#AlpinismoMolotov sul Triglav. Contro nazionalismi e alpinismi hipster, dal mondo di Julius Kugy

Ore 19 circa del 16 agosto 2014. Natale aka Vecio Baeordo sul Triglav, quota 2200 circa, in cammino verso il rifugio Planika. Foto di WM1.

Ore 19 circa del 16 agosto 2014. Natale aka Vecio Baeordo sul Triglav, quota 2200 circa, in cammino verso il rifugio Planika. Foto di WM1.

[Dopo l’esordio narrativo No Picnic on Rocciamelone, Alpinismo Molotov si sposta a est, con il racconto corale della spedizione al Triglav, Alpi Giulie Orientali, 16 e 17 agosto 2014. C’erano (ordine alfabetico, pseudonimi usati qui su Giap, link a eventuali profili Twitter o blog/siti):
Alessandro TSDiserzioneLo.Fi.RikutrullaSupereriTucoVecio Baeordo e Wu Ming 1. Il racconto include anche parti di Mr. Mills e Yamunin.
Quel che stiamo cercando di fare, tra le altre cose, è rivisitare e sovvertire il récit d’ascension, il classico racconto di spedizioni in montagna, ricorrendo a ogni sorta di tecniche letterarie, metodi di scrittura collettiva, procedure di montaggio, induzioni di stati d’animo favorevoli al cut-up, e forzando poeticamente l’utilizzo delle risorse rese disponibili dalla rete: link, audio, immagini, video e quant’altro. Raccontare la montagna con ogni mezzo necessario. Un’altra letteratura di montagna è possibile, e anche se non lo fosse, noi tenteremmo ugualmente di scriverla.
Ribadiamo quanto già scritto nella puntata precedente: si ha Alpinismo Molotov ogni volta che dei/delle giapster vanno insieme in montagna (l’A.M. non contempla la “solitaria”) con la consapevolezza che la “montagna” è:
– una costruzione culturale e storica (e come tale è oggetto di critica e demisticazione);
– un luogo dove non si sfugge alle contraddizioni ma se ne trovano di ulteriori e specifiche;
– un terreno di conflitto tra usi del territorio diversi e incompatibili;
– un deposito di storie e segni di passate rivolte, resistenze, repressioni.
Presto Alpinismo Molotov avrà un blog tutto suo. C’è persino un logo, disegnato da Inpuntadisella. Lo trovate in fondo al post.
Il prossimo appuntamento AP è di nuovo in Val di Susa, il 21 settembre. È un’iniziativa molto peculiare: una salita al Monte Musinè nell’ambito del festival «Torino Spiritualità». Inizialmente il “capogita” doveva essere Wu Ming 1, e aveva pure scritto una presentazione (PDF), ma – come leggerete qui sotto – il suo ginocchio fa troppe bizze e necessita di qualche esame. Il nuovo “capogita” è Mariano Tomatis, e vista la sua conoscenza del lato “magico” di quel monte, l’escursione ci guadagna non poco. Qui potete leggere la sua presentazione. Poiché la camminata a tema è ufficialmente parte di un festival, è richiesta l’iscrizione. Più giapster si iscrivono, più Molotov sarà il tutto. Prima, però, godetevi il racconto dal Triglav. Vi ricordiamo che sotto ci sono i link per scaricarlo in ePub o aprirlo in versione ottimizzata per la stampa. Buona lettura!]

Prologo. Il «prima» raccontato dopo (e viceversa)

Lo.Fi. – Il zaino…

Erika.LO zaino!
Che vergogna, penso. Per fortuna non scrivi come parli…

Tuco. Quando in macchina il Vecio mi ha chiesto com’è la foresta della Pokljuka, gli ho risposto: – Hai presente Dead Man? – Poi abbiamo parlato di Jim Jarmusch e di Neil Young, e quella colonna sonora mi è risuonata in testa più volte nei due giorni successivi. «You’re just likely to find here your own grave.» Ecco, meglio evitare. Come ha scritto Mr. Mills su twitter, «va proprio smontata quest’ idea che se non si arriva in cima è un’ incompiuta. Se non si torna giù, allora sì che è incompiuta.» Questo stesso pensiero l’ho formulato anch’io – lucidamente, e senza essere in preda a un qualche tipo di panico – subito dopo aver raggiunto il Mali Triglav e aver cominciato a camminare sulla cresta che lo congiunge al Veliki. C’era ghiaccio sulla roccia, il ginocchio sinistro non mi teneva più, e l’imbrago che mi aveva prestato Lo.Fi. non sarebbe bastato a compensare la mia scarsa esperienza. Ho guardato il tratto che avrei dovuto ancora percorrere. Ok, forse ce la posso fare ad arrivare in cima, e le vertigini tutto sommato riesco a tenerle sotto controllo. Ma poi? E se non ce la faccio a scendere? Così ho deciso di fermarmi e di tornare indietro. Il Vecio, che era stato bravissimo nel farmi mantenere la calma e nell’incoraggiarmi a proseguire fino a quel punto, ha capito subito e mi ha detto che era la cosa giusta da fare. Così io e RikuTrulla, che l’esperienza ce l’ha ma non aveva l’imbrago, e non se la sentiva nemmeno lui di continuare, abbiamo cominciato a scendere, con calma, e senza patemi. Il Mali Triglav comunque non è male. La vista è amplissima: a nord si vede il Grossglockner, a sud il golfo di Trieste fino a punta Salvore, a est la valle della Sava che si perde nei Balcani. L’ ovest l’avevo già visto l’anno scorso dal Mangart, per cui: bon.

La copia della guida appartenuta a Felice Benuzzi e regalata da Stefania Benuzzi a WM1 e Santachiara.

WM1. Io possiedo una copia della guida Escursioni nelle Alpi Giulie Orientali (Tamari, 1973) appartenuta a Felice Benuzzi. Verso la fine del lavoro su Point Lenana, Stefania Benuzzi regalò a noi autori alcuni scatoloni di libri del marito. Questo libretto è molto godibile, e reso ancora più godibile dai quarantun anni passati da quando fu pubblicato. Non è più solo un invito al viaggio nello spazio, ma un viaggio nel tempo. C’è la Jugoslavia, e le pagine sono piene di aneddoti e di omaggi alla guerra di liberazione contro il nazifascismo. C’è un dizionarietto alpinistico italiano – sloveno, lo leggo da cima a fondo, senza sforzarmi di memorizzare alcunché, per il puro piacere del suono, anche delle parole che uno si augura di non dover usare mai, e dei concetti più sinistri.

caduta padec
caduta di sassi padanje kamenja
congelamento zmrzovanje
mal di montagna višinska bolezen
valanga di pietre kamniti plaz

È passato quasi un mese dalla salita al Rocciamelone, durante la quale il ginocchio sinistro mi ha abbandonato. L’infiammazione è passata da tempo. Non sono ancora tornato in montagna, ma ho fatto lunghe camminate sul piano e non ho sentito nemmeno un doloretto. A questa ascensione tengo troppo, ne parliamo da un anno, da quando vedemmo il Triglav dalla cima del Mangart.
La mia idea sarebbe questa: fare ogni estate una cima delle Alpi Giulie, occidentali e orientali. Le Alpi Giulie mi calamitano, le vedo dal Carso triestino, le ho sentite raccontare da Benuzzi in Più che sassi e, soprattutto, da Julius Kugy, che ogni estate torno a salutare al Giardino Pubblico «Muzio Tommasini» di Trieste.

Se non faccio cazzate, se nessuna parte del corpo si prende gioco di me (e di sé, che è parte di me), posso farcela. Ho cominciato tardi, a trentanove anni, ma il “bacillo dei sassi” mi ha preso. Oggi ne ho quarantaquattro. Sono e rimarrò sempre una schiappa, dal punto di vista tecnico e atletico tra i peggiori escursionisti in circolazione, e con l’età non andrò certo migliorando… Però sento forte il richiamo della montagna, e questa impresa di Alpinismo Molotov non smette nemmeno per un minuto di sembrarmi importante. Farò quel che posso, potrò quel che farò. Stavolta i bastoncini non li lascio a casa come un mona.

Erika. Mmmmm… sì, più o meno sono tre anni che non assemblo delle frasi in un testo di senso compiuto, l’ultimo è stata la tesi di laurea, ammesso che un senso l’ avesse avuto. Dai, proviamoci comunque, almeno qui non ho vincoli dati da noiose teorie o regole di ricerca scientifica da rispettare o ipotesi da formulare…
Me lo ricordo bene, l’inizio è sempre la parte più ostica: scrivi e cancelli, riscrivi e ricancelli, cambi e scambi, no così non va ma dopo un po’ basta, ti decidi e parti…

WM1. …e dober dan. Al di là della fatica, degli inconvenienti, dei malanni, ‘dan, o forse anche proprio per la fatica, dober dan, dober dan, gli inconvenienti, i malanni, una grande spedizione! Dober dan. Grazie a tutt*! Può venirne fuori (‘dan) un grande resoconto, ‘dan… ‘dan… pieno di bestemmie e osservazioni antropologiche parecchio interessanti. Dober dan. Živijo!

D. Dopo lunghi dilemmi sull’andare/non andare sul Triglav con i compagni di Alpinismo Molotov, dovuti alla scarsezza delle mie finanze, mi lascio convincere pochi giorni prima della partenza. La soluzione infine consiste nel non dormire a Trieste né all’andata né al ritorno e di passare quelle notti a viaggiare sui treni più economici che si riesca a incastrare.
Sono uscito di casa la sera del 15 agosto e un temporale stava per scatenarsi. Prendo il primo intercity per arrivare fino a Bologna. Apro I falliti e altri scritti di Gian Piero Motti e inizio a leggere, e mi colpisce un passaggio sull’azione non fine a se stessa (pag. 22), risuona con quelli contro l’azione concentrata in Point Lenana (pag. 24-25) che a loro volta parlano di pagine di Fuga sul Kenya di Felice Benuzzi.
Mi fermo a pensarci e intanto guardo le figure, cioè le foto di Motti. Sto per ricominciare la lettura quando il ragazzo seduto di fianco mi chiede a bruciapelo, indicando il libro:
– Arrampichi?
– Ehm, non proprio… Ho da poco iniziato ad andare in montagna sulle Liguri, sì ho fatto un po’ di roccia a Caprie tempo fa, ma niente di che, ah, e sono salito sul Rocciamelone a inizio luglio…
– Il Rocciamelone da dove? Anch’io ci sono stato a inizio Luglio, partendo da Usseglio, Val di Viù, passando dal ghiacciaio…
È del CAI di Chieri e inizia a parlare di alpinismo e delle ultime vette affrontate, del Barre des Écrins e del suo Glacier Blanc… (Mi ricorderà poi Vecio Baeordo che molto probabilmente si trattava di uno degli stessi alpinisti del CAI di Chieri incontrati in vetta quel giorno, davanti a quel pentolone di tè. Sul treno però non mi viene in mente, e la carrambata purtroppo rimane sul generico.) Ci salutiamo a Bologna dove scendo poco prima di mezzanotte, io diretto al Triglav e lui in Salento, e quasi sembra che farebbe a cambio.

WM1. Visito il sito di un gruppo escursionistico neofascista. C’è un post intitolato: «Foibe: un Tricolore sulla vetta più alta dell’Istria, sul Monte Maggiore il nostro omaggio a martiri ed esuli». I camerati sono andati in Istria a fare una delle loro pagliacciate e scrivono: «Siamo saliti per lanciare a tutti gli italiani un invito, in questi tempi di crisi: stringiamoci attorno al Tricolore e ricominciamo a marciare. Nessuna salita sarà impossibile, nessuna vetta ci sarà vietata.»
Audio-riassunto del post.
Audio-riassunto del post.

Tuco. E poi c’è tutto il resto: due giorni di fatica, sudore e barbe incolte (tranne Erika, ovviamente). In fondo è quello, il vero motivo per cui sono salito fin lassù. Che poi è lo stesso motivo per cui a vent’ anni andavo in giro in bicicletta per le alpi, da solo o in compagnia del mio migliore amico. Vedere dei bei posti, stancarsi fino allo sfinimento, parlare di cose serie e di cazzate, bere acqua fredda fino a scoppiare dopo essersi mezzi disidratati, bestemmiare, puzzare. E alla fine tornare, per contarla e contarsela. E per lavarsi, perché in effetti puzzare fa schifo.

RT. «Ciao Riccardo, putacaso che nel week-end 16-17 agosto andassimo sul Triglav, ti aggreghi?»
La mail di WM1 arriva in un sabato di lavoro di inizio giugno in cui stavo giusto pensando che di montagna quest’anno ne avrei fatta poca. Qualche scappata toccata-e-fuga in giornata, incastrata nei pochi week-end a Belluno o al limite se avessi trovato qui a Trieste qualche volenteroso automunito per raggiungere le Giulie.
Il Triglav. Ho provato due volte a organizzarci un’escursione. La prima rimandata per maltempo, vista la nomea di parafulmine (anche a ciel sereno) della cima. La seconda, l’anno scorso, per problemi di comunicazione: «Vieni sul Triglav questo week-end? Si dorme in rifugio e si sale la mattina sulla cima. Ci troviamo giovedì sera per gli ultimi ragguagli organizzativi.» Un bell’aperitivo di un paio d’ore con confronti e rassicurazioni sulla difficoltà dei passaggi esposti e (più o meno) attrezzati, orario di partenza, chi mette l’auto, un’altra birra grazie etc. etc. Al momento dei saluti qualcosa non va: «Allora ci vediamo sabato ragazzi!» «Sabato? Vorrai dire domattina!» Ecco, lavorando, avevo dato per scontato che per weekend si intendesse sabato e domenica. Invece la compagnia è partita venerdì all’alba e io ho conquistato la cima dell’ufficio. Coitus interruptus, anzi, nemmeno cominciatus.
«Assolutamente si!» è stata la risposta immediata a WM1. Giusto un anno prima, il 13 di agosto, con lui, Lo.Fi, Tuco, Erika e alcuni altri amici eravamo saliti sul Mangart per seguire le orme di un Felice Benuzzi dodicenne e lì avevamo trovato ad accoglierci lo stesso bagliore che lui racconta arrivare dall’angelo che sta sulla cima del campanile di Udine. Sarà stato vero o no, a noi aveva gasato parecchio e il Triglav era stata la promessa per l’anno dopo.

Lo.Fi. Mi ero ripromesso di infilare il mio taccuino d’appunti nel zaino…

Erika. Nello zaino!

VB. Eccoci qui noi due “occidentali”, Diserzione e io, a restituire la visita degli “orientali” un mese fa al Rocciamelone. Anche stavolta è stato Wu Ming 1 a radunare gente dal Manzanarre al Reno (quello di Bologna) con la scusa di salire una montagna. Qui mancano i bresciani, ma conosciamo Martino aka Tuco, Alessandro, Riccardo e Erika, che sarà la prima donna giapster sul Triglav. Come dire che una Edurne Pasaban le fa il solletico, su twitter direbbero je spiccia casa. Logistica a cura di Lorenzo, e devo dire che organizzare il Roccia per noi dell’ovest è stato più facile.

Lo.Fi. Mi ero ripromesso di infilare il mio taccuino d’appunti nello zaino prima di partire, ma, come il thermos richiestomi da Erika e tante altre cose che il mio pigro subconscio autoconservativo riteneva inutili, è rimasto sul tavolo a casa.
Non sarebbe servito a molto: la scrittura in action non fa per me, o scrivo o vivo. Colpa dell’invenzione della fotografia, temo, perlomeno delle macchine digitali, compatte, automatiche a memoria estesa a cui si affida quasi integralmente l’onere della testimonianza lasciando così atrofizzare i dispositivi narrativi della memoria umana, quelli che ti permettono di essere già nel racconto mentre il fatto si sta ancora svolgendo.
Per questo, influenzato dalla tecnica usata dall’amico Mr. Mills per il récit del Rocciamelone, ho deciso di sbrogliare le impressioni ancora appiccicate al mio cervello prima di guardare le fotografie, rito febbrile a cui altrimenti mi abbandono dopo ogni esperienza alpina e che sanziona l’irrevocabile distanza dal vissuto, come se le fotografie lo fissassero sotto un vetro in una posa definitiva alla stregua dei fiori pressati e infilati in un erbario. C’è sempre qualcosa di deludente in questo atto: ci si accorge che l’inquadratura ha lasciato fuori troppo di quello che si aveva percepito lì o che si ricorda di aver percepito… e poi i colori, anche quando sono riusciti bene, non sono mai quelli della memoria. Ci sono dei margini consistenti fra ciò che impressiona l’obiettivo e ciò che impressiona gli occhi, sempre, ma in montagna più che altrove. Sono margini che si volatilizzano in gran parte nell’istante in cui si confrontano i due tipi di impressioni, è proprio da lì che voglio partire, da quei fuori-campo ancora intatti.

AleTS. «Io mi chiamo io e questa è l’unica cosa che tu sai di me, ma già basta perché tu ti senta spinto a investire una parte di te stesso in questo io sconosciuto» È l’Italo Calvino di Se una notte d’inverno un viaggiatore, citato da Luigi Nacci nel suo Alzati e cammina.
Leggo dell’impresa sul Rocciamelone, mi diverto, mi commuovo, penso che mi sarebbe piaciuto essere uno del gruppo. Poi vedo che la prossima tappa di Alpinismo Molotov sarà con ogni probabilità dalle mie parti, ovvero sul Triglav, la montagna simbolo del nostro paese confinante. Però.
Ne ho sempre sentito parlare, lo vedo stilizzato nella bandiera che mi saluta quotidianamente quando passo l’immaginario confine, in pratica almeno due volte al giorno. Ma non ci sono mai andato, tantomeno l’ho visto, in linea con il fatto che in vita mia, stupidamente, non sono in pratica mai andato da nessuna parte.
Scrivo a Wu Ming 1, chiedo se posso partecipare, ottengo risposta positiva. Bene, molto bene. Sono contento per più motivi, principalmente per la possibilità di conoscere i partecipanti all’impresa, so quanto scrivono e pensano in quanto affezionato lettore di Giap.
Mi preoccupano poco le condizioni atmosferiche, in questa pazza estate tutto potrà succedere, ma non importa, è di sicuro l’ultimo dei problemi.

RT. Come già per il Mangart, anche per questa escursione il capogita è Lo.Fi. Tenendo conto della variegata miscellanea di partecipanti, delle diverse esperienze e condizioni fisiche e vista la disavventura di Wu Ming 1 sul Rocciamelone ha optato per un percorso Easy & Long che comporta una lunga traversata nel bosco da Rudno Polje passando per lo Strudoski Preval e risparmia il più ripido versante nord del Triglav. Facendo i miei calcoli, due ore di auto, 11 km solo il primo giorno, con quasi 1200 km di dislivello. Mi preparo ad una levataccia alle 4 del mattino. Ma Alpinismo Molotov – lo scoprirò dopo – ha altre regole. Diserzione partirà da Torino la sera prima viaggiando a zig zag con scomodi Intercity notte, rubando per un paio d’ore il posto più comodo a qualche barbone di Bologna. Vecio Baeordo si metterà in macchina da Pergine Valsugana, dov’è in vacanza con la famiglia, lui sì alle quattro, macinando a 90 all’ora i 342 km che la separano da Trieste. Appuntamento per tutti: 8:30 alla stazione.

