
Tutte le immagini che illustrano quest’articolo sono nel pubblico dominio, litografie a colori tratte dalla rivista ottocentesca Prophetic Messenger, nota anche come Raphael’s Almanac.
di Stefania Consigliere e Cristina Zavaroni *
Per comprendere i tempi non ordinari, le categorie dei tempi ordinari non bastano. Bisogna cercare altrove ed è così che certi autori diventano pienamente comprensibili. Che bastasse l’induzione di paura per dominare intere popolazioni l’avevamo letto nei libri di Hannah Arendt, George Orwell, Christopher Browning e Zygmunt Bauman, ma abbiamo cominciato a crederci davvero solo nell’inverno del 2020. Ancor più difficile trovare una spiegazione per la strage delle coscienze che immediatamente ha diviso la popolazione italiana in fazioni avverse mai più ricomposte e per lo strano oblio che oggi avvolge il biennio pandemico.
A cinque anni e qualche mese dal suo incipit, l’evento più significativo (speriamo) della nostra vita collettiva sembra ai più un episodio lontano, politicamente irrilevante e per nulla attivo nel presente.
Il fatto è, però, che quella stagione non è mai finita.
1. Rimasti e disvedenti
A partire dal settembre 2021, quando scrivevamo della necessità di ritrovarsi, abbiamo viaggiato molto come ambulanti dell’antropologia medica. Dappertutto abbiamo trovato lo stesso quadro: un piccolo gruppo di rimasti pandemici che non si dà pace per l’accaduto e una maggioranza di disvedenti che quasi non se ne ricorda. Esso ricalca, a grandi linee, la divisione in fazioni cristallizzata nel marzo 2020 e poi continuamente ribadita dagli eventi successivi.
Le due famiglie, che ancora non si sono ritrovate, schivano il confronto. La distanza tra loro non discende da un disaccordo argomentativo, da scelte consapevoli o dalla normale dialettica della lotta politica, ma da qualcosa di più profondo: la risposta di ciascuno agli eventi è stata dettata non tanto dalla ragione, ma proprio dalla sensibilità, dalla percezione, ovvero dallo strato primo della presenza al mondo e della possibilità di fiducia. Prima e oltre qualsiasi riflessione o confronto, alcuni hanno sentito lockdown / zone rosse / green pass / obbligo vaccinale come misure sanitarie giuste e salvifiche, altri come intollerabili violenze di stato. A partire da lì, complici i media, nessuna ragionevolezza ha più avuto corso.
Fra i rimasti pandemici c’è un dolore che non passa: quello per la rapidità e la protervia con cui la maggioranza ha ceduto su tutto ciò che, fino all’attimo prima, sembrava intoccabile, dall’umana solidarietà al buon senso, dalla logica aristotelica a certi principi costituzionali. In molti di loro non è mai guarita la ferita per gli insulti degli amici, per le esclusioni dai pranzi di famiglia, per il disprezzo dei compagni, per l’ostilità dei colleghi.
Quando poi si è tornati ad abitare gli stessi spazi, di scuse ne sono arrivate poche. A fronte di ciò, ai rimasti è successa una cosa minuscola e tremenda: è venuta meno la possibilità di fiducia nella tenuta di ciò che li circonda. «Se è possibile questo, allora è possibile tutto», scrive Christa Wolf in Cassandra. Romanzo che, oggi, parla come non mai.
Se alla gran parte dei nostri contemporanei è parso sensato lasciare i vecchi da soli, non salutare i morti, sfilare il mondo da sotto i piedi dei figli, accogliere come se nulla fosse le contraddizioni logiche più evidenti [1] e ostracizzare chiunque esprimesse un dubbio, si fa difficile pensarli come prossimi, e men che meno come compagni di lotta. I rimasti temono che, al prossimo comando impartito dai vertici, la maggioranza risponderà come a quello precedente: ottemperando.
I disvedenti, per parte loro, alla pandemia non ci pensano più e non capiscono perché i rimasti continuino a rimuginarci sopra, se non per via di un baco masochista o per sottrarsi alle ben altre impellenze del mondo. Che, a onor del vero, sono tante e sempre più pesanti. Moltissimi non ricordano, o forse non hanno mai avuto bisogno di sapere: quando arrivano le diverse varianti della Sars-Cov-2? Nell’autunno 2020 eravamo in lockdown o no? Come funzionavano le zone a colori? Qual era la differenza fra green pass, super green pass e green pass rafforzato? In quali mesi serviva l’autocertificazione per uscire di casa e in quali per prendere un treno? Qual era la struttura logica del pass vaccinale? In che periodo era vietato ai ragazzi al di sopra dei 12 anni prendere un bus se non vaccinati? Quando sono cominciate le sospensioni dei sanitari e quando quelle degli insegnanti? E quando sono finite? L’obbligo di mascherina per strada? E cosa c’entrano in tutto ciò i portuali di Trieste, la sede della CGIL di Roma, la lettera di Scurati a Draghi?
La linea taglia la società nella sua interezza ed è esiziale nella compagneria. Qui quasi tutti i disvedenti hanno trovato, negli anni seguenti, che molto non tornasse: l’anatema sulla cultura russa, le giustificazioni del genocidio dei palestinesi, gli inni alla storia europea e ai suoi nuovi missili. La mancata connessione della miseria attuale agli eventi pandemici, però, dà alle loro analisi un timbro crepuscolare, come se i contorni restassero sempre un po’ sfocati.
Dall’altra parte, molti fra i rimasti trovano più facile restare nella ferita aperta dalla gestione pandemica – leggere articoli che ne parlano, ripercorrere i fatti con altri rimasti – che ricostruire un senso di profonda alleanza con chi, quella volta, era dall’altro lato del fossato; e quelli con meno strumenti critici a disposizione – o con specifici interessi economici – sarebbero disposti ad alimentare, tanto in ambito medico quanto in ambito educativo, religioso e politico, movimenti “anti-sistema” di carattere socialmente reazionario.
In entrambi i casi c’è qualcosa di anomalo, che fa pensare a «strutture di sentimento» innestate come corpi estranei nella nostra configurazione psicofisica, come fossimo biglie con un peso nascosto che non riescono più a rotolare dritte. Quelli più accorti stanno lavorando la questione singolarmente ma – anche dal punto di vista di chi li sostiene – è una fatica immane sanare nel singolo una ferita che si riapre continuamente perché ciò che la provoca è collettivo.
