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Appunti

Note sul #referendum, i social network e il “popolo della rete”

[A proposito di alcuni discorsi post-referendum che ci sembrano pericolosi, oggi abbiamo detto alcune cose via Twitter. @diariominimo ha raccolto tutti i messaggi, li ha montati in sequenza e ne è venuto fuori un intervento ready-made. Lo riproponiamo qui, al volo. Per leggere anche botte-e-risposte con altri utenti, potete visitare il nostro profilo su Twitter.]
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Il problema dell’esultanza di questi giorni sul ruolo “della rete” e del “popolo della rete” è la riduzione del molteplice a Uno: “LA rete”, “IL popolo della rete”… Come se Internet fosse una cosa, e chi la usa fosse un blocco sociale contrapposto a un altro. Quindi “la TV” (cioè… Berlusconi) sarebbe stata sconfitta da “la rete” (cioè il popolo onesto e libero). Anni e anni di analisi sulla “convergenza” sostituiti da una sorta di “mito tecnicizzato dei social network”. Prosegui la lettura ›

L’occhio del purgatorio, la rivolta e l’utopia

Ieri, 1 giugno 2011, Wu Ming 1 ha parlato alla facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Siena (la storica sede di via Roma 47, oramai in dismissione). L’occasione era l’ultimo incontro del seminario “Il lavoro culturale”, iniziato nel gennaio scorso e interamente organizzato e gestito da dottorandi, studenti e ricercatori precari. Il setting era la Sala Cinema Fieravecchia, antro gremito, denso d’afa e puteolente di sudori atavici e più recenti.
WM1 è partito dall’analisi di due diversi racconti di fantascienza (uno di William Gibson, l’altro di Jacques Spitz), entrambi incentrati sul vedere il futuro. Dopodiché, ha parlato della differenza tra futuro e “presente invecchiato”, affermato la necessità dell’utopia e proposto la distinzione – già introdotta da Fredric Jameson nel suo Archaeologies of the Future, 2005 – tra “programma utopico” e “impulso utopico”. Tutto ciò serviva a prendere di petto il problema del tempo e del controllo capitalistico sui tempi. Passando a un piano più esplicitamente politico, WM1 ha parlato del rischio che i movimenti subiscano tempi e ritmi del potere e non decidano in autonomia le proprie “scadenze”. Prosegui la lettura ›

Pasolini e Foucault: appunti per un «Vite parallele»

di Wu Ming 1

Nel corso degli anni, leggendo diversi libri di e su Pier Paolo Pasolini (1922-1975) e Michel Foucault (1926-1984), mi sono reso conto di numerose coincidenze, risonanze e convergenze, non solo tra le loro opere, ma anche tra le loro vite. Non posso dire con sicurezza di averle colte per primo: su entrambi i suddetti è ormai disponibile una letteratura sterminata, inassimilabile da chiunque. L’ermeneutica pasoliniana e quella foucaultiana producono a getto continuo nuove «letture» più o meno pertinenti, e nelle varie lingue i libri si contano a centinaia, forse migliaia. Può dunque darsi che altri abbiano già steso «appunti» simili ai miei. Al momento, però, ne dubito. Pur seguendo – nei limiti delle mie possibilità e competenze – i dibattiti su Pasolini e su Foucault, e avendo trovato alcuni (pochi ma importanti) riferimenti incrociati, non mi è ancora capitato di leggere una trattazione dei molti parallelismi fra i due autori. Cosa sorprendente, dato che certe analogie, come suol dirsi, saltano agli occhi. Prosegui la lettura ›

Lo sguardo sul mondo di chi cammina

[Dalla prefazione di Wu Ming 2 a L’arte del camminare. Consigli per partire con il piede giusto, di Luca Gianotti, Ediciclo, in libreria dal 19 maggio.]


