#Timira Cut ‘n’ Paste

Il passaporto di Timira

[Quello che segue è un montaggio tematico di voci e scritti prodotti intorno a Timira nelle ultime settimane. Tra parentesi, dopo ogni frammento, trovate una sigla e in calce all’intero testo c’è la legenda dei diversi autori e i link per risalire ai testi completi o ascoltare i file audio originali. Buona lettura & Buon ascolto. Ricordiamo che, per tutto il mese di luglio, in libreria Timira costerà non 20 ma 15 euro, perché tutti i libri Stile Libero Einaudi sono scontati al 25%. E’ una promozione che Einaudi fa tutte le estati, ormai da diversi anni. Per chi volesse approfittarne…]
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Ci sono due tipi di libri magici. Quelli che ti trascinano nel loro mondo, e quelli che invadono il tuo mondo. I libri del primo tipo sono quelli che mentre li leggi, la realtà esterna svanisce e tu sei completamente risucchiato nell’universo della finzione; poi magari chiudi il libro, e finisce lì. I libri del secondo tipo sono quelli che mentre li leggi, sì bello, ma magari ti puoi pure distrarre, te ne puoi pure staccare senza tanta pena; però poi, mentre sei lì che vai al lavoro, o che carichi la lavastoviglie, ti sorprendi a pensare: chissà che starà facendo tizia, chissà come va a finire quell’incontro di caio. E ti accorgi che pensi ai personaggi del libro come a delle persone vere, peggio, come a degli amici. (DDM)

Ci si può innamorare di una signora molto avanti negli anni, dal carattere impossibile, incline a bere un bicchiere in più, una signora Pietro Veronese che olt r etut to è mancata qualche tempo fa e adesso non c’è più? Ma sì che può succedere, leggendo Timira, romanzo meticcio di Wu Ming 2 e Antar Moha med. In questo libro Isabella Marincola vive di commovente vita propria, narrata con tutta la sincerità e la tenerezza del mondo in bellissimo italiano da uno scrittore amico e dal figlio Antar. (PV)

Itala VivanUn libro che mi ha entusiasmato. Io non sono molto facile agli entusiasmi, perché sono una vecchia volpe, sono tanti anni che leggo libri, che faccio critica letteraria, che insegno, e quindi è difficile che un libro mi prenda totalmente, ma con questo è accaduto. E’ come camminare su un grande mosaico che è fatto di tanti pezzi, pezzi di marmi diversissimi, provenienti da località diverse, che però producono un disegno complessivo che è quello sul quale si cammina e dentro il quale si entra, perché il libro è molto vivo, entusiasmante: c’è la continua avventura di questa donna che non si sa bene cosa farà dopo e come risolverà i suoi problemi. (IV#1)

Tutto questo dà al romanzo una vivacità particolare, perché obbliga il lettore ad essere attivo, a ricostruire il romanzo dentro di sé. Non solo la trama, ma il perché degli eventi, la reazione degli individui. (IV#2)

Logo Scrittura Industriale CollettivaCi vengono in mente diverse ragioni per cui questo può essere definito “romanzo meticcio”, come recita il sottotitolo. Dicci le tue. Ma poi, ricollegandoci alla domanda precedente… Non sarà che tutti i romanzi sono meticci? (SIC)
Tutti i romanzi sono meticci, proprio come gli individui. Eppure, così come ci sono persone che riescono a occultare questa loro caratteristica, allo stesso modo ci sono romanzi che negano la loro natura ibrida, che preferiscono non metterla in piazza. Questo, invece, è un romanzo programmaticamente meticcio, che dichiara di esserlo fin dalla copertina, che poteva presentarsi ai lettori solo rivendicando una lingua, una struttura e un autore esplicitamente ibridi. Ce lo imponeva la vicenda, anch’essa meticcia, che abbiamo raccontato.