2. Tu chiamala, se vuoi, accumulazione primitiva
Primo esercizio psico-storico: se alla fine del 2019, quando un gran numero di rivolte in giro per il mondo dava filo da torcere ai governi, un qualche Nostradamus avesse previsto che, nel giro di pochi anni, avremmo finanziato una guerra contro una potenza nucleare, votato un governo dichiaratamente fascista, abbandonato i nostri figli agli schermi, rotto le catene di approvvigionamento del gas, acclamato il «nucleare pulito», tifato per uno stato coloniale nel genocidio live di un popolo colonizzato, saremmo scoppiati a ridere e la faccenda si sarebbe chiusa lì. A valle, invece, è facile constatare con quanta rassegnazione abbiamo sopportato l’insopportabile. Com’è stata costruita questa rassegnazione?
In quanto fatto sociale totale, la pandemia ha investito ogni aspetto della vita soggettiva e collettiva. Accelerando bruscamente una serie di processi già in corso, è stata volano di un rivolgimento nelle strategie di accumulazione capitalista e di governo delle popolazioni nel Nord globale. Con il venerando strumentario marxista, la si può descrivere come inizio di una nuova fase di produzione, distribuzione, scambio e consumo la cui locomotiva è una joint venture fra le industrie del digitale, del biotech e della guerra. Con lo strumentario libertario, la si può declinare come inizio di una nuova fase politica autoritaria, se non anche pre-totalitaria. Accumulazione e controllo non possono essere separati, pena l’illeggibilità del quinquennio 2020-2025.
Per descrivere la filosofia economica della Scuola di Chicago, Naomi Klein ha parlato di shock economy, l’imposizione di politiche neoliberiste approfittando di uno shock causato da un evento contingente o, se il caso, creato ad arte. In questo senso, la pandemia può essere letta come prima applicazione massiccia, in terra NATO, di strategie economico-militari già lungamente rodate altrove. O forse è una storia ben più antica, che ciclicamente si ripete. Per potersi imporre, e poi per continuare la sua espansione, la logica del plusvalore deve ogni volta distruggere le condizioni precedenti di esistenza ed espropriare ciò che prima era comune, che si tratti di terre, corpi, saperi, affetti, attenzione, genoma, sonno. Ciò è fatto, nel modo più rapido, applicando pura e semplice violenza.
Il nome tecnico di questo fenomeno è accumulazione primitiva e, secondo i compagni di Midnight Notes, non è solo il momento fondativo dell’economia capitalista, ma la sua condizione di possibilità, un esproprio che si ripete ogni volta che i cicli produttivi devono cambiare. Dalle recinzioni all’AI, ogni nuovo ciclo riversa sulle popolazioni tutta la violenza necessaria per disciplinarle alle nuove esigenze: ogni nuovo ciclo costruisce la sua antropologia distruggendo quella precedente.
Si può discutere a lungo, e utilmente, se ciò avvenga perché così funziona la logica dell’economia capitalista (ipotesi funzionalista) o perché qualcuno decide che così debbano andare le cose (ipotesi intenzionalista); e se sia il capitalismo a fare particolarmente schifo o se non sia solo l’ultimo rampollo di una lunga genealogia di sistemi di dominio.
Per parte nostra restiamo in bilico fra i due scenari, ma di certo sottoscriviamo le osservazioni di Avery Gordon in Cose di fantasmi sulla cattiveria del sistema che, inevitabilmente, contagia chi lo fa funzionare. Fatto sta, comunque, che da quattro secoli a questa parte ogni nuovo ciclo di distruzione diminuisce progressivamente gli spazi di autonomia delle collettività, rendendole integralmente dipendenti dal circuito del capitale anche per le cose più fondamentali e apparentemente inappropriabili.
Con questo strumentario, la pandemia in generale, e il lockdown nello specifico, potevano fin da subito esser letti, in analogia con altri fenomeni di pedagogia nera, come dispositivi di rieducazione violenta a tappeto. Terrore a reti unificate, isolamento fisico, sospensione degli istituti culturali fondamentali, semplificazione del discorso pubblico, biopolitica dell’assurdo (le zone a colori, i banchi a rotelle, la candeggina sulle strade), induzione di paralisi cognitiva, polarizzazione emotiva, criminalizzazione della dissidenza, militarizzazione del quotidiano con continui abusi in divisa e occultamento dell’obiettivo ci sembravano mappare con la plasmazione di una forma umana monadica, dipendente da schermi e piattaforme, teatralmente obbediente ai comandi di uno Stato neo-paternalista, supina al richiamo religioso dell’ideologia scientista, ben disposta verso il controllo poliziesco-militare, rotta al neo-feudalesimo burocratico e pronta a cedere ogni potere decisionale agli esperti. Compiutamente raggiunta durante il lockdown, la sostituzione della comunità dei corpi e degli affetti con lo spettro glaciale della socialità informatica è un esempio emblematico di distruzione delle più fondamentali autonomie a scopo estrattivista.
A pandemia ancora in corso, il nuovo shock della guerra in Ucraina, con l’allucinante bandierismo europeo, avrebbe spalancato nuovi orizzonti ermeneutici, poi rinforzati dal genocidio a Gaza, dal trumpismo, dall’attacco israelo-statunitense all’Iran, da ogni singola decisione dell’UE e da tutti i contorcimenti geopolitici in corso, fino ad arrivare all’assurdo di una guerra termonucleare che, mentre scriviamo, si profila sempre più nitida nell’indifferenza, se non anche nel bellicismo, di una parte della popolazione.
In questo teatro degli orrori c’è, per fortuna, una discontinuità: quella segnata dalle mobilitazioni italiane e internazionali per la Palestina. Forti e strutturate durante l’inverno e la primavera del 2024, con anche l’occupazione di molti atenei e scuole superiori, esse continuano tuttora a opera dei molti che trovano insopportabili le immagini in arrivo, le smargiassate dei potenti, la falsa coscienza dei media. A differenza di altri mantra, quello del «c’è un aggressore e un aggredito» è stato rispedito al mittente, a riprova del fatto che gli spiragli di lotta compaiono quando, collettivamente, si decide di aprirli.
