New Ita­lian Epic». Subito dopo si svi­lup­pava un dibat­tito, dav­vero molto inte­res­sante, con inter­venti di scrit­tori, ricer­ca­tori, appas­sio­nati che sem­brava smuo­vere le acque da tempo un po’ asfit­ti­che della cri­tica let­te­ra­ria ita­liana. Nel gen­naio dell’anno suc­ces­sivo vedeva poi la luce per Einaudi un libro, a firma dell’intero col­let­tivo di scrit­tori – anche se rac­co­glieva inter­venti solo di Wu Ming 1 e 2 – inti­to­lato appunto New Ita­lian Epic. Let­te­ra­tura, sguardo obli­quo, ritorno al futuro. Cen­trale, in quel discorso, era un nuovo tipo di testo che si andava impo­nendo, l’Uno ovvero – para­fra­sando l’acronimo Ufo, Uni­den­ti­fied Fly­ing Object – Uni­den­ti­fied Nar­ra­tive Object, l’oggetto nar­ra­tivo non iden­ti­fi­cato. Si tratta di un tipo di testo di cui diventa dif­fi­cile iden­ti­fi­care con pre­ci­sione il genere di appar­te­nenza. Basato sull’ibridazione, un tale modello di nar­ra­zione si pone nello spa­zio vuoto di inter­se­zione tra le dif­fe­renti maniere con­so­li­date di nar­rare. Uno dei testi citati come esem­pio era un libro di grande suc­cesso, Gomorra di Roberto Saviano. Di cosa si tratta? Di un romanzo, di un repor­tage, di un saggio?

Ora Wu Ming 1 ha assunto la dire­zione di una col­lana dell’editore Ale­gre e intende svi­lup­pare ed appro­fon­dire tale discorso. Infatti, nella pre­sen­ta­zione, stam­pata nella parte interna della coper­tina dei primi tre libri, il cura­tore afferma espli­ci­ta­mente di voler dare spa­zio esclu­si­va­mente pro­prio agli Uno «nar­ra­zioni ibride, nate in una “terra di nes­suno” tra i reti­co­lati dei generi, dei macro­ge­neri e delle tipo­lo­gie testuali. Terra di nes­suno che attra­versa tutto il mondo ed è fre­quen­tata da sem­pre più autori – scrit­tori, regi­sti, video­ma­ker, ma anche gior­na­li­sti – che vogliono rac­con­tare le loro sto­rie con ogni mezzo neces­sa­rio». Per­ché nar­rare sto­rie è innanzi tutto un atto poli­tico. Dif­fon­dere nar­ra­zioni signi­fica, in ultima ana­lisi, o con­tri­buire e raf­for­zare il discorso del potere, quello domi­nante, per­va­sivo, fun­zio­nale all’attuale rap­porto di pro­du­zione oppure opporsi, appunto con ogni mezzo neces­sa­rio, per destrut­tu­rare tale discorso – che poi è imme­dia­ta­mente modo di pen­sare, stile di vita, acquie­scienza – mostrarne tutto il fondo oscuro e aprire nuove strade, costruire nuovi mondi, pen­sare nuove uto­pie. Del resto la col­lana si chiama Quinto tipo, allu­sione a que­gli «incon­tri rav­vi­ci­nati dove avviene una comu­ni­ca­zione diretta, diretta, bidi­re­zio­nale e col­la­bo­ra­tiva fra ter­re­stri e intel­li­genze aliene». Si tratta dun­que di «cer­care e avvi­stare oggetti nar­ra­tivi non-identificati, man­dare segnali, sta­bi­lire un con­tatto con le intel­li­genze aliene al main­stream che li hanno pro­dotti, e se è pos­si­bile coo­pe­rare per pub­bli­carli». Per­ché appunto la «distru­zione delle cor­nici, pre­messa all’ibridazione delle tipo­lo­gie testuali» e la «col­li­sione tra le più dispa­rate tec­ni­che e reto­ri­che» spri­gio­nano una grande potenza in grado di inco­rag­giare «la (ri)scoperta di un mondo».

