Per Stefano Tassinari. La sua voce, un archivio, il crowdfunding

Stefano Tassinari. Foto di Sandra Pareschi.

Stefano (1979?)

«Disperso nella “nube” della rete, nei dischi rigidi o in vecchie cassette e videocassette sparse per le case di chi ha incrociato Stefano, esiste un enorme archivio di interventi estemporanei ad assemblee e cortei, reading con e senza musica, presentazioni di libri (suoi e altrui), interviste e trasmissioni radiofoniche o televisive, monologhi teatrali… La voce di Stefano ha girato per l’Italia, lasciando tracce magnetiche, ottiche, digitali.»

Ormai più di due anni fa, dopo la camera ardente, un gruppo informale di compagn* e amic*, lanciò un appello.

«Chiunque abbia una registrazione della voce di Stefano (o ripresa video di Stefano che usa la voce), per favore ce lo faccia sapere, ci spieghi di cosa si tratta, che storia ha etc. L’intenzione è di raccogliere la maggior quantità possibile di materiali acustici, e renderli ascoltabili/scaricabili da un sito ad hoc dedicato a Stefano, accompagnati da note, testi e interviste in cui vari suoi “fono-collaboratori” (pensiamo a musicisti come Mauro Pagani, Yo Yo Mundi, Roberto Manuzzi, Dandy Bestia, ma anche ad attori e attrici come Marco Baliani, Matteo Belli, Micaela Casalboni e tanti altri) parlino del suo lavoro sulla voce, sul suono, sul rapporto tra voce e corpo, voce e immagini, voce e azione civile. […] Facciamo risuonare forte la voce di Stefano.»

In questi due anni sono stati raccolti molti materiali, troppi perché la loro catalogazione e la creazione di un sito ad hoc venga lasciata al volontariato degli amici di Stefano. Amici che hanno vite complicate e percorsi che, senza Stefano a fare da collettore, oggi si incrociano molto meno di un tempo. C’è bisogno di qualcuno che lavori al progetto a tempo pieno. E c’è bisogno di soldi per pagare questo lavoro.

Sì, ce lo dicono tutti e ne abbiamo anche fatto esperienza: «Il crowdfunding è una bolla, molto più fumo che arrosto»… «Tutti linkano, ritwittano, spendono belle parole poi nessuno molla un centesimo»… «Sono pochissimi i progetti che riescono a finanziarsi così»…
Però noi ci proviamo lo stesso. La cifra da raccogliere non è alta (poco più di 2000 euro) e la formula adottata consente di tenersi e investire qualunque somma si riesca a raggiungere.

Ma forse, per chi non l’ha udita e non sa di che stiamo parlando, è necessario farla sentire, la voce di Stefano. E forse vale la pena riproporre una conversazione del 2012. Stefano era un vero scienziato del reading/concerto, della musica con parole. Per noi è stato un grande maestro. Molto di quel che abbiamo imparato, lo abbiamo imparato guardando e ascoltando lui.

Stefano Tassinari

LA VOCE, LA MEMORIA DEL CORPO
Conversazione tra Marco Baliani e Wu Ming 1
Tratta dal n. 6 di (Nuova rivista) Letteraria, novembre 2012

WM1. Partirei da qui: tutto quel che Stefano scriveva era finalizzato alla lettura ad alta voce, e più precisamente a una lettura scenica, con l’aggettivo inteso in senso lato, che si trattasse di un evento strutturato (uno spettacolo multimediale, un reading musicato) o più estemporaneo, ad esempio una lettura in piazza al termine di un corteo. La parola di Stefano, anche quando la leggi in solitudine e in silenzio, non è mai soltanto parola scritta, c’è una spinta all’oralità trasmessa dal fraseggio e dal ritmo, dalla “tornitura” delle parole, dalla ricerca delle assonanze. Naturalmente, i suoi testi – che siano romanzi, articoli o poesie – sono qualitativamente alti e compiuti già nella lettura silenziosa e solitaria; leggendoli sulla pagina non si percepisce una mancanza: si coglie un possibile, anzi, una promessa di voce, di ritmo, di suono che viaggi nell’aria e faccia vibrare i timpani, ovvero incontri un corpo. Ecco, c’è sempre un invito all’ascolto e all’incontro.