Secondo esercizio psicopolitico: se è vero, come scriveva Walter Benjamin, che il senso del passato appare solo nel presente e di fronte al pericolo, allora il periodo pandemico diventa davvero leggibile solo sullo sfondo del nostro presente.
3. Violenza strutturale # 1. Scemo chi legge.
Una volta che la popolazione è convenientemente assuefatta alle nuove forme di controllo e il nuovo modo produttivo è stabilizzato, la violenza puntuale e ad alta intensità degli inizi si diluisce e si allarga, trasformandosi in violenza strutturale, ovvero in una specifica organizzazione dell’iniquità. È quanto stiamo vedendo. Nessuna delle strategie di gestione pandemica è mai più stata dismessa: né l’emergenzialismo, né lo squadrismo epistemologico, né il controllo poliziesco-militare dei territori, né l’oltranzismo delle regole, né il governo per assurdo, né il tecno-fascismo. La differenza, rispetto ad allora, è che ci abbiamo fatto il callo: la new normality è diventata normality e basta (come attesta il DL Sicurezza tanto nel metodo quanto nel merito).
Dando per assodata la critica alla strategia emergenzialista (cfr. ad esempio i testi di Andrea Miconi), qui cominciamo dallo squadrismo epistemologico, e cioè dalla squalificazione di ogni sapere non perfettamente allineato. Il silenziamento delle voci critiche ha colpito in modo durissimo la dissidenza da sinistra, incluse le voci scientificamente titolate delle università del nord globale. Oltre al caso celebre del prestigioso British Medical Journal, ostracizzato perché criticava la doxa pandemica, anche le scienze sociali – disciplinarmente tenute all’analisi critica del presente – hanno avuto vita dura. Molti fra coloro che le praticano hanno mostrato la loro codardia scegliendo di tacere; i pochissimi che hanno aperto bocca l’hanno fatto a loro rischio e pericolo [2].
Oggi di molte cose non si deve dubitare. Ma se torniamo alla doxa pandemica (secondo cui una pandemia per cui non esistevano terapie efficaci minacciava la sopravvivenza dell’umanità ed era quindi necessario confinare l’intera popolazione e attendere la salvezza da un vaccino), è chiaro come quasi tutte le domande dirimenti siano rimaste senza risposta.
Se il Sars-Cov-2 sia entrato in scena per contagio animale o per fuga da laboratorio è stata una delle prime domande censurate. Una volta stigmatizzati i pipistrelli, in Italia non se n’è mai più potuto discutere pubblicamente (mentre in Francia, per un controesempio, l’ipotesi che il virus provenisse dal laboratorio di virologia di Wuhan è stata presentata dalla carta stampata già a partire dal 2021). Servirebbe un serio studio scientifico, certo… Ma sarà ben difficile arrivare a conclusioni attendibili in un contesto in cui ogni ipotesi è legata a doppia mandata alle fazioni politiche statunitensi. Inoltre, da allora, la crisi della replicabilità nelle scienze ha raggiunto un tale livello da confondere qualsiasi criterio “oggettivo”: nella letteratura scientifica, come nella vita, bisogna decidere di chi fidarsi, and so much for science.
Sull’inefficacia delle terapie esistenti si sono già espressi i sanitari che, a più riprese, hanno manifestato in piazza il loro dissenso – ed è bene ricordare che la loro categoria è stata fra le principali vittime tanto della pandemia in senso stretto (per numero di morti) che della sua gestione (eroi angelici durante la prima ondata, cinici criminali durante la campagna vaccinale).
Come causa del disastro sanitario, la sparizione dei medici di base suona assai più convincente: non erano le cure a mancare, ma i curanti, soprattutto dove il dilagare della sanità privata aveva già indebolito la medicina pubblica. Sul perché si sia scelto di sopprimere la prima linea di intervento, intasare gli ospedali e infine causare stragi nelle RSA non si è mai più discusso. Stralci di queste vicende, lungo gli anni, sono passati per i tribunali, ma senza particolare risalto nonostante il numero dei morti di ospedale, di RSA o di isolamento casalingo.
Il lockdown, con il suo corteo di violenze e assurdità, è almeno servito a contenere i danni della Sars-Cov-2? È un’altra delle domande che, collettivamente, preferiamo ignorare, ma pare che la brutalità del confinamento non abbia avuto alcun influsso sull’andamento della malattia (Cfr. Inchiesta sul confinamento, di Théo Boulakia e Nicolas Mariot, pubblicata sul numero di marzo 2025 di Le Monde Diplomatique).
Per finire, fra le molte questioni divisive incontrate nell’arco delle nostre vite nessuna eguaglia in tossicità quella relativa al vaccino anticovid. La tratteremo solo per un aspetto: era noto fin da subito che Comirnaty, il vaccino a mRNA di Pfizer divenuto poi, nei fatti, l’unico disponibile, aveva effetto immunizzante – impediva il manifestarsi della malattia sintomatica, specie nella sua forma grave – ma non sterilizzante, cioè non era in grado di bloccare il contagio. Ne segue che tutto l’impianto del green pass non era solo politicamente vessatorio, ma anche logicamente fallace, almeno secondo Aristotele. Nondimeno, proprio intorno al green pass si sono prodotte le discriminazioni peggiori e le ferite più profonde.
Domande di questo tenore sono diventate illegittime e basta articolarle per essere fatti fuori come complottisti. Così Matthieu Amiech, lapidario: «l’anticomplottismo è una psichiatrizzazione della critica al potere, tanto più facile quando questa critica è maldestra e disarmata».
4. Violenza strutturale #2. Very long Covid.
Un’onda sferzante di malessere psichico, fisico e sociale continua a travagliare la popolazione, un very long covid che ha a che fare con tutte le «determinanti di malattia» entrate in azione nel biennio pandemico.
C’è, per cominciare, il long Covid in senso stretto, la permanenza a lungo termine di una varietà di sintomi dovuti, tra l’altro, anche alla capacità delle proteine del virus respiratorio Sars-Cov-2 di passare la barriera emato-encefalica e colpire il sistema nervoso centrale. La pagina che il CDC gli dedica parla di affaticamento, offuscamento della coscienza, peggioramento dei sintomi dopo uno sforzo fisico anche modesto, febbre, tosse, fiato corto, palpitazioni, difficoltà nel concentrarsi, mal di testa, problemi di sonno, vertigini, diarrea, costipazione, problemi olfattivi, dolori articolari e muscolari, rash cutanei, mutamenti del ciclo mestruale: un insieme difficile da spiegare e difficile da gestire, che ha colpito una certa percentuale di soggetti, indipendentemente dalla gravità della malattia.