Lo.Fi. Il capogita. Come mi sono ritrovato ad occupare questa scomodissima posizione? La parola «capo» mi fa abbastanza orrore. A Trieste si usa chiamare «capo» dando del tu, in senso ironico, sta per «ciccio», vuol dire «non conti più di me». I più sbruffoni lo usano per richiamare il cameriere:
Capo, te me porti una bireta?
Volentieri, le gavemo finide. La provi a chieder in Friul.
Sono l’unico del gruppo ad essere già stato sul Triglav, da qui il mio ruolo di guida, ma ci andai da tutt’altro versante, quello nord della Val Vrata che con il suo tragitto ne incornicia la spaventosa parete. Noi saliamo invece dal versante sud/sud-est, per me terreno vergine: dalla Pokljuka – terra di orsi – il nostro sentiero si snoda attraverso due selle, lo Studorski Preval a 1892m e il Konjsko Sedlo a 2020 e due rifugi, il Vodnikov Dom a 1817m e il Dom Planika a 2401, dove pernotteremo. Percorso lunghissimo ma facile, solo qualche tratto attrezzato su una cengia leggermente esposta sui verdissimi pascoli del Velo Polje, ma nulla di che.

AleTS. Nei giorni precedenti la partenza, compio qualche escursione più lunga del solito per allenarmi un minimo. Il cane che sempre mi accompagna, Piero, mi guarda, non capisce ma sembra sorridere. Forse capisce.
La partenza è fissata per sabato mattina, stazione di Trieste. WM1 conferma la partenza di due automobili, in totale saremo in otto, per non essere troppo dispersivi. Aveva ragione, più tardi infatti ci perderemo ugualmente. Guardo qualche filmato in rete sulle ascensioni fatte in precedenza. Non mi spaventano, però si assomigliano tutte. Non descrivono la fatica, questo è sicuro. E nemmeno la quantità di dober dan che si deve mettere in conto.
Forse carico troppo lo zaino, sarà un errore che costerà caro in termini di fatica e praticità, e sarà un’utile lezione per il futuro. Sembro più uno sherpa, senza l’agilità e il fisico di uno sherpa. In pratica, un enorme zaino che cammina.

L’arrivo a Trieste

D. Arrivo a Trieste e inizio a gironzolare intorno alla stazione. Scalva, anarchico triestino con cui avevo un mezzo appuntamento per colazione, non si vede. Quasi subito però arriva la telefonata di WM1 che è già sul posto con Lorenzo, Erika e Riccardo: questi ultimi due li incontro per la prima volta. Ci dirigiamo al bar e io ordino un cappuccino, del tutto ignaro del particolarissimo lessico triestino per la caffetteria, di cui mi renderanno edotto più tardi. Riconosciuto come forestiero in un bar di stazione, ottengo ugualmente un cappuccino italiano standard. Mentre aspettiamo Alessandro e Natale faccio la spesa, poi ci dividiamo su due auto e andiamo a prendere Martino che ci aspetta nei pressi dell’Università. È la seconda volta che sono a Trieste, ma sono passati un sacco di anni e non mi ricordo quasi nulla. Ho solo l’opportunità di vederla dal finestrino di un treno arrivando e di un’auto mentre ce ne allontaniamo, e l’impressione disinformata che mi fa è quella di una città malinconica e bellissima e davvero “poco italiana”, diversa da ogni altra città mediterranea che ho visto.

RT. Nonostante il viaggio, Diserzione e Vecio Baeordo sembrano più lucidi di noi. Sarà l’adrenalina di affrontare per la prima volta le Alpi Orientali o l’emozione di ritrovare la compagnia del mese prima sul Rocciamelone. Il bar della stazione di Trieste offre a WM1, per la modica cifra di cinque euro, un triste panino, rigorosamente vegetariano, di cui lui si sforza di minizzare i difetti: «Meglio di un Camogli da autogrill» e nel frattempo anche Diserzione si procura un pranzo al sacco. Con Alessandro, Lo.Fi ed Erika ci sistemiano nelle auto. I piemontesi vengono insindacabilmente divisi – «Un occidentale per ogni auto!» – e partiamo a recuperare Tuco, ultimo giapster del gruppo. A seguire, pausa Bancomat e tabacchini chiusi a Opicina, benzina low cost e “vignetta” high cost per l’autostrada slovena appena oltre confine, partenza reale ore 9:30.

AleTS. Si parte con il bel tempo, così sembra e così sarà almeno sino al pomeriggio. Faccio conoscenza con Diserzione, arrivato dal Piemonte dopo un viaggio alquanto faticoso; con Riccardo, che mi accoglie da subito con un enorme sorriso; con Lo.Fi. e la sua compagna Erika, già visti l’anno scorso in occasione di una gita domenicale al Cippo Comici, mentre il Vecio arriva puntuale dal Trentino, dove si trovava credo in vacanza. Manca Tuco, che recupereremo a breve. Penso che meglio di così non poteva andare.
Wu Ming 1 decide che i componenti si debbano geograficamente mescolare – «Un occidentale per ogni auto!» – e così salgo in macchina col Vecio alla guida, Riccardo e si va a recuperare Tuco. Riccardo mi chiama Andrea, va bene uguale.
Lo imbarchiamo nei pressi dell’università, non lo avevo mai conosciuto, ma apprezzato si, e molto, nei suoi scritti, buoni ultimi quelli sulle gesta dei neoindipendentisti triestini.
Fatto il pieno e messa la “vignetta “di rito, si parte. Destinazione Bled.

D. Vengo separato da Natale – «un occidentale per ogni auto!» – e capito in macchina con Lorenzo, Erika e Roberto. Del lungo tragitto verso Rudno Polje purtroppo non ricordo tutto, anche se vorrei. Ricordo le tracce del gelicidio sugli abeti e le betulle a lato della strada: ne avevo già viste di identiche su un versante del Monte Galero, la mia seconda cima delle Liguri, affrontata la scorsa primavera, ma non avevo idea di cosa le avesse provocate. Ora lo so. Ricordo l’architettura classica alpina slovena, il mio stupore per un paesaggio diverso da come mi ero immaginato i Balcani, e la correzione perentoria di Roberto: – Qui non siamo nei Balcani.

La penisola balcanica.

La penisola detta «balcanica», dal nome dalla catena montuosa tra Serbia e Bulgaria.

Confini e oltreconfini

RT. Vecio Baeordo, che contina a fare da autista nonostante le quattro ore di guida sulle spalle, ha la curiosità entusiasta di un bambino e mentre assorbe con gli occhi il paesaggio che ci corre accanto (il Carso che gli ricorda la Costa Azzurra, il gelicidio che ha devastato i boschi quest’inverno, il Nanos che accenna appena alle altitudini verso cui ci stiamo muovendo) inizia a fare domande sul paesaggio umano di questo est d’Italia e d’oltreitalia e trova Tuco e Alessandro ben disposti a raccontare e a dispensare aneddoti (arte in cui, ci aveva assicurato WM1, sono esperti). Ci vuole poco perchè lo spirito narrativo di Alpinismo Molotov si impossessi di noi. Chiaramente si è iniziato con analisi etnoantropologiche ‘denoartri’ su triestinità e rapporti con i friulani:
– Se chiedi “un nero” a Udine, ti portano vino rosso; se lo chiedi a Trieste ti portano un caffè». – dico.
E Alessandro aggiunge:
– A Gonars xe cazzi. – citando Maxino.

VB. Se qualche giorno fa, prima della spedizione sul Triglav, avessi letto o sentito dire qualcosa come capodeca in B avrei pensato: Strano… di solito è specificato “B-dur” oppure “B-moll”. La mente sarebbe corsa automaticamente a quelle composizioni barocche, clichés musicali dell’epoca, che quando uscivano dalla penna di Bach spesso diventavano capolavori. Passacaglia, Ciaccona, Corrente, Sarabanda, Capodeca in B-dur. Quartetto di viole da gamba. Tuco invece mi spiega trattarsi di una delle declinazioni del gergo usato a Trieste per il caffè.

Il capo in B

Il capo in B.

Lo.Fi. Una piccola curiosità sulle differenze tra cappuccino italiano e triestino: il “capo” triestino dovrebbe corrispondere al viennese kapuziner con lievi variazioni tecnologiche dovute alla macchina per espresso, e dovrebbe essere lo stesso kapuziner che si beve a Budapest, Bratislava o altre città dell’ex-Cacania. Anche il cappuccino italiano deriva dal kapuziner, ma si è modificato nel ‘900 fino a diventare quello che per noi… triestiners è ora un caffelatte con schiuma.
Ho notato che nella Wikipedia italiana non c’è menzione delle radici mitteleuropee del Cappuccino, mentre è presente nella Wikipedia inglese anche se a quanto pare dalla talk questo aspetto è oggetto di vandalismo continuo da parte, evidentemente, di fanatici del Made in Italy. Ricorda molto la querelle cotoletta alla milanese vs. wiener schnitzel).

VB. Tuco mi spiega anche questo: a Trieste «volentieri» è la contrazione di «Se ce l’avessimo glielo darei volentieri, ma ne siamo sprovvisti». Oppure «Lo farei volentieri, ma non posso». In realtà la parte sottintesa è ancora più ampia, e sotto-sottintende, nell’ordine: «Certo, potremmo anche ordinarlo, forse, magari, eventualmente, casomai… Ma è uno sbattone, lasciamo perdere» e «E non solo non posso, ma soprattutto no go cojoni». Quest’ultima espressione, che nel resto d’Italia significherebbe «non avere il coraggio», qui invece sta per «non aver voglia», come mi spiega Lorenzo. In entrambi i casi il «volentieri» è perentorio: significa NO, senza se e senza ma. Con viva preghiera di non insistere.
La voglia di lavorare è invece retorica friulana, e un’altra cosa da non fare a Trieste è confondere Trieste con il Friuli. E a Udine parlare di Trieste come se fossero in qualche modo parenti: si ottengono espressioni lievemente disgustate e spiegazioni di come i triestini siano «gente diversa da noi», sembrino romani, tanta caciara e poca voglia di lavorare. Ragion per cui a Trieste se insistete per ottenere qualcosa che nessuno ha voglia di fare, potrete sentirvi rispondere «La provi in Friul». Come dire che là in Friuli, dove se la tirano tanto con la retorica del lavoro, magari potreste trovare qualcuno che si dia da fare per accontentarvi.
Tutto questo per dare un contesto alla traduzione di «capodeca in B»: noi a Torino, dalla parte opposta delle Alpi, se ho capito bene lo ordineremmo al bar dicendo «Un dec macchiato in vetro». Se invece entraste in un bar di Trieste chiedendolo alla moda di Torino, probabilmente vi risponderebbero:
Volentieri. La provi in Friul.

Lo.Fi. Può sembrare un aneddoto scemo, ma in questa facezia fa capolino un elemento che, al negativo, contraddistinguerà inevitabilmente la nostra ascensione: l’identità. In quel «volentieri» c’è uno scampolo di micro-identità triestina che come ogni identità nasconde tossine “tecnicizzabili”, asservibili a movimenti politici torbidi, come il Movimento Trieste Libera. Non a caso con noi, in marcia verso il Triglav, c’è Tuco, forse il singolo uomo che, con i suoi interrogativi posti su Giap, più ha contribuito a smontare questo oscuro movimento secessionista, oggi scisso in due tronconi, che si avvale di avvocati “difensori della razza” e invoca schizofreniche ronde contro i migranti a difesa della multiculturalità di Trieste (!?). Non a caso è proprio Tuco a spiegare il termine «volentieri» al Vecio e a Diserzione, i “foresti” provenienti da Ovest. Ad aiutarlo è AlessandroTS, altro esperto di intossicazioni identitarie triestine.
Il Triglav stesso è un monte storicamente identitario. Il suo significato in senso nazionale ha mostrato la sua peggior faccia durante la nostra ascensione.

WM1. Uno degli aneddoti che raccontiamo agli “occidentali” riguarda Bruce Springsteen. Quando suonò a Trieste durante il tour di Wrecking Ball, l’11 giugno 2012, il Boss salutò il pubblico in friulano («Mandi, Trieste!») e sloveno («Dober večer!»), poi intonò Badlands: «Stanotte luci spente, / problemi nella zona centrale, / ho un impatto frontale / che mi squassa le viscere, / sono preso in un fuoco incrociato / che non capisco…»
Si può concedere che il friulano c’entrasse poco, anche se sono d’accordo col tizio che su un forum locale ha scritto: «La distanza [tra Friul e Trieste] xe come da una parte all’altra de New York o Los Angeles, e no me speto che un come lui staghi anche drio a tute le nostre beghe. Oltre al fato che presumo che ghe sarà stà un fraco de furlani al concerto.» In ogni caso, salutare in sloveno era non solo appropriato ma doveroso, dato che a Trieste e provincia vivono quarantanovemila sloveni, che sarebbero molti di più se la comunità non avesse subito politiche di italianizzazione forzata dopo l’annessione della zona all’Italia (1918) e durante i vent’anni di regime fascista.
Molti triestini e istriani triestinizzati, i cui cognomi di chiara origine slava, tedesca o ungherese raccontano di vorticosi incroci e complessi meticciati, si considerano “italianissimi”, e sovente esprimono le loro opinioni nazional-patriottiche (quando non fasciste tout court) nella doppia pagina di lettere del quotidiano Il Piccolo. Pagina che per giorni e giorni si riempì di sfoghi indignati su Springsteen che aveva mancato di rispetto alla storia della città, ai tanti italiani morti per riprendersi le terre irredente ecc.
Si ipotizzò pure il gombloddo: certamente qualcuno aveva male informato la rockstar a bella posta, si trattava di una calcolata provocazione! L’associazione «Giuliani nel mondo» propose addirittura un boicottaggio dei concerti di Springsteen. Si dice che, informato di questa tremenda presa di posizione, il manager del Boss Jon Landau abbia risposto:
And these big dicks?
Poi lo ha ripetuto in friulano e in sloveno.

D. Ci fermiamo a un autogrill dove seguo il pessimo impulso di acquistare una bibita energetica immonda, le cui esalazioni impesteranno l’abitacolo e mi faran passare una buona mezz’ora a rimuginare sul perché diavolo non ho preso un caffé come le persone civili. Un tributo che sentivo di dover pagare al demente che è in me? Boh. C’è anche un bagno mantenuto pulito da una donna che vigila all’ingresso su un piattino di monete da 50 centesimi. Memore di quella “modificata” in senso molotov da Marco, le chiedo indicandole se ne ha qualcun’altra con la stessa faccia: – Triglav? Triglav? – per potermele portare a casa come souvenir. Lei ride e si mette a scorrerle con le dita davanti ai miei occhi. Incredibilmente, nessuna delle molte presenti è una moneta slovena e quindi ottengo come risposta solo un: – Nema Triglav! AH! AH! AH! AH! AH! AH! Nema Triglav! – Ci resto di pietra e mi interrogo se questa negazione così esclamata potesse o no essere un oscuro presagio di disfatta o tragedia. Nema Triglav.

VB. L’avvicinamento in auto attraverso la Slovenia mi permette di approfondire con Tuco e Alessandro vari aspetti della questione “confine orientale”, che ho molta voglia di capire. Loro due insieme possono raccontare Trieste e annessi non solo dall’interno ma dalle interiora. Tuco inoltre – come il sottoscritto e Lo.Fi. – è stato lettore di prova di Point Lenana, e la mia curiosità sull’argomento nasce proprio da lì. Poi si sono aggiunti la lettura (faticosa e non ancora conclusa, a dire la verità) di Cime Irredente di Livio Isaak Sirovich, e l’inchiesta sul MTL apparsa su Giap proprio a firma di Tuco. Che la questione fosse estremamente complessa lo avevo già appurato, ora cerco di capire qualcosa di più dai racconti dettagliati e illuminanti dei compagni di viaggio. Tuttavia penso che rimanga difficile cogliere tutte le sfumature senza esserci immersi. Penso di aver fissato due punti.
Il primo è che in città questi discorsi sulle lingue, le etnie, i confini, il passato che non passa mai, sono un nervo scoperto, una fiamma sulla quale viene continuamente aggiunta benzina.
Il secondo è che Trieste è multietnica più di quanto non dimostri, e che praticamente tutti coloro che ho appena conosciuto hanno legami da entrambe le parti del confine, a volte acquisiti o scelti, altre volte di sangue. La frontiera qui è incarnata, attraversa i corpi, e solo un equilibrio che a tratti sembra fragile evita che ne vengano lacerati come in passato. Forse non è un caso che tra una ciàcola e l’altra parliamo di Mostar e di Sarajevo, della multietnicità di prima della guerra jugoslava, della laicità quieta che ne derivava e di come sia andata persa, di come i nazionalismi e le religioni finiscano per nutrirsi degli stessi cadaveri. Due chele della stessa tenaglia.

WM1. «Badlands, you gotta live it every day / Let the broken hearts stand / For the price you’ve got to pay / We’ll keep pushin’ till it’s understood / And these badlands start treatin’ us good.»

AleTS. Tuco tiene banco, incalzato dal Vecio, che gli chiede di raccontare la storia dei nostri luoghi, almeno quella più recente. Parla lentamente, sembra sempre pesare le parole che dice, su argomenti e storie che conosce benissimo. Bella anche la voglia di conoscere e sapere del Vecio. Immagino che in occasione dell’impresa sul Rocciamelone il ruolo di Tuco l’avesse lui.
In autostrada Tuco fa notare una serie di pini distrutti dal freddo questo inverno. Strano fenomeno: a pochi km di distanza non è successo nulla. Sono stati giorni davvero brutti per questa parte di Slovenia, alluvioni comprese.

RT. Mentre ci avviciniamo a Lubiana, nuvole fastidiose iniziano a raggrupparsi e qualche cima seria inizia a farsi vedere. I racconti prendono pieghe più serie. Qualche giorno prima con WM1 e Lo.Fi discutevamo su quali fosserò le conflittualità e le contraddizioni che potevano emergere durante la spedizione al Triglav. Se sul Rocciamelone era ovviamente centrale la questione TAV, qui emerge la questione dei nazionalismi e dei confini. Tuco e Alessandro raccontano a Vecio Baeordo di quell’accozzaglia di qualunquismi che è MTL, poi si parla della questione istriana, della strumentalizzazione degli ‘esuli’ nella questione nazionale italiana e della rappresentazione troppo naïve per essere innocente di Simone Cristicchi. In questo modo, Vecio Baeordo conosce un po’ di più Trieste e le contraddizioni che la attraversano, e così anch’io, che triestino sono solo da due anni.
Si sale verso nord e Tuco ci racconta di come si vive un’adolescenza anticlericale e antinazionalista a Gorizia, città dove un’insegnante poteva essere cacciata se osava dire che la città era multiculturale negandone l’italianità e dove gli studenti che la difendevano venivano convocati dal preside e dal vescovo. I discorsi si allargano, si parla dell’onda lunga del Vajont e dello sviluppo industriale del nord-est, del movimento No Tav in Val Susa. Più che discorsi sono di-scorci, questioni che scorrono assieme ai paesaggi dai finestrini e che avremo tempo di approfondire dopo, al passo del cammino.

