I minatori di San José e la fiction istantanea

[Oggi, sulle pagine de L’Unità, compare un articolo di WM2 a proposito dell’instant fiction costruita sulla vicenda dei minatori di San José. L’articolo è piuttosto breve (ci avevano chiesto 4200 battute) e riesce solo ad abbozzare un discorso molto più vasto, che vorremmo invece sviluppare con voi. Intanto, eccolo qui.]

Il ritorno dagli inferi dei minatori di San José – raccontato in diretta su tutti i mezzi d’informazione del pianeta – ha prodotto un corto circuito nella memoria di molti italiani over 35. In un unico evento mediatico si sono fusi e confusi due episodi centrali per la storia della televisione italiana: Vermicino e il Grande Fratello. L’ansia vissuta davanti al teleschermo per la sorte di Alfredo Rampi dentro un pozzo artesiano e l’attesa dei fan per l’uscita dei concorrenti dalla casa di Cinecittà. Riflettori accesi e pulsione di morte: da un momento all’altro la capsula di salvataggio dei trentatré minatori cileni poteva incepparsi e trasformare “la festa in tragedia”, con il conseguente dibattito sul cinismo dei giornalisti, già sviscerato sessant’anni fa da Billy Wilder nel film L’asso nella manica.
Poi, visto che “tutto è andato per il meglio”, ci hanno informato che Florencio Avalos e compagni sono già stati contattati da diversi freak show, e che sulla loro vicenda si stanno avventando art director e sceneggiatori. Le instant fiction, infatti, sono l’ultima frontiera della produzione televisiva. Ci provò anche Canale 5, nel dicembre 2002, con Il bambino di Betlemme, ispirato all’assedio israeliano alla Basilica della Natività, occupata da decine di militanti palestinesi proprio nell’aprile di quello stesso anno.  E negli Stati Uniti, già vent’anni fa, girarono il film TV su Jessica McClure, anche lei caduta in un pozzo ma estratta viva nel giro di due giorni.
Molti, allora, storcono il naso, si fanno prendere dall’inquietudine: ma come? – domandano – prima le telecamere schierate, a modificare narrativamente lo svolgersi degli eventi, poi le notizie, raccontate al mondo secondo i dettami dello storytelling, e infine la mitopoiesi istantanea, versata sulla realtà prima ancora di farla decantare: non rischiamo l’indigestione di storie, la scomparsa dei fatti? Difficile rispondere, ma intanto le neuroscienze hanno dimostrato che il nostro cervello interpreta la realtà attraverso schemi narrativi, e in fondo l’unico modo che abbiamo per far parlare i fatti è quello di raccontarli e connetterli in un’unica trama. Le storie sono un nutrimento indispensabile per la nostra specie, sembra impossibile farne indigestione. Certo tra istant fiction, infotainement e gialli da prima serata, le buone storie sono sempre più assediate da quintali di monnezza narrativa. L’unica soluzione è munirsi di guanti, naso fino e competenze per distinguere i rifiuti tossici dal cibo commestibile. In altre parole: diventare tutti cantastorie, artigiani dello storytelling, bricoleur dell’immaginario.
Da cosa si riconosce una storia avvelenata? Prima di tutto, non sa usare i congiuntivi. Non per ignoranza grammaticale, ma perché non contempla l’eventualità, lo scarto imprevisto, l’ipotesi fantastica, quel cosa succederebbe se… che Gianni Rodari considerava fondamentale in qualunque narrazione. I racconti non ci servono soltanto per capire chi siamo, ma soprattutto chi saremmo potuti essere. Una buona storia lotta con tutte le sue forze contro l’illusione retrospettiva di fatalità, l’impressione che un avvenimento non si possa pensare in maniera diversa da “com’è accaduto” e che, al contrario, lo si possa sempre dedurre dalla situazione anteriore. Le storie sono mondi alternativi che ci aiutano a comprendere la realtà e non scopiazzature della realtà stessa. Una buona storia trasforma l’ordinario in straordinario; una storia indigesta addomestica ogni stranezza.
In secondo luogo, le storie al metanolo sono totalitarie: cercano in tutti i modi di apparire neutre, trasparenti, imparziali, quando invece non è possibile raccontare senza assumere un punto di vista, e occorre ricordarlo fin dalle prime righe. Se un racconto spaccia per totalità, visione dall’alto, la sua ineludibile parzialità, allora è tossico e bisogna assumerlo solo in piccole dosi, per avere fantastiche allucinazioni e vedere le mille alternative nascoste dall’autore sotto il tappeto. Come dice Paul Ricoeur, occorre esercitarsi a “raccontare altrimenti, ma anche lasciarsi raccontare dagli altri”.
La fiction istantanea, dunque, non è velenosa di per sé, ma quantomeno sospetta, poiché la fretta, la mancanza del giusto frattempo, privano il narratore di quel distacco dagli eventi che serve a metterli in prospettiva, cioè a orientarli verso il punto di fuga del futuro.
Così che il racconto di trentatré minatori intrappolati sottoterra non si riduca a un surrogato di reality show, ma diventi metafora di una via d’uscita – collettiva – dallo sfruttamento e dalla barbarie.

[La domanda è: da quali altre caratteristiche possiamo riconoscere una storia avvelenata? E quali competenze sono necessarie per distinguerla da una narrazione commestibile? Il laboratorio è aperto, anche se è sabato e molti computer restano spenti.]

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154 commenti su “I minatori di San José e la fiction istantanea

  1. le cattive storie ti rassicurano, ti mettono a sedere, ti agganciano alla poltrona e ti cantano pure la ninnananna, le buone storie ti mettono sempre in piedi e ti aprono la porta di casa; qualcuna ti dà pure un bel calcione nel sedere, se è buona sul serio

  2. Grande articolo. E ottima domanda. Gli spunti dell’assenza di congiuntivo e della neutralità apparente sono notevoli. Mi accorgo che, potenzialmente, *tutta* la cronaca giornalistica è veicolo di storia avvelenata (niente congiuntivo, fatti oggettivi).

    Provo a elencarne altre, vediamo se reggono alla prova:
    1) i personaggi sono stereotipati, semplici, umani, e in numero limitato;
    2) se l’obiettivo primario è l’infotanement, catturare lo spettatore, si fa leva sulla sua empatia verso la “vittima”, con finali consolatori (l’happy ending). Oppure, nei fatti di cronaca (relitti, rapine, violenze) si suscita lo sdegno o la morbosità;
    3) le storie sono fini a sé stesse, autolimitanti: non danno prefigurazioni o futuri possibili. Tutto torna alla normalità;
    4) le storie sono de-responsabilizzanti nei confronti del lettore. Oppure individuano un capro espiatorio fittizio, umano o comportamentale, assolutamente insufficiente.

    Nessuno farebbe una fiction sulla perdita di petrolio della BP. Responsabilizzante, confusa, priva di personaggi umani ben riconoscibili.

    Vorrei dare uno spunto di riflessione, sperando di non sembrare OT. Mi è capitato recentemente di leggere di Faurisson e delle sue tesi negazioniste (a tal proposito, consiglio la lettura di un articolo, lungo ma ben scritto, che analizza minuziosamente le fallacie di Faurisson: http://www.anti-rev.org/textes/Fresco81a/ ) Come ci comportiamo nei confronti di queste narrazioni? Esistono dei caratteri formali per poterle riconoscere?

  3. La “teoria del complotto” è una storia tossica peculiare, diversa da quelle che ci offre la cronaca quotidiana. Lì la tossicità è dovuta a quello che chiamerei “effetto sala degli specchi”: uno specchio riflette uno specchio che riflette uno specchio, all’infinito. E’ un dispositivo totalizzante perché l’autoreferenzialità è spinta al massimo, e non c’è discorso se non il “metadiscorso”.
    In parole povere: si fa il dibattito sul dibattito sul dibattito sul dibattito. Oppure: si discute della legittimità del dibattito sulla legittimità del dibattito sulla legittimità del dibattito. Il più delle volte si “debunka” (= si smonta) lo scritto di un complottista che a sua volta “contro-debunkava” la tesi di un debunker che a sua volta smontava la tesi di un complottista che a sua volta… Tanti anni fa ci sono cascato anch’io, se ne esce soltanto tagliando il nodo con un colpo di spada, cioè: uscire di corsa, improvvisamente disinteressarsi di tutta la faccenda.

  4. […] I minatori di San José e la fiction istantanea […]

  5. @blepiro
    provo ad agganciarmi al tuo discorso sui personaggi. Gli stereotipi non sono di per sè malvagi, anzi. Possono catturare l’attenzione del lettore. Il problema è come li si usa: gabbie pregiudizievoli che avvelenano il racconto o punti di partenza a cui va rotta la crosta per guardare cosa ci sia sotto?
    Sulla semplicità sono d’accordo ma non sull’umani. Riuscire a scrivere, a narrare dei personaggi nella loro umanità vorrebbe dire riuscirli a guardare nella loro complessità, richezza e contraddizione. Su questo direi che i WM scrivono e studiano già da un bel pezzo, proponendo alternative interessanti al moderno fiabeggiare da cui siamo investiti.

    Una fiction sulla Bp potrebbe essere una bella alternativa al coma farmacatodico usuale, qualche idea? ;-)

  6. @belpiro
    provo anche io ad agganciarmi ad alcuni dei tuoi punti. L’empatia verso la vittima non è di per sé un fatto negativo, anzi, mi sembra sia uno degli strumenti più “autentici” che l’infotanement usa: il problema potrebbe risultare, invece, da un uso strumentale (cioè per affermare qualcosa di specifico) dell’empatia.
    Trovo interessante quello che dice @ezf: in questo senso, l’obiettivo dell’infotanement sarebbe appunto tenerti al tuo posto e “far tornare tutto alla normalità”.

    Non riesco a pensare alla narrazione come staccata dall’epica greca (è un mio limite) e dall’interpretazione del mito data dalla tragedia greca (e questo è un grosso limite, lo so): in questo senso, le narrazioni hanno sempre un punto di vista soggettivo e riguardano situazioni problematiche, rovesciamenti della sorte, punti di snodo che cambiano destini, equilibri che si stravolgono per sempre. Tutto questo nell’infotanement diventa il pretesto per una narrazione che non cambia il volto degli eventi. è come se la cronaca fosse, da sempre, rassegnata agli eventi (belli o brutti che siano).

    Da questo punto di vista, ho l’impressione che le narrazioni strumentali – il giornalismo e la cronaca prima di tutto – tendano a schiacciare tutto sull’attuale e a riproporre un modello univoco della realtà: accendendo la tv o aprendo un giornale sui fatti di cronaca, gli strumenti narrativi che trovo sono sempre apertamente “sgamati”: è come la pagina di nonciclopedia dedicata a “Studio aperto”, con l’inviata che fa sempre servizi che si aprono con la frase “doveva essere una festa, invece si è trasformata in una tragedia”.

    @ub
    qualcuno ci ha provato a fare una fiction sulla BP, ma non come l’intendiamo noi:
    http://www.youtube.com/watch?v=2AAa0gd7ClM

  7. C’è un altro fenomeno interessante su cui forse varrebbe la pena soffermarsi.
    La retroazione della fiction istantanea sugli eventi stessi sopra i quali si innesta. Essa irretisce i suoi stessi protagonisti, ne produce altri, è capace di modificarne il corso.
    San Josè. Senza la narrazzione planetaria, la mediatizzazione globale dell’evento, sarebbero giunti nel deserto di Atacama tecnici e strumenti hi-tech dalla Nasa e da mezzo mondo?
    D’altronde, in sedicesimo, perchè mai un povero cristo in mobilità o cassintegrato dovrebbe sbattersi sopra una gru o un tetto ad aggiungersi danno a danno, se non perchè se fai uno sciopero o un picchetto non ti si incula nessuno?
    Avetrana. Non la sentite, sottotraccia, quest’euforia trionfalista degli addetti ai lavori? Siamo stati noi. Siamo stati noi a farli crollare, a farli contraddire, altro che indagini, sempre col microfono sotto i loro musi assassini, con le telecamere a scrutare anfratti e sguardi sinistri.
    E in parte, dannato cazzo, hanno pure ragione, perchè i protagonisti di quella storiaccia sono stati in tv per quaranta giorni, tutti i giorni, con un atto volontario.
    O come i cazzoni che pestavano il down, in moto inverso, per andare a mettere le immagini su youtube.
    Perchè ognuno di noi, oggi, è reale. Ma è pure reality.
    L.

  8. @ub: hai ragione. La difficoltà del definire condizioni formali passa anche nell’equilibrio tra sintesi e precisione. Come dici tu, “stereotipo” non è per forza male: le narrazioni vanno avanti da sempre sugli stessi tòpoi. E’ proprio l’uso strumentale a cui fa riferimento sleepingcreep quando parla, giustamente, di empatia come qualcosa non di negativo, ma anzi alla base del narrare. La domanda è: come fare a riconoscere da caratteristiche formali/strutturali quest’uso strumentale della narrazione (tecnicizzato, se mi passate il termine) ?

    Vado a tentoni. Un primo passo sarebbe verificare se la storia problematizza lo stereotipo. Perché il problema non è usare il tòpos, ma indagarlo.

    Su quell’ “umani”: avevo in testa un passo del NIE sui punti di vista eccentrici. Gatti che raccontano, televisori McGuffin. Ecco, una cosa del genere, con elementi inumani che spostano il punto di vista non la ritroverai in una storia avvelenata. Anzi: allargando il discorso alla cronaca giornalistica, gli animali compaiono come umanizzati, ma mai usando la loro prospettiva (oppure ridotti a bestie, oggetti). Potrebbe essere interessante chiederci qual è il punto di vista della petroliera, ad esempio :)

    Più in generale, l’uso del punto di vista mi sembra peculiare. Si usa la terza persona, la telecamera inquadra la scena dall’esterno. Anche in questo caso, non dico che usare la terza persona significa raccontare una storia avvelenata, ma il contrario. E’ corretto?

    Per curiosità, mi piacerebbe prendere i tratti del NIE e ribaltarli meccanicamente, e vedere cosa viene fuori :D

    @sleepingcreep: ah, ma con la satira mi inviti a nozze :) quella è una modalità di narrazione specifica, che usa altre leve (lo scarto, la risata) per veicolare un punto di vista. E per questo può essere molto pericolosa, a volte, quando la battuta o la routine contiene elementi razzisti, fascisti, omofobi etc. Ma forse andiamo OT

    @WM1: capisco cosa vuoi dire. Da scienziato, non posso che avere fiducia nel metodo, scientifico o storico che sia: se applicato con rigore e onestà intellettuale è il miglior antidoto ai negazionisti, o ai creazionisti. In questo senso la verità sposta l’ago della bilancia nel rapporto di forza foucaultiano :) certo, la mia è una retorica come le altre :D all’atto pratico, lo scartare di lato è una soluzione sana, disorientante e molto efficace.

  9. io dico che già era stato fatto

    http://www.rassegnastagna.com/2010/09/12/los-33-il-reality-piu-famoso-del-mondo/

    questo è quello che già era stato percepito, in qualche modo iniettato, nella realtà. Il resto è sovrastruttura commerciale, il fatto che ci sia o non ci sia, può essere irrilevante.
    Il focus è nel durante. Mentre la narrazione si svolge, nel quotidiano andirivieni di informazione.
    E’ lì che s’avvera l’assurdo per regole precostituite, e accettate pacatamente.

  10. Una storia mi pare tossica quando tutt* fanno a gara per raccontarne la “verita’”. Quando tutt* fanno a gara per raccontarla, semplicemente. Una storia buona — potenzialmente — e’ quella che nessuno ha voluto raccontare — prima della prima narrazione.

  11. Il giochino che suggerisce Blepiro è molto interessante: rovesciare meccanicamente le caratteristiche elencate in New Italian Epic. Vediamo cosa può venirne fuori.