Romanzo meticcio perché gli autori hanno mescolato le loro provenienze, anche se poi sono tutti cittadini italiani. Autori che in realtà sono tre, però in copertina ce ne sono scritti due, che sono due uomini, mentre la donna è la protagonista del libro: questo mi ha posto qualche problema. (GB)

Raffaele Guazzone Altra notazione: particolarmente complesso il lavoro su lingue e dialetti, che già era presente in Altai, ma qui diventa molto perv a sivo (bolognese, sardo, somalo…) (RG)
Sì, ci abbiamo lavorato con cura particolare, ma non con l’obiettivo di ottenere un effetto di realismo, quello ci interessa il giusto, i dialoghi di un romanzo sono sempre ideali, ricostruiti. La scelta di riprodurre o imitare i dialetti ha invece obiettivi diversi a seconda dei co ntesti. C’è ad esempio una scena, nella quale Isabella entra in un bar della Val di Fiemme e gli avventori parlano una sorta di grammelot fiemmese che nessun individuo parla davvero, in quelle zone. L’effetto ricercato, quindi, non è quello di una adesione al “reale”. Piuttosto, il lettore rimane vittima dello stesso spaesamento linguistico provato dalla protagonista, e in questo modo risulta più efficace lo scambio di battute tra Isabella/Timira e uno dei clienti: “Tu vieni dalla Somalia, quindi l’italiano l’hai imparato a scuola” – le dice l’uomo in quel particolare dialetto – e lei pronta: “Perché, tu dove l’hai imparato, in famiglia?”

Quanta libertà ci si può prendere nel raccontare la storia altrui, fino a che punto la si può manipolare allo scopo di farne q u alcosa che possa avere una chiave di lettura in qualche modo, se non universale, più ampia? Mi chiedo come abbiate vissuto ent rambi questo punto nodale, dal punto di vista di chi ha fatto da catalizzat ore esterno e da quello di chi di quella vicenda è parte integrante… (AB)
Isabella è stata attrice di cinema e di teatro, quindi sapeva molto bene che anche la memoria e l’autobiografia sono forme di recitazione. Non le interessava scrivere un diario personale, sapeva che con un taglio del genere il libro avrebbe perso di valore, si sarebbe risolto in un fatto privato. Fin da subito ci siamo trovati d’accordo che la verità del nostro romanzo non doveva consistere nella cronaca esatta di una vita, ma nel tentativo di restituirne il senso. Nel libro ci sono diversi episodi inventati, alcuni volutamente, in chiave simbolica, altri plasmati e ricostruiti da quel processo creativo che è la rimembranza. Ecco perché, in esergo al romanzo, abbiamo inserito la frase “Questa è una storia vera, comprese le parti che non lo sono”. John Landis, nel suo film ” Ladri di cadaveri”, aveva scritto invece: “Questa è una storia vera, eccetto le parti che non lo sono”. Noi l’abbiamo modificata perché Timira ci pare tutto vero, come può essere vera una testimonianza, un racconto messo in prospettiva, la voce di una “subalterna” che finalmente parla, sfugge alla retorica ufficiale e ci consegna il suo sguardo di parte. Timira quindi non è un documento storico, ma semmai un invito, uno stimolo ad approfondire la storia, a cercare i documenti. L’unico modo che un narratore ha per essere obiettivo è dichiarare da quale angolatura ci racconterà il mondo. Quella è la sua verità e in Timira mi pare molto evidente.

Quindi è terribilmente vera l’intera storia, il personaggio, anche se questo è un romanzo, grazie alla sua costruzione narrativa. (IV#1)

Di chi sono le parti in prima persona? Chi le ha scritte davvero? (GB)

Costruendo il romanzo insieme ad Isabella e facendolo ruotare attorno alla sua esperienza, pensi che sia cambiato il concetto di discriminazione dal colonialismo ad oggi in Italia? E se sì, come? (EF)
Come dicevo prima, credo che il razzismo culturale di oggi dipenda soprattutto dalla paura. Negli anni Trenta, invece, Isabella ricordava un altro tipo di razzismo: quello di una nazione sicura di sé, imperiale, che vedeva nel “negro” non un nemico, ma un selvaggio da civilizzare. Era un razzismo paternalista, che considerava Isabella una specie di bertuccia ben ammaestrata, una bella abissina che sapeva recitare Dante, e quindi la dimostrazione che la civiltà italiana, alla fine, aveva la meglio anche sul sangue selvaggio. Nell’Italia di oggi, invece, Isabella ha trovato un razzismo più aggressivo, più feroce. Non che le leggi razziali fasciste siano state docili, tutt’altro, lo sanno bene gli ebrei del Ghetto di Roma. Ma su Isabella, cittadina italiana di pelle scura, non hanno avuto un particolare effetto, al punto che la sua famiglia non gliene parlò neppure: in fondo una donna non deve interessarsi di politica.