L’arte di camminare è un’arte visiva: la si potrebbe chiamare passoscopia. Ecco perché, seguendo i preziosi consigli del libro Luca Gianotti, L’arte del camminare [Ediciclo], non si apprendono solo i trucchi e le liturgie del viandante, ma si acquista la capacità di guardare al mondo in maniera diversa. Buono a sapersi, direte: ma in cosa consiste tanta diversità?
Esistono molti modi di viaggiare alternativi rispetto all’andare a piedi: il treno, l’auto, la bici, l’aereo. Della motocicletta non posso dire nulla, non sono competente, ma grazie all’etimologia la immagino come un ibrido tra ciclo e motore, con alcune caratteristiche del mezzo a pedali e altre dell’automobile. I centauri mi scuseranno se non è proprio così. In compenso conosco bene il treno e condivido quel che ne ha scritto Michel de Certeau: il vagone ferroviario produce nostalgia. Salgo in stazione, cerco un posto, mi accomodo. Il convoglio parte e il paesaggio si mette a scorrere in due strisce separate, come le fette di pane di un tramezzino imbottito. In mezzo, al posto del tonno e della maionese, ci sta lo scompartimento: gli altri passeggeri, il corridoio, il controllore che punzona i biglietti. Io non mi muovo, sto seduto in poltrona come se fossi al cinema, solo che lo schermo è sdoppiato e laterale: un pezzo a destra e uno a sinistra. Oltre i finestrini, anche il mondo è immobile, se si esclude la rotazione terrestre. Sta fermo, eppure lo vedo fuggire, non posso afferrarlo. Ci sfioriamo, facciamo le presentazioni, ma non c’è tempo di conoscersi: resta l’amaro in bocca delle occasioni perdute. Ecco un filare d’uva che avrei voluto assaggiare o un torrente d’acqua limpida dove sarebbe bello tuffarsi. Ecco un cantiere stradale che devasta la campagna, mentre io passo e non ne so nulla; ecco un paese arroccato su un colle, del quale non conosco nemmeno il nome. Apro il giornale, lo sfoglio e per una mezz’ora mi perdo dietro alle notizie. Ogni tanto il treno rallenta, si ferma in stazione, ma non sono io a decidere le soste. Guardo i binari, leggo le insegne degli alberghi di là dalle rotaie e se mai scopro con gli occhi un angolo interessante, è già tempo di andarsene, di ripartire. Nostalgia dell’abbandono: mi si chiudono le palpebre, dormo, sogno di camminare sulla strada bianca intravista poco fa.

Viaggiare in auto è molto diverso. Paul Virilio ha chiamato dromoscopia le immagini che si proiettano sul parabrezza, in faccia al guidatore, anche se sarebbe più corretto dire che è il guidatore a proiettarsi contro le immagini, non viceversa. Se il treno taglia il paesaggio in due fette, l’auto lo buca, ci scava dentro, lo rivolta come un guanto. Apro lo sportello, mi metto al volante, giro la chiave per avviare il motore. Parto. Ora l’orizzonte mi viene incontro alla velocità che preferisco, anche se devo tenere conto del traffico e della segnaletica. Ho gli occhi sulla strada, attento alle curve, alle altre auto, agli ostacoli che mi si possono presentare. Più che vedere, sono costretto a prevedere: l’arte del pilota consiste nella capacità di anticipare gli eventi, via via che il mondo compare sul parabrezza, si apre davanti al cofano come una gelatina e subito si richiude dietro il lunotto posteriore. Se voglio evitare incidenti, devo attribuire un valore diverso a ogni cosa che vedo. Devo stabilire una gerarchia tra gli elementi del paesaggio, in base alla loro distanza da me e alla loro consistenza. Questi platani sul ciglio della strada, contro i quali potrei andare a sbattere da un momento all’altro, sono molto più importanti per me di quella fattoria laggiù, innocua, in mezzo a un campo di girasoli. Ai primi, devo prestare un’attenzione costante, alla seconda, posso dedicare soltanto uno sguardo di sbieco. Questi ciclisti che non si tolgono di mezzo mi mettono addosso più rabbia di quelle trenta palazzine in colori geometrili, piantate come giganti cattivi sul crinale alla mia sinistra. Guidando, devo tenere il mondo a distanza di sicurezza, evitare di andargli incontro attraverso il vetro che ho di fronte. La cintura che mi attraversa il petto proprio a questo serve: a non farmi sbattere contro la realtà, mandando in pezzi la simulazione.

La bici è un mezzo di trasporto molto meno virtuale degli altri due: quando salgo in sella e pedalo, il paesaggio mi circonda, ci sto in mezzo, non è una videosequenza muta spalmata sul cristallo di un finestrino. Cionostante, la mia visuale è limitata dalla postura e dalla fatica: se voglio evitarmi fastidiosi torcicolli, non posso far girare lo sguardo oltre i 270 gradi e se devo affrontare una dura salita, difficilmente avrò occhi per qualcos’altro che non sia nei dintorni della mia ruota anteriore. Allo stesso modo, nelle discese ripide devo star concentrato sulla strada, le buche, le curve. Il rischio di andare a sbattere e rompermi la testa mi costringe – come in auto – a dividere il mondo tra ostacoli e scenografia. In compenso, posso fermarmi quando voglio, senza bisogno di stazioni o parcheggi, e cedere al desiderio di guardarmi intorno con calma. Mi basta togliere i piedi dai pedali e scendere dal sellino, ma la posizione non è delle più comode e alla lunga influisce sulla mia voglia di fare soste. Così pedalo, pedalo a lungo, e quando mi fermo, preferisco lasciare la bici, e trasformarmi da ciclista in camminatore.