Oltre a ciò, si è ipotizzato che l’aumento nel rischio di sviluppare, o riattivare, alcune patologie possa essere correlato al covid – è il caso di talune malattie autoimmuni – e/o alla vaccinazione anti-Covid, nel caso della pericardite. Nel quadro dell’antropologia medica, niente di tutto questo può essere letto come mero dato biologico, come effetto puramente meccanico dell’incrocio fra un organismo e una proteina: le malattie non sono enti naturali del mondo ma processi storici complessi, nei quali agiscono inestricabilmente fattori biologici, decisioni politiche, assetti sociali, distribuzione del potere, presupposti culturali, movimenti psichici e relazionali e via dicendo. E poiché la depoliticizzazione delle malattie è un’efficace strategia per ottenere l’impunità dei responsabili, rimandiamo i perplessi ai testi di Ivan Illich e dell’antropologia medica critica [3].
Poi c’è il diffondersi e l’aggravarsi di una serie di fenomeni già ben noti e presenti che, dopo il 2020, hanno visto una secca impennata e che, come il long covid, vanno letti entro un quadro causale complesso.
Dopo la pandemia, un certo numero di persone sono rimaste in casa. Letteralmente: non sono mai più uscite. Nel caso dei più giovani si parla di hikikomori, ma non ci sono solo loro. Lo stesso segno psico-politico si legge nell’uso delle mascherine all’aperto, che alcuni non hanno mai più abbandonato. Queste manifestazioni di ritiro sociale, terrore della morte e capitalizzazione della salute hanno cause storiche profonde, che rimandano alla costruzione moderna di soggetti monadici e che la gestione pandemica ha esasperato.
Il sonno sta sparendo dalle notti di tutti. Negli anni Settanta della nostra infanzia l’insonnia era un problema occasionale degli adulti già un po’ in là con gli anni; oggi, in molte famiglie, è la situazione normale: i genitori non dormono per via delle angosce della vita adulta in tempi cupi, i figli non dormono perché catturati dallo scrolling o per via di una continua attivazione ansiosa. Gli effetti di medio termine sono pesanti, sia dal punto di vista fisiologico che per la tenuta dei nuclei familiari. In Regno Unito, riporta il Guardian, c’è un vero e proprio mercato nero della melatonina, somministrata ai figli da genitori disperati per riuscire a dormire almeno qualche ora a notte. L’assalto capitalista al sonno, denunciato da Jonathan Crary qualche anno fa, è arrivato a compimento.
Nei nidi, nelle scuole dell’infanzia e nelle scuole elementari le certificazioni di autismo – le cui manifestazioni, in senso ampio, comprendono problemi sociali e di comunicazione – sono talmente tante da imporre una riflessione che non può più limitarsi ai tecnici della diagnosi. Se è possibile che i numeri dipendano anche da un problema di sovra-diagnosi, è altrettanto vero che le osservazioni spicciole, quotidiane, di maestri e maestre indicano un peggioramento generale delle capacità relazionali, che coinvolge larga parte dei bambini e che, in alcuni, si manifesta in modo acuto. In parallelo sono aumentate le diagnosi di disturbi specifici dell’apprendimento, le diagnosi di ADHD e le richieste di certificazioni BES. Tradotto in termini antropologici, la messa in forma dei bambini nell’occidente contemporaneo produce effetti che non ancora riusciamo a interpretare e a gestire del tutto.
Fra gli adolescenti la situazione è drammatica. La loro salute mentale era già sotto attacco da quando, nel 2006, gli smartphone con schermo tattile hanno cominciato a diffondersi. All’inizio del 2020, tuttavia, molti genitori stavano ancora resistendo alla «balia elettronica» con politiche educative di accesso limitato agli schermi e ai social. Quando, a marzo, tutti gli scolari d’Italia sono stati costretti alla DAD – e quindi a molte ore obbligatorie di esposizione a schermi, telecamere, internet e «contenuti» – la possibilità di resistere all’informatizzazione della vita dei nostri figli è stata spazzata via.
Oggi, dicono unanimi i professionisti della cura psy, ansia, depressione, autolesionismo, abbandono scolastico, che già colpivano duro prima della pandemia, sono a livelli propriamente epidemici. Così, mentre molti psicoterapeuti non hanno più spazi per nuove richieste di aiuto, nelle neuropsichiatrie infantili i posti letto non bastano e gli accessi per tentato suicidio sono aumentati in modo preoccupante – al punto tale che, verso la fine del 2023, se n’era parlato perfino sulla stampa generalista.
È assai comune che, nel discorso pubblico, questi fenomeni vengano descritti come esito di malfunzionamenti individuali, ad esempio ipotizzando «geni difettosi» o «squilibri neurologici» che favorirebbero il diffondersi e il cronicizzare di condizioni quali l’ADHD, la depressione o l’autismo. Il linguaggio di cui queste spiegazioni si ammantano somiglia a quello scientifico, ma non bisogna farsi ingannare: si tratta, ancora una volta, del vecchio trucco che consiste nel far passare per naturale qualcosa che è di origine sociale e storica [4].
Ogni sofferenza, insopportazione o manchevolezza rispetto allo standard previsto viene così attribuita a un deficit del singolo, a una fragilità intrinseca che gli impedirebbe di funzionare a dovere e che può essere compensata e gestita tramite fix farmacologico o con il riconoscimento di un handicap. Difficilmente si ragiona sulla storia sociale, politica, culturale entro cui si dispiega la vita delle persone, sulle strutture di sentimento che le circostanze biografiche imprimono in noi, su quanto ciascuno incorpori, fin nelle cellule, il proprio mondo e il proprio tempo. Le pieghe imposte alla vita collettiva dalle convenienze del capitale e dei governi diventano malattia: come comprendere, altrimenti, i milioni di depressi o che a tentare il suicidio siano bambini di 9 anni?
