“La superstizione porta sfortuna”. A trent’anni da Il pendolo di Foucault

[Oggi, trent’anni fa, usciva Il pendolo di Foucault di Umberto Eco, romanzo subito circondato da mille polemiche – compresa una stroncatura dell’Osservatore Romano dal sapore di “scomunica”, ma tanto l’autore, come del resto noialtri, era già scomunicato –  e solo più tardi assurto allo status di “classico”. Nell’anno di disgrazia 2018, quando ormai lo «stile paranoico» è lo stile dell’intera galassia comunicativa, il tema e le argomentazioni di quel libro non potrebbero essere più attuali.
Dopo l’inaugurazione di questo speciale a puntate con il video della conferenza sul complottismo tenuta da Wu Ming 1 a Montréal, oggi pubblichiamo un contributo di Enrico Manera, da tempo collaboratore di Giap, studioso di storia, memoria culturale e teorie del mito, autore di diverse pubblicazioni tra cui Furio Jesi. Mito, violenza, memoria (Carocci 2012).
Lo speciale proseguirà con un intervento di Mariano Tomatis, mago e storico dell’illusionismo, e un saggio/reportage di Wu Ming 1. Il 16 ottobre WM1 terrà anche una conferenza sul Pendolo riletto oggi a Correggio (RE), i dettagli nel nostro calendario. Buona lettura.]

di Enrico Manera

L’opera di Eco narratore continua il lavoro dello studioso con mezzi solo apparentemente diversi: il suo romanzo storico confonde gli orizzonti dell’alto e del basso, decostruisce lo sfondo ideologico, intreccia ironia e leggerezza con impegno e lucidità. Ne Il nome della rosa come ne Il cimitero di Praga finzione letteraria, produzione teorica, funzione critica sono distinguibili ma mostrano la loro parentela. Ogni romanzo ha personaggi in qualche modo legati a un’autobiografia culturale, una struttura originale e un riferimento a una tradizione e al genere, ed è anche racconto e applicazione di una teoria. Contiene ipotesi, espone sottotesti ideologici, smaschera effetti politici.

Il testo più radicale e più riuscito in questo senso è proprio Il pendolo di Foucault, uno dei più difficili e sofisticati per la trama di riferimenti. È indubbio che il libro abbia diversi livelli di lettura e prerequisiti di ingresso molti alti. Non fa sconti e pratica una dura selezione, a partire dalla struttura “cabalistica”, modellata sull’albero delle sefirot, e dalla selva di citazioni che fanno del paratesto un elemento architettonico maestoso.

Il pendolo è molto di più che fiction erudita per palati fini, capace di mettere insieme templari, cabala, illuminati, legionari filonazisti, aristocratici e massoni – e il tutto senza mai essere ridicola o grottesca. Richiami filosofici, storici, biblici, classici, rinascimentali, esoterici o contemporaneissimi e molto tecnici, sono continui e talmente sottili da lasciare sconcertati. Il fitto ricamo di saperi, tanto specialistici, anacronistici e arcani quanto fascinatori e seduttivi, coincide con il campo di gravità creato dal Pendolo, alla cui forza il lettore si trova assoggettato. Mi pare che questo campo di tensione sia una traccia dell’intenzione dell’opera stessa, che, oltre le intenzioni dell’autore e quelle del lettore, ne indica le istruzioni di lettura e interpretazione.

Il pendolo è un libro sulla storia della menzogna, sulla fame di mito e di assoluto: un libro sulle forme di costruzione della miticità e della verità. Riflettendo la fine anni Settanta e gli Ottanta, mostra la «cultura di destra» nel suo rapporto con l’esoterismo, non senza una sottile feroce ironia nei confronti della passione piccolo-borghese e provinciale per i titoli altisonanti e il lusso sacrale: quel consumo culturale, ancora una volta l’autobiografia della nazione, che Furio Jesi vedeva come fatto di testi alchemici, filoceltici e negazionisti rilegati «in vinilpelle con fregi in oro».

Un mondo facilmente impressionabile e conquistabile a causa della poca dimestichezza italiana con la cultura della tradizione aristocratica e alto-borghese mitteleuropea. Un mondo in cui la concorrenza è rappresentata dal soprannaturale interno alla tradizione cattolica – dalle Madonne a Padre Pio – ma anche dalla cultura trasversale che trova appagamento nel tempo storico-oleografico delle rievocazioni risorgimentali, insieme di riferimenti che confluirà nell’immaginario fascista, con un uso del passato che si delinea come la matrice indistinta della cultura di destra.