    1. Predominanza di cinismo e disincanto.
    2. Punto di vista frontale.
    3. Disgiunzione tra complessità e fruibilità: se c’è l’una non c’è l’altra e viceversa.
    4. “Fatalismo” e determinismo: le cose sono andate così perché così dovevano andare.
    5. Appiattimento del linguaggio. Un solo registro.
    6. Incasellamento immediato in un sottogenere, indicato con un neologismo prevedibile (“instant fiction”, “docufiction” etc.)
    7. Centralità di un medium “privilegiato” (la TV).

  12. Aggiungo (rovesciamento della “Morte del Vecchio”):

    8. Rifiuto di elaborare il lutto per la perdita del passato e del futuro.

  13. Tra una cattiva ed una buona storia passa sicuramente una differenza, e forse è proprio il concetto stesso di “differenza” a decidere della “bontà” della narrazione: una storia “cattiva” sarebbe perciò una storia senza “differenza”, una storia in qualche modo univoca, che non lascia spazio a del possibile, al congiuntivo come si diceva. Differenza che deve essere interna a se stessa: che si sprigiona dallo scontro delle sue componenti interne. Spesso e volentieri tutto questo ha a che vedere col “punto di vista”: la ricerca di una novità in questo senso è anche il segno della bontà, dell’apertura di una narrazione su di un orrizzonte nuovo. L’estraneità di quest’ultimo all’orizzonte “dei fatti” non va però confuso con l’assolutizzazione della prospettiva: c’è un differenza tra la “visione totale”, dove tutto è dato, e la “visione estranea” alla scena, che ci da un “taglio” che è sempre parziale. La TV ha, proprio come suo presupposto ontologico, come macchina tecnologica agganciata alla macchina capitalista, iscritto in sè questa “visione totalizzante” in cui tutto è dato: la TV non può contemplare un discorso che sia al di fuori di essa. Nel senso che tutto finisce per ritornarci dentro: perciò mi pare che essa più che “assumere” una prospettiva totalizzante, è davvero , in un certo senso, il totale.
    Questo perchè a mio parere la Tv (e le sue “narrazioni”) consiste findamentalmente in quella coltre di immagini e parole che, ricoprendo il mondo,lo sussume: è , bergsonianamente, l’immagine-virtuale del mondo.
    Se allora, sempre assumendo la prospettiva bergsoniana, la possibilità di dar vita ad una novità passa nello scontro-incontro tra virtuale ed attuale, il blocco delle virtualità “sociali” operato dalla Tv, produce l’annullamento di ogni possibile apertura (“differenza”).
    Questo perchè il circuito di attualità e virtualità è rovesciato, e succede che è l’immagine attuale ad essere dedotta da quella virtuale: queste finiscono perciò per equivalersi, ed in certo senso annullarsi (annullare la loro “potenza”). La storia dei minatori cileni perciò, doppiata dalle telecamere, diviene un’evento che è immediatamente televisivo: il racconto in “tempo reale” ne blocca ogni possibile apertura, lo lega a tutti gli stereotipi (negativi in questo caso) della narrazione di potere, agganciando l’evento al discorso televisivo stesso: è evento in quanto è raccontato dalla TV da un lato, e in quanto i suoi protagonisti “finiscono” in Tv. Non c’è un fuori da qui, non c’è una possibile storia buona, non c’è nient’altro che la televisione stessa: mi pare avesse ragione Daney: non è più “il potere delle immagini” ma una vera e propria “immagine del potere”. Tutti la guardiamo perchè essa ci informa di chi ha il potere, ma non si esce da lì: il mondo è interamente sussunto dalla tv perchè essa ne custodisce l’immagine virtuale che è il motore di ogni apertura.
    E’ un cazzo di dramma, e forse non basta spegnerla.

  14. @WM1
    analizzare la centralità della TV mi sembra un punto fondamentale: la TV rende spesso impossibile ritagliare un “frattempo”, anche peggio dello scorrere dei commenti in questo (o di qualunque altro) blog: tutto sommato, posso andarmi a prendere un caffé, farmi un giro o farmi una nuotata, e quando torno trovare la lista di commenti aumentata a dismisura. Poco male, mi siedo, tiro un sospiro e me li leggo tutti: mi sono ritagliato un “frattempo”. Così non funziona, ad esempio, col modello televisivo di informazione: non c’è contraddittorio, non c’è sedimentazione, è tutto nell’immediato, le risposte vanno elaborate alla velocità di uscita delle notizie e – se non riesci a starvi dietro – finisci per accettare le risposte che la stessa “informazione” ti da.

    E questo accade anche quando di notizie nuove non ce ne sono affatto: l’edizione della sera di un qualunque TG non è diversa dall’edizione del mattino con le stesse enfasi, le stesse sincopi, la stessa agitazione da “sta succedendo adesso, guarda!”

    Chiaramente parliamo di un modello televisivo perfettamente riscontrabile su internet (il sito di Repubblica.it è perfettamente dentro questo modo di comunicare) o sulla carta stampata: decine e decine di articoli che rimasticano quotidianamente le stesse notizie ANSA costruendoci attorno narrazioni più o meno verosimili, scandagliando ogni singola porzione di accaduto. Che poi, un po’ come nella “Lettera rubata” di Poe, agendo così, non si trova niente, solo la banalità del quotidiano. (che sta nella perdita del passato e del futuro, sì).
    Il problema è anche che, all’interno delle narrazioni dei quotidiani, non mi sembra esserci spazio per una “grande narrazione”: non c’è un orizzonte, dietro la casa non si vedono le montagne, il paese, la strada che porta al paese a fianco: l’oggetto è sempre piccolo, microscopico e staccato da ogni contesto/orizzonte.

  15. Una buona storia sviluppa le risorse interiori del lettore/spettatore gettando luce sul futuro poiché nutre fantasia e razionalità.
    Sceneggiare morbosità significa non mettere la parola ‘fine’ al termine della storia; vuol dire far entrare gli spettatori in un vortice di inutili discussioni. Parole al vento che non forniscono mattoni alle fondamenta della fantasia e della razionalità giustificando l’ipocrita morale collettiva.
    La privazione della vergogna, valico prezioso, lascia spazio a reazioni e parole violente, futili, insignificanti e prive di coraggio.
    Il ‘male’ in queste narrazioni è distante, impersonale, sfavorendo così un processo di elaborazione e conseguente crescita.
    La fine di una storia è uno strumento di discussione, un lume nella strada delle difficoltà quotidiane. Insomma, partire da un punto di vista per arrivare oltre.

  16. scusate se esco dall’ambito letterario per tornare al problema di partenza:

    http://www.youtube.com/watch?v=cecdSkML-xQ

    il prodotto venduto è lo stesso, si spiegano da soli anche il perché.

    Ma solo sul tg3 hanno intervistato il capo del sindacato dei lavoratori della miniera in questione? Lui ha spiegato naturalmente di essere felice per i compagni tratti in salvo ma che ora la compagnia che gestisce il pozzo è in bancarotta per le spese sostenute e manda a casa 250 (più o meno cito a memoria) minatori.

    Non guardo con assiduità i telegiornali ma se qualcuno ha sentito la stessa cosa su altre reti… giusto per vedere se una su sette mostra anche l’altra faccia della medaglia.

  17. * …se solo una su sette…

  18. Una domanda che mi viene spontanea è se si farà altrettanta caciara per i 16 poveracci che sono rimasti sotto una miniera in Cina.

  19. @WM1: ecco.. il rapporto con il passato e con il futuro è statico – come molti elementi dei commenti qui sopra evidenziano.

    La mancanza di Storia, nel senso di appiattimento in un eterno presente, mi pare una delle caratteristiche.
    Una buona storia indaga la genesi o il momento mutageno di qualcosa. Non il rassicurante momento di ‘lavoro a regime’ della macchina, che dà sempre quel sapore di qualcosa che si auto-riproduce perfettamente (quindi da sempre e, potenzialmente, per sempre). Una storia avvelenata elude la Storia e i suoi profondi interrogativi.

    L’aggettivo tossico, personalmente, mi riporta ai “toxic assets” dell’ultima crisi economica: erano titoli tossici proprio perché era scomparso dal dibattito l’elemento storico. Venivano eluse (aggiungerei: programmaticamente) domande fondamentali di senso: cosa sono?, da dove vengono?, perché sono stati creati?, dove ci porteranno? …

  20. Il punto mi sembra proprio che sia nel rapporto tra passato e futuro, sia in quel che riguarda la Tv ed il suo meccanismo, sia per quel che riguarda i soggetti più in generale: il futuro discende dal passato, perchè è proprio grazie a quel passato-mai-stato-presente (“virtuale”) che si origina un futuro possibile e “indeterminato”: la Tv blocca il passato. Non è che a causa del “tempo reale” essa è bloccata nel presente e quindi non conosce passato e futuro: piuttosto , proprio per il suo agire sempre qui ed ora essa lavora sul passato, costruisce il passato mai stato presente del sociale, bloccandolo. Se si trattasse semplicemente di un limite del “televisivo” di considerare passato e futuro, se si trattasse solo di uno schicciamento sul presente, non ci sarebbe “controllo”: il controllo esiste in virtù di un passato che viene creato, conservato e bloccato dalla televisione. La Tv potrebbe anche essere una fabbrica di passato che produce libertà, una fabbrica di un tempo creativo, e non distruttivo: perchè non lo fa? Bisognerebbe rispondere a questo….

  21. Sui fatti di San José mi ha colpito la drammatizzazione televisiva e la costruzione mediatica del “leader” dei minatori, che esce per ultimo. Come se anche (e soprattutto) le situazioni di emergenza siano fatte apposta per ribadire ed enfatizzare la figura del leader, dell’eroe standard, a scapito del fatto che si tratta non dico di una classe, ma di lavoratori che condividono una situazione di emergenza. Come se appunto le emergenze, le catastrofi, le crisi facciano sì che molte persone apparentemente lontane si riconoscano pericolosamente simili e sia necessario ristabilire subito la gerarchia. Se una fiction si occupasse si San josé, forse non sarebbe tanto una questione di istantaneità ad avvelenare la narrazione, quanto di immediatezza: se non ci fosse alcuna mediazione tra la condizione del lavoro in miniera, le storie dei minatori, l’incidente, la questione della sicurezza e la liberazione, le corporation etc. allora la fiction tradirebbe la storia dei minatori. Guarda caso in questi 70 giorni si è parlato di famiglie lontane, di calcio, del ruolo salvifico della tecnologia di recupero e la cosa mi rende un po’ prevenuto: se potevano andar bene dal punto di vista dei minatori, tutto risulta terribilmente fumoso e consolatorio per il nostro sguardo.

    C.

    Segue lungo PS – forse non troppo OT – a proposito di negazionismo e narrazioni:

    Mi è capitato stamane di leggere un articolo di Adriano Prosperi su Repubblica, che opera una sintesi mirabile e attuale del rapporto tra memoria collettiva e organizzazione del sapere storico. Prosperi riflette a proposito del prof. dell’università di Teramo che negava l’olocausto, e delle reazioni altrettanto nocive che ne sono scaturite, tipo quella di proporre una legge contro il negazionismo. Dice Prosperi:

    Sarebbe una vittoria postuma dei regimi totalitari sconfitti al prezzo di un’immane conflitto mondiale se nella nostra repubblica democratica si dovesse ricorrere alla barriera del codice penale per difendere dalle deformazioni e dagli errori la verità storica. La verità della storia è tutelata quando esiste la tranquilla coscienza che l’indagine degli storici ha per oggetto il passato come realtà di cose accadute. È solo così che si reagisce alla cultura del falso e dell’apocrifo, alla fabbrica della propaganda e della disinformazione, alla confusione deliberata tra ricerca del vero e «fiction», alla riduzione della storia a racconto piegato a piacere a seconda delle convinzioni soggettive.

    Condivido molto questa posizione, perderemmo la capacità di comprendere il trauma, di catalizzarlo, di raccontarlo. Saremmo narcotizzati da una sola verità senza l’invito ad attraversarla per quanto questa verità sia buona. L’unica cosa è che l’accenno alla fiction mi appare fuori luogo, e qui lo spunto mi si aggancia al discorso di WM2. Mi pare di trovare una duplice componente nel giardare a quel che accade. L’una storica rivolta, retrospettiva e genealogica, in cui il metodo di osservazione plasma i fatti rinvenuti e ne è a sua volta plasmato, organizzando un dato sapere e formando un paradigma. L’altra narrativa, prospettica e performativa che segue la posizione fiction-oriented di Rodari-WM2, secondo cui la storia incorpora e abilita forme di vita, possibilità narrative e di conoscenza ‘altre’. Ora, io non saprei come rispondere alle domande di WM2, credo sia una questione di metodo e sia importante tener conto di questi due aspetti, farlo in modo simmetrico e il più possibile simultaneo per comprendere la ‘farmaceutica delle storie’ (aberrazione linguistica che vorrebbe mettere in luce la commistione di cura e veleno). Non è, per capirci, che la buona miscela dipenda dall’ancoraggio ai fatti veramente accaduti, si tratta di cogliere come dite voi le crepe e della storia e mettersi in mezzo. Ho un vago ricordo di una bustina di minerva di Eco, forse di più di 15 anni fa, il cui nocciolo mi è rimasto però impresso: diceva che il lavoro intellettuale è tenuto vivo dal fatto che rimanga sempre uno spazio, un’apertura al discorso, un conflitto, una controversia. Ecco, storie senza crepe, pieghe, conflitti, controversie sono più che tossiche, radioattive.

    (perdonate la lunghezza, stamattina avevo letto il pezzo di WM2 su L’Unità e ci stavo facendo un post, poi ho visto la vostra discussione e ho deciso che aveva più senso trasporre il tutto qui)

  22. Uhm… Quindi Blepiro ha avuto un’intuizione feconda. *Rovesciando* le caratteristiche osservate nei libri poi descritti con il nome di comodo “New Italian Epic”, si ottiene… ciò che dà a tutte le “storie tossiche”, anche diverse tra loro, un’aria di famiglia.

    [En passant, lo chiedo a chi è filosoficamente più “quadrato” di me: quest’azione che abbiamo appena compiuto può definirsi “dialettica”?]

  23. @WM1
    dipende dal paradigma di riferimento. Ad ogni modo: quest’operazione mi sembra dialettica, nel senso che hai preso un elemento A (il decalogo del NIE) opponendolo ad un oggetto B (l’instant fiction). In questo modo ne hai ottenuto una definizione dell’oggetto B che parte da una opposizione ad A. La cosa che rende questo un esempio di buona dialettica è che non si è soltanto negato A, ma lo si è usato per definire B. Quindi i due termini sono antitetici ed in lotta tra loro su dei termini specifici, fermo restando che possono usare dei terreni comuni o delle armi simili: appartengono allo stesso piano, ci convivono, ma lottano tra loro.
    Da questo punto di vista (molto “francese”, se mi passate il termine), sì, è dialettica.

  24. Roberto, è impressionante.
    Indirettamente, questo rafforza il caratteri del NIE che hai individuato. Sembra che, a livello più o meno conscio, gli autori NIE abbiano cercato delle strategie anche formali per opporsi alla narrazione dominante, creando modalità alternative di narrazione. In un certo senso, non siamo noi che facciamo dialettica, ma loro, le loro opere. Il che, a pensarci, è assolutamente coerente.
    Questa sorta di polarità tra New Italian Epic e Old Global Media (;)) è affascinante. Non so quanto questa suggestione sia valida, o sia piuttosto il risultato degli occhiali che indossiamo. Del resto, l’opposto di un insieme di caratteristiche sono svariati (infiniti) insiemi di caratteristiche complementari.
    Però facciamo una piccola verifica. All’inizio del saggio proponi il NIE come risposta a un certo postmoderno. E in effetti un tratto del postmoderno mi sembra essere una relazione mimetica nei confronti della comunicazione dei media, della narrazione dominante (inizialmente per esplorarla).