MB. Senza dubbio. La scrittura, per Stefano, sia quella propria che di altri scrittori, è sempre qualcosa da mettere in azione attraverso la voce, la presenza del qui ed ora di qualcuno che quelle parole le estrae dalla pagina per renderle suono. Nel farlo Stefano è consapevole di togliere alla pagina il suo statuto di immobilità temporale rendendo le parole di colpo effimere, vocali, perdute nell’attimo stesso in cui vengono dette.
Se lo si guarda nei video di alcuni reading da lui stesso agiti, si vede come l’atto della lettura non ha nulla di professorale o di didattico, ma come l’intero corpo del leggente, le mani, il volto, gli occhi cercano un invisibile da rendere manifesto. Come se la scrittura, da sola, non fosse sufficiente a interpretare il mondo. E questo nonostante Stefano credesse moltissimo nell’atto dello scrivere, nella stesura lunga nel tempo, nel lavoro di cesello sulle parole, e credesse anche alla necessaria “aura” che avvolge ogni scrittore, e forse, di più, dovrei dire, ogni scrivente, chè Stefano era consapevole di una specie di sacralità dello scrivere, di chiunque, anche non letterato, lasciasse le sue visioni su una pagina. Un atto sacro proprio perché umile, alla portata di tutti, uno scrivere sempre socialmente utile, necessario. Ma poi tutto il tempo che è racchiuso e sigillato nella pagina, lui lo voleva tirar fuori, voleva far uscire i cavalli dai recinti, a costo di farli sbandare. Tutto il lavorio solitario e concentrazionario dello scrivente doveva acquistare un peso diverso, fatto di leggerezza, doveva aprirsi alla moltitudine, qui e ora, come se per lui il lettore si trasmutasse in ascoltatore. Stefano era un “leggente”, le parole della scrittura non bastava dirle con la voce: dovevano diventare visioni, e pretendeva che anche i suoi lettori imparassero, quasi pedagogicamente, a divenire anch’essi dei buoni “leggenti”. In questo modo intuiva che alcune frasi, alcuni passaggi, alcune sequenze di immagini, sarebbero potute divenire”memorabili” in una forma di acquisizione empatica e immediata che nessuna lettura solitaria potrebbe rendere.

WM1. Trovo molto giusto il riferimento all’intero corpo del leggente. Mi ha sempre colpito e coinvolto, nel vedere Stefano leggere un testo, il suo peculiare uso delle mani. Era una specie di… conduzione d’orchestra, solo che l’orchestra era un singolo. Una conduzione discreta, mai enfatica, non certo alla Von Karajan! In rete si trovano molti video in cui si può vedere Stefano «condursi»: se in quel momento sta reggendo un libro o un foglio, usa solo la mano libera (solitamente la destra) e mima ogni parola una frazione di secondo prima di esclamarla. Non è un mero «riempitivo corporeo», un dover-pure-far-qualcosa con la mano: è parte integrante della lettura, è un modo di incarnare la parola. C’è un video di fine 2011, girato durante una presentazione a Torino, in cui Stefano legge il racconto A passo d’ombra. E’ già molto provato dalla malattia, lo sforzo è evidente, ma la lettura è impeccabile e la mano danza anticipando le parole, «coadiuvando» le immagini che si formano nella testa di chi ascolta. Se ascoltiamo guardando la mano, quando le parole escono di bocca sappiamo già se quella frase è parte di un movimento verso l’alto o verso il basso, di apertura o di chiusura, di avvicinamento o allontanamento, e se esprime un concetto isolato o prosegue un complesso concatenamento di immagini: «Da qui, [mano tenuta aperta, di taglio, orizzontale] sospeso a mezza via [indice verso l’alto, le altre dita rilassate] tra il cielo del mio salto [indice verso il basso] e l’acqua che mi ha accolto, ti vedo mentre invecchi senza pace [dita aperte, vago movimento circolare verso l’esterno] e tutt’intorno, gli sguardi frettolosi di chi non vuol fermarsi ad ascoltare la tua storia calpestata dalle colpe altrui…»