AleTS. Passiamo Lubiana. Penso che questi compagni di viaggio nulla mi hanno chiesto, e nulla vogliono sapere della mia persona, penso che contrariamente a quanto sono abituato, questo per me sia un rapporto da ricercare e valorizzare. Ci tornerò dopo (*).
Costeggiamo il lago, bellissimo e molto frequentato, prendiamo la direzione verso Bohinjska Bistrica, in vista del lago di Bohinj, e via verso il luogo prefissato per la partenza, sede anche di un hotel e di un grande centro sportivo.
Lo.Fi., il più esperto e buon conoscitore della zona, ha deciso che faremo una via più lunga rispetto alle altre ma meno ripida, e conta di raggiungere entro sera il rifugio Dom Planika (2.401.m.)
In mezzo a tanti praticanti lo ski roll – sembra uno sport davvero diffuso da queste parti – e a tanti corridori, organizziamo la partenza e il contenuto degli zaini. Sarà agosto, sarà per il centro sportivo, ma c’è una barca di gente, che incontreremo anche durante l’attraversata e lungo i sentieri.

WM1. Sarà tutto un dober dan… ‘dan… ‘dan… Dober dan… Živijo…

In marcia

D. Finalmente giungiamo sull’altipiano della Pokljuka. Hic sunt ursi, ci aveva avvisato Lorenzo. Il sentiero, il cui imbocco fatichiamo un po’ a trovare, si inoltra in un’abetaia imponente. Aggancio il wi-fi dell’albergo di Rudno Polje, inizio a scaricare una mappa ma non c’è tempo, o inizio a camminare con gli altri o gioco col cellulare, d’altronde qualcuno sa la strada, altri hanno delle mappe, e la collettività sopperirà alla cartografia individuale. Saliamo prima per tornanti e poi a mezza costa in mezzo agli abeti.

Erika. «Non vedo la stradina che dovremmo imboccare, dovrebbe essere qui a destra.»
«Ma guarda che secondo me è a sinistra, fermati, dài…»
«Ecco, siamo qua, non vedo niente… Ah, là in fondo… Proviamo.»
«No, questa direzione è sbagliata, torniamo indietro. Ecco, “gozda cesta”, cioè strada del bosco, no?… Sarà questa?»
«Chiediamo a qualcuno.»
«Ok, è quella… Le macchine forse è meglio lasciarle qua… Anche se così allunghiamo di 500 mt il percorso… Meglio non rischiare, però, chissà che divieti si celano sotto quel cartello.»
«Tutti pronti? Bene, andiamo!»
Si parte, e, ovviamente 500 metri più in su vediamo macchine comodamente parcheggiate ai bordi della cesta.

Partenza da Rudno Polje

Una volta si chiamava «autoscatto».

RT. Trovare il sentiero non è semplice perché al parcheggio di Rudno Polje non ci sono ancora segnali. Ci incamminiamo lungo una carrozzabile bianca che ci sembra più o meno quella giusta e dopo un ventina di minuti troviamo finalmente un cartello.

Studorski Preval 1h30
Vodnikov Dom 3h
Triglav 6h

Poco meno dei tempi che aveva previsto Lo.Fi. Io non ho le bacchette ma per fortuna WM1 mi offre il prezioso bastone che sua figlia Matilde ha raccolto giorni prima in Val Rosandra («dall’impugnatura ergonomica» mi fa notare lui). Effettivamente sarà un ottimo sostegno per tutta la salita.

D. WM1 attacca quasi subito con il suo passo oratorio, ma per il momento non riesco molto a godermelo e inizialmente mi capita di stare più avanti. Scàlpito. È un peccato, il passo oratorio di Roberto è un modo bellissimo di andare in montagna (almeno per me) ma ne avrò esperienza più avanti nella giornata.

Lo.Fi. Erika scalpita: ma perchè parlano tanto? Non sarebbe meglio risparmiare il fiato? Non è ancora avvezza all’alpinismo… Dober dan… molotov dove parlare, raccontare è importante quanto l’andare. Se si va troppo veloci la lingua inciampa sulla gambe, occorre rallentare per coordinarle.

Tuco. È già mezzogiorno e siamo in ritardo rispetto a qualunque tabella di marcia. Il primo tratto non è particolarmente faticoso. Si cammina in mezzo agli alberi, si chiacchiera, ci si divide in gruppi estemporanei… Dober dan… a seconda dell’andamento della conversazione, ci si aspetta a vicenda. La prima sosta vera e propria la facciamo in una valletta a forma di ovale che sembra un salotto. Da lì partono i vari sentieri che si arrampicano su pei monti. Noi prendiamo quello che porta al Vodnikov dom, il rifugio intermedio, a quota 1800. Il sentiero si fa più ripido e il gruppo si sfilaccia.

Erika. Il mio pensiero non va al presente ma al ritorno del giorno dopo quando so che i miei piedi urleranno contro la punta delle pedule e sarò tentata dal finire la gita scalza! Siamo in 8, mi chiedo cosa c’entri io in questa vignetta: femmina e non “letterata”, non Giapster e nemmeno Twitteraddicted! Come sono finita tra le file dell’Alpinismo Molotov vi chiederete voi? Mi ha coinvolta quello de “il zaino”… LO ZAINO!.. al secolo Lo.Fi. Ma poco importa, stavano diventando troppe le volte in cui dalle cime di altre Giulie si stagliava all’orizzonte la caratteristica piramide del Triglav. In un modo o nell’altro andava fatto.

AleTS. Avanziamo in fila indiana, ancora non incontriamo tanti alpinisti, ma iniziamo una lunga serie di dober dan, al momento del loro avvicinamento, che ci vedrà protagonisti in tal senso sino alla fine della giornata. Ad un certo punto entra nel discorso pure Hermann Hesse, così, forse lo abbiamo incontrato e nemmeno ci ha detto dober dan, dalle retrovie sento dire che a un certo punto nelle librerie delle stazioni il posto di Siddartha lo hanno preso i libri di Coelho, e ancor prima spopolava Il gabbiano Jonathan Livingstone... Rido, vedo che ridono anche gli altri, basta lanciare un segnale e WM1 parte con qualsiasi tipo di spiegazione e di riferimento. Certo, non pensavo si arrivasse al gabbiano, almeno non qui a oltre mille metri. Tanto per dire Alpinismo Molotov cosa può produrre… Piove ogni tanto, ma tutto sommato sta andando abbastanza bene. Proseguo tra le avanguardie, dietro il Vecio e WM1 chiudono la fila, manca poco alla forcella.

RT. Dopo oltre due ore di saliscendi nel bosco con squarci che si aprivano ogni tanto sull’altopiano di Pokljuka ed evitata la tentazione di deviare verso una malga dove vendevano formaggi freschi, troviamo finalmente un cartello che ci mette davanti al nostro vero ritmo di cammino. «Studorski Preval 1h». Senza accorgercene avevamo adeguato il passo al chiacchierare costante e avevamo impiegato un ora e mezzo più del previsto. Ci guardiamo, guardiamo verso le cime che ancora si nascondono tra le nuvole, e capiamo che sarà una lunga giornata.

AleTS. Piccolo ristoro e si parte in direzione del primo rifugio, che crediamo sempre sia dietro un angolo. La traversata invece, con panorami spettacolari sulle Alpi Giulie, non è faticosa ma lunga e colma di saliscendi che spezzano il ritmo e le gambe. In alcuni momenti, e questo si ripeterà domani al ritorno, sembra di essere più spiaggia che vetta, mentre non si contano più i ‘dan, pochi invece gli hello, i gruss gott, i ciao, e zero mandi. Ogni tanto qualche raggio di sole illumina il biancore delle rocce, per gli amanti del genere. Questo è un vero regno del calcare.

Lo.Fi. Niente di che, avevo detto, ma i chilometri si sentono e soprattutto i saliscendi solleticano le articolazioni.

WM1. E niente… ‘Sto ginocchio ha qualcosa che non va. Mi sa che devo farlo vedere.

Tuco. Roberto comincia a sentire i primi dolori al ginocchio, e quando raggiungiamo lo Studorski preval, a quota 1890, ci rendiamo tutti conto che saranno cazzi. La vista si fa di colpo maestosa, ma da lì al rifugio bisogna scendere di quasi 100 metri. E in discesa i dolori al ginocchio di Roberto si fanno più forti. Dal passo al rifugio il tratto è lunghissimo, tutto a mezza costa, in un continuo saliscendi.

Lo.Fi. Ritorno alle sensazioni corporee che provo ora seduto alla mia scrivania a casa, 24 ore dopo la conclusione del viaggio. Cosa mi ha lasciato questa montagna? Lividi: ho un’escoriazione sotto il gomito sinistro e un’altra più dolorosa sulla tibia destra. Sono i ricordi carnali del mio coreografico capitombolo poco dopo la sella Studorski Preval. Ricordo bene la sequenza: io che come un bambino di cinque anni giocherello a fare l’equilibrista su un tronco di sostegno del sentiero, ma il clima è umido, piovigginoso, ogni cosa è ricoperta di fango e limo, compreso il mio tronco. Scivolo. Poco male, penso: assesto il piede sul ciglio del sentiero e riprenderò equilibrio, ma il ciglio è una zolla di erba e terra che cede come pasta frolla sotto la mia pedula; volo verso valle a testa in giù. Nessuna foto può aver immortalato il fatto anche se altri 3-4 componenti della spedizione ne sono stati testimoni attoniti. Certo, avrei potuto rimanere lì, gambe all’aria e sorriso ebete fra i mughi nei quali ero finito, a farmi scattare una bella istantanea. Ma varie motivazioni mi hanno fatto invece riguadagnare lesto la mia posizione sul sentiero:
1) già mentre cadevo mi domandavo: che cazzo c’è sotto? Il versante è ripido? Quanto?
2) Il volo è stato un tuffo a testa di un paio di metri, ma sotto non c’è l’acqua, meglio rassicurare i compagni sulle mie condizioni, specie Erika;
3) Vergogna, tremenda vergogna: sono il capogita e finisco giù come un pero dopo due ore di camminata?

Erika. In cielo varie gradazioni di grigio, l’aria umida, qualche goccia di pioggia che, per fortuna, termina presto: giusto il fastidio di tirar fuori e rimettere via dopo pochi minuti i poncho/giacche/copri zaino vari. Si sta attenti nel procedere, il terreno è molto scivoloso, infatti… «Attento, Lorenzo! Tutto bene?!» «Sì, sì! Tranquilli!» badabam-badabam-badabam «Andate pure avanti!» badabam-badabam-badabam «Vi raggiungo subitooooo!» Bel capitombolo tra i mughi che purtroppo mi sono persa, coreografico mi hanno detto. Poco dopo però Diserzione rischia davvero molto scivolando in una parte di sentiero più ripida. I riflessi di Riccardo lo salvano dal peggio. Non solo gocce d’acqua scendono dalla sua fronte.

D. Riprendo fiato, uno sguardo giù sullo strapiombo che mi sono evitato, ringrazio Riccardo e penso ancora a quanto sono un cretino, certe volte.

AleTS. Quello che noto, prima di arrivare al primo rifugio, è che molti affrontano la traversata quasi di corsa, o comunque a passo spedito, e mi chiedo se davvero abbiano fretta di arrivare o intendano la montagna in questo modo. Ad un certo punto penso che magari stanno scappando, anche se non so da chi o da che cosa, almeno avessero un motivo valido, penso. Perché se uno scappa, deve avere una buona ragione per essere seguito, altrimenti che scappa a fare?
Boh, so che noi procediamo lenti ma inesorabili.

Lo.Fi. Ed ecco un mona. Turisti americani che ci sfrecciano accanto quasi di corsa in jeans e scarpe da ginnastica. Suggerisco un pezzo di Bo Diddley nella versione dei Quicksilver Messenger Service per commentare la scena e Wu Ming 1 parte subito con uno yodel atipico: – Heeeeeey / Mooooooona!

Lo.Fi. Un monte de importansa se conossi dal codasso de mone che ghe sali sora.
Ma siamo nel campo-giochi di Julius Kugy: proprio fra queste rupi egli spese la sua vita a rincorrere la fantomatica Scabiosa Trenta. I monti tra i quali si snoda il nostro viaggio a piedi sono quelli descritti nella sibillina descrizione latina dell’Hacquet che Julius si scervellò per anni di decifrare: ecco il «Mischelem Verch» (Mišelj vrh – 2350m) con la sua sagoma massiccia che incombe sul Vodnikov Dom, ed ecco il «Traschim Verch» (Draški vrh – 2243m) che con la vasta muraglia della sua parete nord sigilla l’interminabile e selvaggia val Krma, ed ecco la Scabiosa… ma no, è solo una comunissima scabiosa alpina.

Tuco. Quando arriviamo al Vodnikov dom sono già le cinque, e mancano ancora 600 metri di dislivello per raggiungere il Dom Planika, il rifugio a quota 2400 dove abbiamo prenotato le cucce per la notte. Il Planika è in bella vista sopra di noi e sembra irraggiungibile.

Il rifugio Vodnikov Dom. Foto di Diserzione.

Il rifugio Vodnikov Dom. Foto di Diserzione.

D. Arriviamo al primo rifugio, non è la nostra meta, ed è già pomeriggio inoltrato. Ci nutriamo e dissetiamo velocemente. A Roberto viene in mente di farmi una foto col passamontagna come quella del Rocciamelone, e mi ficcano pure un enorme cotello in mano. Il mio commento «Perché la parte del demente spetta sempre a me?» ne diventa subito la didascalia su twitter, dove sono giustamente deriso da molti. Al di là della scenetta comica, penso che ho realmente già dato prova di stupidità e pericolosa scarsità di attenzione, e purtroppo lo farò ancora.

RT. La pausa al rifugio è breve. La decisione è unanime: si sale fino alla meta prestabilita. Ma prima telefoniamo per avvisare del nostro leggero ritardo, sia mai che ci lascino senza cena. Al Vodnikov Dom firmiamo il registo presenze: Alpinismo Molotov, provenienti da Giap, diretti sul Triglav. Il Dom Planika inizia a vedersi, subito dopo il rifugio che ci lasciamo alle spalle, arroccato mezzo chilometro di dislivello sopra le nostre teste. Dopo dieci minuti in cui sembra guardarci beffandosi di noi, sentenzio deciso rivolto a Lo.Fi che i rifugi messi così in vista sono un crimine contro l’umanità. Non so se l’ho convinto, ma mi asseconda nel proporre una petizione per farli vietare.

D. Il sentiero si fa sempre più faticoso, i passaggi attrezzati e la pendenza aumentano. Il Dom Planika, nostra meta per la giornata, appare e scompare dietro le nuvole, ancora fin lassù, sotto la cima, ed è lassù che dobbiamo arrivare, lassù è dove dormiremo e mangeremo. Inizialmente mi ritrovo di nuovo a seguire i più veloci, e sono con Lorenzo, Erika e Riccardo quando c’è da salire su una bellissima scala scolpita nella pietra, che mi fa venire in mente quella di Cirith Ungol, di cui però sul momento mi sfuggiva il nome. Ma poi, dopo un’attesa, attratto anche dai discorsi di Natale e Roberto, mi adeguo al passo oratorio, rallentato ulteriormente purtroppo dal riemergere del problema al ginocchio di Roberto. Nel frattempo si parla di cinema: da quello di Sergio Leone si passa a Sam Peckinpah, amatissimo da Roberto, e poi a quello di montagna, che conosco poco. Roberto e il Vecio coi loro discorsi compongono una filmografia di montagna, e nei giorni successivi inizierò la visione di qualcuno di essi: North Face, Cinque giorni un’estate (film preferito del comandante Cienfuegos), Gasherbrum, La morte sospesa (l’unico che in realtà avevo già visto, di cui però non mi ricordavo affatto).

Tuco. Dal Vodnikov saliamo al Konjsko sedlo, a 2000 metri. Sono le sei, e per l’ultima volta ci fermiamo tutti insieme. Riccardo parte come un treno, seguito a ruota da Lorenzo e Erika. Io e Alessandro siamo un po’ staccati e per un bel tratto camminiamo insieme. Diserzione e il Vecio restano indietro con Roberto, che intanto si è messo a bestemmiare in lingue sconosciute. Lo sentiamo dall’alto. Alessandro deve fermarsi spesso per riprendere fiato. Io invece se mi fermo mi taglio le gambe, così decido di andare avanti da solo col mio passo, cercando di mantenere l’encefalogramma piatto per non sprecare le energie. Il sentiero è ripido ma non pericoloso, e dall’alto si vede tutto. Se qualcuno si dovesse trovare in difficoltà seria, uno di noi quattro che siamo in alto lo potrebbe raggiungere in fretta. Per fortuna stanno tutti decentemente, ma ormai è evidente che il gruppetto di Roberto arriverà al Planika col buio. Le montagne sono bellissime.

VB. Triglav, tre teste. Diverso da Tricorno, traduzione italiana sbagliata come per altri toponimi sloveni (Monte Nero per il Krn, per esempio). Questo mi spiega Lorenzo, e mi insegna anche «trda glava», testa dura. Come dire Roberto. Lui, che il Comandante ha portato sul Kenya perché è l’ultimo che verrebbe in mente a chiunque; lui, che un mese fa ha portato se stesso sul Rocciamelone e riportato dolorosamente a valle perché solo qualche anno prima era l’ultima cosa che avrebbe pensato di fare; lui è ancora qui che arranca verso il rifugio con il legamento del ginocchio che ricomincia a rognare come il mese scorso, perché questa è l’ultima cosa che qualunque medico gli avrebbe prescritto. Ostinazione purissima.

D. I cinque più veloci come da accordi non ci aspetteranno ma andranno dritti al rifugio, anche per avvisare che tarderemo un po’. Si continua col passo oratorio-dolorante. «Siamo gli ultimi sulla montagna» fa notare Roberto appena intrapresi i tornanti. Il colore del cielo è il più bello, il silenzio è inimmaginabile.

WM1. No “dober dans” anymore.

Foto panoramica di Diserzione. Clicca per ingrandire.

Erika. Ultima rampa, si sale di quota, l’altimetraddicted Lo.Fi. mi scandisce il tempo comunicandomi ogni 5 minuti quanti metri mancano -grazie ancora-. Ci si alza e con noi anche i nuvoloni che ci permettono così di scrutare un po’ di panorama. Finalmente!
È strano quello che succede in montagna: più vai su e più ti stanchi, ovviamente, i passi si fanno più lenti e il fiato un po’ più corto, ma, se si presta un po’ d’attenzione, il tutto è direttamente proporzionale alla sensazione di leggerezza che invade mente e cuore. Negatività e preoccupazioni man mano lasciano spazio ai sorrisi che spontanei sorgono dentro di te. La visuale cambia in continuazione, basta salire di qualche metro e scopri un angolino nuovo, uno spigolo più alto, una parete più affascinante …l’orizzonte si allarga e la voglia di sapere cosa ti aspetta su cresce.

VB. Anche stavolta io e WM1 siamo insieme in coda al gruppo, molto distaccati, con noi anche Diserzione che fa la spola tra il nostro avanzare che sembra un retrocedere e i tornanti più in alto, per capire se il rifugio finalmente si vede (eppure da sotto sembrava lì sul ciglio della salita, ma sembrare lì è la cosa che i rifugi di montagna ovunque sanno fare meglio) o se ce lo stanno spostando sotto il culo come nelle candid camera degli anni ’70 di Nanni Loy, nelle quali si lasciava una banconota sul marciapiede legata a un filo sottilissimo che veniva tirato di nascosto quando i passanti ignari si chinavano per prenderla. Comincio a temere per Roberto la crisi che verrà, la discesa eterna che dovrà sopportare un’altra volta, e qui il chilometraggio è quasi doppio. E poi sta venendo sera, siamo gli ultimi sulla montagna, le nuvole mobili giocano con l’ultimo chiarore, svestono e rivestono i crinali, aprono e chiudono quinte e sipari. Roberto si stupisce della quiete profondissima e dello scenario di monti a perdita d’occhio. Parliamo della spinta estetica che forse è la più forte tra le motivazioni con le quali la montagna attrae i dilettanti come i grandi alpinisti. Quello che si vede, si sente, si prova qui, non è dato altrove. Faccio qualche foto per sciogliere la tensione, so già che non riuscirò a catturare la bellezza del momento.