«Non è ciò che hai vissuto a essere insopportabile, sei tu che sei debole». I soldati statunitensi di ritorno dal Vietnam, che non riuscivano a uscire dall’orrore di quel che avevano visto e di quel che erano stati costretti a fare, ottenevano una pensione e un minimo di sostegno terapeutico solo accettando un’etichetta – quella di PTSD: Post-Traumatic Stress Disorder – che ne stigmatizzava la debolezza psichica soggettiva. Qualcosa di analogo accade oggi: forse gli hikikomori di ogni età erano persone psichicamente fragili messe in crisi da un mondo complicato, ma si può anche ipotizzare che l’uso sconsiderato del terrore abbia lasciato segni psichici profondi.
Allo stesso modo, nel guardare al malessere adolescenziale che si esprime ormai anche in forme neurologiche, o alle difficoltà relazionali dei bambini, molti ancora insistono su bachi individuali o sulla disfunzionalità delle famiglie, come se l’improvvisa sparizione del mondo, decretata con uno schiocco di dita dal potente di turno, fosse un evento psichico di poco rilievo e come se le famiglie potessero davvero sopperire, da sole e sotto l’impero delle serie tv, al disastro generale.
La gestione pandemica ha tradotto in scelte politiche reali l’immaginario del pericolo pubblico, dell’apocalisse senza redenzione, che da anni attanaglia gli Stati Uniti e, di conseguenza, l’occidente globale. Alcuni analisti affermano che, dopo il covid, è cambiato il registro del disagio portato in psicoterapia, che si è spostato da questioni relazionali e di traiettoria biografica a problemi di impotenza soggettiva e perdita di senso di sé, della vita e del mondo.
Nella teoria antropologica per cui tifiamo, gli umani sono costruiti fin nelle cellule dall’ecologia relazionale complessa di cui fanno parte e alla quale contribuiscono. Nel momento in cui questa ecologia viene lacerata e riconfigurata con l’uso della forza, rendendo passivi e impotenti coloro che la abitano, gli esiti patogeni sono garantiti. E in effetti, come si fa ad abitare sensatamente un mondo in cui tutto, incluso il terriccio più fondamentale della vita – vicinanza, contatto, visite ai malati, saluti ai morti, solidarietà, affetto – può esserti tolto con un decreto d’emergenza?
5. Violenza strutturale #3. Bentornati al capitalismo di guerra!
Andiamo avanti: la violenza pandemica è ancora ben visibile in molti luoghi della vita ordinaria. A livello spicciolo, poche RSA sono tornate agli orari liberi di vista e molte hanno dismesso l’uso delle mascherine solo negli ultimi mesi, trasformandosi in un regime di tipo simil-detentivo.
Le università hanno integrato la DAD nell’offerta formativa, conformandosi di fatto alle telematiche. La scuola, già in affanno prima della pandemia, si è definitivamente piegata all’impostazione aziendalistica e alla pedagogia che essa richiede, promuovendo la competitività, la ragioneria infernale dei voti e delle medie, l’autoimprenditorialità: molti adolescenti la rifiutano in blocco mandando in angoscia le famiglie ma, nonostante le sperimentazioni dell’epoca Covid, non esistono alternative collettive plausibili.
Il fallimento – questo sì, cercato e voluto – della sanità pubblica si è trasformato nella sua dismissione, ormai unanimemente accettata come un fatto di natura contro cui nulla si può. La sostituzione del servizio pubblico, del protagonismo collettivo e perfino della miseranda politica citoyenne con la mentalità, le modalità organizzative e la filosofia corporate è un incubo quotidiano. Quasi tutti i cartelli pandemici – ingiunzioni sull’uso dell’ascensore, su come lavarsi le mani ecc. – sono rimasti al loro posto, una longue durée che rivela fino a che punto l’immaginario collettivo è stato segnato dal clima dell’epoca.
Arriviamo infine all’insieme più preoccupante di fenomeni che si trovano in continuità diretta con le politiche di gestione pandemica: quello relativo al controllo militare di popolazioni e territori. Poiché un simile livello di oppressione è giustificabile solo sbandierando un’esigenza superiore, negli ultimi anni si è perso il conto delle emergenze proclamate, con un intero zoo – peste suina africana, influenza aviaria, varianti del Covid, orsi killer, nutrie alluvionali e via dicendo – a fare da parafulmine e in una dinamica accelerata di streghizzazione della dissidenza.
Il regolamento di conti fra grandi bande capitaliste ha distrutto la piccola e media impresa che ancora resisteva a livello nazionale, rendendo inevitabile il servaggio collettivo verso le grandi piattaforme (ciò su cui battono molte delle analisi rossobrune) e, con ciò, una tracciabilità totale di preferenze, abitudini, ritmi, spostamenti e via dicendo, sulla cui utilità nello scontro geopolitico fra vecchie e nuove potenze non c’è alcun dubbio.
Nelle pieghe di questa dinamica, molte fra le università italiane che ancora gestivano le comunicazioni informatiche in autonomia hanno scelto, durante la pandemia, di incatenarsi a Microsoft o a Google, affidando loro i contenuti delle lezioni, delle riunioni, delle email e delle ricerche. Quando qualcuno prova a obiettare, arrivano le rassicurazioni di prammatica: non c’è pericolo, perché in Europa i servizi dei colossi informatici soggiacciono per contratto al GDPR – come se l’esproprio capitalista si fosse mai lasciato fermare da una firma su un pezzo di carta.
Più in generale, la delega ai tecnici di tutte le questioni che comportano una scelta, giustificata à la Burioni con l’adagio secondo cui bisogna fidarsi delle superiori competenze degli esperti, è un modo efficace di depoliticizzare tutto ciò che ci riguarda, e trasforma l’esistenza collettiva in un deserto tecnicamente attrezzato.
La green transition tanto magnificata fra 2021 e 2023, e che pareva radioso orizzonte del futuro prossimo, oltre a essere pura falsa coscienza capitalista, puntava dritta all’ennesimo esproprio di risorse – come dimostra, ad esempio, la lotta di Barroso in Portogallo – e, su più lunga gittata, alla reintroduzione del nucleare, infrastruttura infernale la cui via, in questi stessi giorni, la UE sta spianando. Cooptata in quest’inganno, larga parte dei verdi si trova oggi, a livello europeo, su posizioni assurdamente sviluppiste; i Fridays for Future sono implosi; e le ragioni prime del movimento ecologista, fino all’altro ieri ampiamente condivise a livello sociale, sono state messe nel sacco dell’«estremismo» e rese impresentabili.