Quinto tipo parte subito con un testo dav­vero inte­res­sante e, natu­ral­mente, pie­na­mente rispon­dente alle carat­te­ri­sti­che richia­mate da Wu Ming 1. Si tratta di Dia­rio di zona di Luigi Chia­rella (Ale­gre, pp. 320 euro 16). L’autore è noto anche con lo pseu­do­nimo di Yamu­nin, dal blog che cura in rete. Yamu­nin pra­ti­ca­mente in qua­lun­que dia­letto meri­dio­nale – e Chia­rella è di ori­gine cala­brese – signi­fica «andiamo». E il libro può essere visto anche come un viag­gio che l’autore com­pie all’interno della sua città, Torino. Tutto ha ini­zio quando il pro­ta­go­ni­sta, ovvero lo stesso scrit­tore, attore e dram­ma­turgo momen­ta­nea­mente disoc­cu­pato, trova lavoro come let­tu­ri­sta per la com­pa­gnia dell’acqua. Ini­zia così il suo viag­gio attra­verso le strade di tutta Torino, alla ricerca dei con­ta­tori da leg­gere, memo­riz­zan­done la let­tura sul pal­mare for­nito dall’azienda. Dia­rio di zona rac­co­glie, in pra­tica, le pagine del blog pub­bli­cato in rete. Ma, come ogni oggetto nar­ra­tivo non-identificato, è anche molto altro. È un dia­rio, un pezzo di auto­bio­gra­fia, ma è anche una map­pa­tura della città. Topo­gra­fia non solo fisica, ma anche sen­ti­men­tale: l’autore si annota tuttte le lapidi di par­ti­giani o di vit­time della mafia che incon­tra sul pro­prio cam­mino. Nar­ra­zione dal basso, ad altezza della bici­cletta che Chia­rella usa per girare la città, se non rac­conto dal sot­to­suolo, dalle can­tine e dai tom­bini in cui si tro­vano i con­ta­tori. Colonna sonora, sono ripor­tati i brani delle can­zoni che ven­gono in mente allo scrit­tore o che fanno da con­trap­punto alle varie situa­zioni, e viag­gio let­te­ra­rio, con i brani dei libri che l’autore sta leg­gendo o che gli ven­gono in mente, e si va da Car­melo Bene al Sutra del Loto. E oltre a tutto ciò, e a molto altro ancora, il libro è una sorta di inchie­sta che rie­sce a far emer­gere con estrema chia­rezza la tem­pe­rie del tempo attuale, con il suo carico di rab­bia, dif­fi­denza, con la sua guerra tra poveri, ma anche con la soli­da­rietà che viene fuori quando meno te l’aspetti, il senso di con­di­vi­sione, la dol­cezza. Con il comico, l’inaspettato e il para­dos­sale che all’improvviso si fanno strada nelle vie della città, come quella scritta sul muro che recita: «Leg­gete Nanni Bale­strini». Il tutto con una scrit­tura coin­vol­gente e col­lo­quiale, ma al con­tempo raf­fi­nata, in grado di met­tere insieme le par­late e i dia­letti set­ten­trio­nali e, soprat­tutto, meri­dio­nali che si par­lano nella città sabauda, lo slang di strada, inserti di vera e pro­pria poe­sia, brani «alla Bale­strini», appunto, senza segni di inter­pun­zione. E che uti­lizza varie figure reto­ri­che che rie­scono a dare un ritmo al discorso, come le fre­quenti allitterazioni.

Un libro, insomma, pie­na­mente poli­tico e non solo per­ché si parla di No Tav, si ricorda la sto­ria di Sole e Baleno, si stig­ma­tizza con forza il tra­di­mento dei poli­tici verso il refe­ren­dum che aveva voluto l’acqua come bene comune, ma per­ché si oppone con forza e con ogni mezzo neces­sa­rio alla reto­rica domi­nante. D’altronde, come ha detto un po’ di tempo fa Wu Ming 2: «L’unica alter­na­tiva per non subire una sto­ria è rac­con­tare mille sto­rie alternative».

Il derby del bambino morto

Quinto tipo pro­se­gue poi con la rie­di­zione aggior­nata di un clas­sico tra gli Uno: Il derby del bam­bino morto di Vale­rio Mar­chi (Ale­gre, pp. 219 euro 15), pub­bli­cato dieci anni fa da Deri­ve Ap­prodi e incen­trato sulla sospen­sione della par­tita Roma-Lazio, il 21 marzo 2004, impo­sta dai tifosi, a causa della falsa noti­zia della morte di un bam­bino durante gli scon­tri con la poli­zia. Un altro esem­pio di come la let­te­ra­tura «non deve, non deve mai, non deve mai cre­dersi in pace».

