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Esternazioni

Per Simone Ramilli, un anno (e molte vite) dopo

Simone Ramilli

Simone, maggio 2015.

di Wu Ming 1

0. La mazzata
1. L’ultima sera in balotta
2. Il funerale, il puzzle, l’archivio
3. Gli «autonomazzi» e la Pantera
4. 2 agosto 1990, uno «scambio di persona»
5. Il blitz di Capo Rizzuto, la fuga, la cattura
6. I processi di Catanzaro e la mobilitazione
7. La malattia, la nuova vita
8. Gli ultimi anni di lotta
9. E dunque…

L’ultima serata trascorsa con Simone fu a Cesena, il 10 luglio 2019.
Il 3 agosto mi giunse la notizia che era morto. Prosegui la lettura ›

La piccola (ma libera) Repubblica dei Mulini. Un racconto della nuova onda No Tav e di come si è formata

di Wu Ming 1 *

La sera del 5 luglio, tornando dalla “battitura” al cancello della zona rossa, il pensiero: qualcuno avrebbe dovuto scriverne, di quella nuova generazione No Tav. Ventenni e anche adolescenti che avevano imparato a stare insieme e organizzarsi nei campeggi del festival Alta Felicità, s’eran fatti le ossa nelle grandi mobilitazioni per il clima del 2019, nella primavera 2020 avevano partecipato ai flash mob planetari seguiti all’uccisione di George Floyd, e al principio di quell’estate erano i protagonisti della rinascita del movimento valsusino. L’ennesima rinascita, dopo alcuni anni difficili.

Chi seguiva le vicende in Valsusa aveva già visto un grosso spezzone «Giovani No Tav» aprire la marcia da Susa a Venaus dell’8 dicembre 2019. Che era stata un successo: perfino La Stampa aveva dovuto scrivere «gli organizzatori […] sono riusciti a portare nella borgata simbolo della lotta No Tav una marea di persone».

Quel giorno Alberto Perino aveva dedicato il suo discorso ai «ragazzi in prima linea».

E adesso erano anche più avanti. Da due settimane tenevano un estremo avamposto in val Clarea: il presidio permanente ai Mulini. Prosegui la lettura ›

Italpizza, 2018-2020. La lotta di classe prima e dopo il Covid, nel cuore del nuovo «modello emiliano»

11 dicembre 2019: forze dell’ordine, personale del Comune di Modena e dell’azienda Italpizza rimuovono l’installazione del collettivo Nomissis intitolata «Ci sono pizze indigeribili». L’opera mostra un lavoratore incatenato a una margherita, tra acide foglie di basilico.

[A poche decine di chilometri dalla città in cui viviamo, attivamente sostenuta anche da compagne e compagni che conosciamo, è in corso da tempo una delle più radicali ed emblematiche lotte di questi anni: quella delle lavoratrici e dei lavoratori di Italpizza, top player nel settore delle pizze surgelate.
Per le caratteristiche della working class che ne è protagonista – in gran parte donne immigrate da varie parti del mondo – e per gli aspetti toccati dalle sue molte diramazioni – razzismo, violenza contro i migranti, violenza di genere, «decoro», consumo di suolo ecc. –, quest’intricata vertenza è una lotta più «intersezionale» che mai.
Pietro è un compagno di Modena e gestisce il blog miitantduquotidien, dove fa inchiesta e smonta i meccanismi e le retoriche del capitalismo «all’emiliana». Gli abbiamo chiesto di raccontare la storia della vertenza Italpizza dal 2018 a pochi giorni fa. Leggere l’intera sequenza è rivelatore, e permette di comprendere alcuni caratteri della lotta di classe nell’Italia del post-Covid. Buona lettura. WM]

di Pietro – militantduquotidien *

«Giungere ad un punto che è l’ABC dei diritti dei lavoratori, dopo una tale conflittualità, che è stata posta in essere fin dall’inizio dalle aziende in questa città, è un elemento che giudichiamo pericoloso.»
Eleonora Bortolato, sindacalista, 11 dicembre 2018

Se c’è stato un elemento irrinunciabile per gli affari e per gran parte del sistema produttivo del Paese a cavallo fra gli anni Dieci e gli anni Venti del nuovo secolo, è stato senza dubbio il silenzio. Dal caporalato bracciantile nei campi di mezza Italia, passando da Saluzzo a Borgo Mezzanone, dalle morti di Soumaila Sacko e Adnan Siddique, fino ai distretti industriali del Nord, la geografia economica del paese sembra aver seguito grosso modo lo stesso pattern, quello di una filiera agroalimentare di cui si conosce poco o nulla e che sguazza nell’opacità, scaricando tutto il peso della concorrenza sulle spalle dei lavoratori. Prosegui la lettura ›

«Stazione Giorgio Marincola»? Purché il colonialismo non riposi in pace

di Antar Mohamed Marincola*, Carlo Costa**,
Lorenzo Teodonio*** e Wu Ming 2

Nella notte di giovedì 18 giugno, la Rete Restiamo Umani di Roma ha compiuto un’azione di guerriglia odonomastica in alcuni luoghi della città che celebrano gli orrori del colonialismo italiano in Africa. In particolare sono stati colpiti la via e il largo «dell’Amba Aradam», insieme alla futura stazione «Amba Aradam/Ipponio» sulla linea C della metropolitana.