In agricoltura, le nuove tecniche di manipolazione genetica digitalmente assistita hanno superato i vecchi OGM: le nuove Tecnologie di Evoluzione Assistita si trovano all’intersezione di quella che i francesi chiamano «convergenza NBIC», la coalescenza di nano- e bio-tecnologie con le scienze informatiche e quelle cognitive. La digitalizzazione dell’agricoltura permette di estrarre dati dall’attività agricola per gli scopi più vari (dalle assicurazioni alla possibilità – a fini bellici, di controllo o di estrattivismo – di affamare qualche territorio) e di usare i dati sulle sementi per ingegnerizzare e digitalizzare ulteriormente la manipolazione genetica. In questo modo vengono esautorati il sapere autonomo e la regolazione umana del rapporto con l’ambiente, il cibo, le specie non umane, cancellando definitivamente uno spazio fondamentale dell’autonomia delle comunità.
Implementate ovunque (imprese, enti territoriali, ricerca universitaria, scuola, sanità ecc.), le linee programmatiche del PNRR stanno spingendo verso una decisa trasformazione digitale della società nella sua interezza, resa desiderabile dallo shock del lockdown. Con questi soldi, tra l’altro, viene finanziata la telemedicina, ovvero la definitiva riduzione della malattia a guasto meccanico e del medico a tecnico della «materia umana»; già oggi, d’altro canto, il lavoro dei medici di base passa sempre più per l’interfaccia informatica. Il controllo preventivo dei flussi di popolazione, reso simpatico in epoca Covid con le app di tracciamento, non è mai stato così facile, diffuso ed efficace.
Il controllo poliziesco di città e territori all’epoca del lockdown e delle zone a colori ha dato i suoi frutti nell’impiego, ormai ordinario presso molti comuni, delle zone rosse, che con la pandemia hanno infine trovato modo di estendersi dalla Genova in stato d’eccezione del G8 all’intero territorio nazionale nella sua normalità. I tornelli che, tramite QRcode, determinano l’accesso agli spazi pubblici ripartendo la popolazione in gruppi dai diritti differenziali, sono diventati parte dell’arredo urbano standard, da quelli che controllano i flussi turistici a quelli che proibiscono gli ultimi baci al binario dei treni.
Le tecniche di mobilitazione e controllo dell’opinione pubblica, la cui sorprendente efficacia è stata verificata nei mesi pandemici, sono poi rimaste in funzione a tempo pieno. La violenza cognitiva è diventata strategia corrente, fra debunkers, fake news, algoritmi, accuse di complottismo e con il monopolio dell’informazione legittima da parte degli Stati e delle cordate industriali.
Oltre a richiamare la caccia alle streghe, il retrogusto di questo silenziamento rimanda a uno fra i fenomeni più inquietanti del Novecento: la propaganda. Legata a doppia mandata ai regimi totalitari e alle mobilitazioni belliche, uno dei caratteri distintivi della propaganda è il timbro morale della comunicazione. Non a caso si è parlato, durante il Covid, di «paternalismo di Stato» e perfino di «Stato etico». Legge ed etica, scienza e verità, Stato e popolazione sono una cosa sola: chi dissente, chi si trova su posizioni esistenziali differenti, non è solo un avversario o qualcuno che sbaglia, ma un soggetto intrinsecamente immorale e illogico, che chiama su di sé tutta la violenza necessaria a riportare nel mondo ordine e unanimità.
Se è vero, come sostengono ne L’alba di tutto David Graeber e David Wengrow, che le istanze liberatorie dell’Illuminismo europeo sono fiorite a partire dalla capacità scettica, critica e argomentativa dei nativi nordamericani, quella lezione è stata molte volte dimenticata lungo la storia dell’Europa. La democrazia politica richiede democrazia psichica, e questa vive solo nella molteplicità delle opinioni, delle scelte possibili, delle discussioni, dei confronti. Niente di tutto questo, oggi, è a nostra disposizione.
Concludiamo in modo volutamente telegrafico con il più inquietante fra tutti i fenomeni elencati: impiantata quando la metafora della guerra al virus si è tradotta nella realtà di un generale a capo della campagna vaccinale, la militarizzazione prosegue imperterrita sulle strade, nelle scuole e nelle università, e scandisce il passo di marcia verso un conflitto che pochi, oggi, pensano ancora evitabile. E infatti ora ci dicono che è bene prepararsi al peggio mettendo in borsetta una power bank e un mazzo di carte.
Lockdown, Ucraina, Gaza, Iran. La logica pandemica è stata il punto d’attacco di un rivolgimento complessivo di cui solo ora vediamo a figura intera la portata e la direzione: una direzione bellica, fin dall’inizio e senza flessioni, che comporta accaparramento delle risorse, controllo della popolazione, accentramento dell’informazione; che ogni volta traduce in pornografia il numero di morti e feriti; e che richiede dosi massicce di propaganda e di terrore.
In ciò, i rimasti pandemici ci hanno visto meglio fin dall’inizio.
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* Stefania Consigliere è ricercatrice all’Università di Genova, dove insegna Antropologia e Antropologia dei sistemi di conoscenza, e dove coordina il Laboratorio Mondi Multipli, luogo di ricerca delle conseguenze ontologiche, epistemologiche, etiche, politiche ed esistenziali che derivano dal precetto antropologico di «prendere gli altri sul serio». Fra le ultime pubblicazioni Favole del reincanto, Antropologia di una pandemia e Materialismo magico.
Cristina Zavaroni, antropologa culturale ed etnologa africanista, ha una lunga esperienza di ricerca presso i Bakonzo del Rwenzori in Uganda. Specializzata in antropologia cognitiva ed etnopsichiatria, lavora da diversi anni come consulente e mediatrice etnoclinica per l’Associazione Mamre Onlus di Torino. Dal 2013 fa parte del Laboratorio Mondi Multipli.
Note
[1] A titolo d’esempio: lockdown per tutti e turni obbligatori per i lavoratori essenziali; positivi al virus invitati dai medici a non recarsi all’ospedale, per non rischiare di infettare altri pazienti, e costretti dal Prefetto al ricovero; da «Milano non si ferma» a «andrà tutto bene» nel giro di qualche giorno; depoliticizzazione integrale, nel discorso pubblico, dell’evento biopolitico più clamoroso della storia umana; uso delle mascherine sconsigliato dall’OMS nei primi decaloghi su come proteggersi dal virus e poi reso obbligatorio anche all’aperto; la fascia d’età a rischio in assoluto minore di malattia grave detenuta in casa, con la DAD, più a lungo delle altre; possibilità di frequentare congiunti fino al sesto grado, anche se ignoti, e divieto di vedere gli amici di sempre; possibilità di andare a correre ma non di passeggiare; possibilità per i non vaccinati di salire sui treni regionali, ma non sugli InterCity, e viceversa.