BIBLIOGRAFIA / LINKOGRAFIA SELEZIONATA SUL NIE

– Wu Ming, New Italian Epic, versione 3.0 (quella pubblicata da Einaudi nel gennaio 2009) integrale in pdf.

– Wu Ming 1, Wu Ming / Tiziano Scarpa: Face Off. Due modi di gettare il proprio corpo nella lotta. Scaricabile in PDF, marzo 2009.
N.B. Scarpa non ha mai risposto.
N.B.2 Il saggio contiene anche la prima formulazione della nostra critica al “simbolo-Saviano”, del quale Scarpa faceva invece l’apologia contrapponendo la modalità comunicativa dell’autore di Gomorra alla nostra.
N.B.3 Ignorando totalmente questo scritto (e tutti i nostri inviti a “desavianizzare Gomorra“), negli anni successivi alcuni commentatori ci hanno attaccati facendo tra noi e Saviano di tutta l’erba un fascio e scrivendo inesattezze madornali. Tutto discendava dal fatto che avevamo recensito favorevolmente Gomorra e avevamo incluso quel titolo nel memorandum sul NIE. Nel 2013 ho ripreso la questione, scrivendo:

Roberto Saviano in posa per un servizio di Vanity Fair, 2012.

Il simbolo-Saviano in posa per un servizio di Vanity Fair, 2012.

«[…] all’epoca alcuni critici erano convinti che Gomorra non contenesse fiction, fosse un reportage integralmente e strettamente autobiografico, e rappresentasse un ritorno al realismo “puro” e referenziale. Oggi, se nel mondo degli studi letterari (almeno quelli seri) sostieni una cosa del genere, ti ridono dietro e ne hanno ben donde.
Apro un inciso: quest’equivoco – che l’autore stesso scelse di mantenere – contribuì non poco ad avviare la macchina mitologica che tramutò Saviano in un martire, poi in un trombone, infine in una sorta di presidente-ombra dell’Italia “buona”. Un Napolitano più giovane ma altrettanto insopportabile. Se Saviano avesse «mostrato la sutura», cioè fosse stato più trasparente sulle strategie testuali che aveva utilizzato per comporre Gomorra, forse sulla sua figura ci sarebbe stato meno investimento emotivo, e lui non si sarebbe calato così profondamente nella parte di quello-che-rischia-la-vita. Intendiamoci: l’ha rischiata e la rischia davvero, ma questo non può funzionare da ricatto morale ed eterna scusante per tutte le sue scelte e  i suoi comportamenti. Chiuso l’inciso.»

– Claudia Boscolo (a cura di), Overcoming Postmodernism: The Debate on New Italian Epic, numero monografico della rivista Journal of Romance Studies, Londra, 2010.

– Valentina Fulginiti e Maurizio Vito, New Italian Epic: un’ipotesi di critica letteraria, e d’altro. Saggio scaricabile in PDF, apparso nel 2011 sulla rivista California Italian Studies. Forse il miglior testo critico scritto sul NIE.

– Hanna Serkowska (a cura di), Finzione cronaca realtà. Scambi, intrecci e prospettive nella narrativa italiana contemporanea, Transeuropa, 2011.
Il volume, opera molto importante e ricca di spunti, è frutto delle giornate di studio svoltesi a Varsavia nei giorni 9 e 10 novembre 2009, intitolate Fiction, Faction, Reality… Incontri, scambi, intrecci nella letteratura italiana dal 1990 a oggi. Indice e introduzione scaricabili in PDF.

– Emanuela Patti, Che cosa resta del New Italian Epic, da illavoroculturale.org, 28 gennaio 2013.

– Elisabetta Mondello (a cura di), Roma Noir 2010. Scritture nere: narrativa di genere, New Italian Epic o post-noir?, Robin Edizioni 2010. Raccolta di interventi recensita su Carmilla qui.

– Giuliana Benvenuti, Il romanzo neostorico italiano. Storia, memoria, narrazione, Carocci 2012.

– Paola Bono e Bia Sarasini, Epiche. Altre imprese, altre narrazioni, Iacobelli 2014.

[Molto interessante il fatto che questi libri siano tutti scritti o curati da donne. Qualcosa vorrà dire…]

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4 commenti su “Dalla fine del New Italian Epic alla collana #Quintotipo

  1. P.S. Se non erro, da novembre a oggi questa è l’unica recensione di #Diariodizona uscita sulla stampa, ed è anche l’unico articolo uscito sul progetto Quinto Tipo.