E poi, come giustamente mi facevi notare via email qualche tempo fa, ci sono momenti in cui Stefano non legge ma va a memoria, anche solo per il tempo di una frase: stacca gli occhi dalla pagina e lancia uno sguardo a chi sta ascoltando. E’ un modo di mantenere il contatto, ma è anche parte di quel «condursi» che dicevo, del coadiuvare un’immagine, del sottolineare un dato concetto.
Detta così potrebbe sembrare una cosa normale, quasi banale, ma io ho visto tanti, troppi scrittori «costretti» a leggere in pubblico i propri testi anche se non si sentivano minimamente «tagliati» per quella dimensione, scrittori piegati sul foglio, la voce smorta e lontana, nessun contatto tra loro e chi ascoltava, correre a testa bassa fino alla conclusione in nome dell’anche-questa-è-fatta. Direi che la maggior parte dei miei colleghi affronta la lettura pubblica obtorto collo. Forse è un problema che viene da lontano: ricordo un’intervista radiofonica ad Attilio Bertolucci in cui diceva qualcosa del genere (cito alla buona, non testualmente): «Ai miei tempi, i poeti italiani non leggevano in pubblico i loro versi. Quella consuetudine non ci apparteneva, imparammo a farlo solo più tardi, sulla scia degli anglosassoni. Tra i grandi poeti della prima metà del novecento, solo Ungaretti fa eccezione.» Se pensiamo all’ostilità che ha incontrato presso certa critica il lavoro di Lello Voce, il suo tentativo di far riscoprire alla poesia in italiano una primigenia dimensione orale e «pre-letteraria» (più o meno come si dice di un tumulto che è pre-politico), una dimensione prettamente sonora e comunitaria, ispirandosi anche al rap, alla dub poetry etc., beh, mi sembra che, pur avendo fatto passi avanti, non dovremmo illuderci di essere andati molto lontano.
Ecco, in un campo letterario dove la lettura solinga e silente è ancora ritenuta la modalità di fruizione principale di un testo, mentre il momento scenico e acustico – il momento del reading – è considerato accessorio e dunque prescindibile, poco più di un orpello, sicuramente l’attitudine di Stefano segna una differenza.

MB. In Stefano prevale una memoria del corpo, del suo corpo, come elemento scenico, un imprinting lontano nel tempo ma assai presente nella memoria immaginativa dello Stefano autore e organizzatore e intellettuale. Quando saliva, giovane e capelluto, sul palco a suonare col suo gruppo, l’adrenalina e le emozioni e quello statuto unico e affascinante che è lo stare in presenza degli altri, condividere lo stesso spazio- tempo di quel momento biologicamente interattivo, queste sostanze, una volta provate, non lo hanno più abbandonato, sono rimaste come un DNA silente ma sempre vibrante. E lo hanno condotto a pensare anche la scrittura come un atto performativo, un’azione in diretta che modifica la comunicazione e interagisce coi corpi degli ascoltatori. Credo che da qui derivi il suo interesse, che poi si traduceva sempre in percorsi progettuali concreti, fattivi, coinvolgenti, per una sinergia di linguaggi, per la musica in primo luogo, per la voce, per il montaggio di letture, composizioni, improvvisazioni, per quell’arte dell’intrattenimento intelligente, colto, senza essere snobistico esercizio, in cui potersi “parlare”, essere insieme tra orecchio e bocca, più che attraverso gli occhi.

WM1. Oltre a essere un musicista, musicofilo e «scrittore di musica verbale», Stefano aveva una formazione da psicologo e negli anni Settanta si era laureato con una tesi sul rapporto tra rock e movimento giovanile di protesta. Nel mettere mano al suo magmatico archivio, abbiamo trovato appunti sul funzionamento dell’apparato uditivo, scritti semielaborati sulla musica, dispense di corsi delle «150 ore» su test audiometrici e inquinamento acustico in fabbrica… Il suo interesse per il suono era a tutto campo.
Riguardo a quel che dici sulla sua missione, sulla perenne ricerca di un intrattenimento colto e aperto, penso a come questo si traduce in un preciso uso della voce: la voce di Stefano è bella e corposa, ma non ha nulla di istrionico o “mattatoriale”, non è impostata, non viene troppo “avanti”, non mira a riempire tutto lo spazio. Quello di Stefano non è mai un monologo, la sua è una vocalità democratica e dialogica, che rimane sempre un po’ indietro e lascia spazio all’ascoltatore. Infatti, quando legge con la musica, si sente che si “tiene”, che non vuole prevalere, per lui la musica non è solo accompagnamento o “tappeto” ma ha pari dignità rispetto al testo. Pensa alla traccia «Lettere. Frammento 5», da Lettere dal fronte interno (Moby Dick, 1997): prima di entrare con la voce, Stefano aspetta due minuti spaccati (su meno di sei complessivi), lascia che la musica si esprima pienamente, sviluppi il tema, si impadronisca dello spazio.