    (se la cosa è feconda come dici, può funzionare anche al contrario: individuati i tratti dell’OGM, si negano, e vediamo nebulose, tra cui anche quella NIE, ma non solo- è un modo per verificare l’esistenza anche di *altre* modalità di scarto)

  25. Provo a mettere sul tavolo un’ulteriore considerazione.
    Al termine del suo pezzo, davvero stimolante, Wu Ming 2 auspica che il racconto dei minatori non si riduca a un “reality show”, quale narrazione velenosa per antonomasia (aggiungo io, il pezzo è più sfumato). In questo senso il “reality” potrebbe tranquillamente essere descritto come il genere di narrazione che condensa, in forma rovesciata, le caratteristiche del NIE.
    Ora, mi chiedo se non occorra fare ulteriori distinzioni, ipotizzando ad esempio che vi sia anche una buona narrazione di genere “reality”. Provo a spiegarmi. Nel suo bel testo sulle narrazioni televisive nell’epoca della convergenza (“Il Testo espanso”, Vita e Pensiero, 2009) Stefania Carini scrive: “Reality e Quality Tv sono generi opposti, dal risultato artistico differente, ma entrambi sanno riflettere al meglio la seconda estetica della Tv. Reality e Quality Tv sono testi densi, caratterizzati da una serialità spinta, una complessità dell’intreccio, un virtuosismo visivo” (Precisazione: con Quality Tv si intende la nuova narrazione televisiva seriale americana, che oggi indubbiamente rappresenta un grande esempio di narrazione audiovisiva di altissima qualità). Non è troppo sbrigativo liquidare come facciamo spesso (l’ho fatto che io) il reality in sé come genere de-genere, ontologicamente avvelenato? Non dovremmo pensare (almeno a livello di genere) nei termini di modalità differenti di narrazione che indagano la complessità del reale con modi e temporalità differenti? Se così fosse dovremmo allora porre il problema di una distinzione ulteriore: cosa distingue una narrazione reality avvelenata da una no.

  26. @ Simone:
    Credo che l’ipotesi in via teorica non basti. Per fare una distinzione come quella che suggerisci avremmo bisogno di esempi di reality “positivo” o “non avvelenato”. A me non ne vengono in mente, ma non sono un buon osservatore della tv, magari all’estero ne esistono.

  27. Vorrei riprendere il discorso sull’empatia verso la vittima, perché mi sembra centrale. Quest’empatia, come s’è detto, può essere usata strumentalmente nelle storie tossiche: molte narrazioni costruite per giustificare interventi umanitari sono nate in questo modo. Quello della vittima, d’altra parte, è uno dei ruoli fissi della narratologia classica. Eppure sento che proprio nel rapporto benefattore/vittima si annida una tossina. Dietro l’empatia per la vittima fa capolino il disprezzo, dietro la pietas uno sguardo dall’alto, autocompiaciuto di non essere vittima, barbaro, straniero. Direi allora che nelle storie tossiche l’emancipazione delle vittime non avviene mai attraverso un’idea, un pensiero, una strategia politica, un progetto di futuro, ma sempre e solo grazie all’intervento umanitario dei buoni, dei saggi, dei civilizzati. Nelle storie tossiche c’è il male senza uno straccio di idea del bene comune, fosse anche solo per elaborare il lutto di averla smarrita… Questo, secondo me, dovrebbe far riflettere molti autori di fiction criminale, giallo, noir e compagnia bella.

  28. @Wu Ming 4
    Non posso spingermi più in là di una semplice ipotesi teorica da non scartare a priori, perché anche io non mi sono mai messo a studiare i “reality”, benché da tempo mi ripeto che sarebbe opportuno farlo. Però, ecco, mi chiedo se non si debba almeno porre la questione circa la possibilità di una narrazione reality non avvelenata e quindi, a partire da qui, poi, andare a vedere se ci sono esempi che vanno in questa direzione. Qualora poi non ve ne fossero si tratterebbe ancora di capire se questa mancanza implica che quel tipo di narrazione è in sé ontologicamente avvelenata oppure se è avvelenato l’uso che ne viene fatto.

  29. @Simone: sugli aspetti positivi di certi reality hanno scritto ottime pagine sia Jenkins (il capitolo intitolato “I guastafeste di Survivor” in Cultura Convergente) sia Steven Johnson (“Tutto quel che ti fa male ti fa bene”). Il limite di queste analisi, però, è che si concentrano solo sugli aspetti cognitivi e partecipativi. Ad es: per seguire alcuni reality bisogna tener dietro a un intrico di relazioni, essere capaci di leggere un testo con numerosi personaggi, ecc. Un veleno dal quale mi sembra difficile depurare i reality, ad esempio, è il voyeurismo, ovvero la de-responsabilizzazione permanente dello spettatore.

  30. @Wu Ming 2: sì conosco bene i due testi, e concordo con il tuo giudizio. Sul voyeurismo invece non sarei così netto: è un elemento essenziale del piacere estetico e non è detto che automaticamente deresponsabilizzi chi vede. Ma sarebbe una discussione enorme.
    Evocavo il reality per capire non tanto se ci siano buoni reality in giro (da quel che vedo direi proprio di no) ma per porre la questione se il reality come genere narrativo che spesso, e direi sempre più, si innesta su questioni di cronaca non abbia alcune buone potenzialità narrativo-conoscitive oppure se debba essere escluso a priori per una serie di ragioni che possiamo enunciare. Io davvero non lo so. E mi interesserebbe confrontarmi sul reality come macchina narrativa (oltremodo potente).

  31. @ WM1
    Non so se sia “dialettica”, perché la parola stessa è infida. Se la usiamo per dire che ogni cosa ha più di un aspetto, e più di una possibilità, allora sì: nel senso, mi viene da dire, di Adorno e Mao (e anche del Professore, ma…). È che questa maledetta parola porta quasi sempre con sé un sentore di finalismo.
    Finalismo che, nella narrazione “ingenua” che Blephiro/WM1 hanno categorizzato benissimo, viene fuori alla grande. Tutta la commozione, questa specie di reality, questo “Vermicino 2 – Il buon finale” che sembra scritto da Gavino Sanna (http://www.youtube.com/watch?v=UKk4Zaw61eU&feature=related) si lascia alle spalle un altro racconto: quello di un mondo in cui non ci sia bisogno di andare a 600 metri sottoterra per guadagnarsi un piatto di pasta. Un mondo così, insomma: http://www.youtube.com/watch?v=6FQXO27AyBI.
    Questi minatori erano lì sotto perché i loro padri e i loro nonni erano lì sotto, e lì sotto saranno i loro figli. In questa narrazione non c’è alcuno stimolo a pensare che le cose potrebbero essere diverse: tanto più che la buona tecnica al servizio dell’uomo si dimostra in grado di ovviare ai rigurgiti della Natura Matrigna.
    Io lo show del salvataggio non l’ho guardato: però ho pensato a Tom Jones, figlio di minatori gallesi, che firma il suo primo contratto discografico, va dal padre e glielo dice con queste parole: “da domani non scendi più in miniera a lavorare”.

  32. “un mondo così, insomma” è riferito al mondo narrato dal reality minerario, a scanso di equivoci

  33. Interessantissimo post, come sempre, e con commenti altrettanto interessanti, vorrei anzi definirli spalancanti.
    Credo si sia già detto molto e molto bene qui sopra, e non avendo una tv da 7 anni (lo so, è sbagliato) non ho nessun contributo da dare sullo specifico televisivo. Vorrei solo aggiungere una breve riflessione su “fecondo” e “avvelenato” parlando delle più elementari regole di sceneggiatura, che sono poi le regole di qualsiasi “fabula”: una storia è più avvincente e amata da chi l’ascolta (-legge-vede etc.) quanto più il protagonista CAMBIA dal punto di partenza iniziale a quello finale. Credo che una cattiva storia sia quella che ti tiene attento solo nell’adrenalina del momento mentre quella buona sia quella che ti resta dentro perché il piano non è “c’è un infringimento nel continuum temporale (dei minatori restano bloccati sotto terra / un uomo sposato si innamora di un’altra donna) e poi tutto torna come prima (i minatori sono salvati, il marito vive un’avventura e poi torna dalla moglie)” ma al contrario l’evento che spezza il continuum (che a volte anzi spesso nelle “favole” è un atto di disobbedienza) è un pretesto per un cambiamento interiore violento ma fecondo.
    Credo che nel primo caso la storia sia avvelenata nel senso che serve solo a rassicurarci, a tranquillizzare con una narrazione esterna e quindi superficiale rispetto a noi le nostre piccole e a volte meschine paure quotidiane che rafforzano il nostro senso di noi contro voi, familiare contro esterno, nazionale contro estero etc., mentre nel caso di storie dove il protagonista compie un atto di “coraggio” o si macchia di una “colpa” siano quelle che producono in noi una capacità di evoluzione. So che mi sono espressa in modo troppo sintetico ma non vorrei rompere di prima mattina e sono certa che avete capito benissimo ;o)
    @sleepingcreep: il tuo commento sui minatori cinesi è geniale..

  34. Penso che ci sia un discrimine abbastanza preciso dato dalla “libertà del fruitore”. Nelle storie, che Blepiro etichetta come OGM (mi piace l’assonanza con gli organismi mutanti da laboratorio!), mancano spazi di libertà: c’è IL buono, IL cattivo, LA vittima, LA causa, IL finale, ecc.
    Tutte le interpretazioni ammissibili (e non possibili) sono già date e qualsiasi commento non può che sottolineare quanto sia d’accordo con l’interpretazione ufficiale o al più il suo disaccordo, ma obbligato a rimanere minoranza indegna.
    Qui abbiamo i “poveri minatori” vittime non di un sistema che li costringe a, oppure di un padrone che se ne fotte delle regole minime di scurezza, ma di pura sfiga. Dall’altra parte c’è il sistema globale tecnologico che si impegna con tutte le sue forze a salvarli. Che poi sia lop stesso sistema di produzione e sfruttamento che ne ha causato la disgrazia è tema da tralasciare assolutamente: guai a far notare questa contiguità. Il sistema è buono perchè salva i minatori, quelli che invece muoiono (in Cina ma mica solo lì!) sono sfigati, non vittime di quello stesso sistema che non ha trovato, nel loro caso, motivi di marketing sufficienti a farlo agire diversamente.
    Il discorso scivola verso una critica del sistema produttivo, ma il problema di un pessima storia sta proprio lì: non deve lasciare spazio a questi scivolamenti: tutto si svolge in un binario prefissato dal quale guai a scostarsi.
    Dove non c’è il binario (vedi il caso dei reality con voto popolare) c’è una sorta di pseudo democrazia che impone scelte anch’esse piuttosto scontate: sopravvive chi si adegua alla massa, al “pensiero” (ammesso che ve ne sia traccia) condiviso dai più, all’omologazione al ribasso del “comune sentire”.
    Insomma tutto è dato fin dall’inizio: causa, effetto, vittima ed eroe, soluzione, finale e pure le emozioni che dovrai provare, le simpatie/antipatie che dovranno risvegliarti i personaggi, le critiche che potrai muovere!

  35. A un certo punto bisognerà riassumere questo thread, raggruppare e sintetizzare le varie “caratteristiche” proposte, e farne un nuovo post.

  36. @WM1
    Concordo con Girolamo sulla questione “dialettica”, ma non sono ferrato in filosofia. Forse è una questione di traduzione, di trasformazione. Mi viene in mente il saggio di WM2 nel NIE: forse il vostro testo funge da agente di trasformazione sulla sensibilità narrativa di chi l’ha letto e così facendo offre criteri per valutare se un’opera è avvelenata o meno.

    Sulla questione dei reality di qualità discussa da WM2 e Simone, e la mancanza di spazi di libertà su cui rifletteva Francesco. Per come (che io sappia) è stato concepito finora, il reality produce un meccanismo spettatore-protagonisti standardizzato, fondato sull’eliminazione e il premio finale al vincitore. La casa è compartimentata, tipo gabbia di zoo e non permette andirivieni e fuoriuscite: chi sta fuori guarda gli animali dall’alto del suo divano e risulta certamente deresponsabilizzato. In questo caso, la situazione di San José era l’ideale dal punto di vista della macchina mediatica del reality per ribadire quel meccanismo. Magari i reality possono sganciarsi da questo modello pseudodarwiniano eliminazione-successo, dalla compartimentazione degli spazi e dall’enfasi sul senso della vista. Poi però penso che questo ha già luogo attraverso le telecamere a circuito chiuso delle città e mi chiedo, senza retorica, se questi materiali diffusi possano essere utilizzate per qualcosa di diverso dalla sorveglianza e dall’invasione nella privacy altrui.

    C.

  37. Insomma, tagliando i fagiolini riflettevo che comunque c’è da fare i conti, nella pratica, con un dispositivo. Ecco quel che volevo dire.

  38. @WM1: gli appunti per una sintesi li sto prendendo io. Nel fine settimana sono assediato dai pupi e ho poco tempo per commentare attivamente. Però leggo e mi segno proposte e categorie in un file a parte.

  39. Perfetto!

  40. @WM1: sì, dovete prendere il commentarium e distillarne un post.

    @simone: la penso come WM4. Reality “sani” non ne vedo, e probabilmente è un limite costitutivo, ontologico. Anche in questo caso, narrazioni alternative sono quelle che mimano il reality con fini parodico-satirici. Mi viene in mente “L’isola dei cassintegrati” ( http://www.isoladeicassintegrati.com/ ) con i lavoratori che occupano per protesta l’Asinara. Ma in questo caso il reality è fittizio, è una strategia retorica molto efficace che gioca proprio sul contrasto tra il falso mondo televisivo e la dura realtà di lotta (il sottotitolo è “il blog dell’unico reality reale, purtroppo”). Un esperimento interessante, NON un reality (non viene eliminato nessuno, non c’é il coinvolgimento tramite votazione del pubblico, non c’é una ripresa video continua e voyeuristica, non c’é un confessionale, non ci sono i “personaggi”, etc).

  41. Certo un reality sul “dietro le quinte” di Fitzcarraldo, con Jagger che va nel confessionale e racconta gli scazzi tra Herzog e Kinski… Boh, forse ne verrebbe fuori una roba interessante. Voglio dire che i “making of” sono potenzialmente dei buoni reality.

  42. @WM2
    a questo proposito mi viene in mente il trailer di Dogville con le interviste agli attori che scleravano e dicevano che Von Trier era completamente pazzo… quello mi sembrò un esperimento molto interessante di decostruzione del cinema e del reality.

    http://www.youtube.com/watch?v=b2RyA_7cnzg

  43. @WM2 e sleepingcreep: interessante. Però ho delle resistenze, in questo caso, a parlare di reality. Caratteristica fondamentale di tutti i reality televisivi è la selezione, la gara, il “ne resterà soltanto uno”, in genere associato a votazioni dal pubblico. Se si toglie questo elemento, non è diverso da una particolare forma di documentario.

  44. @blepiro
    capisco le resistenza. In effetti, forse ci converrebbe focalizzarci sul fatto che non esiste “reality” che non sia “reality show”: quanto è elemento del “reality” e quanto dello “show” in quello che critichiamo? cioè, esiste una narrazione autonoma “realitystica” che nella sua “spettacolarizzazione” non venga avvelenata?

    (ovviamente, mi tengo per me le considerazioni debordiane sul concetto di show/speccacolo, che pure mi partirebbero a mitraglia).