Vecio Baeordo e Wu Ming 1. Foto panoramica di Diserzione, clicca per ingrandire.

D. Tutto intorno c’è “un mondo di pareti”, come scrisse Kugy. Sotto di noi notiamo che, nel punto in cui eravamo poco fa, parecchi hanno composto delle scritte con dei massi bianchi, ora visibili dall’alto. Ci ripromettiamo di scrivere qualcosa al ritorno, un’altra cosa che non faremo, come già diverse volte è capitato: la montagna non sa dei nostri buoni propositi. Natale indica il panorama come spiegazione visuale della sua passione estetica per la montagna, ed è impossibile dargli torto.
Per me la cosa più bella è l’esperienza immediata della vastità del mondo, che non capita di frequente nella nostra vita quotidiana. Qui, nei tornanti sotto il Dom Planika, è di un’imponenza devastante, ben di più di quanto sono riuscito a riportare nelle misere foto del cellulare, ben di più di quanto mi attendessi da monti che mi dicevo “non così alti”. Quello che conta non è l’altimetria ma sono le valli profondissime, e soprattutto la complessità di queste alpi. La sensazione di grandezza è funzione del numero degli oggetti che popolano lo spazio e qui i dettagli sono infiniti. – È la roccia che è così, è il calcare che fa il paesaggio. – spiega Natale. È tardi, siamo parecchio stanchi, piove a tratti, si sta rabbuiando, dobbiamo camminare ancora e quando pensiamo di essere arrivati, in realtà ancora dobbiamo camminare, sforzarci per soddisfare bisogni primari (mangiare, dormire), e faccio la spola su e giù per capire quanto manca, dove passare, e tornare a riferire, mi fermo ad aspettare, ho freddo… Eppure mi sento pienamente libero e mi sembra che non ci sia niente di più bello da fare al mondo che essere lì dove sono. Roberto si mette a cantare come già sul Rocciamelone nei momenti più difficili. A Battiato questa volta si aggiungono addirittura gli Area, non senza una buona dose di comicità.

VB. Scendendo dal Roccia, quando al culmine della fatica avrebbe potuto lasciarsi vincere dalla disperazione, raccontano che invece Roberto si è messo a cantare Battiato. Io non c’ero, era l’ultimo tratto ed ero sceso a prendere l’auto. Ora intona Voglio vederti danzare, una delle mie preferite di un autore che peraltro non ho mai amato troppo. Dovremmo preoccuparci, potrebbe essere un brutto segno, ed è quasi buio. Lui invece la canta da cima a fondo imitando anche il timbro di Battiato, e noi ridiamo: funziona, accidenti! Ma il bello deve venire, e siamo solo in due a poterlo raccontare contro sette miliardi che non ci crederanno mai.
– Adesso faccio gli Area, Hommage à Violette Nozières.
No, dai, è fuori dalla portata di chiunque, non può farcela. Invece parte, la canzone è giustamente quella citata nell’Armata dei Sonnambuli, il timbro è una caricatura di Demetrio Stratos ma nemmeno troppo distante, e soprattutto quando arriva ai vocalizzi tipici di Stratos, LI FA. In qualche modo, ma implacabile li fa. Siamo piegati in due dalle risate. Arriva giù Lorenzo con la pila frontale, dal rifugio ormai vicino, a caricarsi lo zaino di Roberto, in tempo per essere testimone di Impressioni di Settembre con tanto di imitazione del Moog sul ritornello. Due tornanti, un decennio di rock italiano. Sarà questo l’Alpinismo Molotov?

Chi suona al Dom Planika? Una tribute band dei Rancid

Tuco. Le nuvole si aprono per qualche minuto, e riesco a godermi anche uno sprazzo di tramonto. Raggiungo il rifugio verso le otto, e sono sfatto. Mi viene incontro Riccardo, fresco come una rosa:
-Tutto ok?
-Sì, a posto.
A posto staminchia, sono in condizioni pietose. La prima cosa che faccio, appena messo giù lo zaino, è accendermi una sigaretta (fanculo i puristi). La seconda è andare a pisciare. I cessi fanno veramente schifo, sono tre baracche di legno puzzolenti in bilico sulla scarpata. Bon, ma pisciare si deve, e non è il caso di fare gli schizzinosi. La terza cosa è spedire un paio di sms per avvertire a casa che sono arrivato al rifugio. Mi cavo gli scarponi, mi infilo le braghe della tuta e la giacca a vento (la temperatura è vicina allo zero), e ai piedi mi metto i miei orridi Birkenstock (calzature che rientrano a pieno titolo nella categoria CCGNAF – Cose Che Gridano No Alla Figa. Ma non sono venuto quassù per la figa. Mentre faccio queste cose e mi perdo in queste considerazioni di alto profilo, mi domando se sono io strambo, o se quelli che parlano dell’andare in montagna come di una specie di via all’ascesi e alla purezza in realtà non la stiano contando su ai gonzi.

Il Rifugio Dom Planika.

Il Rifugio Dom Planika. Foto di RikuTrulla.

RT. Arrivo al Dom Planika per primo verso le 19.45. Il panorama è coperto dalle nuvole. Appoggio a terra zaino e bastone e guardo in giù verso il sentiero. Non si vede ancora nessuno. Un uomo di sessant’anni mi si avvicina e mi attacca bottone. Si chiama Ferdinand, è di Lubiana, e negli ultimi 40 anni, da ‘vero’ sloveno è salito almeno trenta volte sul Triglav. Mi promette per il giorno dopo un panorama fantastico, il campanile di Aquileia e, se il cielo sarà terso, Venezia. Chicchierando fa un passo indietro e non si accorge delle mie cose. Sento un ‘crack’ netto e vedo a terra il bastone di Matilde spezzato. Forse è proprio in quel momento che il ginocchio di WM1, un paio di centinaia di metri sotto il rifugio, getta veramente la spugna. Poco dopo arrivano Lo.Fi ed Erika, entriamo per registrarci al rifugio dove tutti hanno già finito di mangiare e dove qualcuno già dorme nei cameroni.
Tuco e Diserzione ci raggiungono che già sta facendo buio e qualche goccia di pioggia dà una direzione più precisa all’umidità dell’aria che sta infradiciando ogni cosa. Lo.Fi, una frontale in testa e una in tasca decide di scendere per aiutare gli ultimi. Quando arrivano al rifugio, sono quasi le otto e mezza e la partenza sembra una vita fa.

Tuco. Appena mi riprendo un po’, Riccardo mi accompagna alla camerata dove dovremo dormire. Butto a terra lo zaino e scendo di nuovo con Riccardo al bar. Con Erika e Lorenzo ci beviamo una radler mentre aspettiamo gli altri. Torniamo fuori. Ormai è quasi buio. Arriva Alessandro, ed è anche più sfatto di me. Qualcuno lo accompagna dentro, mentre io e qualcun altro dall’alto guardiamo Roberto, Natale e Diserzione che salgono su, un passetto alla volta. Si vede che Roberto non sta bene. Quando arrivano è già buio da un pezzo.

AleTS. Sono le 20.30, fatica boia, negli ultimi metri Riccardo mi viene incontro, mi aiuta, mentre Lo.Fi. riscende a cercare gli ultimi compagni, guidato dalle voci. È quasi buio.
Accompagnato dal generoso Riccardo, vedo quali letti ci sono stati riservati per trascorrere la notte. Sono abbastanza stanco, me li indica più volte, e penso, ci metto un attimo, che lì non potrò mai dormire.
Secondo piano, scale ripide, saloni pieni, letti a castello. Dovesse succedere qualcosa, penso, qui sarebbe un casino (prima deformazione professionale). Ho dormito più volte in rifugio, ma non a queste condizioni. La maggior parte dei letti sono già occupati, e tanti già dormono. Come facciano, non so.
Mi sistemo in qualche modo, poi, per mia fortuna, intravedo delle camere più piccole. Chiedo se si può dormire in una di quelle, Riccardo e Tuco mi aiutano nella traduzione, e ho la sensazione, poi divenuta coralmente certezza di tutti, che la cortesia e il senso dell’ospitalità non abbiano mai trovato posto, qui dentro. Potrebbero far meglio, e ci vorrebbe davvero poco (seconda, e ultima deformazione professionale).
Dopo non poche insistenze, mi concedono la grazia di un letto in una camera, con sovrapprezzo clamoroso (5 euro) e questo si rivelerà una salvezza a tutti gli effetti.
Il gruppo è stanco, ma ben convinto delle proprie potenzialità per la mattina seguente, e io ne sono altrettanto convinto. La notte mi farà cambiare idea.
Stiamo per consumare una parca cena, sono le 21.30, il rifugio è strapieno, ma dopo due Radenska, e nessuna Zlatorog, decido di andare a dormire, senza mangiare. Saluto tutti e arrivederci a breve. Appuntamento alle sei. Mi spiace abbandonare il gruppo, e le considerazioni di fine giornata, ma davvero ho bisogno di riposare.

Tuco. La cena non è male: luganiga di Kranj con la polenta. E acqua a volontà. Ho bisogno di acqua, ne ho un bisogno tremendo. Credo di essermi fatto fuori da solo una bottiglia da un litro e mezzo. Mi berrei anche i muri, se fossero liquidi. Dopo cena usciamo un momento, e il porcoddio ci sta tutto, perchè si è messo a nevicare o qualcosa del genere. Viene giù una pioggerellina ghiacciata, vuol dire che domani bisognerà stare attenti a non scivolare.

RT. “Un albergazzo” aveva preannunciato Lo.Fi nei giorni precedenti e in effetti il rifugio è abbastanza grande – oltre il centinaio di posti. Ma pensando a certe strutture sulle Dolomiti, dove si arriva in funivia e si possono ordinare à la carte piatti da ristorante circondati da pensionati di pianura in gita estiva, questa struttura a 2.400 metri con l’esterno completamente in scandole di legno e una dépendance nascosta sul retro, ha comunque il suo fascino. Se ne discute per un po’ – ma ‘albergazzo’ è un termine tecnico cadorino?, mi chiedono dal Piemonte – finche jota, salsicce e frittate occupano più proficuamente le nostre bocche.

WM1. Ecco la parola giusta: ranzidi. Questi del Dom Planika sono ranzidi. Che in triestino, letteralmente, è “rancido”, ma in senso figurato indica una persona maleducata e respingente.
Un albergatore poco ospitale: ranzido.
Un ristoratore sciatto e scostante: ranzido.
Un bottegaio spiccio e screanzato: ranzido.
Un gestore del Dom Planika: ranzido.
A Bologna gente come questa la chiamiamo “sgodevole” (sgudàvvel). Non sorridono mai, nemmeno l’ombra di un sorriso di circostanza, niente. Nemmeno ti guardano in faccia. Non salutano, non ringraziano, non rispondono ai ringraziamenti. Tanto, che gliene frega? Simpatici o antipatici che siano, il segreto è la location. Se uno vuole salire sul Triglav da questo versante, di qua ci deve passare, per amore o per forza. Più per forza. Forse nemmeno una sfilza di ottocento rece negative su tripadvàisor potrebbe nulla contro questo dominio. Qui da noi ci passi comunque, e quindi che cazzo vuoi? Poskusite v Furlaniji. La provi in Friul.

AleTS. Entro nella camera. Sei posti letto. Quattro singoli e uno a castello. Non c’è nessuno, a parte in quello a castello, piano basso. Non so chi sia. Uomo, donna? Non ha importanza. Faccio piano, per non disturbare, ma le Radenska per la notte mi cadono a terra, e non so se aprirle o meno. Sono ultra frizzanti, e se bagno il/la sconosciuta? E se la/lo sveglio? Merda, mi tengo la sete. Ad un certo punto si alza, penso per pisciare, ma nel buio non capisco chi sia. Torna nel letto, il dubbio rimane.
Dopo un’ ora tocca a me. Luce non c’è, dopo una certa ora la chiudono. Incerto, mentre fuori nevica e tira vento, raggiungo la porta dove prima sono entrato, c’è una piccola terrazza.
Che faccio? Dov’è il WC? Sono in mutande, nel dubbio… Chiedo scusa, spero di non aver preso nessuno, ecco.
Torno a letto, riesco a dormire.

Lo.Fi. Anche in rifugio come in vetta ad insidiarci è il sovraffollamento, in questo caso sotto forma di una selva di respiri pesanti, talvolta ragli. Alcuni astanti sono visibilmente ubriachi.

RT. La camerata – una trentina di posti in letti a castello – è un reparto specializzato in roncopatia cronica, una polifonia di ragli in cui è difficile prendere il ritmo, ma qualcuno di noi, nondimeno, ci prova.

Tuco. A nanna. Non è che si dorma benissimo stipati in trenta in una camerata, ma ho dormito in posti peggiori. Ricordo una notte d’inverno in cuccetta sul Monaco-Trieste, senza riscaldamento, e col tizio di fronte a me – un gelataio italiano di Berlino – che diceva di sentire le voci e di essere guidato da forze acculte.

Erika. La notte passa, e una notte in una camerata da 30 persone dove per di più durante la serata qualcuno ha alzato un po’ troppo il gomito… non è una gran notte, ma per qualcuno è proprio un inferno.

D. Dopo aver avvertito Lorenzo ed Erika, vicini di letto, che purtroppo russerò, e suggerito l’uso della violenza anche fisica come contromisura, mi addormento con la testa incastrata sotto il soffitto spiovente. O almeno ci provo. In parecchi mi hanno anticipato nel coro.

WM1. Notte di merda. Il tizio accanto a me, più che russare, sembra ruttare a piena potenza ogni cinque-sei secondi. Quello più in là suona il controfagotto. Un altro emette una sorta di nitrito tenorile, forse sogna d’essere un mulo che chiava. Nessuno va a tempo, impossibile “regolarsi”, impossibile prendere sonno. Tuco, che è sul letto sopra il mio, si gira e rigira come Gramsci nella tomba. A me fa male il ginocchio. Nel cuore della notte mi alzo per andare a pisciare, scendo zoppo due rampe di scale ripidissime, praticamente un quinto grado superiore, per usare la fetida turca al pianterreno. Torno su e mi ri-infilo nel sacco a pelo, ma mi attendono ancora svariate ore in compagnia di questi che sembrano suonare Kontakte di Stockhausen con un pettine avvolto nella carta velina e un kazoo ficcato nel culo.
Non molto dopo, sento che uno si alza, si infila gli scarponi e scende. In seguito saprò che è Diserzione.

L’alba, l’ultimo tratto, via dalla pazza folla

D. Mi sveglio alle quattro, chissà se in seguito a qualche ritorsione o per il rumore altrui. Resisto quasi un’oretta disteso a fissare il legno a due centimetri dal mio naso, poi striscio via, scendo, impacchetto le mie cose cercando di non far troppo burdèl, ed esco dal dormitorio e dal rifugio.

AleTS. Alle sei meno un quarto, entra un tizio e sveglia la persona nelle camera che scopro solo adesso essere una signora. L’umo urla che si deve alzare, che è tardi. È già vestito e pronto per partire, ha già il casco in testa (eh?), l’imbracatura addosso (eh?) e una piccozza in mano (EH?).
La donna si scusa, e dice che si preparerà quanto prima. Poi si scusa con me per la comparsa di Robocop.
Niente niente, le dico, ero già sveglio, e avevo già meditato sul fatto di non salire in cima, e per la stanchezza, e per non far perder tempo ai miei compagni. Comunque li raggiungo.
Li trovo non proprio in forma, hanno dormito poco, Diserzione è sceso prima, dopo aver già riposato quasi niente la notte precedente.
Troppe persone accalcate, troppo piccoli i loculi, troppo caldo, troppi che russavano. È la montagna, bellezza. A me è andata di culo, strano.
Colazione pietosa, degno coronamento di un’organizzazione latente e sorda. Peccato, per un posto così frequentato e famoso.

WM1. Pian piano mi monta la consapevolezza: ginocchio malandato, zero sonno… Se domattina tento la vetta tiro i cracchi. Papale papale. E così, decido che non proseguo. E prima ancora di comunicarla ai compagni, twitto la mia decisione, e butto lì una frase a mo’ di massima. Poi resto lì a vegetare ancora un poco. Poi suona la sveglia e io ho i pensieri in loop. Il loop fa: porco dio, porca madonna. Pardon me, sono venuto su così, tra bestemmiatori. È più forte di me. Soprattutto, è più forte del mio ginocchio.

Tuco. L’alba è uno spettacolo. Il cielo è limpidissimo, e verso sud si vede la catena delle prealpi di Tolmin; subito dietro, il ciglione dell’altipiano di Trnovo, fortezza del IX. Korpus; e dietro ancora il golfo di Trieste. Un po’ più a est c’è lo Snežnik, il “Monte Nevoso” di cui D’Annunzio fu proclamato principe, povero Snežnik. Ma la cosa più bella è il Triglav himself, ancora in ombra. Sembra un enorme macigno levigato da qualche fiume preistorico di dimensioni gigantesche. E’ bianco, come i sassi della Soča – l’Isonzo – il mio fiume, che nasce proprio qua sotto. Resto lì a guardare per una decina di minuti, finchè non mi chiamano per la colazione.

RT. La sveglia è alle 5.45 e subito WM1 esordisce: – Non ho dormito un cazzo, il ginocchio non c’è, se provo a salire è la volta che tiro i cracchi. – Siamo tutti dispiaciuti, ma in effetti c’è poco da discutere. Gli consegno la mia ginocchiera e scendiamo a fare colazione. Anche Alessandro, che aveva dormito in un’altra camera, ci dice di non voler salire. Accompagnerà WM1 nella discesa, per guadagnare tempo, mentre noi saliamo. Fuori c’è un’alba incredibile, Diserzione è già da mezz’ora in piedi a fare foto.

D. Fuori è ancora buio ma comincia a intravedersi la prima luce dell’aurora all’orizzonte, che sorge proprio di fronte al Planika. Durante la notte ha nevicato. Ci sono delle pecore intorno al rifugio, molte addormentate e qualcuna già sveglia, come me, improvvise apparizioni nel buio, spettrali. Mi metto il passamontagna e faccio un giro nelle conche intorno al rifugio, rischiando pure di scivolare e di farmi del male. Qualche comitiva, attrezzata di tutto punto, esce silenziosamente e si avvia sui sentieri che portano alle pareti del Triglav. Stranamente non mi sento ancora particolarmente stanco. Fa ben freddo. Un po’ alla volta tutti si svegliano. Tra i primi Riccardo, con cui ci fotografiamo a volto coperto…

«Un monte de importansa se conossi dal codasso de mone che ghe sali sora.»

«Un monte de importansa se conossi dal codasso de mone che ghe sali sora.»

…e Martino, a cui in via eccezionale scrocco una sigaretta, avendo smesso di fumare (le mie…) già da un paio di mesi.

