Torna la collana #QuintoTipo, con #PCSP (Piccola Contro-Storia Popolare), il nuovo libro di Alberto Prunetti

Copertina PCSP

Clicca per scaricare la copertina completa, con quarta e alette (pdf).
«Ribellioni, resistenze, renitenze, rivolte… Dov’è finita la Maremma raccontata dal Prunetti? Quella sì era roba pesante: gente che mangiava fiamme, sovversivi che facevano lo slalom tra rappresaglie, repressione e rastrellamenti, e qui dentro li trovi tutti, belli stipati e pronti al pum! come i chiodi e il sale grosso nella canna dell’archibugio. Anarchici e comunisti alla macchia… Gente che spara ai fascisti… Banditi che sciorinano poemi in ottava rima… Altra gente che spara ai fascisti…»

Alberto Prunetti

Il Prunetti.

Il 5 novembre ritorna la collana Quinto Tipo, diretta da Wu Ming 1 per le Edizioni Alegre.
Dopo Diario di zona di Luigi Chiarella (Yamunin), Il derby del bambino morto di Valerio Marchi e Il tenore partigiano di Lello Saracino, arriva in libreria il nuovo libro di Alberto Prunetti: PCSP (Piccola Controstoria popolare).

PCSP perturba l’orbita della «Trilogia Working Class» iniziata con Amianto. Una storia operaia. È per il 30% una riscrittura/remix del primissimo libro del Prunetti, Potassa, e per il 70% un’opera completamente nuova. Potete farvi un’idea del tono del libro e dell’incazzosa stella sotto cui nasce aprendo il pdf della copertina completa.

Con quest’uscita si riapre la campagna abbonamenti. L’abbonamento consente di ricevere a casa quattro libri della collana. Ergo, PCSP conclude l’abbonamento dei bravi pionieri che lo sottoscrissero un anno fa, a scatola chiusa. Non possiamo che ringraziarl* tutt*, e speriamo rinnovino la fiducia in quest’esperimento editoriale.

PCSP, come detto, arriverà in libreria il 5 novembre, ma verrà presentato (in assoluta anteprima) già il 24 ottobre, a Roma, al Salone dell’Editoria Sociale

Dopo PCSP, la prossima uscita del Quinto Tipo sarà Al palo della morte di Giuliano Santoro. Poi, nella prima metà del 2016, libri di Simone Pieranni, Lorenzo Filipaz e Selene Pascarella.

amiantoreggio

Cogliamo l’occasione per dire che Amianto. Una storia operaia verrà presentato il 15 ottobre alla Camera del Lavoro di Reggio Emilia, via Roma 53.
Ricordiamo che da Amianto è stato tratto un bel reading musicale che merita di girare. Trailer e contatti qui.

Su Diario di zona ci sono diverse novità. A distanza di pochi mesi dall’elogio che Goffredo Fofi ha riservato al libro

«In Diario di zona c’è un vero scrittore. Quelli che lavorano nel teatro hanno un’attenzione nell’uso della parola che molti scrittori non hanno (non scrivono: pisciano). In Diario di zona ci sono dialoghi (e monologhi) bellissimi e Un universo letterario sociologicamente probabile.»

l’ultimo numero della rivista Lo Straniero, che Fofi ha fondato e dirige, ospita un racconto di Yamunin intitolato «Torino – Firenze A/R». Qui potete leggerne l’inizio. Ecco la nota redazionale che precede il racconto:

«Yamunin è lo pseudonimo di Luigi Chiarella, calabrese-torinese che della città sabauda ha esplorato le cantine e i pregiudizi in Diario di zona, il più insolito dei prodotti letterari recenti, attraverso la figura di un accanito pedalatore per necessità che di mestiere deve controllare i contatori dell’acqua dei casamenti di periferia, un lavoro che permette incontri e riflessioni insoliti e istruttivi… Diario di zona ha inaugurato la collana Quinto tipo delle edizioni Alegre, diretta da Wu Ming 1. Il racconto che presentiamo fa parte di un nuovo ciclo di osservazioni non meno libere e acute.»