  2. 4 anni fa chiesi a Guido Chiesa e Wu Ming 1 se esistesse una nebulosa NIE nel cinema italiano. Il primo mi invitò a capirlo davanti a una tazza di té, in cui cercammo di stilare una possibile lista di cine-opere Nie in relazione alla specificità del medium filmico. Da quella discussione nacque un piccolo progetto che mi valse l’ingresso al dottorato ma che abbandonai quasi subito (sia il progetto che il dottorato). La risposta di WM1 fù più perentoria:

    “Guarda, te lo dico con estrema sincerità: secondo me, per vari motivi, nel cinema italiano non c’è stata nessuna “nebulosa” come quella che descrivevo nel memorandum. Tentativi di parallelismo sono stati fatti (Garrone, Sorrentino etc.), ma secondo me erano forzatissimi, e non si è mai riusciti a elencare più di un pugno di opere che “spiccavano” sul resto della produzione nazionale, troppo poche e troppo eccezionali per fare una nebulosa. E devo dire che tutti quelli che conosco che si sono occupati di NIE, la pensano come me…

    R.”

    Passano gli anni, entro ad un nuovo dottorato e mi butto nello spinoso campo delle scienze cognitive, della filosofia analitica e dell’archeologia dei media, pur seguendo la disciplina di studi con cui ottenni la laurea: la teoria del cinema. Il pallino del NIE mi rimane in testa: partecipo con altri giapster al racconto/saggio #FuturoAnteriore, inizio a scrivere un U.N.O. sulla scena Hip Hop e leggo un sacco di libri. Uno di questi è “Mitocrazia” di Yves Citton, con una parte dedicata al lavoro dei Wu Ming, e l’altro è il recente “Storytelling and the Sciences of Mind” del narratologo cognitivo David Hermann. Contemporaneamente sono invitato a presentare un intervento ad un convegno sul rapporto fra Mito e Cinema Americano.

    L’idea dunque è questa: invece che cercare una serie di opere filmiche “analoghe” ai caratteri peculiari del NIE, perché non guardare come esse si inseriscono nel più esteso ambiente discorsivo transmediale in cui siamo immersi? Il case study privilegiato per questa operazione diventa il fenomeno divistico di Cary Grant nella sua traiettoria transmediale fra lo star system hollywoodiano, l’universo Hitchcockiano e la sua rimediazione nel romanzo “54” di Wu Ming. Non si tratta di una semplice analisi “testuale” o delle forme di rappresentazione di Grant su diversi medium, ma soprattutto di una genealogia delle teorie della spettatorialità filmica/letteraria basata su un approccio sui principi della cognizione incarnata e della mente estesa (Per chi fosse interessato, l’articolo è in fase di pubblicazione ma non ancora revisionato: chi volesse leggerlo in anticipo e fornire qualche suggerimento mi contatti in pvt).

    Quasi contemporaneo al memorandum di WM1, Thomas Elsaesser pubblica un breve quanto fondamentale saggio di teoria del cinema dedicato ai “Mind-game film”. Questo apparente filone hollywoodiano che comprende opere come Fight Club, Il sesto senso, Mulholland Drive, The butterfly Effect, Memento, Donnie Darko ecc. è caratterizzato dall’ibridazione di stilemi classici e d’avanguardia, per la creazione di film che chiedono allo spettatore un forte coinvolgimento “deduttivo” ma che al contempo sono inseriti in un sistema produttivo mainstream. Questa però è una definizione sempliciotta della nozione, così come è stato più volte sottolineato come un U.N.O. non sia semplicemente un’opera di genere ibrido e dallo storytelling complesso.

    Il punto che potrebbe unire il NIE ad altri fenomeni similari all’interno dell’ambiente transmediale contemporaneo è il *divenire-agency* dell’opera. Per Elsaesser il mind-game cinema, così inserito in un ambiente biotecnologico ad intelligenza ibrida, potrebbe essersi trasformato egli stesso in un agency performativo in grado di orientare il nostro modo di pensare e di “giocare” con noi (e lo storytelling complesso è solo uno dei giochi possibili). Per “agency” (spesso tradotto con “agentività”) possiamo intendere la capacità di un ente di incarnare percorsi performativi autonomi, ma non per forza esistenziali e auto-riflessivi, in un contesto in cui si relazionano con altri agency.

