Per smontare la macchina delle panzane sul caso #Marò. Dodici punti di Matteo Miavaldi

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[Proseguiamo la disamina critica del caso Marò riprendendo da East on line, freschi di pubblicazione, questi dodici punti del giornalista Matteo Miavaldi, autore del libro I due marò. Tutto quello che non vi hanno detto (Alegre, Roma 2013) e di diversi articoli apparsi qui su Giap. Chi vuole lasciare commenti può farlo sotto il post originale. Buona lettura. WM]

Si preannunciano giorni convulsi, all’insegna della schizofrenia politica, intorno all’annosa questione marò in India. Proviamo a mettere un po’ di punti fermi per orientarci meglio tra le cose che verranno dette e scritte.

Cos’è successo ieri in tribunale?
Gli avvocati di Massimiliano Latorre e Salvatore Girone avevano intenzione di presentare due istanze separate per prolungare il soggiorno in Italia del primo e far tornare a casa per Natale il secondo.
Latorre è in Italia da metà settembre per proseguire la riabilitazione dopo l’attacco ischemico che ha subìto qui a New Delhi: la Corte suprema ha accordato una licenza in scadenza il prossimo 13 gennaio e il governo indiano – prima che i giudici si pronunciassero – aveva fatto sapere di non aver nulla in contrario al ritorno di Latorre in Italia per motivi medici (occhio che questa cosa è importante, poi la riprendiamo). La richiesta era di poter rimanere in Italia per altri quattro mesi, a fronte anche di un’operazione cardiochirurgica alla quale Latorre potrebbe doversi sottoporre il prossimo 8 gennaio.

Girone è rimasto in India e nell’istanza aveva presentato alcune (forse due, non è chiaro) perizie mediche che indicavano lo stato di malessere dei suoi figli (un maschio e una femmina). I due soffrirebbero di “sindrome da stress post traumatico”, si legge negli stralci divulgati dalla stampa, poiché sono convinti di non poter più rivedere il padre e credono gli verrà comminata la pena di morte. Girone non vede i suoi figli dallo scorso mese di marzo.

E i giudici cos’hanno detto?
Il presidente della Corte ha detto che istanze di questo genere “non si prenderebbero in considerazione da nessuna parte del mondo”, che “anche le vittime hanno i propri diritti” e, soprattutto, che se avesse acconsentito a richieste simili allora avrebbe dovuto farlo per tutti gli altri detenuti nel paese.

Davanti a queste obiezioni, gli avvocati hanno deciso di ritirare le istanze, probabilmente in attesa di tempi e condizioni migliori.

Ad esempio quali?
La Corte suprema chiuderà per le vacanze di Natale fino al prossimo 5 gennaio. Da quella data i legali dei marò potrebbero provare di nuovo a tastare gli umori della Corte, facendo leva – almeno per quanto riguarda le condizioni di salute di Latorre che mi dicono essere preoccupanti – sul sostanziale accordo del governo indiano e sul fatto di non aver ricevuto un rifiuto da parte della Corte dopo la valutazione delle istanze, bensì di averle ritirate prima di sottoporle ufficialmente al vaglio dei giudici (che infatti, le avessero accettate, avrebbero richiesto il parere dell’accusa e del governo, rinviando l’udienza).

Come abbiamo reagito in Italia?
Male, nel senso che nessuno – nemmeno chi scrive – si aspettava una reazione del genere da parte della Corte. Questo perché si dava per scontato un accordo diplomatico “segreto” che avrebbe addolcito la posizione della Corte. Cosa che, evidentemente, ancora non c’è. E questo è un bel problema, poiché se il governo Renzi in tutti questi mesi non è riuscito a tessere accordi informali con la controparte indiana – così da chiudere questa diatriba lunga ormai tre anni attraverso il dialogo, come auspicato da Roma – allora significa che l’Italia si dovrà affidare solo alla clemenza della Corte suprema. E sarebbe un bel rischio.