Luigi_e_Mariano

Luigi e Mariano nell’architettonicamente eclettico Piazzale Valdo Fusi a Torino.

Chi ha amato Diario di zona, e anche chi lo amerà, non può non ascoltare questa chiacchierata tra Yamunin e Mariano Tomatis. I due erano veramente in istato di grazia.

Copertina de Il derby del bambino morto

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Riguardo a Il derby del bambino morto, riportiamo qui un’intervista al curatore/aggiornatore Claudio Dionesalvi apparsa sul blog Kioshi di Claudio Metallo.

Il derby del bambino morto o di come lo spettacolo non deve andare sempre avanti. Una chiacchierata con Claudio Dionesalvi.

Claudio Dionesalvi

Il derby del bambino morto (Edizioni Alegre, 2014) di Valerio Marchi è il libro che racconta l’incredibile giornata del derby dell’Olimpico tra Roma e Lazio del 21 marzo del 2004. Gli scontri tra forze dell’ordine e ultras prima della partita si susseguono in maniera sempre più violenta. In mezzo alle cariche si ritrovano anche molti tifosi che non fanno parte dei gruppi che popolano le curve di Roma e Lazio.
Chi gestisce l’ordine pubblico per quella partita decide che si possono sparare lacrimogeni contenenti il famigerato gas CS contro ragazze e ragazzi, donne e uomini, bambini e bambine. Il gas CS era in uso anche durante le giornate del G8 di Genova del 2001, viene considerato un’arma da guerra ed è vietato dalla Convenzione delle Armi Chimiche del 1993. Sempre in quella giornata gli sbirri cercano di caricare i tifosi entrando di forza nella Curva che ospita i romanisti. Il clima è surreale e viene perfettamente descritto dalla ricostruzione che Valerio Marchi realizza utilizzando brani delle telefonate, dei messaggi e delle mail con cui i tifosi presenti allo stadio quel 21 marzo inondano siti, radio, forum e televisioni locali per denunciare la brutalità della polizia. In questo contesto di cariche e controcariche, feriti e intossicati, la notizia di un bambino ucciso da una camionetta della polizia diventa una notizia plausibile, e tra gli ultras e gran parte dello stadio olimpico (ma non per le forze dell’ordine e i media mainstream, cioè Sky che trasmette la partita in diretta) si fa strada l’idea che quel derby non si debba giocare di fronte a una tale tragedia. E’ questo il presupposto che ne Il derby del bambino morto prende forma e si dipana attraverso l’inchiesta dell’autore che ci fornisce uno spaccato dei rapporti tra «sport, culture giovanili, opposizione sociale e legislazione repressiva», come si può leggere sul sito di Edizioni Alegre. Il libro contiene anche un interessante capitolo iniziale in cui si traccia una breve storia dei derby capitolini, che ci fa scoprire come le tensioni tra tifoserie non siano un fenomeno recente.
Il volume esce nella collana Quinto Tipo diretta da Wu Ming 1 e oltre alla prefazione di Wu Ming 5, contiene un  aggiornamento di Claudio Dionesalvi, tra i fondatori della Nuova Guardia ’86 Ultrà Cosenza e del C.S.A. Gramna, direttore di Tam Tam e Segnali di Fumo, scrittore e giornalista. Ci siamo fatti una chiacchierata sul libro di Valerio Marchi, ma anche sugli ultras, il rapporto tra calcio e televisioni, sulla repressione e sull’idea etica che forse lo spettacolo non deve andare avanti per forza.

Ci fai un breve ritratto di Valerio Marchi?

Uno studioso di strada, figlio della strada. Osservava la realtà sociale con sensibilità e capacità critica. Non si limitava a “leggere” i fenomeni. Piuttosto, li acquisiva. Come se al posto della vista avesse uno scanner. Aveva una visione prospettica. Per me un grande amico, una persona speciale nella sua naturalità.