Di solito l’aereo non è davvero alternativo rispetto ai passi del viandante: il più delle volte si vola lungo distanze che non si farebbero a piedi e si cammina tra luoghi che non sarebbero collegati da un areoplano. Ma non è sempre così e allora la prima cosa che andrebbe notata è che i tragitti aerei si misurano in ore e minuti, non in chilometri. Chiunque sia andato in jet da Roma a Berlino sa quanto dura il volo tra le due città, ma solo i maniaci dei dettagli si ricordano la distanza percorsa. Questo per dire quanto poco interessa lo spazio a chi viaggia in aereo: scopo del passeggero è andare dal punto A fino al punto B e poco importa se in mezzo ci sono le Alpi o soltanto nubi. Poco importa, ma quando la terra si mostra è sempre uno spettacolo, come studiare una mappa vivente. Ci sforziamo di riconoscere i paesi, le anse di un fiume, il percorso di una strada, un casolare isolato. Se abbiamo la fortuna di sedere accanto al finestrino, lo trasformiamo subito in un buco della serratura, ritagliato nell’acciaio della fusoliera. Come vecchi guardoni, scrutiamo il mondo da fuori senza essere visti, lo dominiamo dall’alto come padreterni. Siamo puro sguardo, occhi che non si sporcano le mani, piccoli geografi senza cittadinanza.

A differenza di tutti questi viaggiatori, l’artista viandante non conosce schermi, nostalgie fittizie, gerarchie visive, torcicolli, soste scomode, voyeurismi. La sua visione del mondo è la più vicina che si possa immaginare alla verità pulsante, caotica e indifferenziata della vita. Quando vuole voltarsi, si volta: per lanciare un’occhiata all’altro lato delle cose. Quando vuole fermarsi, si ferma: non ha che da interrompere il ritmo dei passi. Se vede qualcuno e vuole parlargli, deve soltanto decidere di andargli incontro. Per evitare gli ostacoli, non ha bisogno di prevederli con grande anticipo: gli basta stare attento a dove mette i piedi, ma è raro che quest’operazione gli ingombri davvero la vista. Così, mentre le gambe lo portano da un luogo all’altro, senza soluzione di continuità, il paesaggio prende forma davanti ai suoi occhi, ed è un coacervo indistinto di sfondi e dettagli: un’ape su un fiore e le colline all’orizzonte, un minerale sul sentiero e un mulino a fondovalle, la storia di quel mulino e macchie di sole nel bosco, foglie di faggio, il segno biancorosso su un tronco e il fruscio di una biscia, i nomi sulla mappa, il rombo di un’automobile, un gregge di nuvole, il pensiero di una pecora, le strofe di una canzone ripetute come un’ipnosi, le scarpe slacciate e ancora le colline, in distanza, con il loro profilo appena cambiato rispetto a un minuto prima.

Camminando, mi sono convinto che il piacere ultimo del viandante sta proprio in questo: mai come quando andiamo a piedi il nostro modo di guardare si avvicina alla realtà in dissolubile del mondo. Uno sguardo oltre lo sguardo: senza filtri, senza obiettivi, senza inquadrature. Non a caso, credo che passeggiare sia il modo di spostarsi più interessante anche per chi non vede. Ma perché la magia si sprigioni, bisogna aver appreso i segreti dell’arte. Il glaucoma del turista – che vede soltanto ciò che ha già visto in foto o nelle parole di una guida – e la cataratta del pilota – che ci tormenta anche quando non siamo al volante – sono sempre in agguato per confonderci la vista. Andare a piedi non basta, e la lentezza non è solo questione di chilometri all’ora: benvenuto a questo libro, che può curarci lo sguardo.