[2] Utrecht, marzo 2022 («Critical Perspectives on Pandemic Politics: Left-wing, Feminist and Anti-racist Critiques»): quattro gatti in sala e quattro online, alcuni relatori scelgono l’anonimato per timore di ritorsioni istituzionali. Napoli, aprile 2022 («Tutta Un’Altra Storia»): le scienze sociali accademiche disertano la chiamata alla discussione, il convegno si svolge in uno spazio occupato. Torino, novembre 2022 («Poli-Covid-22»): previsto al Politecnico, il convegno è censurato e costretto a svolgersi fuori dall’università. È solo a Pisa nel dicembre 2024 («Il governo della pandemia. Uno sguardo critico») che dentro un’aula universitaria si può azzardare un bilancio: qui tutti i relatori sottolineano la continuità fra il biennio pandemico e il presente.
[3] Ad esempio H.A. Baer, M. Singer & I. Susser (1997), Medical anthropology and the world system. A critical perspective, Bergin & Garvey, Westport (U.S.A.) and London; P. Coppo (2003), Tra psiche e culture. Elementi di etnopsichiatria, Bollati Boringhieri, Torino 2003; I. Quaranta I. ed. (2006), Antropologia medica. I testi fondamentali, Raffaello Cortina, Milano; M. Marmot (2004), The Status Syndrome. How Social Standing Affects Our Health and Longevity, Owl Books, New York
[4] Qui ci starebbe una lunga digressione sui modelli epistemologici nelle scienze della vita, ma andiamo per le spicce: negli ultimi trent’anni le ricerche in epigenetica, embriologia, ecologia, etologia e citologia hanno sostanzialmente sconfermato il modello meccanicista, riduzionista e “informatico” («un gene, un carattere») che regolava la ricerca nella seconda metà del Novecento. Per via della sua collusione con l’impianto concettuale del neoliberismo, tuttavia, il modello vecchio continua a essere proposto come orizzonte unico della spiegazione biologica anche fuori tempo massimo. Chi fosse interessato ad approfondire le questioni può cominciare da questi due testi: T. Ingold & G. Palsson (a cura di), 2013, Biosocial becomings. Integrating social and biological anthropology, Cambridge University Press, Cambridge 2013; J.-J. Kupiec, 2019, La concezione anarchica del vivente, Elèuthera, Milano 2021. (Il testo più divertente sulla naturalizzazione della storia resta ancora Miti d’oggi di Roland Barthes.)
Grazie a Nadia Breda, Wolf Bukowski, Maddalena Gretel Cammelli, Duccio Costantini e Mimmo Perrotta per l’intransigenza, il calore e l’ironia dei lori commenti.
Postilla
di Wu Ming
Noi, senz’altro, ci sentiamo più lontani dai «disvedenti», perché su quel biennio tanto maledetto quanto fondante abbiamo continuato a riflettere, come abbiamo continuato a scriverne, anche nei nostri libri. Eppure non ci riconosciamo del tutto nell’identikit dei «rimasti», perché in questi anni ci siamo anche mossi, più volte attraversando la linea che divide i due campi.
Con le nostre parole e prassi, spesso ci rivolgiamo a chi, all’inverso rispetto a noi, si sente più lontano dai rimasti, eppure non è tra i disvedenti.
Il numero di costoro è maggiore di quanto si creda: persone che all’epoca ottemperarono, ma a cui da tempo le cose non quadrano.
Noi le incontriamo. Capita sovente che, nei nostri eventi pubblici, si parli del grande rimosso. E se durante il biennio 2020-2021, per le posizioni tenute qui su Giap, subimmo attacchi violentissimi, ingiurie, calunnie, oggi i nostri discorsi non incontrano ostilità. Non sappiamo quanti rimasti vengano alle presentazioni, ma ci sentiamo di dire che i disvedenti sono pochissimi.
Si è anche scoperto, col passare del tempo, che ai divieti più assurdi molti obbedirono per finta, o solo in parte. Affiorano testimonianze di pratiche di socialità clandestina, spesso pensate da piccole reti di genitori per dare un po’ di sollievo a ragazze e ragazzi. Pratiche variegate che, ne siamo certi, limitarono i danni psichici e in certi casi salvarono vite.
Per confrontarsi con chi non è «rimasto» ma nemmeno disvede, ci è stato utile consigliare letture come l’inchiesta citata sopra, apparsa su Le Monde diplomatique nel quinto anniversario dei confinamenti. Ne sono uscite anche altre. In Italia quell’anniversario è passato sotto silenzio, altrove no.
Il 21 maggio scorso ci ha scritto la persona che, nelle vorticose discussioni sul Covid, si firmava Swann Matassa.
«Forse potrà interessarvi questa visione retrospettiva sull’efficacia dei lockdown, che ri-suggerisce “a bocce ferme” quel che molti di noi tentavano di leggere nei fatti già allora: che i cosiddetti lockdown (e i loro figli) non erano né la panacea, né la soluzione ai mali, né l’unica strategia possibile […] L’inchiesta della BBC a cui vi porta il link qui sopra tratta la materia ridiscutendo tutte le controversie che l’attraversavano già nel 2020, e cita correttamente tutte le fonti, rimandando agli studi recentemente pubblicati che indagano la problematica da prospettive sia epidemiologiche che economiche. Insomma, non è che la questione sia “risolta” (non lo sarà mai), ma forse finalmente se ne può parlare come si sarebbe dovuto fare sempre, come voi avete cercato di fare anche durante: con raziocinio.»
Chris Baraniuk, autore dell’inchiesta, cita vari studi, mettendo a confronto gli eccessi di mortalità in due categorie di paesi: quelli dove le autorità ordinarono ai cittadini di chiudersi in casa; e quelli – come l’allora vituperatissima Svezia – dove si scelsero altre strade. Ebbene, chi cercasse differenze significative non le troverebbe.