E’ un testo Fulvio Pezzarossa che, al di là della volontà narrativa, rappresenta un vero e proprio studio di avanguardia, nel momento in cui si interroga sulle radici del razzismo attuale. Molti di noi hanno vissuto questa strana stagione degli anni Settanta e degli anni Ottanta in cui sembrava che il razzismo in Italia non esistesse più e poi improvvisamente all’inizio degli anni Novanta è riemerso e ci si è interrogati molto poco sulle permanenze segrete di questo potentissimo e organizzatissimo razzismo. Qui c’è un percorso che dice come il razzismo di oggi derivi, attraverso passaggi molto chiari, dal colonialismo, dal fascismo e dal dopoguerra. Ci sono pagine spietate dedicate al mondo dell’intelligentcija romana del dopoguerra. Perché questi grandi intellettuali usciti dal fascismo, ai quali era affidata la transizione culturale dell’Italia verso la nuova stagione repubblicana, si comportavano, chi più chi meno, tutti al pari del nostro Indro Montanelli. (FP)

Il rapporto di Isabella con gli intellettuali italiani dell’immediato dopoguerra – scultori, pittori, registi – fa emergere un elemento di continuità tra l’Italia di Mussolini e l’Italia di De Gasperi. Questi uomini di cultura, che traghettarono il nostro paese dal fascismo alla repubblica, non sembrano avere un atteggiamento tanto diverso, nei confronti di una ragazza di colore, di quello che avevano gli uomini del Regime, dell’Impero, delle Leggi razziali. L’italiano si sente in dovere di possedere la donna nera, così come ha posseduto le terre africane. (FL)

Nel romanzo confessi che l’incontro con Isabella ti ha rimesso in discussione, sia come scrittore che come occidentale. In che modo? E perchè? Pensi che il ruolo dello scrittore, dell’intellettuale, abbia, in questo senso, bisogno oggi di un ripensamento? (EF)
Una delle esperienze centrali della mia vita è la scrittura collettiva. Eppure, di fronte alla prospettiva di scrivere insieme a Isabella ho avuto paura. Sulle prime, ho pensato che il romanzo sarebbe venuto meglio se io, il cantastorie, avessi preso le memorie di Isabella, le avessi sbobinate e trasformate in letteratura, per poi correggere con lei il lavoro finito. Per alcune settimane ho coltivato quindi un pensiero colonialista: io prendo la tua storia, ci faccio quel che voglio e poi tu mi devi dire giusto se ti va bene o no. Per fortuna, Isabella e Antar sono stati più convinti di me della necessità di una scrittura collettiva, meno spaventati dall’impresa. Questo mi ha fatto capire che le storie meticce della contemporaneità hanno bisogno di scrittori che non si tirino indietro di fronte alla prospettiva di mescolare la loro identità di autori, la loro voce e la loro scrittura con quella di altri.

Il problema di come scrivere questo romanzo è una delle domande che Wu Ming 2 si auto-pone in un altro dei testi che compongono il mosaico di Timira , le sue quattro “Lettere intermittenti,” in cui parla come autore del libro che sta scrivendo e che noi stiamo leggendo. La terza di queste lettere è dedicata alle difficoltà insite nel raccontare la vita di una donna come Isabella e soprattutto a quali strategie narrative adottare per rispondere, da un lato, al bisogno e all’urgenza di dare corpo e voce alla storia di Isabella–“convinti che le tue terre avesse diritto a un posto sul mappamondo” (345)—e, dall’altro, non fare sì che questa operazione trasformi la storia di Isabella e le sue terre “nella mia colonia” (344). Il problema quindi che i narratori nel far consocere le storie silenziose di Isabella non intendono colonizzarle con la scrittura. Wu Ming 2 è lungi dall’essere il primo narratore a porsi questioni simili. Ma in un’epoca come la nostra in cui la realtà stessa è sempre più meticcia (e frammentaria e contradditoria e variegata), è sempre più resistente ad essere narrata secondo gli schemi consueti, una riflessione come quella che accompagna la storia di Isabella/Timira è sia necessaria che urgente. (DW)