    La nozione di #QuintoTipo come “comunicazione diretta, bidirezionale e collaborativa fra terrestri e intelligenze aliene” calza a pennello con questa idea di agentività dell’opera che instaura un eco-sistema simbiotico con la comunità dei lettori, e produce diramazioni rizomatiche e transmediali. Lo abbiamo visto recentemente con l’Armata dei sonnambuli, attraverso la realizzazione di veri e proprio “artefatti cognitivi” (termine coniato da Vygotskij e ripreso dalla narratologia cognitiva per indicare dei “rampini” su cui costruire l’impalcatura cognitiva individuale e dare senso al mondo). Con il divenire-agency di ciò che fino a pochi decenni fa venivano chiamati “testi” o “oggetti”, oggi l’ideale “ecosofico” promosso da Félix Guattari può estendersi in circuiti molto più ampi che negli istituti in cui il filosofo prestava servizio. Lo sviluppo delle tecnologie di rete è stato determinante ma rappresenta sempre un rischio: la cultura “networked” come quella “hacker” è parte organica al sistema. Bisogna estendersi ma mettendoci dentro anche il corpo, l’empatia, il piacere, le pelli e i peli. Su questo, un punto di vantaggio a #QuintoTipo perché si prospetta un progetto dove ci si incontrerà vis-a-vis e, letteralmente, bisognerà pedalare.

  3. Incredibile pensare che siano già trascorsi 6 anni da quel “NIE”. Non voglio dire che sembra ieri, ma sicuramente sento quella discussione ancora viva nella memoria.
    Era la prima volta che seguivo qualcosa di critica letteraria sul Web.
    A tutt’oggi, non posso che concordare con Asor Rosa. Non si è più visto nessun altro tentativo di ricomporre i pezzi del tangram.
    Un vero peccato.
    E forse ha ragione WM1 anche sul punto seguente: non esiste più nessuna nebulosa “NIE”, oggi. Dal 2008, in questo lustro (che presumo presto diverrà decennio) di crisi, l’arte italiana si è accartocciata su sé stessa. Opere come il manifesto sul NIE sono servite a sgomberare un poco l’orizzonte, a suggerire possibili altri confini. Ma non si è colta l’occasione.
    Chiaro che si tratta di un mio sguardo molto generale. Gli stessi Wu Ming hanno continuato nel loro percorso esplorativo, e quel gioiello che è “L’armata dei sonnambuli” ne è la prova più lampante.
    *
    Vorrei anche rispondere a Nexus. Intanto, che bello vedere il nome di Vygotskij qui in giro.
    E’ esistita una nebulosa NIE al Cinema?
    Se partiamo dal presupposto che di film italiani ne vengono prodotti e distribuiti in sala in numero nettamente inferiore rispetto ai libri italiani pubblicati, diventa difficile anche tracciare delle linee guida su quello che è l’unico genere in voga in Italia da 30 anni, ovvero la commedia.
    Penso sarebbe bello già ci fosse stato un IE al Cinema. Certo, dei titoli sparsi qua e là nel corso degli ultimi 70 anni li trovi… ma bastano a creare un orizzonte visibile?
    Lo stesso “Gomorra”, divenuto film, aveva perso (pur nello strepitoso adattamento di Garrone) quella carica esplosiva che aveva avuto il “romanzo” di Saviano.
    Poi, dovremmo anche parlare del documentario. In effetti, non sono pochi i registi e gli autori che si sono cimentati con questo “genere” negli ultimi anni, anche costretti dalla mancanza di fondi. Intanto però, il documentario non è nato ora, è da sempre molto gettonato nel nostro paese. E poi (anche se sicuramente mi mancano tanti titoli da vedere) non mi sembra si sia mai troppo sbilanciato dal suo baricentro realistico.
    Alcuni tentativi di rompere il silenzio sono stati fatti, bocciati quasi sempre dal pubblico. Di recentissimo è uscito il film di Salvatores che ha provato addirittura il genere “supereroico”. Tentativo lodevole e meritorio per il coraggio, ma ancora, secondo me, imbarazzante nei risultati (a partire dalla scelta del cast).
    I Tartari, in summa, sono ancora lontani…

  4. […] giugno ROMA Presentazione della collana Quinto Tipo diretta per Alegre da Wu Ming 1 Intervengono: Wu Ming 1 (direttore della collana) Goffredo Fofi […]