Correttamente, come fa notare Swann, Baraniuk non trae conclusioni nette, perché non è possibile. Tuttavia fa una panoramica dei danni causati dallo stare-in-casa coatto. Rispetto a quella di Consigliere e Zavaroni può sembrare felpata, ma per il sito della BBC è piuttosto radicale.
«Innumerevoli studi dimostrano che durante la pandemia migliaia di persone hanno sofferto isolamento sociale e solitudine, un problema particolarmente acuto durante i lockdown nazionali. Ci sono stati impatti negativi sui genitori single, che hanno avuto più difficoltà a procacciarsi un reddito mentre si prendevano cura dei figli. Si teme che l’improvvisa perdita delle interazioni sociali e dell’accesso all’istruzione abbiano condizionato lo sviluppo dei bimbi, con alcune evidenze di un impatto sulle loro abilità linguistiche. Più di un miliardo di bambini e studenti si sono ritrovati separati dai loro abituali metodi di apprendimento. Stando a ricerche pubblicate di recente, basate su dati provenienti da 72 paesi, la chiusura delle scuole durante la pandemia potrebbe aver causato un calo [nelle competenze matematiche] equivalente a sette mesi di apprendimento.
In paesi come il Regno Unito, al confinamento è corrisposto un aumento delle violenze domestiche. Ancor più preoccupante, i lockdown hanno avuto un enorme impatto sull’accesso alla sanità. Ad esempio, molti esami e trattamenti oncologici sono stati annullati o rinviati.
Per quanto riguarda i potenziali benefici dei lockdown non legati alla trasmissione del virus, si è molto parlato del calo temporaneo dell’inquinamento e delle emissioni climalteranti a causa delle restrizioni imposte nelle prime fasi della pandemia. Si è rivelata una piccola variazione temporanea: le emissioni di gas serra sono di nuovo aumentate e la qualità dell’aria è diminuita non appena le persone sono uscite dal confinamento.»
Riguardo a quest’ultimo aspetto, il quadro è peggiore di come lo dipinge Baraniuk. Emissioni e inquinamento non sono risaliti a dispetto della pausa dei lockdown, ma a causa di essa. Il capitalismo nella fase della «ripartenza post-Covid» emette, inquina e depreda risorse molto più di prima. È la «ripartenza» stessa a imporlo, con la violenza sistemica che Consigliere e Zavaroni ben inquadrano. È stata la «ripartenza» a riportare in grande auge il carbone. Con buona pace di chi descrisse le politiche pandemiche come foriere di un mondo migliore, più solidale, più green.
Ma torniamo all’inchiesta della BBC. Baraniuk conclude:
«Cinque anni dopo, ci è più chiaro quanto siano stati duri i lockdown e che conseguenze abbiano avuto su milioni, se non miliardi, di persone. Anche ricercatori secondo cui i lockdown salvarono vite, per il futuro mettono in guardia dall’adottare frettolosamente tale misura. Gli effetti a lungo termine sull’infanzia, sull’istruzione e sulle economie si stanno ancora manifestando e probabilmente saranno compresi del tutto solo tra molti anni.»
Insomma, sì, non è possibile trarre conclusioni nette… Ma una cosa l’inchiesta la fa capire bene – anzi, due: rinchiudere la gente in casa non era l’unica via, e ha avuto conseguenze catastrofiche.
Estendere questa consapevolezza, diffonderla tra quanti non sono «rimasti» né disvedono, è la precondizione per avviare finalmente il dibattito, dissipare parte dei miasmi che viziano l’aria, far uscire i rimasti dai loro loop di disillusione, incredulità, solitudine.
E i disvedenti incalliti?
Continueranno a disvedere, per «tenere la parte» interpretata nel 2020-21. Ma saranno un po’ meno maggioranza, e il loro recedere allargherà il margine della discussione.
Questo è un post molto importante e necessario, grazie di cuore alle autrici. C’è il bisogno ormai ineludibile di cominciare a tracciare le linee di flusso che dall’emergenza pandemica portano alla fase attuale, in cui è diventato normale parlare di guerra nucleare, di cancellazione di Gaza dalle carte geografiche, di deportazioni di massa, di viaggi su Marte, di intelligenza artificiale a cui affidare la gestione delle nostre vite.
L’unica cosa su cui ho delle perplessità è la divisione tra “rimasti” e “disvedenti”, perché secondo me lascia troppe cose fuori dall’inquadratura. La trovo sghemba, nel senso che anche tra i cultori del lockdown e del green pass c’è chi continua a rimuginare sulla pandemia, alcuni col rancore allucinato che ben conosciamo contro i “no vax” (concetto omnibus che per loro compendia qualunque posizione critica sullo stato d’emergenza pandemico), ma altri con dolore reale per i lutti patiti e sensi di colpa per i morti che non hanno potuto salutare; per contro, tra chi ha contestato lo stato d’emergenza c’è anche chi disvede la repressione quando questa si accanisce contro altri, ad esempio contro i migranti, e accetta senza problemi la digitalizzazione delle nostre vite quando viene imposta dai tecnocapitalisti “giusti”. Ma soprattutto, più passa il tempo, più si dipana la nebbia, più mi rendo conto che la maggior parte delle persone difficilmente rientrano in una griglia costruita su polarità quali rimasti/disvedenti, pro emergenza/anti emergenza. Una cosa che mi è sempre più chiara e che mi sembra importante è che molte persone in quei due anni avevano elaborato in modo istintivo strategie per vivere qualche forma di socialità reale e corporea sotto il radar, in incognito, stealth. Insomma: c’erano tante persone come il capo indiano di “Qualcuno volò sul nido del cuculo”, che faceva finta di essere idiota per proteggersi dalla violenza psicologica dell’infermiera. Quasi nessuno è riuscito a sollevare la fontana per sfondare la vetrata, questo è vero. Ma anche quella era una forma di resistenza, l’unica possibile per molti, di fronte alla violenza dell’apparato repressivo dello stato d’emergenza pandemico.
Aggiungo che poi ci sono quelli che all’epoca hanno visto subito la violenza sistemica dello stato d’emergenza e la hanno denunciata pubblicamente, e non hanno dimenticato niente, ma oggi sono già oltre, molto avanti rispetto a quella fase. Ad esempio, “Gli uomini pesce” di Wu Ming 1 parla (anche) di questa possibilità di apertura verso il futuro.