Passiamo invece all’aspetto storico della vicenda. la storia della Somalia: sepolta nel dopoguerra, scoperchiata 20 anni fa… e adesso? mi fa venire in mente per molti versi (ma forse è una deformazione professionale, visto che conosco bene la questione) le vicende del popolo saharawi e la questione del Sahara occidentale, altro rimosso post-coloniale condannato all’oblio. (RG)
Penso che il rimosso della colonizzazione italiana sia diverso dalla questione Saharawi e da altre vicende post-coloniali. La peculiarità di questo rimosso sta nel suo essere contraddittorio. Il caso della Somalia è esemplare: colonia italiana dal 1908, conquistata dagli inglesi nel 1941, torna ad essere italiana con la forma dell’Amministrazione Fiduciaria, tra il 1950 e il 1960. In quei dieci anni l’Italia doveva avviare la Somalia alla democrazia, e se guardi i cinegiornali d’epoca sull’Indipendenza somala, sono tutto un misto di nostalgia e orgoglio, tesi a sottolineare quanto sia raro che una ex-colonia vada d’accordo con la “madrepatria”. Per assurdo, credo che questi presunti “rapporti amichevoli” abbiano determinato la rimozione, l’occultamento dei conflitti, anche grazie al fatto che dopo la Seconda Guerra mondiale non ci sono state guerre d’indipendenza contro l’Italia, come invece si sono viste in Algeria o in Angola.

«Possano gli Italiani essere distrutti e nulla restare di loro/ Possano esplodere con le bombe ed essere fatti a pezzi/ Possano essere sacrificati per la bandiera della Lega  /Possa Dio esaudire le mie preghiere.»

Difficile non avere un brivido di emozione, ma anche di sorpresa, leggendo la poesia di Timiro Ukash che apre la terza parte del libro. Ma in generale tutto Timira apre fronti nuovi. Trovi che il colonialismo italiano sia stato finora, per così dire, “sottoraccontat o”? (SIC)
Angelo Del Boca, che ha fatto da apripista agli studi sul colonialismo italiano, alla fine della sua opera monumentale sull’Africa Orientale, passa il testimone ai romanzieri, nella speranza che essi raccontino ciò che lo storico non può far emergere, potremmo chiamarla la “verità pasoliniana” sul colonialismo, cioè quel genere di verità che puoi scoprire con il metodo narrativo ma che non puoi dimostrare con la ricerca scientifica. Ci sono scrittori che hanno seguito l’invito (o che l’avevano raccolto ante litteram, come Flaiano con “Tempo di Uccidere”, che risale al 1950). Tuttavia, se ci fa ancora effetto leggere una poesia come quella di Timiro Ukash, ispirata dal sacrosanto furore di una somala contro gli italiani, significa che in molti casi il punto di vista adottato in quei romanzi è ancora coloniale, maschio e bianco. Sono convinto invece che solo uno sguardo femminile, meticcio e post-coloniale ci può aiutare a capire meglio la nostra criminale “avventura” africana e quanto questa ancora influisca nel definire il carattere, l’identità degli italiani, soprattutto di genere maschile, perché le colonie italiane furono per lo più “colonie per maschi”, frequentate da soldati e funzionari molto più che da famiglie di lavoratori. Per fortuna, questo punto di vista comincia ad emergere, e non è davvero un caso se i migliori romanzi postcoloniali italiani sono scritti da donne: penso a Gabriella Ghermandi, Igiaba Scego, Cristina Ali Farah, Shirin Ramanzanali Fazel, Carla Macoggi, Kaha Mohamed Aden, Fatima Ahmed. Nomi che spesso sono ancora sconosciuti al grande pubblico, ma che insieme costituiscono ormai una “massa critica” difficile da ignorare.

Il romanzo di Wu Ming 2 e Antar Mohamed è forse il primo, riuscito tentativo di romanzo che risponde – nell’accezione del writing back teorizzato da Ashcroft in quel volume-pietra miliare per gli studi postcoloniali The Empire Writes back – a un immaginario ancora molto intriso di pregiudizi nei confronti dell’altro da sé per eccellenza, il nero, e di ignoranza sul tema della storia coloniale italiana. (GdS)

Ci sono tanti libri che raccontano le storie di un figlio dell’Impero, di una figlia dell’Impero, ma questo è sì, la storia di una figlia delle colonie, ma è anche molto di più, è la storia vera di una vita, di una persona che soffre, che cerca, che cresce, che cambia, la si sente molto cambiare, anche attraverso le scelte che opera. (IV#1)