Che libro è Il derby del bambino morto e come mai tu hai curato la nuova edizione con un aggiornamento, perché se ne sentiva la necessità?

È un libro interessante per la sua capacità di cogliere le trasformazioni, prevederle, ricondurle ad un quadro analitico che fuoriesce dalla dimensione calcistica e coinvolge l’interezza della società. Un esempio insuperabile di “pallonità”, cioè la tendenza a trasmigrare dal football alla vita reale, trasfigurandolo, assaporandone gli intrecci, cogliendo il potenziale narrativo e mitopoietico dell’umanità complessa che intorno all’industria del pallone da sempre si raduna. Leggere questo libro aiuta a capire meglio l’Italia contemporanea. E non è un testo che si lascia schematizzare, irretire nelle asfittiche tipologie codificate della scrittura. È un caso emblematico di “oggetto narrativo non identificato”. Non a caso è stato ripubblicato da Alegre nella collana del Quinto Tipo, diretta da Wu Ming 1. È stato lui a chiedermi di curare l’aggiornamento di questo lavoro. Io ho accolto l’invito con immenso piacere.

Ricordo bene quel derby di Roma perché con il collettivo di cui facevo parte all’epoca decidemmo di trasmettere illegalmente la partita con la nostra telestreet Teleimmagini. Rileggendo la ricostruzione di Marchi mi è ritornato alla mente il fatto che non si parlasse per nulla dei gravissimi scontri fuori dallo stadio come quelli documentati dall’autore. La situazione era così drammatica che la celere cercò di entrare in Curva Sud. Rispetto a tutto questo, cosa pensi del rapporto tra media e calcio e della retorica delle famiglie che devono per forza andare allo stadio?

Tutte le volte che sento questo ritornello delle famiglie allo stadio, un brivido mi attraversa la schiena. Impossibile non ripensare alla propaganda fascista in preparazione delle spedizioni militari dell’Italia colonialista. Anche all’epoca, alla vigilia dell’aggressione all’Etiopia, per motivi strategici ci fu bisogno di intruppare le famiglie e posizionarle sulle gradinate dei campi di calcio. Oggi è chiaro che non è un’esigenza militare ad attivare questo tipo di propaganda. Semplicemente, l’industria del pallone televisivo, all’interno degli stadi di calcio, vuole sostituire la vecchia scenografia movimentata da striscioni e fumogeni, con una cornice statica e rasserenante, da libro Cuore, quindi più facilmente commercializzabile. A me importa poco. Se devo andare con mia figlia in uno stadio, il posto più sicuro e divertente rimane il settore occupato da ciò che resta degli ultrà.

Perché è giusto interrompere lo spettacolo calcistico per la morte di un tifoso o di un semplice supporter?

Perché le partite di calcio non sono un semplice evento sportivo, bensì, con buona pace del Gran Maestro di Firenze e del suo cimiteriale ministro dell’Interno, rappresentano la celebrazione collettiva della storia e del presente di una vasta comunità umana che intorno ai propri colori sociali costruisce una ritualità spontanea e condivisa. Come accadeva nell’antica Grecia con la tragedia che era tutto tranne che un semplice “spettacolo”. Qualsiasi rituale collettivo dovrebbe interrompersi in presenza di un lutto o di una guerra! Ma è chiaro che ridotto com’è a vacuo show commerciale, il football è costretto ad andare avanti, costi quel che costi, in qualsiasi situazione. In fondo è quasi sempre andata così. Basti pensare all’Heysel. Anche a Roma, nel derby Lazio-Roma del 2004, dentro e fuori l’Olimpico era in corso una “guerra”, a prescindere se l’uccisione di un bambino fosse un fatto reale o immaginario. Ancora una volta Valerio Marchi è stato bravissimo: in questo libro spiega con chiarezza perché in un paese anormale come l’Italia, retto da leggi speciali, attentati contro innocenti e da uno stato di polizia, la gente non esita un solo istante a credere che la polizia possa ammazzare una persona innocente.