RT. Il panorama è una sorpresa, per noi che siamo arrivati con le nuvole e che quasi faceva buio. Si vedono tutte le Giulie a sud del Triglav, le vette slovene che lo circondano da est e a ovest. Tutt’intorno al rifugio, un gregge di pecore che sembra particolarmente abituato agli escursionisti. Alcune si fanno accarezzare e molte cercano gli zaini abbandonati per ciucciarne le cinghie. Sotto di noi, a coprire la valle che avevamo attraversato il giorno prima, un fitto tappeto di nuvole bianchissime. Mi giro verso nord e finalmente vedo la cima del Triglav che si staglia appena lambita dal sole.

Erika. All’alba il sole fa capolino tra le montagne lontane, silenzioso cresce e si alza mentre i nostri corpi indolenziti si riattivano. La mente è ancora un po’ assonnata… Qualche difficoltà nell’ordinare la colazione: – Breakfast includes: bread, marmalade and the succulent pasteta* [paté di scarti di carne] with tea or coffee, but it’s not coffee, it’s a sort of coffee, it’s coffee of cicoria, you can have a real coffee but you have to pay it apart and you pay the same price of a complete breakfast so you have a fake coffee or a tea and a real coffee or you can have only a real coffee but you won’t have bread. So?
Alle 6 del mattino la faccenda si presenta molto complicata, ci mette letteralmente in crisi. Infine, chi più chi meno, qualcosa si mangia.

Tuco. Il ginocchio di Roberto è in vacca, non è nemmeno pensabile che possa tentare l’ultima scalata. Dice che appena si è “svegliato”, il primo pensiero che gli si è coagulato in testa è stato: «Se tento la vetta tiro i cracchi.» Anche Alessandro decide di non andare avanti: ha passato la notte a scainare per i crampi. Mi prende in disparte e mi dice sottovoce…

«Martino, no sta far monade, ricordite che te ga fioi

Erika. Si preparano gli zaini, si parla, si decide sul da farsi dato che Wu Ming 1 e Alessandro decidono di non salire, meglio incominciare a scendere piano piano. Si parla, si parla… il sole si alza ancora, si parla e ci si prepara ancora… E poi dicono che sono le donne quelle che fanno attendere: la praticità della donna batte sette a uno quella dell’uomo.

Tuco. Ci salutiamo davanti al rifugio. Alessandro e Roberto cominciano a scendere, noi sei ci avviamo verso il Triglav: se mali o veliki, questo si vedrà.

VB. La notte ha steso un centimetro di neve ghiacciata sulla montagna, dal rifugio alla cima. Però al mattino l’aria è cristallo, l’alba perfetta sul mare di nuvole. Roberto e Alessandro non cominciano nemmeno [dober dan] la salita, rispettivamente ginocchio e crampi.

RT. Alle 7.00 siamo pronti a partire. Dal rifugio sono 400 metri di dislivello con alcuni tratti attrezzati con cavo e pioli metallici, sia in cengia che appoggiati in parete. Guardando in su, aguzzando la vista per trovare il sentiero che sale, ci accorgiamo che è già pieno di gente. Macchioline di colore sgargiante salgono in fila indiana per il sentiero. Evidentemente erano tutte con noi dentro al rifugio, ma arrivando tardi non le avevamo viste. Sembra una collanina di perline sfilacciata appoggiata sulla roccia. Salutiamo Alessandro e WM1 che di lì a poco scenderanno verso il Vodnikov Dom e ci incamminiamo compatti verso la salita.

Si va su. Foto di Vecio Baeordo.

AleTS. Li guardiamo salire, con un po’ di invidia e di ammirazione. Col senno di poi, ho pensato che sarei dovuto salire pure io, per rispetto nei confronti degli altri. Lasciando lo zaino in rifugio, però.
In quel momento non me la sentivo, ero contento di accompagnare WM1 a valle. Cosa che iniziamo a fare, lentamente. C’è già tanta gente che sale per arrivare al rifugio, e poi in vetta, sono appena le 7 e mezza. Dober dan. Si ricomincia.
Chissà Kugy per quale via sarà salito, qui, tanti anni fa, e chissà cosa cercava, da queste parti.

«È il più alto delle Giulie. Dal regno fatato di Zlatorog penetrò nei miei sogni e li dominò per molti anni. A nessun altro monte ho bruciato tanti incensi. Come mi batteva il cuore e con che ansia lo desideravo, quanto sentivo il suo nome consacrato dal tempo, circonfuso di leggenda, annunciare la vicinanza a Dio.»

Noi in questo momento pensiamo ai compagni impegnati nella salita, e a noi impegnati nella discesa, a dire il vero. E’ domenica, è agosto, d’accordo, ma sta arrivando davvero un mare di gente, più o meno attrezzata, più o meno vestita, e per fortuna incontreremo soltanto uno con la telecamera in testa.
Oggi se non hai una telecamera in testa cominci a essere un nessuno.
Guardo ancora una volta il Triglav, penso ai compagni prossimi alla vetta, c’è il sole.
Ciao Triglav, bomo videli. Un saluto che è come un arrivederci.

WM1. Per tutta la prima ora di discesa io e Alessandro abbiamo parlato di un solo argomento: teorie e vita activa del compagno Alfredo Maria Bonanno.

Tuco. Le rocce sono coperte da un sottile strato di neve fresca, che in alcuni tratti diventa ghiaccio. Per fortuna la gente che sale è talmente tanta che la pista è già quasi ripulita. Ma bisogna fare attenzione, perchè basta una scivolata per farsi molto male. Io resto un po’ indietro e Natale mi fa compagnia e mi dà delle buone dritte nei passaggi più difficili. Il suo modo di fare ha un effetto tranquillizzante su di me: glielo dico, ed è contento di sentirselo dire. Quando cominciano i pezzi in ferrata più esposti, mi faccio comunque prestare da Lorenzo il suo imbrago. Lui non ne ha bisogno, e tecnicamente nemmeno io, ma averlo mi fa stare meglio.

Lo.Fi. Quando salii il Triglav otto anni fa non c’era ghiaccio e la folla era meno invadente (era un giorno infrasettimanale), la cresta si percorreva con facilità e rapidità, senza troppi patemi. Per questo avevo detto agli altri che l’imbrago era superfluo, utile solo come palliativo psicologico in caso di vertigini. Ma siamo nel weekend di ferragosto, cambia tutto, si sa…

Tuco. La salita è faticosa, ma meno dell’ultimo strappo della sera prima. Cioè: è più ripida, a tratti bisogna tirarsi su aiutandosi con le mani, ma evidentemente la notte di riposo è servita. Il problema è che comincio a sentire che il ginocchio sinistro non mi tiene più bene. Ogni volta che carico il peso a sinistra, la gamba mi trema. E’ da un anno che quel ginocchio non mi convince, ma nella vita di città non mi ha mai dato problemi. Adesso invece sì. Stringo i denti (e le chiappe) e tiro avanti. Voglio arrivare almeno al Mali Triglav.

RT. A 2400 metri fa abbastanza fresco e per terra ci sono molti punti con ghiaccio vetrato. L’umidità della sera prima si è congelata nella notte e ci accorgiamo subito che bisognerà fare molta attenzione a salire. I primi tratti attrezzati sono semplici e si alternano al sentiero che sale. Passiamo per un piccolo canalino, arriviamo sul versante finalmente illuminato dal sole, ci giriamo verso sud, ed eccolo: il mare. É la prima volta di VecioBaeordo. Si ferma a dare un’occhiata, ma sa che dalla cima sarà meglio. Ora è lui a giudare il gruppo: con passo fermo e sicuro, aiutandosi poco e niente con cavi e paletti offerti dal sentiero, decide di proseguire. Da lì vediamo ancha la via che sale dal versante nord, dal Triglavski dom. C’è già un ingorgo, che anticiperà quelli che incontreremo tra poco. Tuco decide di mettere l’imbrago mentre, con effetto a dir poco straniante, manco fossimo sul lungomare di Barcola, vediamo un tizio che scende correndo, zompettando tra un sasso e l’altro come i camosci del giorno prima, con un paio si scarpette da corsa. Sparisce in basso oltre la vista e ci guardiamo tutti perplessi. Manca poco al Mali Triglav.

D. Negoddìo, l’avevo immaginata più facile! Complice anche la neve ghiacciata che sottilmente e quasi invisibilmente ricopre tutto, l’ascesa, almeno per me, non è per niente elementare. Supero tra i primi una stretta gola, e sono quasi divertito, di sicuro esaltato, ma poco dopo, nella salita che porta al Mali Triglav, iniziano le difficoltà.

RT. Qualche escursionista più veloce di noi ci supera lungo il sentiero che si fa sempre più attrezzato e iniziamo a incontrare la gente che scende. Arriviamo sul Mali Triglav da cui si vedono i massicci austriaci del Grosslockner e del Grossvenediger a nord-ovest e la pianura friulana e l’Istria a sud-est.

Tuco. Bon, fatta. 2725 metri. Per me è già un record.

D. Sono rimasto l’ultimo e mi sembra che gli altri procedano tutti più sciolti e abili, senza vertigini. L’idea di non aver nessuno dietro di me mi trasmette una brutta sensazione di vuoto. Delle specie di tondini di ferro sono stati piantati nella roccia per fornire facili appigli alle mani (in maniera insolita: spesso si attrezzano soluzioni simili per i piedi) e non senza apprensione e qualche momento di paura raggiungo dietro agli altri l’anticima, il Mali Triglav, da cui il panorama è già infinito sulle Giulie, sulle alpi austriache e sulle valli abissali sottostanti.

Lo.Fi. Vivido è il ricordo della vista dal Mali Triglav (“Piccolo Triglav”, 2725 mt): io, Erika, Riccardo, Tuco, Vecio Baeordo e Diserzione dopo esserci inerpicati sul versante sud-est per 300m (di dislivello) finalmente scolliniamo e scorgiamo la vetta per la prima volta. Non [dober dan] c’è gioia nei nostri volti ma stupore e smarrimento: una processione quasi immobile di giacche-a-vento, gusci, camicie, scialli, magliette, drappi, giubbe (mancano solo i tailleur) dai colori più variegati, si snoda interminabile lungo il cavo che conduce alla cima. La cresta terminale è affilata e ogni singola roccia che la compone è ricoperta di verglas, il temibile ghiaccio vetrato, aspetto che, assieme all’andatura stile fila alla cassa di un supermercato, ci infonde sentori di disgrazia.

RT. Lo spettacolo sprona a salire, ma lo stimolo è presto smorzato da quello che vediamo sulla cima del Triglav. Le fila di formiche policrome che salgono lungo le vie verso la cima sono almeno tre, tutte che si congiungono nello stesso punto e pronte a ridiscendere a ritroso per lo stesso percorso. Avanziamo ancora verso la cengia che unisce la cima piccola a quella grande e ci troviamo incolonnati nella fila di gente. Ci fermiamo per decidere cosa fare.

Erika. Qualcuno non se la sente di proseguire, vorrebbe scendere.
«Come facciamo?»
«Non può scendere da solo… Chi vuole proseguire?»
«Indifferente …l’ideale sarebbe restare uniti… fate voi… decide la maggioranza.»
«Per me è uguale… Anche se…»
È difficile prendere una decisione: manca poco alla vetta, solo cento metri, si è fatta tanta strada… Viaggi notturni improbabili dall’estremo ovest dell’arco alpino… Km su km in macchina o in treno per vedere monti nuovi, nuove forme… Le condizioni meteo sono perfette… Però in effetti c’è troppa gente, non dà molta sicurezza… Non vorrei sembrare egoista, non so… Vorrei ma… Buh… Beh, si va su! Ecco, come dicevo, diventi leggero, c’è qualcosa che ti traina verso l’alto. Non riesci a dir di no. Saliamo in quattro, imprecando non poco per gli ingorghi che si creano nei passaggi più stretti.

RT. Tuco lo dice chiaro e tondo:
– Io mi fermo qui, sento di aver dato il massimo e preferisco tornare indietro.
Vecio Baeordo ha gli occhi che brillano e se qualcuno lo segue è pronto a salire. Lo.Fi vuole fargli da cicerone. Non hanno l’imbrago ma sono escursionisti esperti. Restiamo in tre, con due imbraghi, Erika che ce l’ha già addosso, Diserzione ed io. I punti esposti non saranno molti, ci rassicura Lo.Fi, ma il ghiaccio non mi piace e la folla di escursionisti ancora meno. Diserzione ha attraversato l’Italia da ovest ad est, ha passato la notte in treno e ci passerà la seguente. Quando gli ricapita? Tuco non può rientrare da solo. Decido di scendere anch’io estorcendo a Lo.Fi la promessa di una nuova salita, con imbrago, magari dal versante nord.

VB. Martino e Riccardo arrivano fino al Mali Triglav con una certa tensione per la lente di ghiaccio sul terreno impegnativo, e decidono di ripiegare. A dirla tutta Riccardo rinuncia, con tutta serenità, anche per lasciar salire noi occidentali: – Io sto a Trieste, voi avete fatto tutti quei chilometri…

RT. Un coppia di francesi ci passa di fianco con sneakers ai piedi, cappelli di paglia, eastpack in spalla e lonely planet in mano. Raggiungeranno inconscentemente la cima. Come sostiene cinicamente un mio amico membro del Soccorso alpino: «Le morti in montagna sono troppo poche.» Maledetto Alpinismo Hipster.

Lo.Fi. Riccardo e Tuco tornano giù, le motivazioni sono quelle sopra descritte ma a me piace pensare che a fermarli sia stato il sovraccarico di identità che si parava dinanzi ai loro occhi. Non solo nazionalismo, perchè non erano tutti sloveni: c’erano americani, francesi, ungheresi, polacchi, spagnoli, tutti contagiati dal pellegrinaggio laico all’unica vetta al mondo a figurare persino su una bandiera nazionale. Abbiamo percorso un sentiero estenuante lungo 12 km. Fermarsi al Mali Triglav, l’anticima, anziché puntare alla vetta principale di cielo terso non può non essere che un atto di ribellione, più o meno volontario. Alpinismo Molotov.

VB. In fondo il Mali è solo un centinaio di metri più basso e il panorama è quasi lo stesso.
Con noi salgono Lorenzo e Erika. Forse io ho involontariamente forzato un po’ dicendo che magari sarei andato su un po’ veloce anche da solo. Sto proprio bene, la giornata è splendida e le difficoltà mi sembrano assolutamente alla portata (come vedremo). A parte che “da solo” è un eufemismo, il percorso attrezzato pullula di code e ingorghi. Il calcare mi droga come sempre, non occorre nemmeno ridurlo a polvere [dober dan] bianca da sniffare: un giorno lo vieteranno e dovremo combattere per liberalizzarlo. Conterò su di voi nel momento della pugna, estote parati.

D. Mi infilo l’imbracatura e iniziamo il crinale, in quattro, a contingente dimezzato.
– Tutto bene? – mi chiede il Vecio.
– Sì… ehr… più o meno, non mi piace tanto restare per ultimo…
Da quel momento mi segue da vicino e subito mi sento molto più sicuro. Agganciare, sganciare, agganciare. Non sembra difficilissimo, «è una ferrata facile, è più un sentiero attrezzato» e non c’è più molto ghiaccio. Il Vecio sale in scioltezza a lato, senza set, senza attaccarsi al cavo neppure con le mani: – Mi piace troppo toccare il calcare!

VB. Diserzione va in montagna solo da qualche mese e questa è la sua prima ferrata, per quanto facile. Lo vedo muoversi veloce e senza problemi, non sembra affatto un neofita. Solo più tardi in auto mi dirà che aveva paura. Io non me ne sono accorto. Ha solo chiesto di non restare ultimo, allora mi ci sono messo io: mi viene naturale stare a uno degli estremi del gruppo. Erika va su come una funicolare, senza sforzo apparente. Lorenzo è il guru della situazione, è lui che qui sa. Ogni tanto ci spiega un pezzo di panorama. Lo conosce tutto cima per cima, come piace fare a me dalle nostre parti. Sento molta profonda affinità nel nostro modo di andare. Non c’è nemmeno stato bisogno di dirselo, sono cose che si capiscono così. Decine di foto alla stessa montagna, quasi tutte uguali, tra le quali poi non si saprà quale scegliere. Quante volte l’ho fatto anch’io. Vorremmo portarcele a casa le montagne, noi, e metterle davanti al divano al posto del televisore. È questa frustrazione che preme compulsivamente il bottone della fotocamera.

RT. Per tutta la discesa tra il Mali Triglav e il Dom Planika continuiamo ad incontrare persone che salgono, una dietro l’altra incolonnate lungo il sentiero. Scendiamo con calma facendo delle pause ogni volta che dobbiamo scambiarci con chi sta salendo. Quando arriviamo al rifugio scrivamo a WM1 e a Lo.Fi. Il primo, con Alessandro, ha pranzato al Vodnikov Dom e si sta incamminando verso Rudno Polje, gli altri sono arrivati in cima. Prendiamo un té ai frutti di bosco, recuperiamo le bacchette di Tuco e, usciti dal rifugio vediamo una nuvola che ha avvolto la cima del Triglav. Ci chiediamo se siano riusciti a vedere il panorama.

VB. C’è molta folla, e non è mai bello su una ferrata a doppio senso di marcia. Lorenzo lo prevedeva: ci ha spiegato che il Triglav per gli sloveni è una specie di pellegrinaggio nazionale. Ci si offrono spettacoli per i quali si potrebbe pagare biglietto.
Un padre e un figlio attrezzatissimi che procedono correttamente lungo i cavi, però legati tra loro da una cinghia di tapparella lunga alcuni metri.
Una giovanissima coppia che scende fuori dal percorso per non fare coda, lui davanti evidentemente maldestro che rischia di scivolare di sotto a ogni passo (mi sorprendo a pensare che se partisse lo lasceremmo andare, tutti), lei qualche metro più indietro che lo segue piangendo in silenzio e perde quota con angosciante incertezza aggrappandosi disperata alla fila di coloro che salgono (lei la salveremmo invece, tutti).
Un’altra giovane coppia, francesi, lui scarpe da tennis a suola liscia e cappello di paglia in testa, lei un golfino che lascia scoperti due angolini civettuoli sulle spalle buoni per lo shopping di inizio autunno sugli Champs Elysées, attrezzatura zero, arrivati in cima incoscienti e disinvolti, incrociati sulla via del ritorno tranquilli, sani e salvi tranne ustioni da sole agli angolini; a modo loro efficaci e sovversivi: saranno Alpinisti Molotov?
Famigliuole con pargoli ardimentosi nel guadagnare metri di cavo sotto lo sguardo del nonno, indispensabile nella formazione in quanto a lui toccherà, una volta in cima, frustare il nipote sulle chiappe con una matassa di cordino, rito iniziatico per il Vero Sloveno al battesimo del Triglav. Un giorno tutto questo sarà suo.

Lo.Fi. Scene grottesche sulla via: un papà tiene legato il figlio con qualcosa che stentiamo a identificare, per Vecio Baeordo è la corda di una tapparella, a me sembrava il manicotto di un idrante… Poi c’è una coppia di francesi vestiti da città, con cappello di paglia e scarpe da tennis… Una donna terrorizzata scende abbarbicandosi ai corpi di chi sale, davanti a noi invece c’è un tizio che si lega al cavo con un moschettone da portachiavi fissato tramite un cordino da 3mm direttamente sulla cintura dei pantaloni. Lo guardo agganciare e sganciare il moschettone con cura certosina: è un rito apotropaico, di sicuro non è una razionale operazione di autoassicurazione. In caso di caduta finirebbe giù come un fico dall’albero, perdipiù in mutande. Eppure la via non è per niente banale, anzi, le Giulie impongono sempre verticalità e passaggi vertiginosi anche sulle normali. Ma qui anche chi di montagna non ne vuole sapere per 364 giorni all’anno si sente in obbligo di apporre il proprio nome sul libro di vetta.