  45. Credo occorra provare a distinguere reality tv da reality show, quale forma di reality tv o sottogenere. E’ chiaro che si tratta sempre, in una certa misura, di “spettacolarizzare” la realtà e non semplicemente di restituirla. Ma una certa spettacolarizzazione è parte del processo di esposizione televisiva come ricordava anche Derrida in “Ecografie della televisione”. Oltre ai suggerimenti di Wu Ming 2 credo sia urgente (almeno per me lo è) pensare a una buona reality tv in riferimento a casi come quello di minatori di San José, vale a dire a una narrazione aperta in presa diretta.

  46. @simone e sleepingcreep: grazie, adesso mi è più chiaro :)

  47. Interessante la domanda sulla possibilità di un reality non tossico. Penso che un reality non tossico sia un controsenso. Se non è tossico, se non crea dipendenza, non credo che possa funzionare come prodotto televisivo. E la televisione, non penso sia un luogo dove si produce un racconto non tossico della realtà. E questo lo diceva bene Pasolini qui:
    http://youtu.be/FCMlx0pkiOM

    Mi è venuto in mente il film The Truman Show di Peter Weir con Jim Carrey.
    Mi scuso per lo spoiler se c’è qualcuno che non l’ha visto e dico solo che pur avendo un finale consolatorio (Truman si ribella al suo mondo, al suo creatore e alla narrazione a cui lo avevano condannato e, parafrasando Christof, non accetta la realtà del mondo per come si presenta) è un film in cui il linguaggio cinematografico e quello televisivo si incontrano/scontrano e il risultato è che alla fine la fiction istantanea passa, il film, forse, resta. :-)

    Qui un link con il trailer
    http://youtu.be/NkZM2oWcleM

  48. Fino all’arrivo sul piccolo schermo di “Hill Street giorno e notte” si pensava che la fiction televisiva dovesse necessariamente presentare narrazioni non troppo articolate, composte da episodi con una sola linea narrativa. Poi le cose sono cambiate, ed oggi ci troviamo di fronte alla nuova serialità americana che ha dato vita a narrazioni di altissima qualità, in alcuni casi veri a propri capolavori in grado di produrre racconti non-tossici della realtà: penso ad esempio a “The Wire”.
    Sono convinto che nel campo della reality tv possa accadere qualcosa di analogo. Lo dico anche pensando al fatto che essa sarà sempre più presente, sarà sempre più una parte costitutiva della realtà: inutile esorcizzarla. La categoria di “spettacolo” di Debord è ai miei occhi assolutamente inadeguata per pensare la trasformazione ontologica che sta subendo la realtà presa nei dispositivi di esposizione mediatica. Per parte mia credo anche che non sia troppo utile nemmeno evocare continuamente il Panopticon. L’epoca della transmedialità è molto più complessa e articolata, almeno ai miei occhi. Come nell’ambito della fiction seriale si può creare una narrazione tossica del tipo “Medico in famiglia” ma anche una narrazione straordinaria come “ER”, lo stesso credo si possa fare con la reality tv: pensate a una narrazione in presa in diretta dei minatori si San José che incorporasse nel proprio racconto anche una linea politica trasformandosi così in un buon racconto nazionalpopolare. Non credo sia impossibile, si tratta solo di rendere più articolata la narrazione della reality tv, che oggi tende all’iper-semplificazione. Sul reality show sono più pessimista, ma non è detto che la dimensione di video-game presente in esso non possa evolvere in direzioni impreviste.

  49. Precisazione: io penso che la televisione (che oggi si è staccata dal televisore) sia il media narrativo per eccellenza.

  50. ops, il “medium…”

  51. Tornando alla domanda iniziale “cosa distingue una buona storia da” (discussione interessantissima).

    Una buona storia parla anche di te che la ascolti, non necessariamente perchè hai vissuto un’esperienza simile, ma perchè qualcosa nella sua complessità ti tocca, e dà parole a quello che finora non ne aveva ancora.
    Una storia velenosa fa di te l’osservatore compiaciuto/disgustato/scandalizzato/invidioso, mentre i protagonisti stanno in un’altra sfera.

    Ho pensato ad Alice Sebold in questi giorni, a come ha inventato e raccontato con sguardo profondo ed empatia la storia della ragazzina uccisa e violentata a pochi metri da casa, e buttata in un pozzo. E all’osceno ronzio della storiaccia che ci viene propinata mattina mezzogiorno e sera.

    Una buona storia ha silenzi e pause, e punti a capo. Una storia avvelenata il frastuono senza fine della musica di fondo di un centro commerciale, non deve farti capire, deve spingerti a consumare, a ingozzarti di dettagli e di rumore.

  52. @simone
    Anni fa (circa 12) Silvano Agosti mi chiese: ma a te non interesserebbe accendere la TV e poter vedere in diretta cosa accade a Mosca o Parigi?
    La domanda resta valida e ora direi che non siamo più nel regno dell’ipotetico. E’ così: accendo la TV e sono in Messico. Posso essere d’accordo sul fatto che la televisione è un medium potentissimo ma
    il punto è che viene a mancare il frattempo di cui scrive WM2.

    Ammetto di non conoscere “The Wire”, e che ci sono produzioni di qualità e fattura differenti, rifletto soltanto sul fatto che il rischio di una *narrazione dall’alto* dell’evento che si vuole raccontare è fortissima.

    Per me i reality show sono rivoltanti.

  53. @ Simone Regazzoni

    C’è una differenza tra fiction televisiva e reality. La differenza è il meccanismo narrativo che si va a innescare. La fiction si dichiara tale ab origine, mentre il reality, come dice la parola, pretende di essere realtà, o almeno di scimmiottarla, flirtando col giornalismo o con il rotocalco voyeuristico a seconda dell’occasione e del modello prescelto. Temo che questa caratteristica contenga un limite strutturale, che è in effetti molto connesso al mezzo televisivo e che è quello di cui parla yamunin. Su Debord e il panotticismo la penso come te, ma in uno dei commenti precedenti si citava Pasolini, che sulla tv dice una cosa molto diversa: dice che la tv non è un medium democratico, perché è una forma di comunicazione totalmente gerarchica. C’è chi emette e chi riceve. Nessun ritorno. Oggi il reality fornisce al pubblico l’illusione di questo ritorno, la retroazione (e questa è la chiave del suo successo) sia attraverso il voyeurismo, l’ingresso nelle vite altrui (sempre grazie a un mezzo di comunicazione di massa eterodiretto) sia attraverso il toto-personaggio e il televoto della sua variante “reality show”. Ma appunto è una finta. Ciò che accade davvero è che l’emittente ti offre delle scelte apparenti sulla base di un canovaccio/copione variabile, dal quale non è possibile esulare. Molto probabilmente un buon reality, del tipo che tu immagini per i minatori di San José, sarebbe anche possibile, ma sempre a discrezione esclusiva dell’emittente, di chi stabilisce il frame nel quale la narrazione deve andare a iscriversi. E comunque sempre concentrandosi sul “tempo reale”, appunto, che non è il “frattempo” di cui abbiamo bisogno per metabolizzare e ragionare sulle cose. Insomma modalità comunicative connesse strutturalmente al medium e contenuti della narrazione del “reale” non sono mai del tutto scindibili e, anzi, direi che in questo caso sono radicalmente interconnessi.
    In effetti se dovessi pensare a un “reality” in cui le regole sono saltate davvero e la narrazione ha preso il sopravvento sul mezzo e sulla regia, be’, mi vengono in mente soltanto le dirette televisive del crollo delle Twin Towers. Quel reality rimane insuperato sia dal punto di vista spettacolare sia da quello narrativo, simbolico, e chi più ne ha più ne metta.

  54. Dando un’occhiata alla pagina di wikipedia sui reality show (http://en.wikipedia.org/wiki/Reality_show) viene da pensare che, in effetti, qualcosa di buono si potrebbe fare anche con questa categoria, per esempio nei sottogeneri “Ricerca di un lavoro”, “Sport” e “Esperimento sociale”. Chissà… Il discorso sulle pause, i silenzi, il frattempo è comunque fondamentale. La diretta 24 ore su 24 – e il voyeurismo potenzialmente infinito che ne scaturisce – ha un contenuto tossico molto elevato.

  55. Sulla categoria di “spettacolo” sono pienamente d’accordo con Simone. Non è nemmeno una categoria, a dire il vero. E’ una parola passepartout al cui significato Debord allude senza mai definirlo, a dispetto delle apparenze e degli “effetti” persuasivi ottenuti grazie allo stile. “Spettacolo” è volta per volta un quasi-sinonimo di “capitalismo”, di “alienazione”, di “reificazione”, di “finzione”, di “rappresentazione mediatica”, di spettacolo propriamente inteso, di “vita mercificata” etc. Il nitore epigrammatico dello stile nasconde una completa assenza di rigore.
    Infatti il Luther Blissett Project definì La società dello spettacolo una “ridda di definizioni cruciverbali” la cui soluzione era sempre “spettacolo”. Anche le parole crociate sono nitide, stilisticamente impeccabili.
    E la retorica situazionista è come il gioco delle tre carte: se contesti un significato occasionale, ti si risponderà usandone un altro. Lo “spettacolo” è sempre *altro* da quel che avevi capito tu. Anche questa è una forma di “fisica dell’alibi”.

    Jacques Rancière ha fatto notare dove stia il problema: in Debord lo spettacolo è principalmente *esteriorità* al soggetto. La menzogna è esterna a noi. Il soggetto (l’umano) vivrebbe nella verità (la vita vera) e sarebbe in ogni momento capace di ogni verità, se non trovasse la menzogna subito fuori da sé, nel “rapporto sociale mediato da immagini” (immagini che sono costitutivamente, ontologicamente false). Il Soggetto è come Pinocchio che esce e incontra subito il Gatto e la Volpe (cioè le immagini della società capitalistica). Siccome la società capitalistica è tutt’intorno e le immagini pervadono l’intero scenario, tutto l’esistente è menzogna esterna al soggetto e indifferenziata. Praticamente, ogni problema, ogni oggetto, ogni accadimento si spiega con la società (dello spettacolo) che falsifica, reifica, corrompe etc.

    [Ma, come ha scritto qualcuno, “lungi dal costituire il principio o l’approdo di ogni spiegazione, la società necessita essa stessa di essere spiegata. Lungi dal costituire un punto d’arrivo, la società è ciò che di essa fanno in ogni epoca i discorsi e i dispositivi di cui è il ricettacolo.”]

    Finché, negli anni del boom (a partire circa dal 1957), tutto sembrava in espansione, finché lo sviluppo sembrava senza limiti (va ricordato che all’epoca i situazionisti erano apologeti dell’automazione), finché c’era in giro la speranza di un grande sommovimento sociale e la retorica più diffusa era quella rivoluzionaria in tutte le sue varianti, Debord e i situazionisti non avevano problemi a vedere intorno a sé i potenziali protagonisti dell’agire collettivo che avrebbe posto fine allo spettacolo. Nell’ultima parte del suo libro più famoso, Debord indica i… consigli operai come via d’uscita dallo spettacolo.

    [E viene da dire: c’era bisogno di tutti gli hegelismi, le feuerbachate e gli infiorettamenti dei capitoli precedenti per arrivare a dire che ci vogliono i consigli operai?]

    Il maggio ’68 è, ovviamente, l’apice di questo approccio. Ma quando arrivano gli anni del riflusso e della crisi, quello situazionista diventa (e aggiungo: inevitabilmente) un pensiero che corteggia l’impotenza, che si crogiola esteticamente nell’impotenza, e riduce l’azione radicale alla descrizione dell’impotenza stessa. Il Debord dei “Commentari” (1988), cupo e paranoico, dipinge il grande complotto di una totalità reificata in cui il soggetto è isolato e circondato, ogni suo moto di rivolta è “recuperato” e diventa ennesimo elemento dello spettacolo totalizzante.

    Poiché la totalità è nemica, è nemico (o comunque non-amico) tutto ciò che vi accade dentro. Così si spiega la “cultura del sospetto” tanto diffusa tra gli eredi e gli epigoni, tra i post-situazionisti: chi pensa che si possa (si debba) lottare per ottenere conquiste parziali, risultati concreti nel breve e medio periodo, e per giunta lo fa senza pagare pegno alla retorica situazionista, giocoforza diventa un agente di questa totalità, una carogna, un “recuperatore” al servizio dello spettacolo. In Francia c’è chi è arrivato a dire che lo stesso proletariato è sempre stato una classe controrivoluzionaria!
    Questa “cultura del sospetto” ritiene accettabile solo la vaga (ma stilisticamente impeccabile) enunciazione di un agire che abbia come scopo la “fine dello spettacolo”, di qualunque cosa si tratti.

    Pensare che la menzogna sia esterna a noi significa non sapere come funziona la nostra mente. Non esiste pensiero fuori da cornici concettuali (frame), che guardacaso sono composte da immagini, da metafore. Non esiste una verità “nuda”, de-iconizzata, de-mitizzata, pensabile interamente fuori da queste cornici (e dal gioco di dispositivi di una data epoca). Non esiste alcuno “spettacolo” esterno a noi. Qui è la grande diversità, l’inconciliabilità tra il nostro approccio e quello di Debord e dei post-situ. Uno dei motivi per cui ci viene da ridere quando qualcuno, per mancanza di termini migliori, ci definisce “situazionisti”.

    E non può esistere un soggetto sovrano invariante che possa proferire questa supposta verità anti-spettacolare. “Ciascun uomo può pensare solo nel modo in cui pensa la propria epoca. Aristotele, Sant’Agostino e perfino Bossuet non sono capaci di insorgere contro la schiavitù; alcuni secoli più tardi è una condanna che appare scontata.” (Jean d’Ormesson). Se non si capisce questo, se non si capisce che esistiamo come soggetti solo dentro dei dispositivi, che oltre ad agire siamo agiti e oltre a parlare siamo parlati, e che *è sempre stato così*, non è una perversa macchinazione del capitale e dello “spettacolo”, allora non si capirà nemmeno in quale direzione forzare per *pensare in modo diverso* e *dire altre cose*.

  56. @ Wu Ming 4, in linea di massima concordo, le tue perplessità sono attualmente anche le mie (anche io ho pensato subito alle Twin Towers: là dove il reale era troppo forte, oltremodo traumatico la narrazione ha preso il sopravvento sulla regia). Concordo anche sulla necessità del “frattempo”: non si vede lontano che da lontano, l’obiettivo schiacciato – nello spazio e nel tempo – sulla realtà ci colpisce, suscita emozioni forti, ma abbiamo poi bisogno di un’altro sguardo per vedere. Di un altro tempo per sviluppare una visione.
    Detto questo, resto interessato a sondare anche quel terreno, proprio a partire dalla sua specifica spazio-temporalità. Costruire pensieri e narrazioni che sviluppino le potenzialità di quella spazio-temporalità mi sembra una bella sfida. Anche se in questo momento mi mancano i mezzi teorici per approfondire seriamente il discorso.

  57. Scusate i refusi, non è serata…

  58. Ecco il docu-reality.
    http://www.digital-sat.it/new.php?id=23671

    Mi lascia perplesso, dovrei farmi ancora un’ idea su questo genere di reality… Si può salvare dalla sua “tossicità” il raccontare storie come queste?

  59. @ superpu
    direi proprio di no, anzi, quella porcheria mi sembra la quintessenza del “tossico”…

  60. A proposito del raccontare in tv e al cinema vorrei ricordare il lavoro e la teoria della Monoforma di Peter Watkins, un regista che ha provato a raccontare in maniera diversa.

    “La Monoforma è pensata per intrappolare – per catturare e trattenere l’attenzione del pubblico per periodi prolungati di tempo – ed è concepita in modo da creare risposte pre-determinate. Ciò significa che prima ancora che il pubblico veda qualunque film o programma televisivo monoforme, i produttori già sanno in che modo reagirà (o almeno, queste sono le loro intenzioni). Al pubblico, non sono permesse reazioni che possano differire da quelle previste e create ad hoc.”