Tu sei stato un ultrà del Cosenza, ci spieghi il concetto di territorio per gli ultrà, che ritorna più volte nel libro.

È un principio costitutivo. Senza territorio non esisterebbero gli ultrà. Le curve sono, anzi erano, zone liberate dal controllo poliziesco cui siamo sottoposti sin dalla nascita. In esse riproducevamo relazioni, amicizie, legami e conflitti. Naturale proteggere questo ambiente da incursioni nemiche. Ed è vomitevole la retorica degli intellettuali del web, figli della pocket reality e dei plastici di Bruno Vespa, che strillano contro i rischi xenofobi dell’affermazione di un’identità. Qualsiasi gruppo umano è tale in quanto erige intorno a sé un confine invisibile col resto della società. Non esisterebbero parrocchie, associazioni, compagnie teatrali, collettivi, classi scolastiche; non esisterebbe niente se alla base di tutto non ci fossero le due fondamentali parole: “Noi siamo”. È chiaro che questo confine dovrebbe essere elastico, poroso, aperto a chi vuole varcarlo in modo pacifico, valicabile, duttile. Ma in assenza di esso, l’alternativa è la disgregazione, la solitudine, l’individualismo eccentrico.

Nella prefazione di Wu Ming 5, lui racconta di come a Genova al G8 del 2001 quelli che riuscivano a muoversi meglio in mezzo alle cariche e alla violenza della polizia erano proprio gli ultrà. Questione di abitudine?

Certo! Ne abbiamo viste di tutti i colori, negli anni Novanta, dentro e fuori gli stadi di calcio. Ci hanno sparato addosso, gasato, recluso. A Genova lo Stato ha solo messo in pratica un protocollo ben collaudato. Al di là del prevedibile iniziale sgomento di fronte a un’ondata di violenza legalizzata di quella portata, i più  sorpresi da cotanta brutalità statale non fummo né noi curvaioli né lo furono i militanti dei movimenti rivoluzionari del passato. In fondo avevamo tutti una certa dimestichezza con gli interventi repressivi, a carattere militare, attuati diverse volte dai poteri costituiti nella storia dell’Italia repubblicana.
Mi viene da ridere e da piangere quando tanti ultrà di oggi dicono e scrivono che la repressione negli stadi sarebbe iniziata con l’introduzione della tessera del tifoso o col biglietto nominativo. Solo chi non ha vissuto in curva il decennio precedente il 2001, può affermare una simile cavolata. Di conseguenza, anche la resistenza degli ultrà al tentativo di annientamento, non è un fatto recente. Risale ad almeno due decenni fa.

Sappiamo che il calcio è quasi solo business e i calciatori sono gli attori di uno spettacolo che ormai si ripete quasi tutti i giorni della settimana. Le curve sono una massa critica all’interno di questo sistema oppure lo sono solo state?

Ci sono gruppi ultrà che ancora resistono, ma rimangono in pochi. Sopravvivono soprattutto quelli che investono del tempo in iniziative benefit, sport popolare, antirazzismo e difesa dei rispettivi territori dall’assalto di multinazionali, discariche e fabbriche di morte. Cioè, quelli “impegnati nel sociale”. Che poi è sempre e comunque un fatto politico, nel senso antico del termine.

Qual è il rapporto tra ultrà, calciatori e società? Pensi che ci siano delle differenze tra le serie minori e la A o la B?

Nella maggior parte dei casi ormai prevale l’indifferenza. Raramente si instaurano relazioni di rispetto e armonia che esistevano in passato. Il rapporto col mondo del calcio, nella maggior parte dei casi, è di subordinazione o di giusto disprezzo. Oggi non esistono più differenze tra categorie superiori e inferiori. Le peggiori schifezze, a volte, si verificano proprio nel dilettantismo.

Il tenore partigiano

Clicca per scaricare la copertina completa, con la quarta, i risvolti e la presentazione della collana Quinto Tipo scritta da Wu Ming 1 (pdf)

Riguardo a Il tenore partigiano, vi proponiamo la bella recensione scritta da Luca Cangianti e uscita qualche tempo fa su Carmilla.