WM1. «O, ti ovčji, ti beli narod! / Ali spoznaš zdaj, kaj si?»

Erika. Hanno tutti fretta di salire, o di scendere. Fretta, ma la fretta poco si addice alla montagna. Qualcuno addirittura mi abbraccia stretta stretta pur di passare. Ma non pensano che possa esser pericoloso? C’è chi ha anche deciso di fare un po’ di jogging in cresta: saltellando come uno stambecco corre, giù con passo deciso senza esitazioni tra una roccia e l’altra, là un piccolo sbaglio ti può costare caro. Esistono tanti altri posti per correre, perché proprio la vetta del Triglav nel week end di ferragosto?! Non sono abituata a queste folle; la situazione mi mette un po’ di nervosismo, fa emergere la mia latente (neanche tanto) sociopatia. L’apice me lo regala una coppia di giovani francesi: cappello di paglia per lui, vezzosa maglietta con spalla scoperta per lei e… scarpe da ginnastica, quelle belle lisce da tennis, sì proprio quelle che sul bagnato scivoli anche da fermo! Mi fanno paura solo guardarli.
Finalmente in cima! Ok, sembra di essere in Piazza Unità (piazza principale di Trieste) in una sera d’estate, il momento in cui chiudi gli occhi e assapori il silenzio e l’aria della vetta è un po’ meno idilliaco rispetto al solito ma… sempre vetta è! Al via il rito delle foto per noi e quello di iniziazione per i ragazzini sloveni: agli sloveni che salgono per la prima volta aspetta una bella dose di “frustate” con tanto di corda.
A completare il quadro folkloristico anche un simpatico personaggio che, comodamente seduto ai piedi dell’Aljažev Stolp (monumento di vetta) nel punto migliore per rovinare le foto ricordo con “crocks” ai piedi, vende lattine di birra e coca e magliette del Triglav. Ma è salito indossando quelle ciabattaccie di gomma? E le casse di lattine come le ha portate? Altri misteri sloveni… Ultime foto, timbri e firme e via… Presto presto prima del flusso! Nooo! Troppo tardi… Vabbe’, tanto loro corrono.

Lo.Fi. Il Triglav, che prende il nome da una divinità pagana paleoslava, è stato il simbolo alla cui (grandiosa) ombra si è idealmente raccolto il sogno di liberazione sloveno. Come ha fatto notare Diserzione la variante locale del copricapo partigiano jugoslavo, dalle caratteristiche tre punte, è stato ribattezzata nientemeno che Triglavka (pur essendo casuale la sua foggia e del tutto indipendente dalla conformazione dell’omonimo monte). Quando nel ’91 il primo presidente Milan Kučan sentenziò che ogni buon sloveno dovesse salire almeno una volta il Triglav nella vita non fece altro che ratificare una pratica già invalsa.
Questo sentimento nazionale non si è mai legato a sopraffazioni imperialistiche, come è capitato invece all’irredentismo italiano, ha solo subito dominazioni straniere. Secoli di soprusi che assieme alle ridotte dimensioni della nazione e all’associarsi dell’identità nazionale slovena all’antifascismo durante la seconda guerra mondiale suscitano spontanea simpatia, almeno in chi come me, e come molti degli autoctoni della cosiddetta Venezia Giulia, vanta una buona quota di sangue sloveno nelle sue vene, anche se lo sloveno non scorre nella mia favella.
Ma il sacrosanto diritto alla liberazione fa presto a diventare a sua volta oppressione. Il nazionalismo sloveno, per esempio, mostra oggi la sua faccia più tossica, cancellando i diritti di cittadinanza ai non sloveni o rivalutando politicamente i domobranci, i collaborazionisti che svendettero la loro patria ai fascisti. Non esistono nazionalismi buoni e un monte si dovrebbe salirlo solo perché se ne ha voglia, non perché è un simbolo. Come dissi al Vecio, il Deleuze-Guattari che è in me si ribella a queste territorializzazioni.

VB. Tre ore comprese le code e gli ingorghi e siamo sulla vetta, attrezzata a rampa di lancio di uno scherzo di Apollo 11 in lamierino. La Val Trenta che sprofonda quasi duemila metri più sotto. Le cime delle Giulie tutto intorno, le più alte verso il confine italiano (la più alta di tutte ci siamo sopra noi). Un mare di calcare, diverso dalle Dolomiti, meno puntuto, più selvatico, altrettanto affascinante. Salgono le prime nubi e a tratti coprono il mare. Sono decenni che sognavo di vedere il mare dalla cima calcarea di una montagna orientale, e oggi finalmente. Si distinguono la costa dell’Istria e la laguna di Grado, e in fondo l’orizzonte adriatico che sfuma nel cielo. Foto di rito a Point Lenana, vicino ci mettiamo I Falliti di Motti. Il volume di Point Lenana è quello personale di Roberto che qui ne avrebbe letto dei brani. Peccato, per lui e per noi. Lorenzo glielo marchia con il timbro di vetta, che è una usanza germanico-stakanovista.

D. C’è un sacco di gente, compreso il tizio col cappello di paglia e le nike, lo stesso sorrisetto di quando saliva. Siamo tutti abbastanza d’accordo sul fatto che lo picchieremmo volentieri, per pura antipatia, ma così, senza rancore.
Ci fotografiamo, fotografiamo Point Lenana di Roberto (cioè, proprio la sua copia) insieme a I falliti di Gian Piero Motti, stampiamo non senza fatica il timbro di vetta sulla copia di PL, e scendiamo lungo la via di salita, ora un po’ più sgombra. Siamo un po’ in ritardo sulla tabella di marcia prevista, la salita è stata lunga. Per fortuna mi sento più sicuro che durante la salita, stranamente perché di solito le discese sono più difficili. Ora scendo con un gancio solo per volta, e in alcuni tratti semplici senza agganciarmi. Mi fermo un momento con Natale ad aspettare Lorenzo ed Erika rimasti “bloccati nel traffico” e mi siedo sul crinale ripido con i piedi penzoloni sul vuoto, chiedendo a Natale se conosce quella foto di Sandro Delmastro in cui è seduto su una cima o una cengia molto esposta, coi piedi penzoloni nel vuoto. Penso che mi piacerebbe restare così diverse ore, a guardare gli innumerevoli dettagli delle pareti intorno e le nuvole che si condensano e proiettano le proprie ombre su di esse.

«Subito dopo l'armistizio,con fedeltà e con decisione,intraprendeva la lotta di liberazione distinguendosi,nelle formazioni partigiane della città di Torino come animatore ed organizzatore di grandi capacità e come combattente deciso e valoroso.Ferito in uno scontro con i tedeschi ed attivamente ricercato dalla polizia,veniva trasferito nelle formazioni delle Vali del Cuneese.Catturato durante un rastrellamento e tradotto a Cuneo, con ardita decisione,si gttava disarmato sulla scorta,ma colto da una scarica,cadeva colpito a morte.» Motivazione della Medaglia d'Argento al Valor Militare conferita alla memoria a Sandro Delmastro (1917 - 1944). Clicca per leggere la sua scheda biografica sul sito dell'ANPI.

«Subito dopo l’armistizio, con fedeltà e con decisione, intraprendeva la lotta di liberazione distinguendosi nelle formazioni partigiane della città di Torino come animatore ed organizzatore di grandi capacità e come combattente deciso e valoroso. Ferito in uno scontro con i tedeschi ed attivamente ricercato dalla polizia, veniva trasferito nelle formazioni delle Vali del Cuneese. Catturato durante un rastrellamento e tradotto a Cuneo, con ardita decisione si gettava disarmato sulla scorta, ma colto da una scarica, cadeva colpito a morte.» Motivazione della Medaglia d’Argento al Valor Militare conferita alla memoria a Sandro Delmastro (1917 – 1944). Clicca per leggere la sua scheda biografica sul sito dell’ANPI.

Lo.Fi. Anche il Rocciamelone è oggetto di pellegrinaggio, c’è un santuario dedicato alla madonna proprio in vetta, ma l’Alpinismo Molotov i pellegrinaggi li stravolge. Cosa abbiamo noi in più degli altri pellegrini? Niente, semmai abbiamo qualcosa in meno.
In alpinismo si dice “liberare” una via quando si percorre per primi in arrampicata libera una via aperta con mezzi artificiali, qui si tratta di liberare le montagne dalle costruzioni artificiali umane anche mentali.
I monti non appartengono agli uomini, d’altronde si va ad alta quota anche per allontanarsi dal consesso umano, dalle sue costrizioni sociali e dalle sue tare. Allora meglio fermarsi al Mali Triglav che assomiglia di più a una vetta di quanto non lo sia il Veli Triglav, che assomiglia piuttosto a una spiaggia.
Certo, lo stesso lavoro andrebbe fatto su alcune vette delle Dolomiti, come l’Averau o il gruppo del Sella, monti privi di significati nazionali, ma ugualmente “firmati” e gravati da carichi umani abnormi nei mesi estivi.
Così siamo arrivati in vetta ma non c’è stata liberazione, intorno a noi c’era il carosello delle Giulie, le Dolomiti, si vedevano persino il mare, la costa istriana, le alpi austriache, il Grossglockner, ma l’immaginazione e lo sguardo erano intrappolati sulla vetta, dovevamo stare attenti a dove mettere i piedi ché si rischiava di inciampare sui corpi dei… bagnanti, c’era persino un tizio in crocs che vendeva bibite e magliette. Inutile fare gli snob, siamo parte dell’armata dei sonnambuli mesmerizzati dal diktat della vetta. Non c’era tempo né spazio per improvvisare un reading, abbiamo cercato di firmare il libro di vetta, avremmo voluto scrivere una breve dedica a Ettore, il nuovo arrivato di casa Mr. Mills, ma le pagine erano fradicie, rifiutavano l’inchiostro. Dovevamo muoverci, avevamo fatto in due ore il percorso che si poteva fare in mezzoretta.

Tre discese

D. Dobbiamo scendere, e dobbiamo anche sbrigarci. Inizio a pregare che la solita caviglia non mi dia problemi. Mentre scendiamo dal Mali, all’improvviso sentiamo un botto molto forte: una grossa pietra cade da un punto più esposto in alto e senza avvisaglie s’infrange a poca distanza dalla testa di Lorenzo. Insieme malediciamo l’imperizia o l’imprudenza di chi sopra di noi ne ha provocato la caduta. Mentre scendiamo Natale sussurra «la montagna si muove» credo alludendo proprio al fatto che la roccia è instabile.
Su una cresta uno stormo di uccelli neri sta appollaiato a prendersi il vento, «sono gracchi alpini, e volano in un modo bellissimo». Passata poi la piccola goletta, in un punto ormai più facile, sono io a smuovere una grossa pietra con il piede e a provocarne il rotolamento, inizialmente lento e a prima vista trascurabile, poi via via più veloce, violento, inarrestabile. Rimango impietrito dal danno che posso aver provocato, mentre i compagni di viaggio iniziano a urlare «Stones! Stones!» ed Erika anche la parola in sloveno per “pietre”. Urlo con loro e seguo con terrore puro la caduta rovinosa della roccia che attraversa molti tornanti senza per fortuna incontrare nessuno. Ancora una volta ho dato prova di quanto sono stupido e colpevolmente disattento, proprio dopo aver avuto esempio di come lo erano stati altri sopra di noi. «Beh… l’importante è avvisare» mi dicono per provare a lenire il mio senso di colpa, ma la sensazione di essere un cretino è abbastanza netta in me.

Tuco. Io e Riccardo scendiamo con calma e verso le undici siamo al Planika.

AleTS. Intorno alle undici e qualcosa io e WM1 arriviamo al rifugio Vodnikov Dom, quello dell’andata. Mangiamo qualcosa, siamo leggermente affamati, qui ci trattano meglio, e riescono pure a darci un caffè da sette più.
WM1 sembra riprendersi bene, con passo più spedito prima attraversiamo una parte in quota piacevole e spettacolare. Non abbiamo notizie dei compagni, poi riusciamo in qualche modo a contattare Tuco. Importante è che sia andato tutto bene.

Tuco. Come avevo previsto, per il mio ginocchio la discesa è molto peggio della salita. Ci fermiamo una mezz’oretta per mangiare un panino e bere un čaj caldo. Ricevo un sms da Roberto: lui e Alessandro sono al Vodnikov. Bene, vuol dire che se la stanno cavando meglio del previsto. Riprendiamo la discesa e verso l’una siamo anche noi al Vodnikov. Altra pausa, stavolta per le palačinke. Se non fosse per il ginocchio, me la godrei proprio, la discesa. Si chiacchiera, ci si guarda intorno, si mangia e si beve. Se devo dirla tutta, la discesa in genere è la parte che mi piace di più. Una mucca si avvicina ai tavoli e un cane la fa scappare giù per il prato. C’è gente distesa al sole, altri bevono birra, altri ancora scrutano il Planika con aria sconsolata. Guardiamo il Triglav per l’ultima volta, perchè tra poco il sentiero svolterà in una valletta laterale e non lo potremo più vedere. E’ proprio bello, e visto da qua, anche il Mali fa la sua porca figura. Due toscani ci sentono parlare in italiano e attaccano discorso. Di solito quando sono all’estero cerco di evitare i connazionali, ma dopo cinque ore di “dober dan” scambiati distrattamente alla media di due al minuto, e coi neuroni ingarbugliati che rendono il mio inglese simile a quello di Matteo Renzi, mi fa piacere parlare in madrelingua con due estranei. Ci danno notizie di Roberto e Alessandro: li hanno incrociati e stanno bene.

VB. Giù, che la strada è lunga. Tra la cima e il rifugio solo rocce. Splendido calcare bianco affollatissimo. File di formiche che salgono e scendono lungo i cavi. Percorso obbligato. Privacy zero. La nebbia calata nel frattempo è troppo mobile, non dà garanzie sufficienti a fare i propri bisogni senza il rischio di offrire a minorenni di passaggio o ad anziane inossidabili signore slovene in pellegrinaggio il triste spettacolo di se stessi con le mani in pasta. Si trattiene e si impreca: scendere con la vescica piena è molto peggio che salire, soprattutto sul ripido. Quando mancano ormai duecento metri al rifugio trovo l’unico masso adatto allo scopo, come testimoniano le tracce di frequentazione specifica risalenti dal neolitico fino a mezz’ora prima. No pipì on Mount Triglav.

RT. Tra una cosa e l’altra è già mezzogiorno. Il flusso di persone che sale continua incessante anche nel successivo tratto di discesa. Sono quelli che hanno dormito al rifugio più in basso o quelli partiti all’alba dall’altopiano. Lungo il tragitto Tuco mi racconta di come sia nata l’inchiesta che ha scritto sul TLT, poi pubblicata su Giap. Quando, dopo un’oretta abbondante, siamo quasi arrivati alla tappa successiva, due toscani ci sentono parlare la loro lingua: “Voi dovete essere gli amici di Alessandro e WM1, li troverete mezz’ora sotto il rifugio”. Pensiamo che quindi non possano essere molto distanti e ci fermiamo a prendere due palacinke al Vodnikov dom. La cima del Triglav si è rirasserenata e da qui si vede bene l’illusione ottica che fa credere ci siano tre cime. Il monte ha infatti due sole cime, la piccola e la grande, e solo da alcune prospettive una cengia che scende dalla cima principale verso sud-est appare come una terza cima. Tuco mi racconta anche del poema scritto da un autore tedesco che nell’ottocento ha raccolto alcuni miti e leggende slovene, e altre ne ha probabilmente inventate, riguardanti il Triglav e gli esseri che lo popolavano. Chissà se un tempo l’idea di un dio che abitava sulla cima riusciva a tenere lontani i francesi in scarpe da tennis, le compagnie di Alpinisti Molotov e le greggi di escursionisti del ferragosto…

Tuco. Stiamo per rimetterci in marcia, quando vediamo arrivare i quattro “veri”, quelli che sul Triglav ci sono arrivati sul serio. “Com’era?” “Un carnaio”. In effetti quando io e Riki abbiamo deciso di tornare indietro, per salire in vetta c’era la fila come davanti a un apple store il giorno dell’uscita dell’ultimo ordegno. Ovviamente parlo così perchè sono invidioso, anche perchè Lorenzo ci dice che passata la cresta, il ghiaccio si era sciolto. Bon, però a parte il ghiaccio, lo so che ho fatto bene a fermarmi: ho un ginocchio di merda, ne prendo atto, e decido che andrò a farmi dare un’occhiata.

AleTS. Dober dan… ‘dan… Živijo… Dober dan… ‘dan… ‘dan… Zdravo… Dober dan… Živijo… Doberdan… ‘dan… Živijo… Zdravo… Dober dan… Dober dan… ‘dan… ‘dan… Dober dan… Živijo… Dober dan… ‘dan… Živijo… Dober dan… ‘dan… ‘dan… Zdravo… Dober dan… Živijo… Dober dan… ‘dan… Živijo… Zdravo… Dober dan…

RT. Quando, a stomaco pieno, stiamo per partire, ecco spuntare VecioBaeordo, Lo.Fi, Erika e Diserzione contenti come non mai per la cima. Ci mostrano le foto, riprendono fiato e riempiono le borracce. Sono circa le due e calcoliamo di raggiungere WM1 e Alessandro intorno allo Strudoski Preval. Parte anche una scommessa tra Supereri e Diserzione su dove li avremmo incontrati, se prima o dopo la forcella. Non siamo neanche a metà strada e non sappiamo a che velocità stiano scendendo gli altri. Sarà un lungo saliscendi, prima in costa e poi nel bosco. Io mi incammino con Diserzione e chiacchierando di vendemmie, progetti Unesco e lavoro arriviamo alla forcella dove WM1 e Alessandro non si vedono. Aspettiamo Erika per dirle che ha perso la scommessa. In compenso arrivano i due maledetti francesi che da qui in poi ci staranno affianco per quasi tutta la discesa.

WM1. Dober dan… ‘dan… Živijo… Dober dan… ‘dan… ‘dan… Zdravo… Dober dan… Živijo… Doberdan… ‘dan… Živijo… Zdravo… Dober dan… Dober dan… ‘dan… ‘dan… Dober dan… Živijo… Dober dan… ‘dan… Živijo… Dober dan… ‘dan… ‘dan… Zdravo… Dober dan… Živijo… Dober dan… ‘dan… Živijo… Zdravo… Dober dan…

Tuco. Ora non restano che otto kilometri di saliscendi (più scendi che sali). Fino al Studorski preval faccio gruppo con Natale, Guido e Lorenzo. Parliamo di TAV e di GOPAM, Grandi Opere Progettate ad Minchiam. Io racconto del fantastico ascensore che dovrà portare frotte di turisti al castello di Gorizia, permettendo di bypassare la strada che, superando un dislivello di ben 50 metri, conduce dal centro della città al parcheggio davanti al portone del suddetto castello. Natale e Guido, che ne hanno viste di ogni in val Susa, fanno tanto d’occhi. Ma Gorizia è Gorizia. Quando uscì “Otto e mezzo” di Fellini, il film fu distribuito in due versioni: quella normale, e quella coi flashback virati in seppia, per le zone culturalmente depresse. A Gorizia arrivò la versione coi flashback virati in seppia.