Perché?
Perché i rapporti con la Corte suprema indiana hanno raggiunto i minimi storici quando, nel marzo del 2013, il governo Monti ha prima convinto i giudici a dare una “licenza elettorale” ai due marò – condizione abbastanza inusuale, siccome pare avrebbero potuto votare alle elezioni politiche dall’ambasciata – e poi, una volta arrivati in Italia, ha mandato a dire alla Corte suprema indiana che l’agreement firmato dall’ambasciatore Mancini per conto dello Stato italiano, dove ci si impegnava solennemente a riconsegnare i marò all’India al termine della licenza, non valeva più niente: avevamo cambiato idea.

All’epoca la reazione della Corte fu scomposta e irruenta, analisti indiani scrivevano sui quotidiani locali che una cosa del genere non era mai capitata “nemmeno col Pakistan”: minacciarono di sospendere l’immunità diplomatica dell’ambasciatore e sostanzialmente sfidarono l’Italia a incorrere nella collera indiana. L’Italia cedette, ma quel giochino come paese siamo destinati a pagarlo almeno fino alla fine di questa vicenda.

Però l’India ci calpesta in spregio ai diritti umani!
Questa è una cosa che si sente e si legge troppo spesso ed è una posizione francamente indifendibile, considerando le condizioni di cui i due marò hanno potuto godere nel loro attuale status – davanti alla giustizia indiana – di indagati per duplice omicidio: non hanno mai passato un solo giorno in carcere, hanno ottenuto diverse licenze per tornare a casa (tre Latorre, due Girone). Condizioni assolutamente eccezionali che, dal punto di vista della Corte suprema, sono state ripagate col tentato tranello del marzo 2013.

L’India però ci aveva fatto credere che le cose stessero andando bene, e invece adesso ci sbatte la porta in faccia!
Anche qui, se ne può discutere. Da quando la questione marò è passata in mano al governo Renzi, c’è stata solo una telefonata tra il primo ministro indiano Narendra Modi e il nostro premier in cui Modi ha detto che questa è una questione giuridica e quindi se ne occupano i giudici. Ovvero, se n’è lavato le mani.
Prima, erano successe due cose.

Uno: Renzi ha detto tante grazie a Staffan De Mistura, diplomatico di lungo corso che aveva gestito il caso marò dall’inizio, probabilmente per dare un segnale di #cambiamento, e l’ha messo fuori dalla gestione della diatriba. De Mistura era un interlocutore molto considerato qui in India; uno che riusciva a sedersi a prendere un té con l’allora ministro degli Esteri Salman Khurshid e fare un comunicato stampa congiunto in cui si smontava una volta per tutte la palla del rischio della pena di morte per i marò (sulla quale invece in Italia abbiamo continuato a cavalcare strumentalmente, senza considerare che in casi del genere la pena qui in India non si applica e che dal 1990 ad oggi è stata comminata la pena capitale solo tre volte, per due terroristi – un pakistano e un kashmiro – e un serial killer indiano).
Ora chi sta gestendo i rapporti diplomatici con l’India? Non si capisce.
Abbiamo mandato in India una delegazione parlamentare che però non è stata ricevuta da NESSUN politico indiano; i vari ministri degli Esteri non sono mai venuti qui in India, e nemmeno il primo ministro Renzi.

Due: Renzi ha dato mandato a un pool di giuristi, coordinato dall’inglese Daniel Bethelem, di preparare una richiesta di attivazione delle procedure per l’arbitrato internazionale. Richiesta che pare sia pronta ma ancora ce la teniamo nel cassetto.

Perché?
Forse perché i tempi dell’arbitrato internazionale sono stimati intorno ai tre anni e, soprattutto, non siamo nemmeno sicuri che la richiesta vada in porto. Oltretutto, l’arbitrato non tratterebbe i fatti che vengono contestati a Latorre e Girone, bensì la giurisdizione su quei fatti. Detto più semplice: l’arbitrato eventualmente dovrà decidere chi, tra India e Italia, abbia la giurisdizione dell’incidente dell’Enrica Lexie.