Il tenore di Bandiera Rossa

Lello Saracino, Il tenore partigiano. Nicola Stame: il canto, la Resistenza, la morte alle Fosse Ardeatine, Alegre, 2015, € 15,00

In una grigia cella del carcere romano di Regina Coeli, Nicola Stame cantava le arie più belle della lirica per portare sollievo ai prigionieri antifascisti. E nessun soldato tedesco si permise mai d’impedirglielo. Quest’immagine drammatica riassume la storia di arte e di rivolta che Lello Saracino racconta nel libro Il tenore partigiano.

Stame era originario di Foggia e iniziò la carriera artistica trasferendosi nel 1932 a Roma, dove abitò in via dei Volsci 101, nel quartiere operaio di San Lorenzo. Si esibì al Teatro dell’Opera e poi, essendogli vietati i palchi regi a causa del suo antifascismo, al Teatro Vittoria e al teatro Al Circo Massimo. La sua voce era «piena, rotonda, morbida, capace di legare come di espandersi senza problemi nelle zone più alte». Stame fu inoltre partigiano, comandante della I Zona (San Lorenzo, Tiburtino, Pietralata) nella formazione comunista eretica Bandiera Rossa che durante la Resistenza romana arrivò a contare quasi 1200 effettivi, un numero superiore a quelli del Pci.
Dopo l’armistizio dell’8 settembre del 1943, Nicola entrò con la sua divisa d’aviere nella caserma di via dei Frentani dove prestava servizio e portò via fucili e pistole. Combatté alla Cecchignola, dove fu ferito di striscio, e prese parte alle barricate di Porta San Paolo nel tentativo di arrestare le truppe naziste. Il 6 dicembre dello stesso anno nei cinema Imperiale, Bernini e Barberini i partigiani di Bandiera Rossa entrarono in azione lanciando in sala mazzi di volantini firmati «Comitato romano per il movimento comunista italiano». Nicola era a capo di una delle squadre che eseguirono l’azione. Nei giorni seguenti l’impresa suscitò grande ammirazione negli ambienti antifascisti. Il 24 gennaio 1944, a causa di una soffiata delle spie infiltrate nel movimento clandestino, fu arrestato mentre si recava a una riunione per informare i suoi compagni circa i contatti avuti con gli ufficiali alleati. Il tenore fu condotto in via Tasso 155 dove si trovava la Sicherheitspolizei, dalla quale dipendeva la Gestapo, la Polizia segreta nazista. In quell’edificio, dove oggi si trova il Museo della Liberazione di Roma, Nicola fu torturato. Condannato in seguito dal Tribunale Speciale Tedesco al carcere duro in Germania, dopo l’attentato di via Rasella fu prelevato e ucciso alle Fosse Ardeatine insieme ad altri 334 uomini. La figlia di Nicola, Rosetta, oggi è la presidente dell’Anfim (Associazione nazionale famiglie italiane martiri caduti per la libertà della patria). Al tempo aveva sei anni. L’ultima volta che incontrò suo padre in prigione gli chiese «Ma perché sei qui?» Il tenore partigiano rispose: «Bambina mia, sono in questo posto perché tutti i bambini possano vivere liberi e in giustizia.»