Confini e oltreconfini (Slight Return)

Tuco. Dober dan… ‘dan… Živijo… Dober dan… ‘dan… ‘dan… Zdravo… Dober dan… Živijo… Doberdan… ‘dan… Živijo… Zdravo… Dober dan… Dober dan… ‘dan… ‘dan… Dober dan… Živijo… Dober dan… ‘dan… Živijo… Dober dan… ‘dan… ‘dan… Zdravo… Dober dan… Živijo… Dober dan… ‘dan… Živijo… Zdravo… Porco dio… Dober dan…

AleTS. Dopo la forcella, scendiamo più lentamente, e quando iniziano i saliscendi che portano a valle, le coniugazioni in Dio cominciano a prendere piede con più insistenza.
– Robbie… Si sale di nuovo!

WM1. PoRRRRrrrrrrhhhRRRRRRrrrrrrrrrr… Dober dan… RRRRrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrkkkkoddddddd… Dober dan… …dddddiiiiiiiiiiiiiiiooooooooooooooooooooooo!!!!,!!! Sdravo… Dober dan…

D. Dober dan… ‘dan… Živijo… Dober dan… ‘dan… ‘dan… Zdravo… Dober dan… Živijo… Doberdan… ‘dan… Živijo… Zdravo… Dober dan… Dober dan… ‘dan… ‘dan… Dober dan… Živijo… Dober dan… ‘dan… Živijo… Dober dan… ‘dan… ‘dan… Zdravo… Dober dan… Živijo… Dober dan… ‘dan… Živijo… Zdravo… ‘rcamadonna… Dober dan…

VB. Concordo con Lorenzo che depreca definitivamente l’uso simbolico e nazionalistico delle montagne. Il Triglav è stato Austria, Italia, Jugoslavia, Slovenia, e non si è mai mosso da dove sta. Che senso ha far passare le frontiere sulle creste spartiacque? In passato le comunità vivevano a cavallo delle montagne, a separarle con i confini degli stati nazionali furono poteri che venivano da fuori, dalla pianura, da Altrove, da Alpha Centauri. I confini sono sempre e soltanto giochi di potere, non c’entrano niente con le nostre vite. Ma li avremo finché nella testa di Homo Sapiens ci sarà questa tara, il potere. In un passato molto remoto ci fu un’altra tara mentale, il cannibalismo. Poi un bel giorno click e divenne un tabù. Un click durato epoche, decine di millenni, lento come un contagio pigro, ma da qualche parte, da qualcuno sarà cominciato, e in un certo momento sarà finito. Un prima e un dopo. Verrà un altro click, e il potere sparirà dai nostri cervelli, e ci chiederemo come abbiamo fatto a non arrivarci prima. Non credo che sarò ancora vivo, ma non si sa mai, cerco di tenermi pronto. Vegliate, che non sapete né il giorno né l’ora. Magari comincia dopodomani o l’anno prossimo, magari è già cominciato, e alla fine si girerà per le montagne senza altro scopo che andare a vedere cosa c’è dietro, e non perché un leader ci ha detto che quello è il simbolo della nostra appartenenza quale che sia; e guarderemo senza capirle le tracce di guerre assurde combattute tanto tempo prima in un posto così assurdamente bello. Ma forse il fatto stesso che noi oggi siamo ancora in grado di capirle e di spiegarle, ancorché deprecandole, ci include nel problema. Forse noi, oggi, qui, non abbiamo scelta, non ancora: possiamo soltanto, ognuno come può, continuare a lottare per cambiare un pezzettino alla volta, fuori e soprattutto dentro se stessi. È l’unica speranza che abbiamo.

D. La discesa sembra infinita. A Studorski Preval incontriamo Riccardo e Martino, quest’ultimo con il ginocchio che dev’essere abbastanza mal messo, ma sopporta stoicamente. Qualcuno aveva già ipotizzato che avremmo incontrato anche Roberto e Alessandro, invece sono ancora più avanti. Iniziano le speculazione sul punto in cui li incontreremo, io sono convinto che non sarà prima del passo, altri sono più pessimisti, per fortuna non li incontreremo che all’arrivo, ad attenderci, artefici di una vera impresa.
Dopo lo Studorski Preval i gruppi si ricompongono, e dietro resto con Natale e Martino, mentre Riccardo, Erika e Lorenzo ci precedono, dapprima fermandosi ad aspettarci di tanto in tanto. Quando li raggiungiamo li invidio molto, distesi su un prato, a riposarsi a tutta vista da diversi minuti, mentre io non posso proprio fermarmi. Natale potrebbe accelerare il passo, ma lui resta sempre in fondo al gruppo, soprattutto quando c’è qualcuno in difficoltà; io passo forse per uno che fa lo stesso, ma invece ho un mal di testa mica da ridere, la caviglia che comincia a mostrare stanchezza… Ci fermiamo poco prima dell’abetaia per una sosta. Proseguiamo bestemmiando a più riprese per la lunghezza inaspettata della stessa fino all’incrocio della carrozzabile, dove ci viene incontro con l’auto Lorenzo per offrirci un passaggio per l’ultimo tratto, ma ormai manca poco, nessuno di noi lo accetta, e gli chiediamo anzi di dire che non ci ha visto. In prossimità di Rudno Polje Martino, che non si è mai lamentato, in una sublimazione comica bellissima della fatica e del dolore inizia a fare lo zombie, dapprima solo con me e Natale, che subito lo imitiamo, e sbuchiamo in quel modo dall’abetaia alle spalle dei compagni che ci aspettavano.

Sloveni e serbi

Scarsità del repertorio sloveno in materia di turpiloquio e conseguente inadeguatezza alle prese con quello serbo. Lo sloveno dice: «Trecento diavoli!», il serbo risponde con qualcosa del genere: «Il mio cane lo mette in bocca a tua moglie, poi s’incula tua madre e si fotte tutta la lista, anche il tuo fottuto Dio, dannato pezzo di merda fetente, e scopa le tre fighe di mamma e s’incula pure te, frocio sloveno!» Vignetta croata descritta da Tuco dopo il ritorno a Rudno Polje. Un’amica di Koper ha detto a WM1 che «Trecento diavoli!» è già espressione fortina, e di solito si dice «Trecento orsi!» :-/ Non vi è dunque da sorprendersi che molte slovene e sloveni – almeno sul Carso e in Primorska – imprechino e bestemmino in italiano.

VB. La strada del ritorno sarà eterna, per tutti. Sarà anche questa una candid camera, che le discese diventano sempre più lunghe di quando ci sei salito? Passa qualcuno di notte a stirare i sentieri come la pasta delle fettuccine? Diamo per scontato di trovare Roberto e Alessandro lungo il percorso, quasi [doberdan]scommettiamo tra noi quanta strada possono aver fatto in quelle condizioni e il punto in cui li raggiungeremo. Troviamo invece Riccardo e Martino anche lui con un ginocchio in crisi (da lì in poi siamo scesi con lui e non l’ho sentito una volta dire ba, nonostante l’evidentissimo disagio), degli altri due nessuna traccia, solo qualche telefonata che non aiuta a localizzarli. Alla fine arriveranno alle auto da soli e per primi, impiegando dieci ore per fare tutta quella strada. Incredibili, l’impresa [doberdan] l’hanno fatta loro. Roberto avrà percorso i tratti in discesa nelle stesse condizioni terribili del Rocciamelone. Qualcuno ha idea della playlist?

Lo.Fi. Dober dan… ‘dan… Živijo… Dober dan… ‘dan… ‘dan… Zdravo… Dober dan… Živijo… Doberdan… ‘dan… Živijo… Zdravo… Dober dan… Dober dan… ‘dan… ‘dan… Dober dan… Živijo… Dober dan… ‘dan… Živijo… Dober dan… ‘dan… ‘dan… Zdravo… Dober dan… Živijo… Dober dan… ‘dan… Živijo… Zdravo… Dober dan…

AleTS. Mentre Tuco in macchina spiega ancora a Diserzione e VB un po’ della nostra storia, di parte, ma dalla parte giusta, dagli irredentisti dell’ultima ora a Putin, dall’ospedale di Franije agli operai triestini che collaborarono per portare in quel posto la corrente elettrica, penso, come uomo e come triestino, di essere stato fortunato a non cadere nei meandri dell’ignoranza e della mistificazione che dominano da tempo in città, e di dover ancora fare la mia parte perché questo in parte si riduca e si riporti anche se lentamente quasi tutto alla vera cronologia dei fatti avvenuti. Magazzinidiciotto compresi.
Quando vedo la golf bianca al confine di Fernetti, penso che la giornata volga al termine davvero, mi spiace abbandonare la compagnia, è stata una magnifica esperienza. Con al primo posto le persone.
(*) «Potrò mai ringraziarti, compagno sconosciuto, per il vino che hai offerto senza chiedermi il nome, senza informarti troppo di dove ero venuto, di quanto sangue usciva dalla mia situazione…»
(Claudio Lolli, Compagni a venire, 1975)

D. Nel tragitto di ritorno a Trieste in auto mi ritrovo con Natale alla guida, e Alessandro e Martino, che parlano della situazione in Slovenia, dei tentativi di fare anche lì del revisionismo storico (la cosiddetta “memoria condivisa”) del business del sesso nei casinò, del MTL, della strategicità del porto di Trieste, di Ukraina… Intanto il sole tramonta dietro il Triglav che svetta alle nostre spalle. Alessandro ha ancora la lucidità di organizzare in maniera impeccabile la logistica del nostro rientro, calcolando i tempi al minuto. Arrivo in stazione con venti minuti buoni di anticipo, anche grazie a sua moglie che ci offre l’ultimo passaggio. Saluto i compagni di viaggio senza i quali non avrei mai potuto vivere tutto questo, di nuovo senza riuscire a dire grazie in maniera soddisfacente.
Il mio zaino è strapieno e la mia mente poco lucida, non riesco a badare come si deve alle mie cose, e mi accorgerò solo a casa di aver purtroppo molto colpevolmente dimenticato, perduto, chissà in quale treno o stazione, la copia (quasi introvabile) de I falliti e altri scritti che avevo preso in prestito in biblioteca, a sigillo definitivo di quanto sono un imbecille, timbro di vetta martellato sulla fronte. (Dopo molto cercare, a parziale riparazione del danno, ne troverò poi un’altra in vendita da restituire al suo posto.)

Post Scriptum

VB. Con l’abituale incoscienza ho cominciato solo sulle pendici del Triglav, anziché su quelle del Rocciamelone, a domandarmi come possa essere definito un Alpinista Molotov. Casomai qualcuno chiedesse, cosa che diventa probabile con il secondo post di Giap sull’argomento… Io per ora una risposta non ce l’ho, non so voi. Qualche settimana fa su twitter la crew di Futbologia (più alcuni intrusi) ha tentato una definizione di Calciatore Molotov, e più o meno ci sono riusciti adducendo anche documenti apocrifi. Penso che ora tocchi a noi, dobbiamo assumercene la responsabilità. Chi lo scrive il nostro documento apocrifo?

Lo.Fi. Per alcuni anche il Triglav è stato “no picnic”, per altri versi invece è stato “too much picnic”. L’effetto è uguale.

Mr. Mills. Anche questa del Triglav – già dalle prime vostre battute sull’escursione, in attesa del resoconto collettivo – si capisce che è stata un’avventura, una di quelle storie che vale e varrà la pena raccontare. Complimenti a tutt*, la cosa importante è tornare a casa con lo zaino carico di emozioni e aneddoti da raccontare: la vetta rimane là, per chi non ce l’ha fatta, per la prossima occasione, che sarà un’altra storia.
Nei due giorni ogni tanto spiavo su Twitter, curioso di sapere come stava andando. Ho saputo così del ginocchio capriccioso di Roberto ed ho iniziato mentalmente a far conti sui tempi di discesa, prendendo come riferimento quella in sofferenza dal Rifugio Cà d’Asti sul Rocciamelone. Più tardi, in tarda serata, ho dedotto che eravate tornati alla base quando mi è arrivata la notifica da Twitter di un nuovo follower: Riccardo. Bene, ho pensata, è andata, anche questa volta il ginocchio non ha piegato la stoica volontà di Roberto.
Mi sono coricato, ma i miei bioritmi veglia-sonno sono saltati in questo periodo, quindi anche se il sonno non mi mancava non riuscivo ad addormentarmi e pensavo. Nella testa mi erano rimaste le parole twittate da Roberto nel pomeriggio: “Importante non è la vetta ma il racconto”.
Vero, verissimo; e ho pensato che questa è l’essenza dell’Alpinismo Molotov, far prevalere il desiderio di raccontare al “risultato” della vetta. Sappiamo che nell’alpinismo la dimensione della narrazione c’è sempre stata ed è parte stessa dell’alpinismo, ma io credo sia sempre stata subordinata alla vetta: un modo di prolungare la soddisfazione per un traguardo raggiunto, spesso attraverso una narrazione egotistica e autocentrata. Se la ricerca di storie che valgano la pena di essere raccontate diventa il fulcro, credo che le cose cambino e di molto: la vetta diventa un obiettivo, non l’unico; l’azione diventa dilatata, ingloba la necessità di raccontare quel che si è vissuto e spartito con compagne e compagni. Un piacere prolungato, coltivato e condiviso.
“Non c’è salita senza (la sua) storia, non c’è storia senza (la) discesa.” Ho pensato questo poi, all’assurdità di definire “incompiuta” una salita quando non si arriva in cima, mentre si considera compiuta una salita anche quando in vetta l’alpinista ci arriva ma poi non terminerà la discesa per poterlo raccontarlo. Eppure – per fare un esempio – per decenni e decenni la discussione su Mallory e Irvine che forse sarebbero arrivati in vetta all’Everest nel 1924 ha tenuto banco, anche se i due in quei giorni perirono in quel tentativo, lasciandolo muto. È necessario smontare quest’idea, spero che con il vostro resoconto collettivo sull’avventura Triglav si inizi a dargli qualche colpo ben assestato, per lasciare emergere un’altra attitudine,meno performativa: un’ode – con tanto di bestemmie – alla discesa.
A quel punto – “Osti ancora sveglio! Tra manco mezz’ora Ettore si sveglia e parte il giro cambia-nutri-addormenta! – mi sono chiesto come saprei rispondere se qualcuno mi chiedesse cos’è ‘sto Alpinismo Molotov: lì il cerchio si è chiuso, perché ho capito che l’unica risposta che saprei dare sarebbe un non già breve racconto. Probabilmente partirei da Point Lenana, di compagni incrociati per strada che Roberto ha avuto la brillante idea di mettere insieme a salire un sentiero e via raccontando… e finalmente mi sono addormentato, per svegliarmi venti minuti più tardi al canto altissimo di un aquilotto ;-)
E grazie anche solo per il pensiero a Ettore dalla cime del Triglav, una volta – fra qualche anno – ce lo portiamo e gli raccontate di quella volta che…

Ettore.

Ettore.

Yamunin. Ho seguito anch’io la salita tramite Twitter e mi sono “sintonizzato” sul racconto della camminata sul Triglav e ho cercato di immaginare.
Ieri ero in Val d’Aosta con Roberta (mia moglie) e i cani. Eravamo lì e guardando i monti intorno la testa andava alla comitiva sul Triglav, alla camminata fatta sul Rocciamelone, a quella fatta da Marco e Guido e a quelle che verranno.
Una volta a casa ho riguardato le foto che Lorenzo ci aveva mandato giorni fa in preparazione alla scarpinata, quelle che Roberto ha twittato e tramite googlemaps la zona, il monte.
Ho chiesto a Roberta cosa ne pensasse di questa mia infatuazione da montagna e la sua risposta è stata:
– Va bene, purché stiate attenti e torniate giù.
Sì, il racconto è compiuto con il ritorno, la discesa, e ora aspetto la formalizzazione di No picnic on Mount Triglav. La vetta, qualunque vetta, resta lì come stimolo per un altro racconto.

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Il proveniente dai Monti Sibillini ma, di suo, ben poco sibillino logo di Alpinismo Molotov.

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24 commenti su “#AlpinismoMolotov sul Triglav. Contro nazionalismi e alpinismi hipster, dal mondo di Julius Kugy

  1. Che bello leggervi. Appassionato e appassionante il resoconto, come già la volta scorsa. So che non potrò essere dei vostri lassù sui sassi, io che dalla terrazza di camera già sono preda di vertigini: magari, da cuoco dilettante, vi preparerò e vi manderò un po’ di “rimpinzimonio”, preparato dietro ricetta originale di casa Baggins postata da WM 4 e la sua banda di lettura creativa, cosicchè i prossimi Ered vi risultino più facili :). Scherzi a parte, bravi, davvero, brav* tutt*, si “sente” dal racconto la tensione e l’emozione che avete provato. “Un monte de importansa se conossi dal codasso de mone che ghe sali sora”: sembrano le parole del Maestro al Leo cameriere al caffè dei giardini di palazzo Egualità, nevvero? Tutto torna…
    Un bacino all’Ettore di MillMr, un bacino al mio nipotino Ettore che lunedì fa 8 mesi, un abbraccio a tutti voi.
    Hasta la molotov siempre

  2. Che meraviglia! Leggervi mi ha fatto venire la voglia di tornarci nonostante la paura che mi paralizza anche solo a vedere le foto. È proprio vero che “quello che si vede, si sente, si prova non è dato altrove” e il ricordo di tanta bellezza non sbiadisce mai, nemmeno dopo 25 anni.

    Jebem ti sve po spisku, paura di merda!

    • Mentre scrivevo il mio rècit ho pensato subito a te e a quanto mi detesterai per la mia polemica sulla nazionalizzazione del Triglav, ecolo, el solito triestin taljan che la ga coi s’ciavi ;-) a parte gli scherzi, mi rendo conto che quando un italiano sottolinea il nazionalismo di uno sloveno, per quanto anarco-antinazionalista possa essere, sarà sempre qualcosa di odioso, per ragioni storiche proprio: lo trasforma sempre nel classico bue che dà del cornuto… però non ce l’ho fatta, proprio l’essere il frutto incrociato di esuli istriani e sloveni triestini mi ha fatto sviluppare per reazione un’insofferenza fisica verso qualunque simbolo identitario, dai monti nazionalizzati al made in italy… al capo in B… insofferenza che forse cela un’ossessione inconscia, qui ho cercato di fare un’autocritica… in qualunque caso, perdono! :-)

      • Non ti ho detestato, perché in realtà sono d’accordo con te.
        Sono conscia delle mie contraddizioni e ci convivo più o meno serenamente da quando ho raggiunto l’età della ragione (ammesso e non concesso che io l’abbia raggiunta). Mi sono autoassolta operando una distinzione tra “patriottismo difensivo”, che scaturisce dal bisogno di senso di appartenenza quando si fa parte di una specie in via d’estinzione, e “nazionalismo sciovinista”, che si nutre principalmente del proprio immotivato complesso di superiorità nei confronti dei popoli considerati inferiori.

        Di una cosa però sono certa: la percentuale dei mone è uguale dappertutto, anche se pare che i rappresentanti sloveni della categoria si siano dati tutti appuntamento sul Triglav il giorno di Ferragosto. A vederli così riuniti mentre fanno la fila per salire sul loro simbolo nazionale, anche a me sarebbe venuta voglia di dire: “Non ve la meritate una cosa così bella, paiazi!”

