Verso il 25 Aprile. Riflessioni urgenti sulla necessità di rompere il vetro e tornare in strada

di Wu Ming

INDICE
1. Toh, la repressione!
2. Quelli che «la libertà? Pfui!»
3. Stare a casa non vuol dire per forza stare in casa
4. Che cos’è un «assembramento»?
5. Molte «persone comuni» sono più avanti dei militanti
6. Manovre intorno al 25 Aprile
7. Riprendersi lo spazio pubblico: due condizioni necessarie

Oggi, 21 Aprile, celebreremo a modo nostro l’anniversario della Liberazione di Bologna. Non in “telepresenza”, ma nello spazio fisico. Niente “convocazioni”, ci muoveremo da soli, prendendoci in prima persona le responsabilità del caso.
Vogliamo fare qualcosa anche il 25 Aprile. A tale proposito, ecco alcune riflessioni.

Pochi giorni fa, a Torino, due auto e due jeep dei carabinieri hanno inscenato una vera e propria retata per prelevare, perquisire e multare un militante del Centro Sociale Gabrio, reo di aver distribuito un volantino davanti a un supermercato, nell’ambito della raccolta di beni di prima necessità SOSpesa, organizzata per aiutare chi è in difficoltà economica. Prosegui la lettura ›

Brodo di DAD. Appunti per non farsi bollire a scuola durante e dopo l’emergenza coronavirus

Didattica A Distanza per ogni palato! Linea «Brodo Superiore». Sul Medio e l’Elementare c’è lo sconto, cercali su Google!

della Rete Bessa *
con fotografie di Michele Lapini
e una postilla di Wu Ming
[Tradução em português aqui]

1. Distopia

«Ora come ben saprà ci sono le restrizioni, tutto bloccato, non ci possiamo fare niente!»
Quest’anno ho fatto solo supplenze intermittenti, un paio di mesi di seguito al massimo e tanti giorni sparsi. Ma da tre giorni ci sono le restrizioni. Con la chiusura delle scuole, niente più chiamate di presa in carico, niente stipendio, unica via l’indennità di disoccupazione. Ma servono gli ultimi contratti, appunto, e i rispettivi pagamenti. Che mancano.
«
Non le sono arrivati gli stipendi di dicembre?»
Con quattro mesi di ritardo, sì. Come spesso, come a tant*. Sono andati a coprire il debito dei mesi precedenti. Ma poi cosa c’entra? Il punto è che devo chiedere la disoccupazione.

«Poi, insomma, lei è solo una MAD!»

MAD, Messe A Disposizione, ossia il personale docente convocato una volta che si è esaurita la graduatoria. Ti chiamano perché hai lasciato il curriculum nel posto giusto al momento giusto. Chi è convocato in questo modo rappresenta l’ultimo anello della precarietà nella scuola. Per questo motivo MAD è sinonimo di
mesi passati a coprire malattie e permessi, di colleghe di ruolo che si aggrappano alla speranza di un* supplente, che progettano il lavoro in classe sulla sicurezza della tua presenza, di organizzazione del personale scolastico che galleggia scientemente sulla disponibilità costante di docenti precari*… Mi decido a prendere parola:
«
La avviso che se non mi consegnate i miei contratti prenderò provvedimenti: sindacati, avvocati, diffide, messe in mora….»
«Signorina… Se le va bene ci vediamo alla Coop? Così firma i contratti e glieli consegno.»

Eccoci lì, sul muretto vicino al supermercato, tra mascherine e guanti, a fianco di una coda con carrello.

L’odio.

Non tanto nei confronti di colleghe o colleghi decisamente non affini con cui devi per forza collaborare, o di quella parte del personale scolastico che si permette di trattarti come una pezza da piedi arrivando a farti firmare il contratto alla Coop.