La lettura della biografia scorre con grande agilità grazie alle molte scene di vita quotidiana che aiutano a ricreare la Roma del periodo bellico: i prezzi della borsa nera, il coprifuoco, i giornali ridotti a quattro fogli, le tessere annonarie, ma anche la festa scatenata per la caduta del fascismo il 25 luglio del 1943, con i romani in pigiama e pantofole a esultare nelle vie e nelle piazze. Gli eventi raccontati nel libro di Saracino sono tutti reali e frutto di una ricerca storica basata sugli archivi della polizia e dell’aeronautica, sulle memorie e sulla stampa del tempo. Tuttavia Il tenore partigiano fa parte della collana Quinto Tipo che è dedicata a quelli che Wu Ming 1 definisce «oggetti narrativi non-identificati», cioè opere ibride a cavallo tra scrittura creativa e non fiction. Il libro, infatti, si inserisce nel filone storico che mette in chiaro il backstage: le motivazioni che spingono Saracino a intraprendere la ricerca e poi la scrittura del libro fanno parte della narrazione stessa. Inoltre quando i riscontri archivistici contraddicono parzialmente le memorie dei familiari (come nel caso del soggiorno argentino), Saracino non opera nessuna forzatura disciplinare e non ha paura di lasciare un alone di mistero sui fatti. Questo modo di affrontare un tema di non fiction produce un coinvolgimento e un’empatia umana che normalmente non sono l’obiettivo principale della ricerca storica convenzionale. Si tratta di una scelta estetica, ma forse anche politica, perché quello di Nicola Stame è un racconto di vita e di morte, di dignità e di rivolta, che si rivolge al presente. Saracino tesse infatti i fili della narrazione fino a oggi: i personaggi in bianco e nero di Roma città aperta sono seguiti fino alle vicende più recenti. Nel 1957, nonostante la condanna al carcere a vita, il criminale di guerra Albert Kesselring viene liberato. Subito dopo non manca di rivendicare le azioni compiute. Nel 1977 Herbert Kappler, comandante della Gestapo a Roma, responsabile dei rastrellamenti al Ghetto e al Quadraro, nonché dell’eccidio delle Fosse Ardeatine, fugge dalle prigioni italiane e si rifugia nella Germania Occidentale che non concede l’estradizione. Infine arriviamo a Eric Priebke, il capitano delle SS deceduto nel 2013, che partecipò alla pianificazione e alla realizzazione dell’eccidio delle Fosse Ardeatine. Fuggito da un campo di prigionia in Italia, prima di esser individuato da un giornalista statunitense nel 1994, vive da uomo libero per mezzo secolo a San Carlos de Bariloche in Argentina e ogni tanto si reca da turista sulla costiera ligure, a Capri e a Sorrento.
Ma i mostri non sono soltanto alieni che valicano le Alpi: a Roma nel 1994 un procuratore trova un armadio di ghisa con le ante rivolte verso il muro in un locale di palazzo Cesi-Gaddi, sede di vari organi giudiziari militari. Contiene 695 fascicoli d’inchiesta e 2.274 notizie di reato per crimini di guerra commessi sul territorio italiano durante l’occupazione nazifascista. L’«armadio della vergogna», così fu battezzato giornalisticamente, evidenzia come l’Italia repubblicana insabbiò immediatamente le atrocità nazifasciste ponendosi per certi versi in continuità con le strutture di potere precedenti.


Lucia Zauli
, moglie di Nicola, chiese un giorno: «Ma perché metti la politica davanti alla tua passione, alla tua arte?»Il tenore rispose: «Non è questione di politica. In questo momento il fatto è di essere uomini o non esser uomini.» Affermazioni di questo tipo non sono casuali e ne troviamo di simili in molti testi di memorialistica della Resistenza. La scelta partigiana si trova a valle di un bivio esistenziale inevitabile: da una parte l’umanità, dall’altra l’orrore. Ma forse c’è di più: quelli che all’apparenza possono presentarsi come elementi eterogenei, l’arte e la politica, nel caso della scelta partigiana e rivoluzionaria non lo sono affatto. Manuel Scorza, ad esempio, nella Danza Immobile afferma che «è imprescindibile fare politica e poesia. Quando un rivoluzionario non è poeta finisce per essere un dittatore o un burocrate, un traditore dei propri sogni.»

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La collana Quinto Tipo è cugina di primo grado di Nuova Rivista Letteraria, il semestrale di letteratura sociale fondato da Stefano Tassinari (1955 – 2012). Come i giapster ben sanno, il numero attualmente in libreria inaugura una nuova serie ed è interamente dedicato alla Grande Opere Dannose Inutili e Imposte.
Il prossimo numero, che stiamo chiudendo in questi giorni, sarà invece monografico su nuovi nazionalismi, razzismi e fascismi.
A Bologna, il 16 ottobre, presentiamo per l’ultima volta il n.1 nuova serie. Riportiamo qui il comunicato stampa.