Lettere. Frammento 5 dall’album Lettere dal fronte interno
Lettere. Frammento 5
Dall’album Lettere dal fronte interno
(Moby Dick, 1997)

MB. Quando Stefano mi invitava a leggere qualche autore in compagnia di musicisti amici, voleva sempre fare una prova, un assaggio, aveva predisposto con precisione i tagli al testo, le incursioni musicali, gli appuntamenti tra voce e sonorità, e si ritagliava una parte da regista, ma quasi nell’ombra, un po’ discosto, come se si fidasse di tutti noi e dubitasse invece delle sue scalette. Aspettava di vedere cosa sarebbe successo, ed era bello vederlo così partecipe, attento, pronto a tutti i suggerimenti che puntualmente modificavano in qualche punto la struttura da lui predisposta. Quando accadeva un necessario cambiamento, quando addirittura avveniva nel farsi della prova, di colpo si eccitava, sorrideva e subito scarabocchiava gli aggiustamenti, come se, proprio in quelle rotture si annidasse il senso jazzistico, performativo , della comunicazione. Si vedeva che ne era contento, in un modo quasi infantile, per nulla turbato dai tagli o dagli spostamenti. Assisteva in diretta ad una azione creativa, ad una invenzione che poteva nascere solo agendo quei testi, sperimentando quelle sinergie tra artisti.
Penso che questo operare gli confermasse quel grado di aleatorietà, di “forme del possibile”, che appartengono all’action painting, all’happening, alle sperimentazioni furibonde degli anni settanta, quando il Living Theater agiva le sue nudità in mezzo alle strade, quando quelli della Comuna Baires mostravano la violenza da cui erano fuggiti.
Di queste e altre esperienze, come il Terzo Teatro di Eugenio Barba, Stefano si è nutrito e in questa molteplicità di esperimenti linguistici si è formato, aggiungendo all’anarchismo e alla dispersione creativa di quegli anni, un rigore metodologico, un pensiero che ne salvasse forme e esiti, piegandole ad un progetto politico, a una stesura riproducibile.
Lo Stefano progettista di eventi, promotore culturale, saggista, inventore di rassegne, creatore di riviste era tutt’uno con lo Stefano scrittore, con l’artista impegnato della parola. Aveva bisogno di connettere le esperienze, di farsi tramite e congiunzione tra linguaggi diversi, come cercasse strenuamente di non disperdere la tradizione appena ereditata, di dare un ordine alla proliferazione dei linguaggi, creando snodi, appuntamenti, messe a confronto. Ma era sempre nutrito, e lo si vedeva dalla curiosità che si stampava sul suo sorriso, dalla certezza che non tutto si sarebbe svolto secondo partitura, che all’opera c’era sempre il colpo d’ala dell’imprevisto, dell’imprendibilità biologica dei corpi e delle emozioni.

***

Sulla vita di Stefano esiste un lungo, corale documentario girato da Stefano Massari. si chiama Tass. Storia di Stefano Tassinari. Qui sotto, il trailer.

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2 commenti su “Per Stefano Tassinari. La sua voce, un archivio, il crowdfunding

  1. «…Ventinove, come i nostri anni di allora, che alla peggio avremmo meritato di doppiare…»
    (da A passo d’ombra)

  2. Ascoltando le registrazioni che testimoniano il lavoro di Stefano Tassinari con i musicisti, se ne ricava l’impressione che ogni aspetto della lettura musicata, tanto l’esecuzione quanto la produzione discografica (se si trattava di un reading progettato per lo studio di registrazione) fosse pianificato con cura, senza per questo sfociare nella rigidità o nella pedanteria.
    Faccio alcuni esempi da tracce che si possono tutte ascoltare e scaricare da qui http://www.wumingfoundation.com/giap/?p=7786.
    1) SCELTA DELLA STRUMENTAZIONE. Credo che in anni e anni di reading sperimentati sulla propria pelle e sulla propria voce, il Tass abbia sviluppato una grande capacità di immaginare come sarebbe suonato il testo che avrebbe messo in musica. C’è sempre una correlazione tra tematica e soprattutto ritmo del testo da un lato, e strumenti che accompagnano il reading dall’altro: la scelta di un organico più o meno numeroso, la decisione di includere o meno la batteria o gli archi o i fiati hanno un significato preciso. “Agli angeli ribelli” è un testo dall’incedere quasi solenne, ma lirico, non grave: la batteria non c’è, è il basso elettrico che, senza essere troppo pesante, segna la cadenza lenta dei versi, mentre il sax soprano suggerisce una spinta verso l’alto, l’assalto al cielo tentato dalla generazione di Francesco Lorusso.
    “A passo d’ombra” è fortemente allitterante (specie sulle sibilanti), il ritmo è più frenetico: ecco che compaiono la batteria e il più percussivo contrabbasso, a portare il tempo in maniera scandita, netta. Qui la strumentazione ricorda quella dei piccoli gruppi di tango, con la fisarmonica al posto del bandoneon, il sax e i due violini: è coerente con l’ambientazione del testo.
    In “Lettere. Frammento 5”, di cui parla WM1 nella conversazione con Baliani, il tema intimista avrebbe potuto far optare per una strumentazione scarna, magari solo un pianoforte. Invece la scelta è stata opposta: flauti più archi, sonorità aperte, lievi, ma comunque e sempre corali.

