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Appunti

I pilastri e la marea. Sulle rivoluzioni arabe e la guerra, prima di un viaggio in America

«Io suscitai e spinsi innanzi con la forza di un’idea uno di questi marosi (e non dei più piccoli), finché raggiunse e superò il culmine, e a Damasco si ruppe. Il riflusso di quell’ondata, respinto dalla resistenza degli oggetti investiti, fornirà materia all’ondata successiva, quando, compiuto il tempo, la marea monterà un’altra volta.»

Questo scriveva, all’indomani della Prima Guerra Mondiale, T.E. Lawrence nell’introduzione a I Sette Pilastri della Saggezza, l’opera in cui raccontava dall’interno l’esperienza della rivolta araba contro l’Impero Ottomano (1916-1918).
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Patria e morte. L’italianità dai Carbonari a Benigni

Ieri sera, nella gremita sala conferenze della Biblioteca comunale di Rastignano – è una frazione del comune di Pianoro (BO), ma sta subito a ridosso di Bologna ed è de facto un quartiere sud-est della città – Wu Ming 1 e Wu Ming 2 hanno parlato di: Risorgimento, Unità d’Italia, patria e tricolore, Inno di Mameli, Benigni a Sanremo, idiozie leghiste e neo-borboniche, “Italiani brava gente”, familismo amorale, avventure coloniali italiane del XIX e XX secolo, guerra di Libia, Tripoli bel suol d’Amore, l’exploit dell’anarchico Masetti alla caserma Cialdini di Bologna, manovre e “sabbiature” intorno all’Armadio della vergogna, crimini di guerra italiani in Africa e nei Balcani, Il leone del deserto e Fascist Legacy, Goodbye Malinconia di Caparezza, e chi più ne aveva più ne metteva. Prosegui la lettura ›

#Nucleare: ce tocca shit. Tanta e radioattiva

Gli “esperti” elargiscono con non-chalance la propria expertise, e vengono spesso alla ribalta in tempo di catastrofi. Si rischia la fusione dei noccioli nelle centrali giapponesi, quando soltanto ieri alcuni tra i servi mediatici del potere inumano che ci sovrasta si erano sbilanciati affermando che la vicenda giapponese (il fatto cioè che le centrali non fossero esplose tutte) era la dimostrazione che il nostro Paese aspettava per intraprendere la strada radiosa del nucleare: tutto a posto, e affanculo le cassandre. Prosegui la lettura ›

Classici sulle barricate. Uno speciale su Einaudi.it

[Poesia e rivolta in Tunisia. Poesia e rivolta in Egitto. Il “Book Bloc” del dicembre scorso. Il motto “Se non ora, quando?”. Tanti “attraversamenti” in questo speciale militante sul sito dello Struzzo. Con un’intervista a noialtri. Riportiamo l’inizio.]

Quando all’inizio di gennaio i tunisini sono scesi in piazza in quella che sarà ricordata come «la rivolta dei gelsomini», c’era una frase a scandire la protesta:

Se un giorno il popolo vorrà vivere, il destino dovrà fargli strada.

È un verso del poeta Abu’l-Qasim Ash-Shabbi, tunisino, morto nel 1934 – a soli 25 anni. La sua opera fu ignorata o aspramente criticata quando era in vita, e dopo la sua morte ci furono decenni di oblio. Fu negli anni Sessanta, quando nei paesi arabi cominciò la lotta contro il colonialismo e l’imperialismo, che Ash-Shabbi fu riscoperto, e consacrato come poeta politico. Eppure non era un rivoluzionario. Era stato persino accusato di sfruttare a suo vantaggio il dominio francese, di non avere rispetto per il popolo arabo.
Il fatto è che l’opera di Ash-Shabbi, e pure la sua figura, si prestano a diventare simbolo. Non importa il contesto in cui le sue poesie sono state scritte, e non importa quali fossero, allora, i referenti reali. Negli anni Sessanta le sue parole diventarono il simbolo della lotta all’imperialismo.
Oggi i popoli del Medio Oriente lottano per conquistare la democrazia, e i versi di Ash-Shabbi si vestono di nuovi significati.
Dopo la Tunisia, il 25 gennaio le strade del Cairo si gonfiano di manifestanti, e a suggellare la nascita di una rivoluzione ci sono, ancora una volta, le parole di Ash-Shabbi.

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Il libro dei bambini, di A.S. Byatt – Recensione di Wu Ming 4

«I fabiani e gli scienziati sociali, gli scrittori e gli insegnanti videro, in modo diverso dalle generazioni precedenti, che i bambini erano persone, con identità, desideri e intelligenze. Videro che non erano né bambole, né giocattoli, né adulti in miniatura. Videro, in molti casi, che i bambini avevano bisogno di libertà, avevano bisogno non solo di imparare, e di essere buoni, ma anche di giocare e di essere selvaggi.» [Pag. 442]

Premessa: ho lasciato trascorrere i mesi prima di scrivere una recensione del romanzo di A.S. Byatt, Il libro dei bambini. Ho dovuto lasciarlo sedimentare, aspettare cosa sarebbe affiorato, quasi per selezione naturale, da un testo denso, lungo, popolato da moltissimi personaggi, le cui biografie intrecciate sono narrate attraverso un quarto di secolo.
Sì, perché se ogni romanzo è un’impresa, allora Il libro dei bambini è una di quelle da far tremare i polsi. Perfino leggerlo non è una passeggiata. E infatti forse non è come un romanzo che andrebbe letto questo tomo di settecento pagine, ma piuttosto come il racconto poetico di due generazioni di inglesi, uno spaccato di vita d’altri tempi che improvvisamente si fa vicina. E come una crudele elegia.
Che l’Inghilterra sia un posto strano è un dato di fatto. Un luogo in cui la Camera dei Lord convive con il punk rock; in cui la monarchia è un’istituzione indiscussa nonostante sia stato il primo paese dove il popolo ha tagliato la testa al re e dove oggi gli studenti tirano pietre contro la Rolls Royce dell’erede al trono… ecco, diciamo che un posto così dà quanto meno da pensare.
Il romanzo di A.S. Byatt parla indirettamente anche di questa stranezza, e lo fa scegliendo un momento specifico e un ambiente specifico nella storia sociale britannica. Le date che racchiudono la trama parlano da sole: 1895-1919. Venticinque anni, lo spazio di una generazione, che hanno cambiato la faccia dell’Europa, traghettandola dalla Belle Epoque al secolo di ferro. Prosegui la lettura ›