        • Ma guarda i più paiazi, almeno quelli da me dipinti, erano due francesi, alcuni americani e un ungherese…(non so padre e figlio uniti da tapparella) quindi sì, mone everywhere, senza distinzioni di sesso e nazionalità… e i simboli, di qualunque tipo, li attirano come un magnete… e ognuno ha i suoi…

  3. Sempre bello leggere questi resoconti.
    Non so se si tratti di coincidenze, ma nell’ultimo anno ho cominciato a ritrovare il mio antico amore adolescenziale per la montagna riavvicinandomi però quasi unicamente tramite film e libri perché nel frattempo le vertigini mi hanno destabilizzato.
    Fu proprio “La morte sospesa” a farmi rinascere la passione. Ho letto poi i libri di Simpson e uno meraviglioso che consiglio a tutti (ma sicuramente lo conoscerete) ovvero “Parete Nord” di Harrer.
    L’alpinismo molotov forse si scontra un po’ con il concetto della “beata solitudo sola beatitudo” che spesso si cerca in montagna (il cosiddetto alpinismo moNotov), e vedo che emerge anche nel resoconto, perché non si riesce poi a salire tutti assieme con lo stesso passo. Ma ciò non sminuisce il piacere di salire in gruppo, soprattutto quando ci si reca in luoghi tanto meravigliosi.
    E mi piace molto anche il lavoro “stilistico” di questi resoconti. La retorica “classica” della narrazione di montagna primo è antica, secondo si adatta alla descrizione di imprese alpinistiche, difficilmente riesce a trasmettere gli aspetti emotivi dell’ascesa (in questo Joe Simpson soprattutto in “L’eco del silenzio” vi si avvicina).
    Complimenti a tutt* e grazie per i vostri racconti.
    Appena mi rimetterò un poco in forma, spero di poter partecipare a qualche escursione con voi.

  4. Intervengo principalmente per ringraziare, l’ #AlpinismoMolotov ha creato rapporti che nella maggior parte dei casi erano nati in rete ma che solo l’empatia dei corpi ha saldato. E questo è bellissimo.

    VecioBaeordo aveva ragione da vendere quando sul Rocciamelone disse – tra sé e sé, ma subito “registrato” da Wu Ming 1 – “Così tante belle persone ci vogliono anni per incontrarle. Oggi le ho conosciute tutte in una volta.”

    Anche da questo récit – che arbalta il senso stesso del récit d’ascension così come fino a oggi lo abbiamo conosciuto – emerge con forza la centralità delle relazioni e dello scambio, della condivisione: prima, durante e dopo l’aver salito e ridisceso una montagna, quel che importa è raccontare, per chi c’era e chi non c’era: #AlpinismoMolotov è!

    Alla prossima!
    :-)

  5. C’ho pensato un po’ su, e ho deciso di intervenire, molto probabilmente a sproposito. La lettura del post, e gia’ prima Point Lenana, mi ha fatto riflettere sulla mia adolescenza passata a ridosso dell’Irpinia, e in particolare sul fatto che “da noi” la montagna e’ tutta un’altra cosa. A parte l’orografia abbastanza collinare, la montagna non e’ quel posto dove ti viene in mente di passare del tempo, a meno che non sia Pasquetta, o serva da refrigerio ad un’estate bollente. E’ il bosco la componente geografica piu’ presente, ed anche la metafora piu’ utilizzata nella tradizione orale. Ma la montagna, da scalare, quella no, non c’e’. C’e’ il mare che catalizza racconti, sogni, e quant’altro, e che spesso e volentieri e’ vittima di abusi (e non solo edilizi) da far cadere le braccia. Ho imparato ad amare il mare da adulto, ma mi sono accorto nel tempo, e in maggior modo leggendo qui su Giap! e altro, che per me il mare “e’ come la montagna”, e cioe’ cerco lo stesso tipo di esperienza, se si possono paragonare (l’essere circondato da natura, l’assenza di tracce umane marcate, etc.). Da questo mi nasce una domanda: quale sarebbe l’analogo di #AlpinismoMolotov applicato al mare? Ha senso pensarlo? Per esempio, tutti sanno camminare (e’ poi vero?), ma non tutti sanno nuotare: questo porrebbe delle barriere gia’ al suo incipit? Come dicevo, molto probabilmente sono “off topic”, ma e’ una di quelle cose a cui ho pensato spesso nei miei viaggi, ultimamente…
    Complimenti a tutti per il fantastico racconto.

    • Non mi pare che sia un intervento a sproposito, anzi. Terra-e-mare sono concetti che stanno molto a cuore a molte persone (per dire, ad inizio novembre si terrà una conferenza all’università di Santa Barbara, California, dal titolo “Land and Sea in the Mediterranean World,” con molti speaker e molti fondi per invitare studios* dal Nord America and beyond) e da che mito è mito l’isola-montagna (terra nelmare) rappresenta da l’inavvicinabile e la perfezione allo stesso tempo (Atlantide, ma non solo). E che cos’è una vetta se non un’isola in un arcipelago, in fondo? Interessante pensare ad un MareMolotov… E secondo me si dovrebbe partire dalle grandi isole, con la servitù a cui sono sottoposte…

      • @Vito66 Dopo averti letto l’idea che verrebbe subito è AM a Santorini: la montagna nel mare, anzi che addirittura racchiude il mare, turismo vs territorio, produzione locale vs importazione (coltivazioni che scompaiono come un certo tipo di pomodori), l’ultima immaginazione del mito di Atlantide risalente a circa mezzo secolo fa, quando occultismo e fascismo si legano. Un posto così ricco di contrasti e prospettive insolite si incontra difficilmente, e in più sarebbero possibili percorsi sia per mare sia per terra, intendendo le creste dei monti che permettono di fare quasi tutto il giro della caldera. Se non fosse che tutti sappiamo come WM1, che starà già apotropaicamente sacramentando tra sé all’idea di tanta deviazione dai sentieri di Kugy – oh cazzoiostoscrivendounlibrosullemontagne’stiquichefarneticanodiungiroturisticoaddiritturanell’acqua!!! – sia “l’uomo meno balneare del pianeta” :- ).
        @Sandro: una differenza tra mare e montagna sta anche nella difficoltà dei costi e di accesso al primo ambiente a condizioni degne, il che lo fa spesso passare per quel che non è; s’è visto che se proprio si vuole si riesce a mettersi in coda anche sui monti a Ferragosto :-P , ma con un minimo di precauzione in genere non succede. Inoltre stare “nel” mare non è possibile così a lungo come nei monti, a meno di non avere una barca, ma così in qualche senso ne rimani “fuori”. Anche il clima gioca: dal freddo montano puoi ripararti in parte camminando, il caldo marino blocca l’attività. Di certo è un ambiente più alieno.
        Però la mitologia del mare è assolutamente straordinaria, è vero, come la sua bellezza, quando è ben lontana da ombrelloni e altoparlanti.

        • A Santorini ci sono stato, per circa 3 ore, un milione di anni fa, scappando dalla pazza folla che la ricopriva (era inizio agosto, in quegli anni in cui tutt* ancora andavano in ferie ad agosto…). Ma la Grecia è un richiamo costante, da anni immagino di tornarci (il mio personale nostos!), e non rinuncerei certo, a maggior ragione se guidato da una dea… Fine maggio 2015? :-)

          • Sì, molto volentieri. Il periodo sembra ben scelto.

            Lo so Saint-Just che il commento è troppo breve, non c’è bisogno che me lo ricordi.

            • #IsolaMolotov, irresistibile. L’isola come luogo di confino, esilio, carcere, mondo a sé e classica utopia (in realtà distopia o al limite eterotopia, se associata al villaggio turistico). E basta OT. Ci si risente, prima o poi.

    • Ciao a tutti,
      sono un lettore di Giap da tempo, ma mi sono iscritto oggi, ispirato dal commento di Sandro. Sono un siciliano, e per me non esiste un “andare in montagna” – per quanto anche qui ci siano delle belle cime – ma esiste il mare, l’onnipresente linea di costa che collega la Sicilia tanto quanto la separa, dà da vivere, da raccontare, da sognare e di che avere terrore. È da quando ho letto il primo racconto di AlpinismoMolotov, e poi Point Lenana, che mi chiedo come si possa condurre un discorso analogo sul mare e sul modo in cui il mare viene rappresentato. Anche il mare – la linea di costa e il mare aperto – è un luogo di contraddizioni e sfruttamento, su cui piano piano si sono andate incrostando narrazioni che andrebbero analizzate. Un modo diverso di vivere e raccontare il mare, un #MarinaMolotov, credo sia davvero una bella idea (anche per liberarsi dell’idea che il mare possa essere solo un parco giochi, un pozzo senza fondo da sfruttare e una gigantesca pattumiera).
      A parte tutto, i percorsi in mare sono sì diversi da quelli che ci si può permettere in montagna – è un ambiente più alieno, come diceva La Dea del Sicomoro – ma anche un pò più variegati: si passeggia sulla costa, si nuota, si naviga e ci si immerge, e in ogni ambito si trovano spunti.

      Niente, era solo per manifestare entusiamo all’idea di parlare di mare. Scusate se ho esordito con un OT, e a risentirci presto.

  6. CIao, ho saputo solo ora purtroppo di questa iniziativa, e parteciperei volentieri a quelle successive (la spedizione in valsusa purtroppo non posso per impegni)..
    dove verranno comunicate le prossime iniziative??
    grazie!

  7. Visto che sul Triglav si è parlato anche di indipendentisti triestini, ecco un aggiornamento fresco fresco.

    Oggi, esattamente un anno dopo la grande manifestazione del 15 settembre 2013, e dopo l’esplosione a catena di tutte le possibili contraddizioni interne al MTL, gli indipendentisti tristini sono tornati in piazza. La manifestazione è stata organizzata da uno dei due tronconi in cui si è diviso il MTL: quello maggioritario, che fa capo a Gombac, Ferluga, Potenza ecc.. La partecipazione al corteo è stata molto lontana dai numeri dell’anno scorso. Hanno sfilato in circa 800, e al comizio finale hanno assistito in circa 200. Oltre a Potenza hanno parlato Deganutti (che ha auspicato la realizzazione di reti ferroviarie Trieste-Austria-Russia), Gotti detto Tonfa (che si è lamentato dei menticanti presenti nelle vie del centro), un redivivo Marcus Donato, Marchesich del Fronte per l’Indipendenza, e un rappresentante del Front Furlan (movimento indipendentista friulano con venature nerastre). Prossimo appuntamento a Londra, il 6 ottobre. Potenza annuncia che sarà presente una troupe di “Russia today”.

  8. Letto quasi di un fiato (in realtà a due riprese).
    In tante cose ho rivisto le mie montagne in agosto, soprattutto il Gran Sasso (la Majella è più aspra e difficile ed è presa meno d’assalto). Anche qui salire a ferragosto, ma anche fino a settembre inoltrato se è bello, significa trovare frotte di turisti improbabili che scalano con abbigliamento ancora più improbabile (l’ultima volta c’erano 10° a Campo Imperatore e c’erano turisti tedeschi vestiti come in spiaggia a Pescara).
    Anche qui si arriva in cima e si trovano casalinghe che affrontano addirittura la direttissima parlando amabilmente della parmigiana di melanzane che hanno preparato il giorno prima.
    Le analogie finiscono qui perché, per fortuna, le montagne qui non sono luogo di pellegrinaggio nazionale, anzi per l’abruzzese medio andare in montagna è fermarsi a Campo Imperatore (o in qualsiasi paese dell’interno) a mangiare arrosticini.
    Ad ogni modo fate venire ogni volta una gran voglia di salire in montagna.

    • Su, la direttissima del Gran Sasso, in estate, col bel tempo, non è mica incompatibile con la conversazione culinaria. Complimenti alle casalinghe che hanno abbastanza fiato per ciarlare fino in cima, piuttosto. In Trentino, se hai la fortuna di camminare coi locali, vedi signore salire nella nebbia chiacchierando con totale disinvoltura mentre tengono d’occhio una quantità di popi imbizzarriti… ma meno male! La confidenza dei locali nei confronti delle loro montagne non è per forza negativa, anzi. E’ il loro ambiente, ci devono saper nuotare :- ). Una volta le contadine si facevano legare e calare dall’alto per coltivare i fazzoletti di terra più esposti, pur di non lasciare lì una sola manciata di fieno che poteva significare la salvezza d’inverno. Lo chiamavano “‘nar par fe’ magher” e gli alpinisti dove crediamo che abbiano imparato? E’un po’ il concetto di “acquaticità”. A volte ci facciamo prendere un po’troppo dal terrore dell’ambiente estraneo e ostile, dal mito del monte come luogo iniziatico e reverenziale, escludente se non per gli adepti. Certi “esperti” se la tirano pure un tantino… come se andare sopra i 2000m o camminare più di tre ore, indipendentemente dal contesto, significhi chissà quale titanica sfida. Ovviamente non si tratta mai di rischiare inutilmente o avventatamente su difficoltà tecniche, ambientali o climatiche eccessive, ma est modus in rebus. Lo scrivo perché talvolta ho l’impressione che si cerchi di far passare la montagna come un luogo davanti al quale la sensazione di handicap insormontabile, intimorente, deve prevalere su tutto. Una montagna very exclusive, insomma, che piace molto anche agli insospettabili. Si arriva a far pensare che una classica gita tranquillona di 5-6 ore in ambiente non glaciale, senza passaggi troppo tecnici, sia un’incursione sotto il fuoco nemico. Si rischia di fare danno anche così.
      Per il resto anche a me i récit di WM fanno sempre e per prima cosa venire voglia di andare in montagna. A cominciare da Point Lenana. Mi scuso, sembrerà un po’ ingrato e poco solidale, soprattutto davanti agli incidenti di WM1 – auguri e RIPOSO! – ma li trovo innanzitutto euforizzanti, pure quando descrivono una gita non esattamente incantata come questa qui. (I contrappunti di Erika sono impagabili!)

      • @dea
        Spero che i nostri racconti non abbiano fatto i danni che dici, che non abbiano dato l’impressione di “tirarsela un tantino” o di far passare la montagna, anche elementare, come escludente, estranea, ostile.
        Ammetto che il rischio c’è: questa mutevole combriccola sparsa è per alcuni giapster la molla che li ha portati in montagna, dove non erano mai stati prima. Da come scrivi tu si capisce che ci vai quanto basta, ma io sul Rocciamelone ho visto amici che hanno passato i trenta vivere ogni singolo momento con la meraviglia e l’emozione di bambini di sette anni che fanno la prima gita in quota della loro vita. È normale che nei loro racconti emerga questo candido stupore, questa impressione di magia che comunque la montagna sprigiona, questa fierezza per essere riusciti in una cosa che poco tempo prima non era contemplata nella loro vita perché magari vedevano le montagne in quel modo che dici tu: una sfida per very exclusive people. E confesso di invidiare un po’ il loro sguardo.
        C’è anche un altro aspetto della faccenda: la combriccola molotov è molto allegra, l’affiatamento è spontaneo, la conversazione non è quasi mai troppo seriosa, si scherza moltissimo… quindi è normale esagerare, farla grossa, sparare guasconate: in fondo anche chiamare “Alpinismo” questo modo di andare è una guasconata se vogliamo. Questo aspetto un po’ goliardico secondo me è un valore aggiunto: andiamo in montagna per capire ma anche per divertirci insieme, anzi penso che la comprensione funzioni molto meglio se ci si diverte. Magari questo spirito un po’ cazzone trapela dai racconti come un “tirarsela”, in tal caso dovremo imparare a usarlo meglio. Come dice WM1, probabilmente questo modo di scrivere di montagna non ha precedenti: stiamo sperimentando, possiamo migliorare.

        • beh sì un po’ trapela in quel senso :D
          Forse è colpa dei miei pregiudizi nei confronti dell’alpinismo, dovuti al fatto che spesso gli esperti se la tirano molto ma molto di più di un tantino. Intendiamoci, trovo i vostri racconti avvincenti, divertenti e a tratti poetici, ma confesso di non aver capito in cosa siete più “molotov” delle famiglie in gita domenicale o dei francesi in scarpe da tennis. Cos’è il tratto distintivo? Il fatto di raccontare? Il fatto che si può anche non arrivare in cima? NOn è polemica eh, solo curiosità

          • @punto_fra

            Fate bene a sollevare queste questioni.
            Anzitutto devo dire che finora nelle gite molotov non abbiamo mai avuto forti alpinisti. Semplicemente alcuni vanno in montagna da una vita in vari modi piacevoli, altri da molto meno tempo. I primi inevitabilmente costituiscono un po’ un riferimento negli ambiti dove i secondi non hanno ancora acquisito consuetudine, pratica e sicurezza. Tutto qui. Nessun virtuoso, nessun settimogradista, nessun ottomila senza ossigeno. Anzi, a dirla tutta, l’allenamento medio è sempre stato piuttosto scarso.
            Se nei racconti abbiamo dato l’impressione che dite, è stato sicuramente per l’entusiasmo e la foga del raccontare, non certo perché ci siamo sentiti troppo fighi. Credo di poter dire, a nome di tutti, che nonostante le disavventure di alcuni ci siamo sentiti dannatamente bene insieme, questo sì. Ed è una cosa, questa, che cambia il modo in cui si vede il mondo e lo si racconta (e lo dico perfino io che c’ho una certa).

            La parte molotov invece è programmatica, e riguarda l’intento di capire e raccontare la montagna e l’andarci da un punto di vista “laterale”, un po’ critico, teso anche a smontare i vari clichés (o meglio: narrazioni tossiche) che sui monti si affastellano tanto quanto nel resto della vita, anzi a mio parere forse un po’ di più, proprio in quanto la montagna è un ambiente che si presta a esser simbolo di qualunque cosa faccia comodo. Un po’ come “la rosa”. L’aspetto molotov quindi sarebbe, per dirla molto brutta, il disinnesco delle bugie e il recupero delle storie dimenticate o volutamente sepolte, tramite il racconto.
            In ultimo, ma primo per importanza, va sottolineato il fatto che tutta questa storia nasce da Point Lenana in modo abbastanza diretto. In tal senso, quando lì si parla di alpinismo, lo si fa già in modalità molotov. Tant’è che negli ambienti alpinistici ufficiali mi pare che il libro sia passato volutamente inosservato, e non si fatica a capire il perché.

          • @punto_fra secondo me l’essenza dell’ #alpinismomolotov è l’uso consapevole e sistematico della bestemmia come strumento di conoscenza del reale :-)

            • Ed ecco @tuco che plana con matematica precisione riassumendo in una sola proposizione ciò che a me non bastarono le pagine.

              Quella frase secondo me deve entrare nel manifesto di AM. Al punto due.

            • @Dea
              Pratico L’#AlpinismoMolotov, l’ho inserito anche nel mio curriculum. :) Sono uno degli over 30 che ha camminato sul Rocciamelone con gli occhi pieni di meraviglia. Fino a pochi anni fa credevo a stento nell’esistenza delle Alpi: non le avevo mai viste e quando arrivai a Torino la prima volta e vidi la catena che si stagliava all’orizzonte dissi “allora sono vere”. I miei compagni di viaggio risero per ore.
              Per me la montagna è una scoperta recentissima, non avrei mai immaginato di riuscire davvero a compiere la camminata. Quindi per me resta un evento. Per il resto vale ciò che hanno scritto @VecioBaeordo. E @Tuco.
              :D