    Estratto dal sito del Milano Film Festival di quest’anno dove sono stati proiettati 6 pellicole del regista inglese. Davvero notevoli.

    http://www.milanofilmfestival.it/2010/programmapersezioni/peterwatkins.php#programma

    Qui il suo sito (lingua inglese).

    http://pwatkins.mnsi.net/index.htm

    OT Causa lavoro mi sono perso tutte e tre le date del mini tour in UK? Qualcosa in audioteca in futuro, maybe?

    Complimenti a tutti.

  61. @ Sergio,
    maybe. E comunque a Londra (e anche altrove in UK) ci torneremo nel 2011, ormai siamo degli aficionados.

  62. penso che la televisione, anche quella dei buoni telefilm di grande respiro possegga una caratteristica tossica di natura selvaggiamente subdola. I protagonisti di questi telefilm, anche i personaggi più positivi, ma anche quelli la cui ambiguità è fondamentalmente la storia stessa (es. Dexter) mostrano una caratteristica comune: ci danno la sensazione di aver provato la sensazione liberatoria del personaggio che riesce a combattere e sconfiggere i propri demoni, quali essi siano (malattie, clienti, giudici, killers, ecc.) dandoci una scossa adrenalinica positiva. Il problema è che nel momento in cui dovremmo prendere il posto di quel personaggio ed entrare in gioco, sullo schermo inizia un ‘altra puntata o un altro telefilm e rimaniamo incollati alla poltrona. Quando la serata è davvero finita abbiamo un energia addosso che ci sentiamo come Sordi in Un americano a Roma quando esce dal cinema e sicuramente vorremmo dare una svolta alla nostra vita. Ma il telefilm non ci dà nessuno strumento in questo senso, la vicenda è lontanissima dalla nostra storia e dai nostri orizzonti. Siccome sappiamo che fra una settimana tornerà una nuova avventura “positiva”, aspetteremo tranquillamente in poltrona che la settimana passi. è quella che si chiama una droga ad alta assuefazione, ovvero una droga che è anche il miglior anestetico possibile.
    la televisione esaurisce i significati, non possiede stimoli casuali come fanno le storie scritte. in questa discussione il mezzo è stato quasi escluso, invece è fondamentale. qualcuno l’ha scritto, non ricordo chi: l’appuntamento fisso è parte integrante della tossicità del reality, in qualsiasi forma esso sia stato pensato. è anche vero che la motivazione dello spettatore (e del lettore) è la stessa: come andrà a finire? voglio vedere una morte in diretta o mi basta che qualcuno me la racconti? è come nella fossa dei leoni: si sa cosa si va a vedere.

  63. […] ragiona sui totalitarismi narrativi: «Da cosa si riconosce una storia avvelenata? Prima di tutto, non sa […]

  64. Due note. Nel libro (pessimo) di Filippo La Porta da poco uscito per Bollati Boringhieri (“Meno letteratura, per favore!”) c’è un paragrafo del terzo capitolo dedicato al “reality book”. Tra pochi giorni, come sicuramente sapete, uscirà JAST di Ghinelli, Rudoni, Sarasso che si presenta come il primo serial tv su carta. Qui credo sia interessante vedere che cosa ne viene fuori, al di là dei giudizi che si possono dare sul lavoro di Sarasso (per me ha una straordinaria potenza narrativa).

  65. Questo mi sembra un esperimento interessante, “24hoursBerlin”

    http://moreintelligentlife.com/node/2050

    80 telecamere a Berlino che girano per la città, da cui scaturisce un documentario lungo 24 ore.

    Certo, come si diceva, c’è la preparazione, il montaggio, il racconto, il frattempo.

  66. bella la direzione espansiva di questo commentario.

    @simone: posso chiederti, in breve, cosa è un reality book? Per La Porta, ma non solo (ho come l’impressione che lui viva in un universo parallelo, non mi interessano le opinioni dei klingoniani)

  67. In completo ritardo. Una storia di successo celebra solitamente la normalità, a svantaggio di una atipicità dei personaggi. Prendiamo 300: alla fine i suoi protagonisti sono eroici perché si comportano da veri (?) spartani. Ovvero il vero eroe è colui che riesce a essere normale. In questo mi sembra che una serie come Dexter sia un buon esempio di pessima narrazione accostata a un buon uso del linguaggio cinematografico da serie tv americana (plot originale, storia di fondo, brevi storie risolutive).

  68. Mi aggancio alla discussione a partire dall’affermazione di WM4 a proposito dell’11 settembre. Io non sono molto d’accordo quando dici che in quell’occasione ” la narrazione ha preso il sopravvento sul mezzo e sulla regia”. Per me è successo proprio il contrario, l’11 settembre il mezzo televisivo si è palesato proprio in tutto la sua completezza (forse è stato un vero e proprio canto del cigno) e la regia non è mai stata così presente e complessa.
    La precisa narrazione (“l’attacco all’Occidente fa si che nulla sarà come prima. Per cui diamo il via ad una serie di guerre illegali per debellare il terrorismo. Chi non è con noi è contro di noi”) che ne è scaturita è stata la conseguenza delle scelte di regia (ad esempio la ripetizione incessante di un’immagine “monolitica” che ha favorito l’elaborazione del trauma, iscrivendolo al tempo stesso nell’orizzonte dell’immaginario come unico sfondo possibile, o la cancellazione delle immagini dei morti) e delle condizioni di funzionamento proprie del mezzo.
    Se è vero che i media audiovisivi contemporanei funzionano in base ad un assunto ben determinato, quello per cui è necessario “vedere tutto, vedere tutti, vedere ora (in tempo reale)” (Dinoi), allora la narrazione che i mezzi di comunicazione audiovisiva hanno fatto dell’11 settembre ne rappresenta la massima realizzazione.
    Alla visione totalizzante corrisponde un’obliterazione del punto di vista (che, in quell’occasione era tutto interno all’occidente) e la cancellazione del fuoricampo cognitivo di quell’evento. Conseguenza di questo stato di cose è la neutralità, quella che per WM2 è una delle caratteristiche venefiche della narrazione.
    Alla visione “democratica”, al “vedere tutti” corrisponde, invece, il processo di atomizzazione del pubblico, il suo farsi audience, che è proprio del “reality show” (il televoto come rilevazione statistica volontaria). E’ anche grazie a questo meccanismo, alla consapevolezza che “tutti stavamo assistendo”, che si è potuto giocare nella narrazione dell’evento il frame del “o con noi o contro di noi”.
    Infine resta il senso della visione “in tempo reale”, che come fa giustamente notare Derrida, è un senso puramente ipotetico, in quanto la diretta è, in realtà, sempre differita e quindi non può funzionare come garanzia dell’im-mediatezza della narrazione (i fischi al re di Spagna eliminati “in diretta” durante la finale di Coppa del Re di qualche anno fa sono la prova di come la regia ed il mezzo, in questo caso in maniera grossolana, facciamo valere sempre le loro istanze).
    Il problema consiste dunque, a mio parere, nel mettere in discussione i paradigmi di funzionamento dei mezzi, qualora questi indulgano nel proporre narrazioni (testualizzazioni) venefiche della realtà.

  69. @ Giorgio: in che senso “una storia di successo”? Noi qui si parlava di “buone storie” vs “storie tossiche”, con un’analisi che definirei est/etica. La dimensione economica in termini di vendite o di diffusione finora non l’avevamo presa in considerazione.

  70. @ blepiro: io non ho la minima idea di che cosa sia un “reality book”, e anzi devo dire che la formula mi piace poco, molto poco: anzi, la abolirei subito; vista la nostra discussione mi limitavo a segnalare che qualcuno, La Porta, aveva coniato questa formula per dire, banalmente, che vi sono libri di fiction in cui, a un certo punto, irrompono elementi di realtà riguardanti il narratore.
    Per quanto riguarda la nuova serialità americana, io credo che si possano apprezzare più o meno le serie tv, ma che occorra riconoscere che in ogni caso siamo di fronte a narrazioni di indubbio valore – in alcuni casi veri e propri gioielli narrativi.

  71. @ Flavio,
    ma è successo fin da subito, questo? Oppure la regia mediatica è riuscita a ri-incanalare una situazione inizialmente selvaggia? A me sembra che la ri-composizione di quelle immagini in una narrazione “finalizzata” sia iniziata non in tempo reale e in presa diretta, ma dopo uno scarto di qualche ora in cui l’evento aveva “spaccato” il formato. Faccio un esempio concreto e che tutti ricorderanno: le riprese delle persone che si gettavano nel vuoto. Ce le hanno mostrate perché il tempo reale imponeva le sue esigenze. In seguito, però, quelle sequenze sono state rimosse, mai più ritrasmesse. O almeno, a me non sembra di averle mai più riviste.
    Ancora: nelle prime ore di copertura televisiva abbiamo visto un sacco di cose, l’aereo in avvicinamento, molte angolature, variegate riprese della strada e delle persone ricoperte di polvere bianca. Col passare del tempo, quelle immagini hanno lasciato il posto a un’immagine sola, a una Sequenza Unica, l’unica consentita perché centrale per la narrazione “tossica” che andava prendendo forma: il crollo delle torri. E pluribus unum. E qui, hai ragione, è magistrale l’analisi di Marco Dinoi ne Lo sguardo e l’evento.

  72. @WuMing1: poni una domanda assai interessante e dai una risposta che mi sembra convincente. Accennavo a Derrida, proprio in questo senso. Così come la diretta è sempre una differita, anche nel caso specifico la regia è venuta dopo. Ma questa situazione è inevitabile, costitutiva del mezzo televisivo, non credo basti per affermare che in quel caso la realtà sia riuscita a rompere il dispositivo. Anzi, il fatto che quella specifica regia, quella narrazione che Marco analizza così bene ne Lo sguardo e l’evento, si sia imposta in maniera invisibile testimonia proprio del suo successo sull’evento. Nel caso della finale di Coppa del Re il risultato fu grottesco e la regia spagnola si attirò molte polemiche. In questo caso si potrebbe dire che l’evento sia riuscito a prendersi una piccola rivincita sul dispositivo.

  73. @ Flavio: trovo difficile parlare di “regia” fin da subito, in questo senso l’evento dell’11 settembre è stato almeno doppio. Il primo evento è quello che è accaduto quando ancora non c’era “sapere” rispetto al reale traumatico che irrompeva, ma solo una narrazione aperta, dispersa, molteplice, attorno a un buco nero. Lì la televisione secondo me si è mostrata in tutta la sua forza di medium narrativo capace di narrare il reale, con tempi di reazione narrativa straordinari. Lì non c’era regia perché essa implica sapere e programma, e in quel momento mancavano. Il secondo evento è stato invece la “costruzione” dell’11 settembre, cioè quello che precisamente dici tu. Una storia avvelenata, tossica come le polveri delle torri.

  74. Solo per chiarire: non ho parlato di rottura di un dispositivo, ma, più modestamente, di un formato (nel senso proprio di format televisivo).

  75. Noi non “ricordiamo” più l’11/09.
    Ricordiamo il 12. La sua ricodificazione. E il 13. La sua soluzione. Dopo 48 ore si sapevano già nomi e cognomi di tutti i “colpevoli”.
    Sacrosanto, ci sono minuti e minuti di immagini mai più mostrate. Quella diretta è stata davvero selvaggia.
    L.

  76. @Simone: sono d’accordo con te. Va detto, però, che la distanza tra il primo ed il secondo momento dell’evento è stata brevissima (l’arco di poche ore), e questo per il mio giudizio è un fatto determinante.
    Hai ragione anche sul termine “regia” (l’ho usato con troppa leggerezza), non solo è difficile da usare, ma anche pericoloso perché può indurre a pensare che vi fosse, appunto, una “regia occulta” dietro a certe scelte, ma l’ipotesi complottista è sempre reazionaria ed inadeguata. Forse sarebbe meglio parlare di “azione configurante del linguaggio televisivo”, che tende alla semplificazione anche in virtù del suo rapporto privilegiato con le narrazioni “egemoniche” (politiche, economiche) della realtà.

  77. E’ vero Luca, non ricordiamo l’11, abbiamo quasi solo il ricordo di copertura codificato del 12. E tuttavia credo che l’11 si sia incistato in noi, grazie alla narrazione reality del primo evento. C’è da rendere grazie alla tv per questo, lo dico seriamente. Di fronte a Ground Zero, a Manhattan, nel 2008, io ho sentito riaffiorare l’evento dell’11. Ho pianto vergognandomi delle mie lacrime. Non capivo da dove diavolo venissero, ma credo venissero da lì, dal primo evento.

  78. @Wu Ming1: generalizzazione mia (sorry).
    @luca: noi ne ricordiamo una versione. Solo quella, sempre quella, anche quando ne celebriamo gli anniversari. Il cinema ha provato raccontare versioni alternative (11’09”01), e la letteratura? Avete qualche esempio di narrazioni letterarie alternative all’11/09?

  79. @ wm1

    solo perché hai citato Dinoi: per me il suo libro è difficile, almeno adesso, e con una sola lettura, fatta tempo fa. Però io non capisco quel “sembra un film”; cioè lui dice “per lo spettatore televisivo”. Io di tv ne ho vista molta, adesso di meno. Ma non credo di aver mai pensato di star vedendo un film. Ma se è troppo ot, oppure hai in mente una riflessione futura aspetto.

  80. @ paperinoramone,
    è indubbiamente una lettura non facile, ma ti ricompensa di (quasi) tutta la fatica. Anch’io l’ho letto tempo fa, ma prima o poi voglio tornarci sopra, e in quell’occasione chissà, magari riuscirò pure a risponderti :)

  81. @paperinoramone:
    forse posso risponderti io (con Marco ho discusso la mia tesi di laurea ed ho seguito i suoi corsi quando stava lavorando al libro). Il passaggio che non capisci si riferisce non tanto alla reazione dello spettatore singolo, quanto al simulacro di reazione collettiva che era stato messo in scena nella narrazione dell’evento.
    Alcuni commentatori si riferirono alle immagini che venivano da New York proprio in quei termini, costruendo una cornice concettuale in cui la comprensione dell’evento, volenti o nolenti, si inserì.
    Dinoi riprende l’intuizione di Zizek, secondo cui l’11 settembre era già stato prefigurato nell’immaginario occidentale dal cinema catastrofico, e riflette sul cambiamento avvenuto nell’ambito dell’esperienza spettatoriale.

  82. Manhattan era già stata attaccata varie volte in diversi film che predatano di pochi anni l’11 Settembre. Su tutti, “Godzilla” e “Attacco al potere” (quest’ultimo anticipò nel 1998 molto di quel che accadde dopo).

  83. @ flaviopintarelli

    intanto grazie; poi penso che darò un’occhiata in casa tua. Mi ricordo che alle superiori mentre stavamo guardando matrix la prof o chissàchi disse che i terr.sti erano stati ispirati da. Ma chissà come c’è arrivato Zizek a noi, a quel tempo :-).

    poi dico una vera stronzata. Un collettivo di scrittori non animisti potrebbe organizzare un reality in divenire mentre scrivono un romanzo, e i concorrenti sarebbero un tot di personaggi di partenza, che verrebbero eliminati cammin facendo dagli spettatori. eh?

  84. @simone: grazie. Sono d’accordo con te:reality book è da cestinare. Un problema in meno :)

    Sull’11 Settembre “senza filtro”: quindi un possibile “reality non tossico” potrebbe essere qualunque tipo di filmato (o narrazione) imprevisto, un evento improvviso che irrompe nella scena, una discontinuità a cui la “regia” non sa far fronte. Non sa organizzare secondo le categorie di Dinoi/Chimenti. Nel caso dell’11 Settembre, il crollo delle torri.
    Mi tornano alla mente i minatori. Le televisioni di tuto il mondo pronte a filmare il salvataggio- e la possible tragedia, se qualcosa fosse andato storto. Certo, la tragedia in quel caso era un evento possibile, i media erano preparati, anche in senso retorico. Chissà se avevano pronti dei coccodrilli.