Ma Il pendolo è anche di un esercizio della critica “illuminista” che Eco porta nel proprio campo disciplinare, ad esempio nelle lezioni di Interpretazione e sovrainterpretazione (1992): una critica alla sbornia post-moderna, alla moda decostruzionista, all'”esoterismo” come pratica accademica, a certa ermeneutica “gnostica”, alla ricezione americana di Derrida, in definitiva a quella cultura che si regge, paradossalmente, sugli effetti di segretezza e sull’aura di miticità al fine di consolidare la propria posizione e recintare un’area interdetta ai non-iniziati.

Allo stesso tempo Eco descrive l’ossessione per ciò che è vago e misterioso, l’occultismo, i saperi arcani, il feuilleton, il brusìo dell’opinione, e il loro fascino per borghesi e conservatori, all’interno del mercato e della cultura di massa. Una dinamica magistralmente ritratta nel personaggio dell’editore Garamond e nell’ambiente di scrittori «a proprie spese» della casa minore Manuzio. Sottotraccia descrive anche la ricerca della distinzione come pratica volta a delimitare e sacralizzare un territorio culturale escludendone i parvenus. Il che è anche la ragione per cui la cultura può risultare indigesta a molti e per cui legioni di studenti si sentono respinti e umiliati dentro scuole e istituzioni universitarie. Oltre ai circoli e alla cooptazione, come ha osservato Jan Assmann, «le varie discipline sviluppano propri modi di porre domande e problemi e operano così come una mnemotecnica dell’oblio nei confronti di obiettivi più generali e basilari». L’iper-specializzazione è anche un modo di rendere neutrali e inoffensivi saperi che hanno un forte portato emancipativo.

L’attualità profetica del libro si deve anche al fatto che i suoi temi centrali, ben prima della diffusione di Internet, delle fake news e della post-verità, siano la costruzione del segreto e le ossessioni del complotto. Nei Settanta-Ottanta italiani i personaggi principali, Casaubon, Diotallevi e Belbo, figure intellettuali diverse dall’editoria in cui lavorano, attraversano il mondo misterioso e senza tempo di Aglié e il suo entourage di «diabolici», si confrontano con un Piano costruito sull’analogia, sui linguaggi esoterici e su allusioni tali da creare una diversa e più attraente Verità metastorica, nascosta ai più e in cui Tutto si tiene.


Una Verità che consente di rileggere l’intero intreccio storico universale e di restituire – a chi la conoscerà – il Senso.

[Avvertenza: spoiler.]

Per usare ancora termini jesiani, si tratta di una gigantesca macchina mitologica che i protagonisti cercano di rimontare pezzo per pezzo finendo per essere travolti dal meccanismo stesso. La presunzione del possesso della verità da parte dei suoi depositari, nella forma del segreto, prepara l’azione estrema: la fine di Belbo a Parigi, nel Conservatoire national des arts et métiers, il luogo mitico-simbolico che ospita il pendolo di Foucault – il referente oggettuale, elaborato del fisico francese Léon, che non è quel Foucault, anche se a lui non può non rinviare; «l’unico luogo stabile del cosmo, l’unico riscatto alla dannazione del panta rei».

La violenza istituisce un senso potente mediante il sacrificio di colui che potrebbe sapere qualcosa di più; ma in realtà potrebbe rivelare che ciò che i Cercatori della Verità si affannano a inseguire ovunque, inseguendone l’aura che loro stessi hanno creato, semplicemente non c’è. Non c’è mai stato. Non ci può essere. Il gesto del dare la morte riafferma l’illusione per la folla dei «credenti» e a un nuovo superiore livello, restaura il movimento di ricerca mediante il quale si dichiara la propria speciale elezione. In modo diverso Casaubon, Diotallevi e Belbo pagano con le loro vite l’aver osato vanificare le illusioni degli altri e l’aver attentato al loro mondo di senso, riscrivendolo. E forse sono vittime della loro strafottente ironia e superiore intelligenza, dell’aver sottovalutato le conseguenze del prendersi gioco dei semplici e dei fanatici, nel frattempo divenuti legione.

[Fine spoiler.]

Trent’anni dopo

Il pendolo è dunque un libro sullo stile paranoico moderno, con la fobia del complotto – società segrete, tentativi di colpi di stato, delazione, cospirazioni – così strettamente connessa al mito politico da aver dato vita a un gran numero di variazioni sul tema: il complotto gesuita, massone, giudeo, comunista, sinarchico… Tutti sono connotati dall’idea del cambiamento radicale o dal rovesciamento dell’esistente attuato da invisibili cospiratori, descritti come iniziati al mistero, dediti al segreto e abitatori di mondi paralleli.