Toni Negri sull’autostrada, ovvero: tirannia del tempo e momento utopico


Il 19 aprile scorso Wu Ming 1 è intervenuto all’ incontro “Conflitto, rivoluzione, potere, immaginario”, organizzato a Roma dal collettivo Militant.
L’intento di Militant era gettare luce sul tema di un “immaginario comune” di sinistra, tra attivismo politico e lavoro artistico/intellettuale. L’idea era di sollecitare interventi molto diversi per impostazione e linguaggio, da parte di tre persone differenti per età, genere, percorsi di vita e attività “militante” nei rispettivi ambiti d’intervento. I relatori dovevano essere WM1, il collega – e nostro traduttore – Serge Quadruppani (proveniente dal mondo libertario e dell’ultragauche francese) e Geraldina Colotti (scrittrice, poetessa e redattrice del Manifesto, proveniente da esperienze di lotta armata e carcere duro). Prosegui la lettura ›

Disintossicare l’Evento, ovvero: Come si racconta una rivoluzione?

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[Si conclude la pubblicazione su Giap degli interventi fatti da WM1 e WM2 alla UNC (University of North Carolina) di Chapel Hill, il 5 aprile scorso. Dopo quello di Wu Ming 1 (“Siamo tutti il febbraio del 1917, ovvero: A che somiglia una rivoluzione”), ecco quello di Wu Ming 2, che fa tesoro di molte discussioni svoltesi su Giap (a cominciare da quella sulle “narrazioni tossiche”).
Le versioni italiane di entrambi gli interventi sono disponibili in un unico pdf. Quelle in inglese in due pdf separati (vedi in calce a questo post).]

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A novembre dell’anno 2010, quando abbiamo proposto il titolo per questa conferenza [*], il problema di distinguere una rivoluzione da qualcos’altro non era di particolare attualità: lo avevamo scelto con un occhio alla nostra produzione di romanzi storici, dove abbiamo raccontato rivolte, rivoluzioni e guerre d’indipendenza.

Nel frattempo, però, i tumulti sono tornati di moda, come non accadeva da oltre vent’anni, e giornali e riviste sono inondati di articoli dove ci si chiede se in Tunisia o in Libia sia in corso una rivoluzione, se il Bahrein, l’Oman o la Siria ne conosceranno davvero una, e via discorrendo. Prosegui la lettura ›

Siamo tutti il febbraio del 1917, ovvero: A che somiglia una rivoluzione?

[Comincia la pubblicazione su Giap degli interventi fatti da WM1 e WM2 alla UNC (University of North Carolina) di Chapel Hill, il 5 aprile scorso.
Il giorno prima abbiamo fatto gli stessi interventi alla Duke University, Durham, NC. Una sorta di “prova generale”: dalla sessione di domande e risposte, grazie soprattutto a Michael Hardt e Federico Luisetti, sono emersi elementi che ci hanno permesso di migliorare l’esposizione. La versione che state per leggere/ascoltare è quella “2.0”.
Per quest’esperienza siamo grati a molte persone. In particolare, ringraziamo: Mimmo Cangiano, Roberto Dainotto e Federico Luisetti, per l’invito, per aver organizzato tutto l’ambaradan e per la scanzonata compagnia; Laura Moure Cecchini, che ci ha lasciato per cinque giorni il suo appartamento, con licenza di messa a soqquadro; le compagne e i compagni del centro sociale El Kilombo Intergalactico, per un illuminante pomeriggio di  “contro-turismo”; Michael Hardt, che si dimostra sempre un gentiluomo; Fredric Jameson, per l’appoggio all’iniziativa e la chiacchierata; Michal Osterweil, con cui abbiamo in comune preziosi ricordi della penultima ondata.
Qui sotto, l’intervento di WM1. La prossima settimana toccherà a quello di WM2, intitolato: “Come distinguere una rivoluzione da tutto il resto”.
Entrambe le versioni inglesi sono già disponibili in pdf ed entrambi gli mp3 ascoltabili/scaricabili in calce a questo post.]
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Qualche settimana fa, sul Guardian è uscito un articolo di Antonio Negri e Michael Hardt intitolato «Arabs are democracy’s new pioneers». In esso, i due autori cercavano di fornire una cornice per interpretare le recenti sollevazioni popolari in Nordafrica e nel Medio Oriente. A un certo punto scrivevano che:

«chiamare “rivoluzioni” queste lotte sembra aver depistato i commentatori, che danno per scontata una progressione degli eventi che obbedisca alla logica del 1789, o del 1917, o di qualche altra ribellione europea del passato, contro re o zar.» [1]

Nel preparare questa conferenza, l’interrogativo è stato: è possibile descrivere una sollevazione odierna come “rivoluzione” senza essere depistati in quel modo? E come possiamo raccontare una rivoluzione oggi? Prosegui la lettura ›