  85. Simone.
    Sono d’accordo. Molto.

    Butto lì una cosa sulle riflessioni precedenti.
    Secondo me Annozero è un reality. Lo è diventato.
    Con dinamiche anche interessanti.
    L.

  86. @paperinoramone: in effetti, i WM sul sito di Manituana rilasciarono una registrazione di una loro riunione, come esempio concreto del loro lavoro di scrittura. Però un reality non glielo auguro :D

  87. david foster wallace:

    […] Ma il fatto è che le signore di Bloomington sono, o cominciano a sembrare innocenti. Nella stanza c’è quella che colpirebbe molti americani come una inconsueta assenza di cinismo. A nessuna delle presenti viene in mente neppure una volta di notare che forse è un po’ bizzarro che i presentatori di tutti e tre i telegiornali siano in maniche di camicia, o che i capelli arruffati di Rather non siano un fatto al 100% casuale, o che certe sequenze spettacolari magari vengano ritrasmesse ininterrottamente nell’eventualità che alcuni telespettatori si siano appena sintonizzati e non le abbiano ancora viste. Nessun’altra pare accorgersi che gli strani occhietti spenti di Bush sembrano avvicinarsi costantemente l’uno all’altro durante tutto il discorso registrato, né che alcune delle sue frasi suonano identiche al limite del plagio a quelle pronunciate un paio di anni addietro da Bruce Willis (nella parte di uno svitato estremista di destra, notate bene) in Attacco al potere. Né che almeno in parte lo shock delle ultime due ore deriva dalla precisione con cui varie inquadrature e scene hanno rispecchiato le trame di qualunque cosa dai tre episodi di Die Hard a Air Force One a Debito d’onore di Tom Clancy. Nessuna è abbastanza sarcastica e sofisticata da presentare l’ovvio, perverso reclamo postmoderno: Tutto Questo L’Abbiamo Già Visto. […]

  88. io mi ricordo lo scazzo via mail, ma che c’è anche l’audio?

  89. @paperinoramone: sei il benvenuto.
    @luca: annozero un reality? in che senso?

  90. Sui tempi del passaggio dal “primo” evento reale 11/09 al “secondo evento” costruito, forse ha ragione Flavio: sono più rapidi di quanto si possa pensare. Però ci terrei a tenere anche il primo evento e a capire come ha funzionato lì la tv. Nonostante tutto quello che è venuto dopo, poco dopo, ce ne ricordiamo, almeno nella misura in cui l’evento “ci ricorda”, cioè ci fa ricordare dove eravamo. Quasi tutti si ricordano dove erano l’11 settembre: e questo “ricordarsi” ha a che fare con il “primo evento”, con la reality tv non ancora intossicata.
    E’ vero che in quelle immagini era inscritta una memoria filmica: non solo nelle immagini, ma nell’immaginazione della cosa stessa nella mente di chi la ha concepita. E tuttavia non è stato “come” vedere un film, il come dell’analogia filmica nella prima visione non ha attenutato il colpo, ci ha reso possibile vedere la real-fiction della cosa che in realtà è stata la produzione di un quasi snuff movie. Chi ha prodotto l’11 settembre lo ha fatto per produrre l’immagine dell’11 settembre, dunque ha dato la morte per produrre immagini.

  91. @ tuco
    qui c’è DFW che legge “The View from Mrs. Thompson’s House”:
    http://www.sonn-d-robots.com/dfw/readings/Consider-the-Lobster.mp3

    @ paperinoramone
    sul “Livello 2” di manituana.com, nella sezione “Officina”, ci sono svariati mp3 coi momenti più interessanti di alcune nostre riunioni di lavoro (tutte del 2005, se non ricordo male).

  92. @ wm1

    grazie, piu’ tardi me lo ascolto con calma

  93. a proposito della miniera di san josé, e della regione di atacama in generale:
    http://www.pagina12.com.ar/diario/sociedad/3-155225-2010-10-18.html

    come si vede, di storie ce n’è una quantità, a cercarle.

  94. ma è da paura!!! ( in questo momento sono il re dei bimbominkia )

    @ luca

    annozero in effetti ultimamente fa un po’ strano, poi San Toro parla sempre di spettatori, e quando si è messo a cantare Gaber ho dovuto cambiare canale. E quando ci sono le vignette di Vauro lasciano gli sghignazzi ( per carità leciti ) di Travaglio e inquadrano il solito “nemico” per vedere se ride.

  95. Certo che il termine ‘evento’ già parla da sé, ma mi pare anche dalle discussioni che si sono accavallate che sia impossibile ricostruire l’evento e il ricordo dell’evento dell’11 settembre in senso cronologico. Forse può aiutare considerarlo in senso cairotico, cioè legato all’occasione, alla qualità del momento, a qualcosa che sfalda categorie temporali di sequenzialità. (le instant ficion in questo senso possono andare bene, ma è la qualità di quell’istante che conta, il modo in cui riorganizza la temporalità)
    Nella mia esperienza l’11 settembre incorporava nel momento della sua origine un brodo narrativo quasi primordiale, mi entrava nelle viscere profonde come qualcosa di indicibile. Come ha fatto poi a stabilizzarsi nell’immaginario della guerra preventiva e nell’operazione enduring freedom?

  96. Credo che una delle caratteristiche delle storie velenose possa essere la saturazione, un eccesso di spiegazione che oblitera la possibilità di nuovi significati.
    L’idea di storie velenose o tossiche, anche nella scelta dei termini, rimanda al deposito/sedimentazione di scorie non bonificabili/elaborabili, forse il rifiuto di elborare il lutto per la perdita di passato e futuro di cui parla WM1 consiste proprio in questa incapacità di confrontarsi con la perdita.
    A proposito delle competenze per distinguere una storia non velenosa, rubando una metafora di Scaparro sul gioco propongo una mia ipotesi di risposta. Credo che una storia commestibile presupponga che tra la storia ed il fruitore della stessa esista la possibilità di gioco, come tra un dado ed una vite, ovvero un legame reciproco, non necessariamente simmetrico, sulla base di comuni regole, che conservi uno spazio di movimento altrimenti c’è troppo gioco o troppo poco.
    Chiedo scusa se le riflessioni sono un po’ affastellate, sono ancora un po’ poco abituato allo strumento.

  97. Touché. Per storia di successo intendevo storia tossica, ma ripensandoci anche quelle di Orson Wells erano di successo. Quindi ritiro il successo. O meglio, diciamo che il lato economico è evidentemente importante (abbasso la complessità della storia, vendo di più) ma non basta. Una storia semplice può non essere tossica una storia complicata lo può essere. Una complessa difficilmente. Per esempio il real-plot messo in atto per i reality mi sembra osservi questo dispositivo, tendendo al banale. Però il ribaltamento del NIE è un’ottima idea. Adesso però, per il momento dialettico: quale caspita è la sintesi?
    Una forma di narrazione del contemporaneo difforme? Voi per esempio vi siete misurati (in modo prudentissimo) con il contemporaneo poche volte. Idee sulla questione?

  98. @Simone: i due momenti non possono essere separati. La potenza del secondo non potrebbe dispiegarsi senza il primo a fargli da garante.

    Sono anche d’accordo con te sul fatto che l’11 settembre non sia stato come vedere un film. Piuttosto il cinema ha funzionato come un immaginario al quale la narrazione tossica che di quell’evento è stata fatta ha potuto attingere per rafforzare ed proporre una determinata risposta. Molte scelte che sono state prese in seguito a quei fatti (patriot act, enduring freedom, ecc) sono così apparse non solo ragionevoli, ma anche familiari, dovute, necessarie, anche perché facevano parte di una sceneggiatura già vista.

    “Chi ha prodotto l’11 settembre lo ha fatto per produrre l’immagine dell’11 settembre, dunque ha dato la morte per produrre immagini.” Se si pensa un momento a queste tue parole l’11 settembre non è poi molto diverso dall’ontologia fotografica come la pensano Barthes e Bazin.

  99. “Se si pensa un momento a queste tue parole l’11 settembre non è poi molto diverso dall’ontologia fotografica come la pensano Barthes e Bazin.”
    Però, Flavio, la maggior parte di quelli che seguono la discussione non coglie questi riferimenti. Io stesso non so in cosa consista l’ontologia fotografica di Bazin. Non te lo dico perché voglio che me lo spieghi, ma solo per rimarcare che finora siamo riusciti (forse non sempre, ma quasi sempre) a citare testi e autori spiegando anche a grandi linee cosa dicono, o dando comunque elementi perché gli altri possano approfondire. Sforziamoci di mantenere il tutto comprensibile.

  100. @ Flavio: non se se sia impossibile separarli, sicuramente è difficilissimo, e senza dubbio il secondo evento costruito non è meramente posticcio, ha forza perché attinge al primo, è una narrazione che riscrive l’Urtext dell’11. Per questo funziona bene e non si lascia banalmente demistificare o decostruire: occorre una contro-narrazione che torni all’Urtext.

  101. Lasciamo pure stare il riferimento a Bazin, che avrebbe sicuramente parlato di “pornografia”, centrando il punto.

  102. Per chi non mastica il tedesco (non lo mastico nemmeno io ma so quattro parole in croce): “Urtext” = testo che precede tutto il resto. In tedesco il prefisso “ur” indica qualcosa di primigenio, di originario.

  103. @ Giorgio: Forse il nostro testo che più si avvicina all’istant fiction è Momodou, anche se ci sono circa 5 anni di frattempo tra l’episodio reale (l’uccisione di Mohamed Khaira Cisse) e il racconto che abbiamo scritto. Lì, per esempio, adottammo una polifonia di punti di vista e un montaggio “all’indietro”, dalla fine all’inizio, proprio per creare quel “gioco” tra realtà e finzione narrativa che permette al lettore di non sentirsi “saturato dagli eventi”. Inoltre, quel tipo di montaggio mi pare annulli “l’illusione retrospettiva di fatalità”: nessun evento è determinato da quel che lo precede, è tutto un esplodere di possibilità, di congiuntivi, almeno nella testa di chi legge, e il baratro, invece di essere “in fondo”, è all’inizio, negli antefatti della vicenda, e quindi nel suo significato profondo.

  104. Vorrei riprendere il commento di axolotl, più sopra. Dice:

    “A proposito delle competenze per distinguere una storia non velenosa, rubando una metafora di Scaparro sul gioco propongo una mia ipotesi di risposta. Credo che una storia commestibile presupponga che tra la storia ed il fruitore della stessa esista la possibilità di gioco, come tra un dado ed una vite, ovvero un legame reciproco, non necessariamente simmetrico, sulla base di comuni regole, che conservi uno spazio di movimento altrimenti c’è troppo gioco o troppo poco.”

    La suggestione del gioco è molto interessante. In realtà, come dice WM2 nel saggio “la salvezza di Euridice”, un lettore può portare una critica trasformativa anche a una storia tossica (cioé riscrivendola). Magari, una storia tossica, come dicevi tu, axolotl, in qualche modo cerca di nascondere gli snodi da cui possono partire storie alternative. Ma l’idea di questo “legame reciproco, non necessariamente simmetrico, sulla base di regole comuni” è molto calzante nell’ambito del simbolico. Nel saggio sul NIE si parla diffusamente del concetto di allegoria aperta, profonda, allegoria a chiave e allegoritmo. Ecco, questo corpo a corpo tra lettori e narrazione potrebbe avvicinarsi al concetto di allegoritmo, una suggestione feconda ma sfuggente.
    Torniamo alla domanda iniziale: come dev’essere una storia tossica, dal punto divista simbolico? Pre-codificata. E codificante in un senso univoco. A chiave, appunto. L’allegoria aperta somiglia, ancora una volta, a quell’Ur-text dell’immagine di cui parlate, alle torri che cadono *prima* di venire codificate e addomesticate (e ancora una volta, l’immagine è in apertura del saggio sul NIE -ma tu guarda). Ci stiamo avvicinando all’evento quando ancora è ricco di possibilità, nella sua totalità e durezza.

  105. Ripescando dagli appunti che sto prendendo, via via che il commentario procede, vedo che già qualcuno aveva scritto che una storia tossica è “senza crepe”, qualcun altro ha detto “senza pause e silenzi”, e poi ancora la questione del “gioco”, come spazio tra gli elementi, ma anche tra il fruitore e la storia. Infine l’allegoria aperta vs chiusa. Ecco: direi che una “buona storia” offre mille appigli per la sua trasformazione critica, mentre se vuoi trasformare una storia tossica, gli appigli devi andarteli a cercare tutti “fuori di essa”. Potremmo dire che ci sono “storie rugose, che invecchiano bene” vs “storie lisce, perché si fanno il lifting”.

  106. @WM2: occhio, che il liscio e lo striato sono forse l’inverso :D

  107. Provo a spiegare, terra terra, la boutade reality-annozero.
    Già da parecchio ormai, il format annozero dura tutta la settimana, al di là della sua messa in onda il giovedì. Si tratta di una sorta di Santoro True Life Show. Chi lo attaccherà questa settimana? Andrà in onda? Il premier riuscirà a farlo arrestare, o pagherà un sicario per ucciderlo? E il sicario è Masi? O Feltri e Sallusti?
    I politici dichiarano, le commissioni di vigilanza si riuniscono, i Tar deliberano, i giornali scrivono, la rete si mobilita.
    Una quota crescente di pubblico viene attratta da questo meccanismo. Che ha senza dubbio un aspetto stucchevole e autoreferenziale, voyeuristico e autoreplicante.
    Ma…
    Il professionista è bravo, e il format ha un suo specifico.
    E’ una specie di Mourinho: attira attenzione morbosa del media system, alza al massimo la tensione, compatta la squadra e la fa rendere più che si può.
    E, oggettivamente, fa irrompere in tv (purtroppo la nostra) soggetti e materiali visivi e temi che ne sono stati espulsi da un bel po’, e con ascolti da grandi numeri tipo partita della nazionale. Come ad esempio le operaie Omsa dell’ultima puntata. Che secondo me erano straordinarie. E vere.
    Ma riuscirà ad andare in onda giovedì, oppure….?
    L.

  108. @WM2, mi fai pensare che probabilmente il liscio e lineare sono la quintessenza dell’artefazione e al tempo stesso l’effetto di realtà supremo.

  109. @blepiro: sì, bisognerà cambiare terminologia ;-). Però la storia che invecchia, con le sue rughe vs la storia che vuole sembrare giovane, mi fa pensare alla differenza che aveva tirato fuori maurizio vito, diversi commenti fa: le storie tossiche sono quelle che tutti si affannano a raccontare, mentre le buone storie vanno sempre “ripescate”.

  110. A proposito di reality/fasullity e storie tossiche, accettando il rischio di OT, non posso non segnalare quanto sentito cenando:
    1. Sarah (con zii, zie, cugine, ecc.) il cui cadavere viene stuprato e “destuprato” in diretta o poco meno; giallo in diretta dove il pubblico è invitato a televotare il colpevole

    2. l’arresto del “pugile capitolino” con amici e pubblico che esprimono il loro televoto salvandolo in quanto “bravo ragazzo” e “cose che possono succedere” e relativa intervista al fratello della vittima con pesante accento romeno e viso nascosto

    3. le viende antiguane che dovrebbero essere di B. ed invece diventano di Report: reato di lesa maestà, narrazione irrispettosa, giornalismo di inchiesta? … Ma tra le tre cose c’è veramente una differenza sostanziale?