L’odio pulsante contro il sistema scuola, i suoi non-detti e le sue gerarchie. Prosegui la lettura ›

Un’emergenza «normale». Le persone trans e della comunità LGBTQIA+ nell’emergenza coronavirus

«Lockdown 1», collage di Matilde, 14 aprile 2020.

di Filomena “Filo” Sottile *

1. Fascia protetta

È un copione già visto. Una persona trans appare in tivù e immediata si scatena la bufera.

«È una assoluta vergogna la irresponsabilità, la insensibilità, la condotta del servizio pubblico radiotelevisivo. Mentre tutta l’Italia sta chiusa in casa per le note vicende [emergenza coronavirus NdR.], su Rai Uno, la rete di maggiore ascolto, in piena fascia protetta va in onda una lunga trasmissione che spiega il cambiamento di sesso e questioni connesse.»

Sono parole di Maurizio Gasparri, la sua voce fa parte del coro che ha stigmatizzato la presenza di Giovanna Cristina Vivinetto sui teleschermi. La storia che Vivinetto prova a tratteggiare nei 24 minuti a sua disposizione è tutt’altro che sovversiva e anzi la giovane pare assumere acriticamente la diagnosi di disforia di genere (in Italia è necessaria per avere accesso a interventi chirurgici e cambio anagrafico), non mette in critica il dispositivo del genere né il binarismo, non parla esplicitamente di discriminazione nei confronti delle persone trans, non addossa alcuna responsabilità alla società per le sofferenze cui riesce fugacemente a fare cenno. Il conflitto pare essere tutto interno alla persona: nelle sue parole è solo una questione privata. A guardare l’intervista in controluce si intravede una sceneggiatura familistica che all’interno del nucleo famigliare si risolve con un lieto fine. Prosegui la lettura ›

Gli eretici di Stoccolma. Come e perché la stampa italiana disinforma su Svezia e coronavirus

Cielo sotto e mare sopra. Nei resoconti italiani, la Svezia appare capovolta.

di Monica Quirico e Roberto Salerno *

Il primo caso accertato di coronavirus in Svezia risale al 31 gennaio. A febbraio il contagio è ancora limitato, e “importato” dalle località sciistiche di Italia, Svizzera e Austria; a marzo il numero dei casi aumenta. Dall’inizio, è l’Agenzia per la sanità pubblica (Folkhälsomyndigheten) ad assumere la gestione della pandemia, come è normale in un paese in cui anche in situazioni di crisi sono gli enti competenti sui vari settori sociali – come il Welfare, l’immigrazione o la sanità – ad avere l’ultima parola, non il governo.

Gli epidemiologi dell’Agenzia per la sanità pubblica esplicitano dall’inizio le linee guida che orienteranno il loro approccio. Innanzitutto, chiariscono come un’epidemia – e a maggior ragione una pandemia – non sia un problema esclusivamente sanitario: la società non è un ospedale, e per affrontare una tale crisi occorre mettere in campo un ampio spettro di competenze: mediche ovviamente, ma anche economiche, sociali, psicologiche, organizzative. Prosegui la lettura ›

La nuova centralità della working class in tempi di coronavirus (e le scritture per raccontarla)

I dipendenti FCA nello stabilimento di Pomigliano d’Arco, foto di repertorio. Il 10 marzo 2020 sono scesi in sciopero spontaneo per strappare tutele contro il coronavirus.

di Wu Ming
[Deutsche Übersetzung hier]

Negli ultimi due mesi, la working class sembra avere riconquistato una visibilità sui media e una centralità nei discorsi che non aveva da molti anni. L’emergenza coronavirus ha riportato in auge questioni come le condizioni di lavoro, le nocività in fabbrica, il rapporto tra lavoro e salute, tra diritto del lavoro e medicina… La forma presa dal dibattito è stata quella della querelle su quali produzioni bloccare e quali no, quale voce si dovesse ascoltare di più, quali interessi dovessero prevalere.