Ma se è avvenuto in acque internazionali! La giurisdizione è nostra!
Non è proprio così, questa è una delle molte bombe al panzanio che vengono sganciate a ripetizione e che ormai molti danno per assodate. Invece no. Il fatto è avvenuto a 20,5 miglia nautiche dalla costa indiana (ci sono le rilevazioni satellitari ed è un dato che anche l’Italia ha riconosciuto) in un tratto di mare che si chiama zona contigua. L’India dice che quel tratto, secondo le proprie leggi, rientra nell’area della totale giurisdizione indiana. L’Italia dice che no, non sono acque territoriali e quindi la giurisdizione è di Roma. Sono due interpretazioni concorrenti del diritto internazionale e quindi, se non ci si mette d’accordo tra Italia e India, si dovrà ricorrere a un tribunale internazionale per dirimere la questione.

Nota: ancora oggi gli esponenti di Fratelli d’Italia, nell’interrogazione parlamentare di questo pomeriggio, dicono che l’incidente è avvenuto a 32 miglia nautiche. Qualcuno li avverta.

Però i marò sono soldati italiani e quindi devono essere giudicati da un tribunale italiano, hanno l’immunità funzionale!
Questo lo diciamo noi italiani però, almeno molti. Diversa l’opinione dell’India, che con­te­sta l’immunità fun­zio­nale con­si­de­rando il ser­vi­zio anti­pi­ra­te­ria svolto dai marò a bordo di una nave civile un’attività di tipo pri­vato, non a difesa dello Stato (e non, ovvia­mente, un’azione di guerra).

Quindi adesso che si fa?
Le dichiarazioni giunte fino a questo momento, e il rientro dell’ambasciatore Daniele Mancini in Italia disposto dal neoministro degli Esteri Gentiloni, lasciano intendere un irrigidimento della posizione Italia, ma si capirà meglio quando Renzi dirà qualcosa in merito (ancora non l’ha fatto).

Si potrebbe avviare la procedura di arbitrato internazionale, facendo la voce grossa e mettendo però a rischio la posizione di Girone, che è ancora qui in India.

Si potrebbe provare, per l’ennesima volta, a chiedere supporto agli organi internazionali (Onu) alla Ue e agli “alleati” per fare pressioni sull’India, ma anche qui ci si espone a uno scontro con l’India dal quale rischieremmo di uscire con le ossa rotte, considerando che Narendra Modi (al governo da sei mesi) è in una sorta di stato di grazia diplomatico – ad esempio, aspetta che il “nostro alleato americano” Barack Obama arrivi qui a Delhi per essere ospite d’onore della parata per la Festa della Repubblica del 26 gennaio – e che chi, secondo Roma, avrebbe dovuto spendersi per la causa italiana, non l’ha fatto mai.
Al massimo, in passato, abbiamo portato a casa la “preoccupazione” e i moniti della ministra degli Esteri dell’Ue Cathrine Ashton, che qui in India nessuno ha calcolato.

Consideriamo anche che, qui in India, l’affare marò è un non-caso: all’indomani del rifiuto della Corte suprema per le licenze di Latorre e Girone non c’è una dichiarazione di un politico indiano, manco a pagarla.

Tanto li tengono lì e se ne fregano così possiamo continuare a fare affari con l’India…
Altra bomba al panzanio. Qui un po’ di numeri: le esportazioni italiane in India nel 2013 sono scese dell’11 per cento. Ancora più chiaramente, citando dal pezzo: «Nel complesso l’Italia ha un peso dell’1,15% sul totale del commercio indiano (fonte Dipartimento indiano del Commercio). Tale valore era dell’1,7% nel 2008-2009 ed e’ da allora in lieve diminuzione. L’India invece cattura lo 0,9% del commercio totale dell’Italia con il resto del mondo (fonte Istat), valore piu’ o meno costante dal 2008, se si esclude un picco dell’1,1% nel 2011».

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One commento su “Per smontare la macchina delle panzane sul caso #Marò. Dodici punti di Matteo Miavaldi

  1. […] In una delle vicende più sovra-esposte mediaticamente degli ultimi anni, quella dei due Marò, mi ha sempre colpito la totale mancanza di riferimento, dei media italiani, al fatto che i due soldati italiani tanto esaltati hanno, di fatto, ucciso due persone inermi e giovani. La stessa identificazione della vicenda che mette al centro i due assassini anziché le due vittime, mi è parsa, da subito, davvero “strana”. […]