  111. Di “crepe nelle quali potersi infilare per raccontare” avev(am)o già cominciato a parlare a proposito di calciatori “fondatori di discorsività”, quindi mi trovo d’accordissimo… (Anche in quei commenti si trova forse qualcosa di utile a questa discussione)
    Frequento il linguaggio dei libri molto più di quello della TV, quindi chiedo a chi è più esperto di me se la “tossicità” che – mi sembra – riscontriamo diffusamente nei reality show dipenda dal medium utilizzato. Più chiaramente: può la TV narrare storie non tossiche? Possiamo, cioè, attraverso il “medium TV” narrare storie non tossiche? O abbiamo bisogno di un altro linguaggio, di un altro modo di mediare/comunicare l’immagine? L’immagine “vista” è meno feconda dell’immagine “letta”? (Torniamo ai saggi sul NIE…)

    (Aggiungo, in margine che sono tossiche, a mio parere, anche le narrazioni molto ma molto “ombelicali”, asfittiche perché a darsi arie è solo l’autore mentre la storia muore, rantolando, e i personaggi languono e sospirano sperando che arrivi presto la fine)

  112. @danae
    la butto lì tenendo sempre bene a mente la lezione di pasolini sulla TV come medium di massa , quindi non democratico (cfr il link a you tube che ho postato qualche commento fa), dico che la Televisione è il luogo in cui più difficilmente c’è la possibilità di creare storie e narrazioni non tossiche. E’ il medium che non ce la fà, “unn’è cosa sua” si dice dalle mie parti. A meno che, come fa notare Luca prendendo spunto dal *fenomeno reality* Annozero, non ci sia all’interno del ‘prodotto televisivo’ qualcuno che non crei uno slittamento da qualche parte. Ma è comunque un fenomeno limitato e che comunque non è sicuro che dia maggior spazio allo spettatore. Spazio e tempo per creare il distacco di cui scrive WM2. Il frattempo non c’è, non si scappa, temo. Il tempo per creare delle *rughe* non credo sia contemplato.
    Ad esempio un altro che ha giocato alla grandissima con la TV è stato Carmelo Bene, ma anche lui dall’interno e in un modo non replicabile.
    Spero di non essere andato in OT.
    ‘notte a tutti e grazie per il gran lavoro.

  113. @ Francesco i-Q

    “reato di lesa maestà, narrazione irrispettosa, giornalismo di inchiesta? … Ma tra le tre cose c’è veramente una differenza sostanziale?”

    No, Report al livello dei reality proprio no. La differenza c’è eccome, se per Annozero il dirscorso può reggere per il lavoro della Gabanelli mi sa che sei fuori strada…

  114. Sorry: evidentemente mi sono spiegato male: la domanda su un’eventuale differenza riguardava queste tre cose “reato di lesa maestà, narrazione irrispettosa, giornalismo di inchiesta” non i tre punti elencati. IL fatto che in entrambi i casi rientrasse il tre è una pura coincidenza… cabalistica forse, ma casuale! ;-)

  115. Quello che intendevo dire è che si risponde ad un’inchiesta giornalistica seria (che per ciò stesso è se non lesa quantomeno messa in dubbio della maestà e narrazione irrispettosa) con una sorta di “reality” nel quale si addita la diffusione di informazioni e dubbi come propaganda ed attacco ingiustificato. Non si risponde alle domande ne si ribatte alle accuse: si rimette la cosa al “televoto popolare” che deciderà, in base all’audience ed alle simpatie, se quanto espreso dai giornalisti sia vero o meno, credibile o meno, rilevante o meno.

  116. Appunto lessicale: più che liscia o ruvida, gli aggettivi migliori potrebbero essere materico / anodino. L’uno esprime la pluralità di superfici, l’altro l’inconsistenza di carattere della narrazione.

  117. Domanda: non è che sbagliate l’impostazione riguardo alla questione del “ritardo”? Provo a spiegarmi meglio: la Televisione mi sembra che consista specificatamente nell’assenza del ritardo: la televisione è il “video” in “tempo reale”. Il “tempo reale” non ha ritardo, ma la questione è appunto questa: le immagini televisive non possono rappresentare un’arresto, poichè esse sono invece lo scorrere del tempo, la “durata”, nel senso che con-sistono alla realtà senza pausa. Essendo senza pausa più che costruire un discorso sulla realtà, la doppiano; e doppiandola si legano ad essa formando qualcosa che è inestricabile: mi pare che siano l’una (la realtà) il rovescio dell’altra (la tv).
    L’immagine televisiva è davvero una virtualità del reale, ed è dimostrato da quanto si diceva in precedenza riguardo al fatto che non ci ricordiamo “il primo evento” ma il “secondo evento”: il ricordo non è mai ricordo di un “antico passato” ma sempre quello dell’immagine virtuale che si è creata “al lato” del presente che scorreva. Quindi si sbaglia a dire che c’è uno scarto tra primo e secondo evento: i 2 eventi si formano contemporaneamente e sono l’uno lo specchio dell’altro. Perciò credo che vadano leggermente modificate le coordinate del discorso: il “tempo reale” televisivo non come limite al ritardo necessario alla riflessione, ma come potenza o tecnologia capace di introdurre una ricchezza in seno allo scorrere del “tempo reale”. Mi sembra infatti che il “maleficio” avvenga piuttosto quando questo ritardo è inserito nella narrazione/rappresentazione televisiva: anche il reality fa parte di una televisione che scimmiotta il suo essere interna ad una “durata”, introducendo un ritardo che diventa, più che una forma di riflessione, una irregidimentazione del “tempo reale” stesso. Non so se vi trovate d’accordo.

  118. Ma infatti, normalmente non c’è nessun “ritardo”. Può accadere (molto di rado) che un evento dirompente (e gli eventi davvero dirompenti sono rari) produca lì per lì una… eccedenza di immagini, che poi la natura stessa del mezzo normalizzerà. La TV ha tutto il tempo di digerire, metabolizzare, trasformare tutto in poltiglia. La TV ha il suo tempo, che non è il nostro. Alcuni hanno memoria di quello “scarto”, di quella eccedenza (infatti siamo qui a discuterne, e Simone ne ha avuto un flashback contemplando Ground Zero qualche anno dopo), ma la maggior parte dei telespettatori vive nell’eterno presente dove le immagini girano in tondo (infatti la chiamano “rotation”).

  119. Si, ma il punto è che non bisognerebbe concettualizzare la telvisione con le stesse categorie che si usano per il cinema: la televisione non può essere pensata come mezzo che lavora fuori dalla “durata”, non si può pensare alla Tv (secondo me) come strumento di una rappresentazione. Perciò non sono d’accordo col fatto che la TV ha il “suo” tempo: il tempo della televisione è il tempo della società, sia essa costituita da individui intelligenti oppure no. Infatti la “dirompenza” (rara) di un evento si costituisce in base al rilancio continuo tra dimensione televisiva e dimensione “reale”. Poi è chiaro che esistono anche temporalità diverse, e tutta questa discussione ne è giustamente la dimostrazione. Ma rimane la questione che, secondo me, per pensare in maniera proficua il rapporto tra televisione e realtà va abbandonata l’idea della televisione come taglio all’interno dello scorrere del tempo, oppure , alla baudrillard, come annientatrice di ogni reale in virtù del suo “tempo reale”: si deve secondo me spingere verso una TV che accresca la potenza del “tempo che si sta facendo”, piuttosto che rallentarlo. Il punto critico, a parer mio, è quello nel quale il “doppiaggio” delle immagini televisive comincia a girare a vuoto, ossia quando la realtà di cui la TV fa mostra è costituita dalle sue stesse immagini (che è quanto è avvenuto secondo me anche l’11/09)

  120. Non mi convince del tutto dire che il tempo della televisione è *il* tempo della società. Non credo che nella società ci sia un tempo solo, ma una molteplicità di tempi sincronizzati o sfasati tra loro. La cultura ha tempi di sedimentazione diversi, e anche la vita ha delle fasi. Tu hai tempi diversi a seconda del periodo dell’anno o della vita, a seconda di dove vivi, del lavoro che fai, dell’età che hai, delle condizioni di salute, delle relazioni che coltivi o non coltivi. Non so se sono riuscito a spiegarmi.

  121. Si, perfettamente, ma ci eri riuscito già prima. Il punto che ci tengo a sottolineare però è un’altro, ossia che la temporalità del “corpo sociale”, nel senso anche di collettività, è irrimediabilmente scandito da chi questo tempo lo accompagna e lo modifica costantemente, ossia la televisione. Che poi ci siano delle soggettività, che sintetizzano il tempo in maniera differente è sicuramente fuori di dubbio, però questo non ha a che fare con la televisione e la sua specificità (secondo me) che invece è determinata dalla sua universalità come discorso, che ci accompagna sempre, che doppia il reale, e ne marca il tempo. La sfida mi pare che si costituisca a partire dalla necessità di costituire delle temporalità “altre” rispetto al discorso televisivo, alterità da strutturare però a livello “collettivo” e non “soggettivo”. E’ da questo punto di vista qua che io leggo anche questo spazio (o questo “tempo”) all’interno del quale discutiamo.

  122. […] In questa vicenda l’attenzione dei media è stata molto importante, qualcuno ha parlato di instant fiction, in ogni caso speriamo che quando l’attenzione si spegnerà su questa specifica vicenda, […]

  123. Posso dire che, secondo me, avete toppato di brutto.

    Nessuno in Italia ha potuto vedere l’uscita dei minatori dal tunnel. Nessuna tv ha mandato la diretta (preferendo altre schifezze), nessuno ha fatto trasmissioni speciali la sera stessa… Per il pubblico italiano (piccole eccezioni ultra informate a parte), questo non è stato un evento, non è mai esistito (altro che Alfredino!).
    Questo a mio parere oggi era più importante… Poi l’instant movie è un buon argomento… ma l’assenza dell’evento mi pare più rilevante. Per sapere che cosa era la miniera e conoscere qualcuno che c’è stato… tocca andare ad Abbadia San Salvatore ;-)

  124. @ mic,
    non capisco il senso del tuo commento…
    In rete era possibile assistere alla diretta dell’emersione dei 33 minatori. Il fatto che la TV italiana non l’abbia trasmesso, non significa che l’evento non sia esistito tout-court, e il fatto che il pubblico televisivo italiano non l’abbia visto in diretta non comporta come conseguenza che noi non possiamo parlarne…
    Quello che interessa qui è capire, come scrive WM2, come poter raccontare la vicenda dei minatori perché “non si riduca a un surrogato di reality show, ma diventi metafora di una via d’uscita – collettiva – dallo sfruttamento e dalla barbarie”.

  125. Eh, mi sta che stai “toppando” tu, Mic.
    Per mesi ci hanno parlato tutti i giorni dei minatori cileni, ce li hanno mostrati nel loro buco, ci hanno aggiornati sui lavori, sull’arrivo di parenti e preti, sulle loro richieste, sulle loro lettere alle famiglie etc. Ore e ore e ore e ore di copertura televisiva e, più in generale, mediatica, in una dimensione in cui TV e web (e ha ragione Sleepingcreep, esiste un “modello televisivo” anche sul web, e io aggiungo che c’è una TV che scimmiotta il web con finestrelle, scritte etc.) erano indistricabili. Il fatto che non ci sia stata la diretta completa l’ultimo giorno è praticamente ininfluente. Il reality è tutto quello che c’era prima, l’instant fiction era già nei presupposti, è uno sbocco quasi ovvio.

  126. Ecco, appunto. Non era nemmeno vero che non ci fosse stata la diretta.

  127. Su “The Greatest Show on Earth”….reality scritto, diretto, prodotto e trasmesso nel Nuovo Mondo l’ 11 settembre 2001.

    Oltre alla tossicità si potrebbe aggiungere un pò di sana video-sostanza: il NIST (National Institute of Standards and Technology) recentemente e a malincuore dopo una causa legale persa e sotto il Freedom of Information Act ha acquisito d’obbligo un pò di footage del “back stage”…

    http://www.youtube.com/watch?v=IO1ps1mzU8o&feature=player_embedded

    Stranamente nessuna Tv si è sognata di mandarlo in onda come speciale o approfondimento dell’ Evento stesso,
    eppure la sensazione è che avrebbe meritato il prime time di qualsiasi canale terrestre performando impressionanti punti di share…

    ” …SO SURREAL, LIKE A MOVIE SET ….”

  128. Capisco le obiezioni, ma sottolineo che non è indifferente il fatto che i media tradizionali abbiano preferito altro ai minatori e che abbiano ignorato l’evento più “spettacolare” (la “seconda nascita”, ecc ecc).
    L’opinione pubblica (quella che si nutre di informazione TV) è il futuro pubblico della fiction.
    Perché gli è stato tolto il “meglio”? Il vero e proprio “trailer” della futura fiction?
    Secondo me non è un caso, ma una scelta.

  129. Boh, io non capisco quale ragionamento tu voglia introdurre. E’ chiaro che è stata una scelta, il palinsesto è sempre deciso, non si decide da solo. Ma esistono anche scelte fatte a monte che non si possono ri-discutere in tempi brevi, perché c’è lo show col conduttore strapagato (magari cognato del tale onorevole, o cose del genere) che se gli cancelli il programma all’ultimo momento ti fa pagare penali astronomiche tramite il suo agente etc. In RAI può essere successo questo, ma comunque, prima e dopo, i minatori in TV si sono davvero visti in tutte le salse. E, come ha fatto notare Anna Luisa, c’è stata anche la diretta TV. Studio Aperto e svariati canali via satellite l’hanno trasmessa. Svariate radio l’hanno trasmessa. Repubblica.it l’ha trasmessa. Il giorno dopo se ne parlava in tutti i bar.

  130. A me pare che uno dei problemi fondamentali nella continua riproposizione di storie tossiche stia nell’occultamento dell’operazione di scelta e selezione che le produce. Si trasmette l’impressione che sia “naturale” la riproduzione della storia, quando essa è invece l’effetto di particolari gerarchie di valori. A questo proposito, non credete che, condotta in un certo modo la tacita abolizione di gerarchie tra “importante” e “frivolo” abbia in qualche modo una componente reazionaria? Si propongono analogie facili, formali e superficiali, e si butta tutto nello stesso calderone, non esplicitando quali siano le priorità della comunicazione e perchè. Credo che molti abbiano visto questo video…

    http://www.youtube.com/watch?v=cecdSkML-xQ

    ecco io lo trovo tossico, perchè insinuando una generica equivalenza, un’indifferenza che appiattisce,fiacca la critica (almeno su di me tale meccanismo ha effetto) , con lo spauracchio di essere tacciati per “pesanti”.
    Spero di non aver detto banalità o di essere andato OT.

  131. @ macondo: tutt’altro che OT! Il calderone postmoderno, la bella notte dove tutti i gatti sono bigi, è una grande incubatrice di tossine. Quando si decreta che tutto vale allo stesso modo, la merda e il cioccolato, si ottiene come risultato che niente ha più sapore, salvo poi invocare magari la “leggerezza” di Italo Calvino per giustificare lo svuotamento dell’etica e dei significati. Una malattia che la sinistra italiana conosce fin troppo bene.
    Quanto al video del TG5, penso che qualunque narrazione contenga la frase “una volta tanto il dramma volge in favola bella” sia da considerare velenosa anche in piccole dosi, con quel lieto fine usato come spugna che cancella il dramma in una sola passata. Poi c’è la considerazione che “E’ tutta la vicenda dei minatori a somigliare ad un reality”, dove con un gioco di prestigio al cianuro si passa dalla “vicenda” al suo trattamento mediatico, dando per scontato che le due cose si equivalgano, mentre la “vicenda” dei minatori non ha ovviamente nulla del reality, semmai è stata raccontata come un reality dai media di mezzo mondo.
    Infine, tocchi il problema della selezione, anch’esso centrale, perché narrare significa sempre selezionare, ridurre una complessità, ma ci sono riduzioni rispettose e riduzioni “tecnicizzate” o comunque sciatte. Come le distinguiamo? Prima di tutto, è necessario che la selezione stessa si riconosca come tale, offrendo gli stimoli per un “raccontare altrimenti”. Il punto di vista dell’autore, così come quello dei personaggi, dev’essere evidente, dichiarato. In questo senso, qualunque narrazione che miri ad essere “ufficiale” è una storia tossica. E allo stesso modo, azzarderei, qulunque cronaca che pretenda di essere obiettiva.
    “L’alternativa è tra narrazione con interpretazione incorporata – che è la vecchia pretesa dell’oggettivismo storico – e il suo contrario: interpretazione con incorporata la narrazione,- che è il nuovo corso della ricerca politica di parte operaia.” (M.Tronti)

  132. …a me questa vicenda, oltre che Vermicino, ha ricordato Marcinelle. (Immagino che qualcuno di voi avrà visto «Italiani cìncali», dell’ITC Teatro di San Lazzaro.)