Quali abbiano prevalso all’inizio diventa ogni giorno più chiaro: i catastrofici errori fatti nel gestire l’emergenza coronavirus in Lombardia – su tutti, non aver isolato la val Seriana – derivano in gran parte dall’aver anteposto le esigenze del padronato alla salute di lavoratori e cittadini. Tutt’intorno, nel mentre, si ricorreva al lockdown a macchia di leopardo e con continui riaggiustamenti, con piglio cialtrone e brancaleonesco.

E i lavoratori? Non pervenuti.

Non erano ancora entrati nello schermo del radar.

Per entrarci, hanno dovuto fare irruzione. Prosegui la lettura ›

Sul funerale di Salvatore Ricciardi. Salutare un amico e un compagno, tornare a occupare lo spazio pubblico

L’ultimo saluto a Salvo, al canto di Su, comunisti della capitale! «Questa città ribelle e mai domata / dalle rovine e dai bombardamenti…»

di Wu Ming
[English translation hereTraducción en castellano aquíTradução em português aquiDeutsche Übersetzung hier.]

Tra le misure prese durante quest’emergenza, il divieto di assistere ai funerali è una delle più disumanizzanti.

In nome di quale idea di «vita» si sono prese queste misure? Nella retorica dominante in queste settimane, la vita è ridotta quasi interamente alla sopravvivenza del corpo, a scapito di ogni altra sua dimensione. In questo c’è un fortissimo connotato tanatofobico (dal greco Thanatos, morte), di paura morbosa del morire.

La tanatofobia permea la nostra società da decenni. Già nel 1975 lo storico Philippe Ariès, nel suo caposaldo Storia della morte in occidente, constavava che la morte, nelle società capitalistiche, era stata «addomesticata», burocratizzata, in parte deritualizzata e separata il più possibile dal novero dei vivi, per «evitare […] alla società il turbamento e l’emozione troppo forte» del morire, e mantenere l’idea che la vita «è sempre felice o deve averne sempre l’aria».

Nell’arrivare a ciò, proseguiva, era stato strategico «lo spostamento del luogo in cui si muore. Non si muore più in casa, in mezzo ai familiari, si muore all’ospedale, da soli […] perché è divenuto sconveniente morire a casa». La società, sosteneva, deve «accorgersi il meno possibile che la morte è passata». Ecco perché molti rituali legati al morire erano ormai ritenuti imbarazzanti e in fase di dismissione. Prosegui la lettura ›

«Non ho altra malattia». Un poema anticoloniale scritto in Libia nel 1931, musicato dal Bhutan Clan e letto da Wu Ming 1

Illustrazione di Alberto Merlin, realizzata ad hoc per il Bhutan Clan e Giap. Clicca per ascoltare il Canto del campo di el-Aqila.

El-‘Aqila – pronunciato in dialetto «el-‘Aghila», in arabo standard «al-‘Uqaylah» – è una piccola città affacciata sul Golfo di Sirte. Nel suo entroterra, nel 1930, il governatore della Libia Pietro Badoglio e il vicegovernatore della Cirenaica Rodolfo Graziani fecero costruire un campo di concentramento in cui furono rinchiusi, nei due anni successivi, circa trentamila cirenaici, in gran parte donne e bambini. Molti uomini furono messi – e sovente fatti morire – ai lavori forzati, per costruire le mitiche strade con le quali ancora ce la menano gli apologeti del nostro colonialismo: «In Africa abbiamo fatto le strade!».

L’autore del poema che stiamo per farvi leggere e ascoltare, Rajab Hamad Bu-Huwayish al-Minifi, aveva combattuto da partigiano contro l’occupazione fascista. Proveniva dalla regione di al-Butnan, a cavallo tra gli attuali Egitto e Libia, con la città di Tobruq come capoluogo. La distanza tra queste zone e il campo di concentramento era di circa 500 chilometri, che i deportati furono costretti a percorrere a piedi, a tappe forzate. Prosegui la lettura ›