Perchè gli italiani fanno ancora così fatica a vergognarsi della loro presenza in Somalia? Rientra nell’idea di Fascismo come dittatura da operetta, incapace di essere crudele fino in fondo come il nazismo, interprete di un male più banale, per dirla con la Arendt? Rientra nello stereotipo degli “italiani brava gente”? O c’è qualcosa di più? (RG)
Il mito degli “Italiani brava gente” è servito come tappabuchi: l’Italia non aveva una politica estera chiara, né coloniale né post-coloniale, e allora si accontentava di sentirsi buona, al limite cialtrona, perché, in fondo, meno autoritaria, e quindi meno razzista. Invece il colonialismo italiano è stato, nella sua brutalità, eguale a quello britannico o a quello francese, e chi non vuole ammettere certi crimini (gas, deportazioni di massa, campi di concentramento, fucilazione di prigionieri, stupri, leggi razziste, discriminazioni, ecc.) dovrebbe essere chiamato negazionista come chi non vuole ammettere che Aushwitz fosse un campo di sterminio.

Un altro elemento decisivo della vicenda è il periodo del rimpatrio di Isabella, al principio degli anni Novanta: da una parte c’è una cittadina italiana di pelle scura che è paradossalmente profuga all’interno del paese che le ha dato la nazionalità, dall’altra c’è un paese in crisi, in bilico, che in qualche modo ha perso punti di riferimento… sono due immagini che in qualche misura si rispecchiano l’una nell’altra, non credete? È in questa situazione che, paradossalmente, Isabella trova finalmente una sua sistemazione…(AB)
Spesso la Somalia viene definita “uno stato fallito”, e additata come caso limite a livello planetario. Ma i casi limite, le eccezioni, servono sempre a definire una regola, a circoscriverla, a confermarne lo sviluppo. La Somalia “fallisce” nel 1991, un anno di grandi disastri anche per l’Italia: finisce la Prima Repubblica, ci si convince troppo in fretta che ne sia nata una seconda. Oggi ci rendiamo conto che quella seconda repubblica è di là da venire, che abbiamo vissuto semmai un secondo ventennio, un lungo intermezzo che ora necessita di un curatore fallimentare. In quell’Italia, Isabella si ritrova profuga e cittadina, dopo trent’anni di vita in Somalia. Per non rovinare la lettura, non racconteremo come Isabella riesce a sistemarsi dopo molte avventure: di certo non è lo Stato a trovarle un tetto, alla faccia di Giorgio Marincola e della sua medaglia d’oro al valor militare. Ma uno Stato che non riesce ad aiutare un suo cittadino in una situazione di emergenza, che altro è se non uno Stato fallito? E che senso ha la cittadinanza, se da un momento all’altro puoi diventare profugo, senza tetto, vita che non vale la pena di essere vissuta? Nell’Italia del ’91/’92 Isabella sperimenta una condizione limite: è profuga e cittadina nello stesso momento, in una sorta di “falsa cittadinanza”, dove le istituzioni sono sorde, mute e pure poco sveglie. Ma ancora una volta la “condizione limite” è rivelatrice di un futuro, anticipa la regola, rende evidente un meccanismo che presto o tardi varrà per tutti. Ecco allora che la condizione di profugo – che già costituisce il nocciolo della nostra esistenza – comincia ad occuparla tutta, a debordare, a cancellare i diritti che la cittadinanza dovrebbe garantire. Se lo stato fallisce, se siamo tutti profughi, su cosa fonderemo nuove garanzie, dove faremo sedimentare le nostre lotte, le nostre resistenze? Quale sarà l’approdo dei naufraghi? L’unica risposta, l’unica certezza che abbiamo, è che ci salveremo insieme, o non si salverà nessuno.

Non so se in questa narrazione troviamo davvero rifugio, perché questa è una storia che ci mette con le spalle al muro, sotto tanti punti di vista. E non so se siamo davvero tutti profughi come è stata profuga Isabella, perché qui c’è davvero una sofferenza, anche se nel libro la si avverte sottotraccia, grazie all’autoironia della protagonista. (GB)