Ma, come sempre, uscendo dalla fantasmagoria ogni complotto assume una straordinaria forza d’impatto sulla società e sulle azioni politiche dei suoi attori: a partire dalla fine dell’Ottocento in Europa giudei, frammassoni, stranieri, anarchici e comunisti sono gli elementi della nebulosa cospirativa che costituirà il prototipo del nemico interno. Rispetto al quale la destra reazionaria e quella fascista, al potere, vorranno contrapporsi frontalmente per rassicurare la grande e piccola borghesia spaventata: con il paradosso che l’intrigo, la segretezza e la manipolazione attribuite al nemico sono invece i tipici modus operandi del loro agire, come nel caso dell’invenzione dei Protocolli dei savi di Sion, com’è noto un falso prodotto negli ambienti dell’antisemismo per diffondere odio contro gli ebrei, storia magistralmente raccontata proprio da Eco ne Il cimitero di Praga, in cui risuonano gli stessi temi de Il pendolo.

Non resta che unire i puntini: trent’anni dopo, in un mondo che Eco ha conosciuto dopo averlo previsto (e nuovamente provato a raccontare nell’ultimo, imperfetto, Numero zero, ambientato negli anni Novanta), la mediasfera e la fasciosfera sono imballate di narrazioni altrettanto tossiche, come quelle sulle «ONG tassiste del mare», gli «eurocrati», le femministe e il gender , e tutti i soggetti «antinazionali» che sarebbero al soldo del «finanziere ebreo Soros». Per non dire della memetica e del complesso gioco di trolling che l’alt-right americana ha saputo costruire nell’ultimo decennio attorno ai social network.

Soros, l’onnipresente babau dei neofascismi e dello «stile paranoico» moderno. Sulle teorie del complotto come parodie (involontarie) del funzionamento del capitalismo, cfr. Wu Ming 1, Beyond The Paranoid Style.

Roland Barthes ci ha insegnato che ogni cosa può diventare “mito”, se una determinata forma e la sua circolazione lo permetteranno e se c’è chi lo saprà usare. Negli immaginari collettivi contemporanei, potenziati dalla rete come ipermedium in cui precipitano e si incontrano tutti gli altri media, operano stereotipi che trovano in materiali mitologici lo spunto per una rivendicazione dell’identità imperniata sul segreto, di cui le ossessioni della contro-storia sono una modalità di espressione.

Proprio segretezza e esotericità si configurano come reazione e risposta alla democrazia e alla dimensione pubblica, nel rimpianto per un passato idealizzato: «la strutturazione della relazione di segretezza pervade l’immagine delle società complesse a fronte di un rimpianto per le relazioni interpersonali trasparenti, miticamente attribuito alle società primitive» (Bidussa). Così il pensiero mitico e la circolazione iniziatica sono intesi come strumenti palingenetici di segno opposto a quello della modernità disgregante e delle democrazia corrotta.

Sullo scenario della mondializzazione diversi intrecci discorsivi e nodi immaginari si radicano nella paura e nel sospetto verso l’alterità e la differenza: sono miti contemporanei capaci di servire da combustibile per alimentare tensioni e rancori di natura sociale ed economica.

Immaginare l’altro nel circolo chiuso della sua cultura è funzionale all’invenzione del circolo chiuso della propria identità, quello che oggi si vuole nazionale e sovranista. Un modello organico ormai consolidato dall’Ottocento che insiste su un bias favorevole alla credenza nella «razza» come identità naturale.

Questo crea le condizioni per l’impossibilità dell’incontro con l’altro, nega la possibilità dell’idea che ognuno è quello che è in relazione a quello che i suoi altri sono.

Credo che nei suoi romanzi Eco abbia mostrato che è possibile giocare con l’enciclopedia, ibridare l’archivio, far saltare il canone. Ha reso inoperante il loro potere di seduzione, disseminando di coriandoli, briciole di pane e petardi il racconto della storia, al fine di disinnescare il rapporto viziato tra cultura e identità, in modo da poter restituire una funzione liberante alla scrittura e al sapere.

Salvare Pim è salvare il mondo

Tra i diversi esempi che si potrebbero citare mi piace ricordare un passaggio, un dialogo tra due protagonisti de Il pendolo di Foucault (prima ed. Milano 1988, pp. 287-99), lo studente e e poi editor Casaubon e la sua compagna Lia. È lei, che nell’idioletto domestico lo chiama Pim, a parlare cercando di dipanare la matassa intricata in cui l’uomo che ama si sta perdendo. Un dialogo tra due studiosi che sono soprattutto due amanti, intrecciato di intimità e intelligenza. Contro l’eccesso di analogia e la tendenza a vedere mito, pathos e sovrannaturale ovunque, Lia spiega che non esistono gli archetipi ma «c’è il corpo».