    2) GESTIONE DELLO SPAZIO SONORO. Il Tass aveva una voce che si piazzava nel registro medio e tendeva ad affievolirsi sull’ultima sillaba delle frasi (una cosa per cui di solito ti cazziano nelle accademie di teatro, ma è naturale per molti tipi di voce, soprattutto nella lettura e nella recitazione). Stefano e i suoi collaboratori stavano bene attenti a usare strumenti che non occupassero lo stesso registro della sua (di Stefano) voce, ma si collocassero più in basso o più in alto: bassi, sassofoni, violini, il pianoforte in una porzione delimitata della tastiera. Più di rado la chitarra (vicina per timbro, specie nelle ritmiche, alle frequenze di una voce come la sua), anche se non era per niente assente dai suoi reading: lui stesso era chitarrista.
    Il risultato era che voce e strumenti non s’intralciavano a vicenda: la voce emergeva bene, eppure non dava l’impressione di predominare. Gli strumenti accompagnavano bene, eppure non davano l’impressione di essere solo un ornamento.

    3) USO DEL RIVERBERO E DELLE PAUSE. Confrontiamo “Agli angeli ribelli” e “A passo d’ombra”. Fatta forse eccezione per l’impostazione e l’intonazione, sono due modi molto diversi di leggere, e di registrare la voce. “Agli angeli ribelli”, ritmo dilatato, voce con tanto riverbero, che esalta le pause. “A passo d’ombra”, ritmo incalzante, voce più asciutta. Sarei pronto a scommettere che Stefano non fosse estraneo a queste scelte da fonico/produttore.

    4) STRUTTURE COMPLESSE DELLE COMPOSIZIONI. Nei reading tassinariani, un musicista non può non restare affascinato… dalla musica: armonie e temi sofisticati, aperture solistiche, strutture mutuate dal jazz e dal rock. Quasi tutti i musicisti con cui Stefano ha lavorato hanno un piede saldo nel pop e l’altro nella musica di ricerca: Tavolazzi, Tesi, Bandini, Damiani.
    Le musiche per le sue letture sono sempre composizioni: non mi risulta, ma sarei felice di sbagliarmi, che abbia realizzato anche impro-reading (reading estemporanei, messi su al volo, quelli sì, ma basati su musica improvvisata non credo). E le composizioni erano complesse, strutturate, niente a che vedere con semplici giri di accordi ripetuti a loop. Erano composizioni compiute in tutto e per tutto. La voce si inseriva in queste strutture e ne diveniva parte integrante. Questo vero e proprio andamento *a canzone* si ascolta bene in “Agli angeli ribelli”: nella prima parte il sax espone il tema e la voce tace (fosse uno spartito del realbook, sarebbe la parte A), nella seconda tace il sax –o meglio fa dei piccoli interventi insieme al pianoforte- e la voce si assume il compito di condurre il gruppo (parte b), infine sax e voce si spartiscono l’orecchio di chi ascolta, il sax ripetendo il primo tema e la voce proseguendo la lettura (seconda A).
    In altri casi invece ci sono autentiche parti solistiche durante la lettura, e assolo e lettura sono immersi in una trama strumentale fittissima: sentite cosa fa pagani in “A passo d’ombra”, tutto mentre Tassinari va avanti a leggere.
    Inserire la voce in quel groviglio di suoni non era affatto facile, si rischiavano ogni secondo accozzaglie incomprensibili: era faccenda delicata, da equilibristi della lettura ad alta voce. Eppure tutto era perfettamente discernibile, in asse.

    Negoddio se avrei voluto conoscerlo, il Tass, e imparare da lui.