Ci parli dell’identità “esemplare” di Isabella Marincola? (EF)
Isabella ha una identità che esce dagli schemi, burocratici e culturali, dell’Italia degli anni Novanta, ma forse anche di quella degli anni successivi; la sua esperienza di italiana nera lo dimostra, dalle discriminazioni nelle relazioni personali e lavorative, ai luoghi comuni che le vengono rovesciati addosso dai vari uomini che ci provano con lei e che vedono nella sua pelle nera garanzia di chissà quali performances.(GdS)
La sua, in apparenza, è una vita tutt’altro che esemplare. Al contrario, ci sembra la protagonista di una vicenda eccezionale. Ma l’esempio e l’eccezione sono due modi in fondo molto vicini di confermare una regola. E l’eccezione tende sempre a diventare esempio, caso regolare. Oggi la condizione di “profugo in patria” non ci sembra più tanto particolare. Lo Stato arretra e la cittadinanza suona sempre più come un concetto vuoto. Il che non sarebbe grave se ci fossero istituzioni universali pronte a difendere i diritti umani, i diritti di un essere vivente senza etichette. Ma queste istituzioni non sono affatto adeguate. I respingimenti in alto mare, ad esempio, non vengono dichiarati illegali perché infrangono i diritti dell’uomo, la sua dignità, ma perché vanno contro il diritto dei rifugiati, cioè ancora di individui con un’etichetta precisa – un’etichetta, tra l’altro, che viene concessa dopo audizioni e giudizi, nei quali le nazioni occidentali esercitano con altri mezzi la loro supposta superiorità democratica. Così, chi fugge da paesi strangolati dal neocolonialismo è un immigrato “economico” e non ha alcun diritto d’asilo rispetto a chi fugge da un paese guidato da un dittatore “cattivo” in quanto nemico dell’Occidente.

Uno dei leitmotiv di Timira è “essere profughi significa…”, e di volta significa una cosa diversa, ma mai consolante. Io direi che la parola centrale non è profugo , è un’altra: questo libro va al di là dei meritori, e centratissimi, obiettivi di chiarezza storica e sociale. Oltre le intenzioni coscienti degli autori, resta poi l’oggetto narrativo come cosa autonoma: e questo Timira , come i migliori prodotti della letteratura contemporanea, pone il problema dell’ identità . Chi sono? Chi sei? Chi è Isabella Marincola / Timira Hassan, africana di nascita ed europea di educazione, negra che traduce il greco e il latino, troppo scura per non essere guardata con razzismo in Italia e troppo chiara per non essere vista con sospetto in Somalia, ragazza a Roma e donna a Mogadiscio – ma senza imparare in trent’anni più di qualche parola in somalo – e anziana a Bologna? (DDM)

LEGENDA E LINK

DDM = Dario De Marco, Da Wu Ming al jazz etiope, siamo tutti meticci

PV = Pietro Veronese
“La storia di Isabella, rifiutata dall’Italia”, Il venerdì di Repubblica, 1266, 22.06.12
(NB: Pietro Veronese sarà con noi alla presentazione di Timira del 9 luglio alla Festa di Casetta Rossa, Q.re Garbatella, Roma.)

IV #1 = Itala Vivan @ Libreria Azalai, Milano, 18.06.12
Itala Vivan, tra i massimi esperti italiani di letterature africane, è docente di studi culturali e postcoloniali all’Università degli Studi di Milano.

IV#2 = Itala Vivan @ PianoTerra, Milano, 18.06.12
– All’inizio degli anni Settanta, all’Università, quando facevo un corso sul romanzo africano, mi denunciarono al preside di facoltà dicendo: “Questa insegna degli scrittori che non esistono”.

SIC = Scrittura Industriale Collettiva
Intervista a WM2 e Antar Mohamed

GB = Giuliana Benvenuti, dalla
Presentazione alla biblioteca Casa di Khaoula, Bologna, 13.06.12 (durata: 2h 16″)
Giuliana Benvenuti insegna Letteratura Italiana Contemporanea presso la Facoltà di Lingue e Letterature Straniere Moderne dell’Università degli Studi di Bologna. Si occupa da molto tempo di letteratura postcoloniale italiana.
Fanno riferimento alla stessa serata anche le citazioni di
FB = Fulvio Pezzarossa, docente di Sociologia della Letteratura presso la Facoltà di Lingue e Letterature Straniere Moderne dell’Università degli Studi di Bologna. Si occupa da molto tempo di letteratura dell’immigrazione e delle “seconde generazioni”.

RG = Raffaele Guazzone
Intervista integrale, poi tagliata per La Provincia Pavese, 25.06.12

AB = Alessandro Besselva Averame
Speciale di 4 pagine su Timira, in uscita su Mucchio Selvaggio, luglio 2012

EF = Edoardo Fonti
Intervista in uscita sulla rivista Near

FL = Flatlandia @ Radio Onda d’Urto, Brescia, 18.06.12

David Ward (Professor of Italian & Chair Department of Italian Studies @ Wellesley College, Boston)
Recensione in uscita su America Oggi/Oggi Sette.