Venerdì 16 ottobre alle 18
alla libreria Trame in via Goito 3/c a Bologna
presentazione del numero 1, nuova serie, di Nuova Rivista Letteraria
e inaugurazione della mostra fotografica «Entropie» di Stefano Calanchi, autore delle foto pubblicate su questo numero della rivista.
Wu Ming 1 ne parlerà con il fotografo e con alcuni membri del collettivo di redazione.

Nuova rivista letteraria è un semestrale di letteratura sociale fondato nel 2009 da Stefano Tassinari. Rivista “di letteratura”,  perché fatta da scrittori e intenzionata a raccontare come la letteratura ha interpretato in passato e sta affrontando nel presente le tematiche al centro  di ogni numero; “sociale” perché tutti coloro che in essa sono impegnati sentono l’urgenza di mettere nuovamente sul tavolo della discussione importanti elementi quali storia e memoria, conflitto e lavoro, attualità e cambiamenti di costume nella società contemporanea.
Ad oggi, Nuova rivista letteraria, dopo aver tagliato il traguardo del suo decimo numero (in realtà il dodicesimo), ha inaugurato una nuova serie, il cui primo numero è incentrato, per quanto attiene tanto i testi quanto l’apparato fotografico, sul tema delle Grandi Opere Imposte, Inutili e Dannose.

La rivista si è trasformata per esprimere ancor meglio la letteratura nel conflitto sociale e il conflitto sociale nella letteratura, affrontando la realtà con tecniche letterarie, mettendo le tecniche letterarie alla prova della realtà, attraverso numeri interamente monografici, caratterizzati da convergenze e dialoghi tra testi e fotografie.

Mostra fotografica «Entropie»

Attraverso uno sguardo personale, che coglie e incornicia il dettaglio per farne struttura di senso, Stefano Calanchi documenta nelle sue foto la costante reinvenzione dello spazio nella società postindustriale, ad opera tanto del potere, che si autocelebra in opere spesso “dannose, inutili e imposte” quanto della controcultura, che trasforma il paesaggio urbano dissacrando il territorio con interventi militanti.

Stefano Calanchi, bolognese, ama definirsi street photographer: per lui la fotografia è sguardo rubato, gesto inatteso, immagine “trovata” sulla strada. Tra i suoi lavori più recenti si ricordano gli scatti contenuti nel volume Ti racconto una cosa di me (Palermo, 2012), successivamente esposti a Palermo e Bologna; il progetto video L’esplorazione del quotidiano (2013); la sezione londinese della mostra Definire lo spazio (Bologna, 2014); l’intero apparato fotografico del n.1, nuova serie di Nuova Rivista Letteraria (2015).

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4 commenti su “Torna la collana #QuintoTipo, con #PCSP (Piccola Contro-Storia Popolare), il nuovo libro di Alberto Prunetti

  1. Sabato 24/10 h.16:30 Alberto Prunetti presenta #PCSP a #Roma, anteprima nazionale.

  2. […] il circolo Arci di Via dei Pispini 18, in occasione del lancio della campagna, verrà presentato Piccola Controstoria Popolare, di Alberto Prunetti, con la musica de I […]

  3. […] annuncio a tema Quinto Tipo: prossimamente su Giap l’audio della presentazione bolognese di PCSP (Piccola Controstoria Popolare) di Alberto Prunetti, svoltasi alla libreria Modo Infoshop il 4 febbraio scorso, con il Prunetti, Wu […]

  4. […] tramonto, sono dei personaggi dolenti, dei maschi sconfitti.» (Wu Ming 1, presentazione del libro PCSP di Alberto Prunetti, Libreria Modo Infoshop, Bologna, 4 febbraio […]