«Dentro la pancia è bello – dice – perché ci cresce il bambino, si infila il tuo uccellino tutto allegro e scende il cibo buono saporito, e per questo sono belli e importanti la caverna, l’anfratto, il cunicolo, il sotterraneo, e persino il labirinto che è fatto come le nostre buone e sante trippe, e quando qualcuno deve inventare qualcosa di importante lo fa venire di lì, perché sei venuto di lì anche tu il giorno che sei nato, e la fertilità è sempre in un buco, dove qualcosa prima marcisce e poi ecco là, un cinesino, un dattero, un baobab».

I simboli, spiega Lia, hanno sempre un’origine concreta e funzionale, che si occulta e si istuzionalizza fino a sembrare un pezzo di natura:

«Il modo più comodo per ritornare da dove si è passati senza rifare due volte la stessa strada è camminare in circolo. E siccome l’unica bestia che si acciambella a cerchio è il serpente, ecco perché tanti culti e miti del serpente, perché è difficile rappresentare il ritorno del sole arrotolando un ippopotamo. Inoltre se devi fare una cerimonia per invocare il sole, ti conviene muovere in circolo, perché se muovi in linea retta ti allontani da casa e la cerimonia dovrebbe essere brevissima, e d’altra parte il circolo è la struttura più comoda per un rito, e lo sanno anche quelli che mangiano fuoco sulle piazze, perché in circolo tutti vedono nello stesso modo chi sta al centro, mentre se un’intera tribù si mettesse in linea retta come una squadra di soldati, quelli più lontano non vedrebbero.»

E ancora, i numeri sono segni che derivano dal corpo e dalle relazioni elementari che si strutturano a partire dalla dimensione umana:

«Uno sei tu che non sei due, uno è quel tuo affarino lì; una è la mia affarina qui e uni sono il naso e il cuore e quindi vedi quante cose importanti sono uno. E due sono gli occhi, le orecchie, le narici, i miei seni e le tue palle, le gambe, le braccia e le natiche. Tre è più magico di tutti perché il nostro corpo non lo conosce, non abbiamo nulla che sia tre cose, e dovrebbe essere un numero misteriosissimo che attribuiamo a Dio, in qualunque posto viviamo. Ma se ci pensi, io ho una sola cosina e tu hai un solo cosino […] e se mettiamo questi due cosini insieme viene fuori un nuovo cosino e diventiamo tre. […] Ma due braccia e due gambe fanno quattro, ed ecco che quattro è lo stesso un bel numero, specie se pensi che gli animali hanno quattro zampe e a quattro zampe vanno i bambini piccoli, come sapeva la Sfinge. Cinque non parliamone, sono le dita della mano, e con due mani hai quell’altro numero sacro che è dieci, e per forza sono dieci persino i comandamenti, altrimenti se fossero dodici quando il prete dice uno, due, tre e mostra le dita, arrivato agli ultimi due deve farsi prestar la mano dal sacrestano».

Ne risulta un indimenticabile manifesto per l’illuminismo di cui abbiamo disperatamente bisogno.

«Allora vedi che le persone con sale nella testa se vedono il fornello dell’alchimista, tutto chiuso e caldo dentro, pensano alla pancia della mamma che fa il bambino, e solo i tuoi diabolici vedono la Madonna che sta per fare il bambino e pensano che sia un’allusione al fornello dell’alchimista.
Così hanno passato migliaia di anni a cercare un messaggio, e tutto era già lì, bastava si guardassero allo specchio.»

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3 commenti su ““La superstizione porta sfortuna”. A trent’anni da Il pendolo di Foucault

  1. […] tutto, lo ricordiamo, nel trentennale de Il Pendolo di Foucault di Umberto Eco. Che nella seconda puntata verrà citato […]

  2. […] come possa essere accaduto, torna utile un altro romanzo. Un romanzo del quale, lo ribadiamo, cade il trentennale: Il pendolo di Foucault di Umberto Eco. Nell’inchiesta si parla anche di […]

  3. […] attraversano il lungo periodo con continuità indipendentemente dal segno politico di superficie: il tema antisemita e anticapitalista del “complotto finanziario ebraico” è in questo senso un e…, oggi al centro di grande reviviscenza. Il sistema comunicativo contemporaneo contemporaneo è […]