    La questione distanza/”dimensione del frattempo” somiglia a discorsi teorici che si fanno riguardo la comicità (ci vuole uno scarto di spazio/tempo, altrimenti le battute non funzionano…cfr. il comico statunitense a cui il pubblico grida «Troppo presto!», per una battuta a ridosso dell’11 settembre). La televisione è il medium per eccellenza in cui questo scarto può venire a mancare (anzi: è molto difficile che ci sia – solo dei narratori straordinari riescono a individuare l’archetipo, l’allegoria, la contradditorietà di una vicenda “in tempo reale”, senza poterla metabolizzare).

    Il punto è che le storie “tossiche” non sono solo quelle in cui manca lo scarto… Penso che abbiano la potenzialità di essere tossiche per come vengono raccontate, (melo)drammatizzate…ma è anche interessante cercare di capire perché vengono *scelte*. Che cosa fa leva sull’immaginario “di massa”? Perché Marcinelle, Vermicino, i minatori cileni, gli intrappolati del Kursk, i Bambini di Satana, i bambini di Beslan, Ivan Bogdanov sì, e mille altre no? Non è solo questione di ipocrisia verso i morti sul lavoro o nella miniera in Cina, né di voyeurismo (penso).

    Però non ho una risposta…sto “ragionando a voce alta” mentre ceno e commento il vostro post. :-) Probabilmente c’è qualcosa che titilla la curiosità dello spettatore…storie che si muovono “per archetipi”, simboliche, folk devil… Boh. Mediterò.

    [NB: le vicende di cronaca che ho citato sopra non sono necessariamente “storie tossiche”…ho citato quelle che (secondo me) hanno fatto molta leva sull’immaginario di massa…]

  133. Forse un po’ in ritardo, ma vorrei riprendere il discorso sulle caratteristiche delle storie velenose e sulle competenze per distinguerle. Nel mio post precedente avevo parlato di “saturazione” per poi proseguire con delle riflessioni/analogie sul gioco, ma credo di non averlo spiegato a sufficienza.
    Credo che una storia per non essere velenosa debba poter permettere al suo fruitore di essere riempita con significati diversi e ritengo che questo debba essere vero anche se di questa storia se ne fruisce in momenti temporalmente molto distanti. Quindi sono d’accordo con blepiro quando parla di storie tossiche pre codificate. Sono un po’ meno ottimista circa la possibilità di trasformare le storie tossiche da parte del lettore/fruitore in quanto credo che la trasformazione sia possibile solo nel contesto di una dinamica relazionale/affettiva con la storia stessa, dinamica che nelle storie pre codificate è praticamente inesistente.
    WM2 nel post successivo parla di “storie rugose che invecchiano bene vs storie lisce perché si fanno il lifting”, ecco, la negazione del trascorrere del tempo, la negazione del dolore della perdita attraverso una ripetizione/presentazione ossessiva del momento del cambiamento (niente passato, nè futuro, solo uno pseudo presente) mi sembra una delle cifre della storia velenosa.
    L’ultimo post di taliesin cita vicende di cronaca che “hanno fatto molta leva sull’immaginario di massa” e propone un quesito sul perché vengano scelte certe storie piuttosto che altre. Pensavo a dei comuni denominatori tra quelle da lui indicate che possono essere l’imprigionamento, la presenza di inermi, il fatto che siano eventi collettivi e non storie di singole persone.
    Il desiderio sarebbe quello di dire tante altre cose, ma continuo ad avere l’impressione di essere caotico nello scrivere per cui mi fermo.

  134. Una bella coincidenza. Una contaminazione possibilmente anti tossina, una cosa che mi e’ venuta in mente rileggendo tutti i posts e che ho pensato di aggiungere al commentario. Spero non sia troppo tardi. “L’universo e’ fatto di storie, non di atomi” e’ una famosa citazione di Muriel Rukeyser, attivista e poetessa Americana, autrice tra le altre cose, di una famosa collezione di poesie (The Book of the Dead) sulla morte di oltre 400 minatori, negli anni 30, in West Virginia.

    Aggiungo un po di mio as well.

    Le storie tossiche hanno bisogno di serialita’, devono essere continuamente riproposte, rimangono estremamente semplici, unchallenging, regalando sensazioni allo stesso tempo liberatorie e scomode.

    PS I will be looking fwd to the 2011 tour in UK.

  135. @dude
    Le storie tossiche hanno qualcosa delle soap opera, quindi.

  136. @ yamunin
    Si. Che altro e’ stata, e’ e probabilmente sara’ quella chilena se non una soap opera sceneggiata nei minimi dettagli da professionisti della comunicazione.

    http://en.wikipedia.org/wiki/Chilevisión

    http://en.wikipedia.org/wiki/Sebastián_Piñera

    E’ la sceneggiatura di una bella soappona con tutti gli elementi del “mondo cosi’ ” a cui faceva riferimento girolamo qui’ :

    http://www.wumingfoundation.com/giap/?p=1480&cpage=1#comment-2020

    Per la cronaca: Pinera, in visita a Downing Street e’ stato omaggiato dal primo ministro inglese con 33 bottiglie di birra con bicchieri, per i minatori (sigh!) e una copia “vintage” del Robinson Crusoe di Defoe per lui (nudge, nudge).

  137. @dude: mi puoi chiarire in che senso “le storie tossiche hanno bisogno di serialita’, devono essere continuamente riproposte”. Perché mi pare che qui dobbiamo distinguere tra la serialità di Sandokan e di certe fiction di alto livello narrativo e la ripetitività di una soap come “Beautiful” o “Sentieri”. Vorrei capire se consideri tossica la serialità in quanto tale, o piuttosto la ripetizione martellante (la famosa bugia ripetuta mille volte fino a imporsi come verità). Grazie.

  138. @ WM2
    Serialita’ come precisi tu, nel senso di riproposizione continua, martellante di una falsa verita’. In particolare il lieto fine. La realta’ dei fatti, o i diversi punti di vista sull’accaduto completamente obliterati. Se …”l’unico modo che abbiamo per far parlare i fatti è quello di raccontarli e connetterli in un’unica trama”… la trama, nei racconti tossici, conduce SEMPRE al lieto fine. Sono convinto che il fatto di cronaca locale di San Jose, Chile, si sia trasformato nell’evento mediatico globale soltanto nel momento in cui gli addetti (PR) si sono resi conto del “se po’ fa’ “, solo quando ci sono state le garanzie tecniche di riuscita dell’impresa (mediatica). A mio parere per fare in modo che lo spettatore non si accorga del “lifting”, non cominci a preferire le “rughe”, il comodo, caldo lieto fine deve essere riproposto all’infinito.

    E se mi permettete un altra segnalazione (e chiedo ulteriormente perdono se e’ per l’ennesima volta in lingua straniera, questa volta indiana, sottotitoli inglesi) in tema, vi consiglio un film (difficilmente passera’ in Italia, P2P?) ma che tratta proprio di questo (giornalismo/storie/sfruttamento):

    http://www.peeplilivethefilm.com/

  139. “le storie tossiche hanno bisogno di serialita’, devono essere continuamente riproposte”

    Succede, se alla ripetizione non si associa la differenza ;)

  140. Tg1 delle 13.30, servizio di apertura sulla rivolta della munnezza. I primi minuti sono tutti dedicati a un tizio, isolato, che spernacchia i poliziotti, poi sale su un Ulivo (!) e brucia la bandiera italiana.
    Allora mi viene in mente che una forte tossina narrativa si annida nell’uso dei dettagli. Le buone storie puntano l’obiettivo sui particolari e azionano lo zoom principalmente con due obiettivi: 1) arricchire il contesto, 2) segnalare un punto di vista ristretto. Le storie tossiche, invece, confondono la parte con il tutto, puntano sui dettagli per nascondere l’insieme, staccano un piccolissimo pezzo di realtà dall’intera scenografia e lo trasformano in simbolo autonomo, completo, a sè stante. Le storie tossiche usano la sineddoche come fumo negli occhi.

  141. La risposta di WM2 ha messo in moto uno strano meccanismo: collegando “la parte con il tutto” ad antiche memorie liceali, ma non ricordando il nome della figura retorica, sono andato a cercarlo ritrovando la sineddoche
    Sfogliando però la definizione delle varie figure, in cerca di quella che mi interessava, mi sono reso conto che molte rientrano continuamente in quelle che io normalmente considero “narrazioni tossiche”: la similitudine, la prosopopea (la macchina o la frana assassina…), la perifrasi (anche il solo “extracomunitari” per evitare accuse di razzismo).. e non sto li ad elencarle tutte.

    Mi sono chiesto allora (ma ci sto pensando in tempo reale!) se e quanto l’uso o l’abuso delle figure retoriche non possa rappresentare una qualche forma di “metro di giudizio” per discernere la storia tossica da quella non tossica.
    Consideriamo anche una “traslazione” della retorica dal linguaggio parlato/scritto a quello per immagini: il bambino affamato dell’Africa, lo zingaro sporco, ecc. Insomma: anche nelle imagini la parte per il tutto o altri spostamenti/allargamenti impropri di significato.

  142. @ Francesco-iQ,

    ecco, poni un bel problema… Intanto perché le figure retoriche sono innumerevoli, e di varie tipologie, e poi da sempre (da Aristotele in poi…) sono argomento di studio per linguisti, letterati, e persino psicanalisti. Quindi non si può semplificare: uso/abuso delle figure retoriche = narrazione tossica (cioè, semplificare non ci aiuta a capire in profondità le narrazioni tossiche).
    Direi però che è indubbio che si può far leva sull’uso di alcune figure retoriche per “accorciare” la strada narrativa. E la sineddoche è esemplare in questo senso, soprattutto nel linguaggio televisivo. Accorciare la strada della narrazione non dà mai buoni risultati. Chiude la narrazione e non la apre.
    Forse, però, possiamo dire che se è vero che la sineddoche, l’allitterazione, la perifrasi, l’endiadi, l’ipallage, l’anafora…, persino la prosopopea sono strumenti straordinari per arricchire le narrazioni, per stimolare nel lettore uno sguardo sempre nuovo sulla materia narrata e quindi sul mondo, è invece l’*uso tossico* di queste e di tutte le altre figure retoriche che produce narrazioni tossiche.

  143. Per tornare a un minimo di concretezza propongo un giochino basato sull’applicazione dei modelli di storie a diversi tipi di scrittori.

    Mi viene in mente un modo “a-tossico” di narrare, obliquo, che si potrebbe attribuire (ed è stato attribuito) a Wu Ming e ad altri scrittori italiani. (Vedi NIE).

    Mi viene in mente un modo “oggettivo” di esporre “solo i fatti” alla Travaglio e altri scrittori/giornalisti come lui.
    Un “non ti racconto la mia storia, ma la verità” che a volte, in un attimo, diventa tossico.

    Mi viene in mente poi un terzo modo di raccontare le cose e lo definirei “alla Baricco”, in cui la storia ha valore in sè perchè “bella”. Utile perchè armonica. Ma può diventare tossica?

    Che uso fanno Travaglio e Baricco (intesi come modo di raccontare le storie) delle figure retoriche rispetto a Wu Ming? Possono rimanere non tossici quei due “modus operandi” nel narrare qualcosa?

  144. Bisognerebbe fare un’analisi distinta per ogni figura retorica, cercando di capire in cosa consista l’uso tossico che ne viene fatto.
    Una buona sineddoche, ad es., non sceglie una parte *qualsiasi* per rappresentare il tutto. I due elementi devono stare tra di loro in una relazione saliente rispetto al contesto: il semplice “essere parte di” non funziona.
    Posso chiamare “cuoio” un pallone da calcio, ma non posso chiamarlo “poliestere”, anche se le cuciture sono fatte con quel materiale.
    Una sineddoche tossica contrabbanda per saliente un rapporto parte/tutto che invece non lo è.
    Se nascondo il “tutto” dietro a un dettaglio portato in primo piano, chi mi ascolta penserà di trovarsi di fronte a una sineddoche, e darà per scontato che la relazione parte/tutto sia significativa.
    Le figure retoriche attivano nel cervello meccanismi automatici di interpretazione. Molte le decrittiamo in maniera inconsapevole ed è proprio per questo che possono rivelarsi tossiche. Perché ci fanno pensare in maniera riflessa e non riflessiva.

  145. “Se nascondo il “tutto” dietro a un dettaglio portato in primo piano, chi mi ascolta penserà di trovarsi di fronte a una sineddoche, e darà per scontato che la relazione parte/tutto sia significativa.
    Le figure retoriche attivano nel cervello meccanismi automatici di interpretazione. Molte le decrittiamo in maniera inconsapevole ed è proprio per questo che possono rivelarsi tossiche. Perché ci fanno pensare in maniera riflessa e non riflessiva.”

    Direi che era proprio questa la “pulce” che avevo nell’orecchio: del resto l’ho dichiarato che scrivevo e ragionavo in tempo reale!
    Se uso la sineddoche non faccio nulla di tossico di per sè, ma se scelgo accuratamente una certa parte per suggerire un’immagine precostituita del tutto che voglio far passare, ecco che la mia comunicazione diviene malevola e, conseguentemente, tossica.

    Ripenso alla bandiera bruciata a Terzigno: è diventata titolo di tutti i giornali e fa sparire le ragioni di una protesta decisamente non immotivata. Ma credo che valga (ad esempio) per qualsiasi manifestazione di dissenso: dal Black Bloc a Genova fino alle uove delle sedi CISL…

  146. sto pensando alla bandiera bruciata a Terzigno…
    Non so se possiamo considerarla una vera e propria sineddoche. Cioè, non penso che chi ha incentrato il servizio su quella “parte” avesse intenzione di usarla per raccontare “il tutto”. Credo che l’intenzione sia stata, piuttosto, quella di sviare l’attenzione dello spettatore dalla protesta concentrandola su un atto (riprovevole) che non ha legami con le motivazioni reali dei manifestanti. Mi sembra più un’*enfasi*, insomma.
    Ma sono solo tecnicismi… :-) Restano valide però le considerazioni sull’uso tossico (cioè sviante) delle figure retoriche.

  147. @danae
    Non una “vera e propria” sineddoche, ma – almeno secondo me – una “sineddoche televisiva costruita” si. Nel senso che prendendo una immagine specifica e sfruttando il meccanismo “naturale” dell’interpretazione della sineddoche, si può fare in modo che venga letta come tale e quindi che il tutto assuma la sfumatura che, chi ha usato questa parte, intendeva dargli

  148. […] di Wu Ming, una lunga e interessantissima discussione su storytelling e instant fiction. Da leggere qui, sul post e nei commenti. […]

  149. […] che questi espedienti abbiano perso la loro efficacia narrativa). C’è un interessante articolo dei Wu Ming con un laboratorio nei commenti ancor più stuzzicante da questo punto di vista. Ad […]