GdS = Il Gioco degli Specchi

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17 commenti su “#Timira Cut ‘n’ Paste

  1. Probabile che questa sia una di quelle notizie che fa piacere giusto a me e a pochi altri, ma l’Archivio dell’Istituto Luce esce finalmente dal recinto del suo vecchio sito, dove bisognava iscriversi e loggarsi, per approndare in un canale YouTube: Cinecitta Luce.
    Questo significa, ad esempio, che vi potete guardare con facilità uno dei cinegiornali “sbobinati” nelle sezioni “Archivio Storico” di #Timira:
    http://www.youtube.com/watch?v=ZRabACY8AwI
    Aprile 1950, comincia l’Amministrazione Fiduciaria Italiana in Somalia…

    • bè, sono tra i pochi :-))))

      (ma la mostra al Burcardo di fine maggio? l’avete poi vista? c’erano foto di scena?)

  2. Ci sono andati altri, prima che noi scendessimo a Roma, e ci hanno detto che non c’era nulla di interessante (intendo: dal nostro punto di vista). Così alla fine, visto che a Roma abbiamo fatto 4 incontri + un intervento in radio nell’arco di 36 ore, la mostra ce la siamo risparmiata…

    • saggia decisione, direi… :-)
      (a fine maggio ero colpita e affondata dall’influenza, ma non voglio perdermi la presentazione di lunedì prossimo)

  3. Martedì 17 luglio, h. 14, Radio Onda Rossa, 87.9 FM, “RedReading” da #Timira. Tamara Bartolini, Michele Baronio, Antar Mohamed e Wu Ming 2 leggono brani del romanzo meticcio.
    In particolare, Tamara & Michele riproporranno il loro sensazionale ri-montaggio di 45 minuti, concepito in occasione dell’incontro @Strike S.p.a (Roma) del 31 maggio scorso e ripetuto il 9 luglio alla Festa di Casetta Rossa (sempre Roma)
    Il tutto anche in streaming: http://www.ondarossa.info

  4. Su “La balena bianca”, una bella recensione di #Timira:
    http://labalenabianca.com/2012/07/19/storia-ditalia-storia-di-timira/

  5. #Timira, esistenza meticcia in un romanzo meticcio, per una critica al concetto di identità, su Uninomade.

  6. #Timira romanzo “di qualità mediocre”, “trasuda buonismo”, “cavalca l’onda”, frutto di una scrittura collettiva “automatica” e intellettualmente disonesto nei “Titoli di coda”, libro che se solleva questioni lo fa “suo malgrado”:
    http://www.nazioneindiana.com/2012/08/23/matria-patria-dismatria/

    • Nella conferenza a Toronto di circa due anni fa, Silvia Contarini fece un intervento tutto teso a dimostrare come la new italian epic fosse una stupidaggine. Un suo collega, italiano ma anche lui docente in Francia, le spiegò un po’ di cose che le erano sfuggite (e persino il curatore della conferenza si sentì in obbligo di intervenire per precisare alcune cose, ad onor del vero). CM fece bene, in quell’occasione, a suggerirle di leggere anche ciò che era stato scritto dopo la prima versione del memorandum, ma è ovvio che questa sia un po’ una causa persa.

    • Segnaliamo il commento della collega Igiaba Scego su #Timira, la matria, i titoli di coda e la letteratura come casino.

  7. […] paypal gliela faccio adavvero…) andando a scavare nella nostra cattiva memoria con il romanzo Timira, che ho appena finito di leggere, e con ampio approfondimento sul criminale di guerra Graziani (e […]

  8. Frederika Randall recensisce #Timira su “Internazionale”:
    http://www.internazionale.it/recensioni/libri/2012/09/17/timira/

  9. Da stasera (mezzanotte) #Timira scaricabile in ePub, Mobi, Pdf, Odt. E domani siamo al festival di Internazionale.

  10. […] pregio maggiore di Timira è nel valore etnografico del romanzo. Raccontando la vita di Isabella Marincola, attrice italiana […]

  11. […] -A seguire incontro con WU MING 2 e ANTAR MOHAMED autori di “Timira, romanzo meticcio” […]