Le targhe stradali sono state modificate per diventare «via George Floyd e Bilal Ben Messaud», mentre lungo le barriere che delimitano il cantiere della nuova fermata sotterranea sono comparsi grandi manifesti con scritto: «Nessuna stazione abbia il nome dell’oppressione». Prosegui la lettura ›

Il lavoro fatto su Giap durante l’emergenza coronavirus. Un bilancio – e un glossario – mentre si «smarmella tutto»

[Per tutto il periodo febbraio-maggio non abbiamo rilasciato interviste sull’emergenza coronavirus. Finché durava la buriana, abbiamo valutato fosse meglio esprimerci solo per iscritto e solamente su Giap. Abbiamo declinato ogni invito di radio, giornali e riviste. Unica eccezione, l’intervista che esce oggi, a cura di Jakub Hornacek, sulla rivista politico-culturale ceca A2. Il titolo, tradotto dal ceco, suona così: «Invece delle fabbriche hanno chiuso i parchi». Le risposte le abbiamo spedite il 19 maggio scorso e le rendiamo disponibili anche in italiano, qui il pdf.

Rileggendole pochi giorni fa, ne abbiamo ricevuto un pungolo: era tempo di ricapitolare il lavoro fatto su questo blog, insieme alla comunità che qui ha discusso. Non solo per capire come siamo arrivati qui, ma per comprendere cosa ci attende dopo la fase “acuta” dell’emergenza. L’intervista, dunque, ha fatto da “trampolino” a un testo nuovo, dove aggiorniamo e approfondiamo varie questioni emerse su Giap fino a oggi, proponendo anche un “glossario” dell’emergenza. Appunti e spunti per chi, in futuro, dovrà storicizzare questo 2020. Buona lettura. WM]

INDICE
0. Le destre in piazza, ma che sorpresa!
1. «Riaperturismo» di destra e di “sinistra”
2. L’aperto e il chiuso
3. Lo scaricabarile psicopatogeno (per dirla con Bifo)
4. «Lockdown»
5. «Casa»
6. «Distanziamento sociale»
7. «Mascherina» e «Guanti»
8. «Minorenni» (scomparsa dei)
9. «Morti» (rispetto per i)
10. «Reddito» (di quarantena)
11. «Ripartenza» (tutto in nome della)

12. Un «canto di Natale» a primavera Prosegui la lettura ›

Coronavirus e teorie del complotto. Un vademecum e una lezione su #QAnon

di Wu Ming

Da quando, nel febbraio 2020, in Italia e poi nel resto d’Europa e dell’Occidente è cominciata l’emergenza coronavirus, sempre più persone, sottoposte a un vero e proprio bombardamento mediatico, hanno concluso che i mezzi d’informazione mainstream erano inaffidabili. La narrazione predominante di quanto stava accadendo è stata giudicata incongrua, strumentale, capziosa, organica a poteri costituiti ed élites economiche non solo reticenti ma responsabili dello stato in cui la pandemia aveva trovato i nostri sistemi socioeconomici.

Per i movimenti anticapitalisti, quest’insoddisfazione diffusa – e fondata – nei confronti dell’establishment politico-mediatico è stata in gran parte un’occasione persa. Per vari motivi che non sono oggetto di quest’articolo, non sono stati loro, non siamo stati noi a intercettarla.

Più spesso, l’ha intercettata il cospirazionismo: il virus è stato prodotto in laboratorio e diffuso intenzionalmente dalla Cina, o dalla Russia, o da Soros, o da Bill Gates. Quest’ultimo manovra a piacimento l’OMS per «controllare il mondo coi vaccini». Anzi, no, il virus si è diffuso per colpa del 5G. Anzi, no, la pandemia è una creazione di una lobby satanista che in America controlla il «deep state». Ecc. ecc. Prosegui la lettura ›

矛盾 (máo dùn). In quali trappole cadiamo nel discutere di «emergenza coronavirus»

di Wu Ming
[Deutsche Übersetzung hier.]

Ormai più di due mesi fa, nella terza puntata del nostro Diario virale, cercammo di chiarire cosa intendessimo per «emergenza». Parlammo di «un equivoco di fondo, un malinteso concettuale che ci vedeva reciprocamente lost in translation», e spiegammo:

«C’era chi per “emergenza” intendeva il pericolo da cui l’emergenza prendeva le mosse, cioè l’epidemia.

Invece, noi e pochi altri – in nettissima minoranza ma in continuità con un dibattito almeno quarantennale – chiamavamo “emergenza” quel che veniva costruito sul pericolo: il clima che si instaurava, la legislazione speciale, le deroghe a diritti altrimenti ritenuti intoccabili, la riconfigurazione dei poteri…

Chi, ogni volta che si parlava di tutto ciò, voleva subito tornare a parlare sempre e solo del virus in sé, della sua eziologia, della sua letalità, delle sue differenze con l’influenza ecc., a nostro parere sottovalutava la situazioneProsegui la lettura ›