Monte Manfrei. Un “crimine partigiano” inventato di sana pianta. Seconda e ultima puntata

Esempio di False Memory Syndrome: ricordare un eccidio mai avvenuto. Monte Manfrei, commemorazione del 26 giugno 2015. Nella foto, la bandiera della Repubblica Sociale Italiana (stato-fantoccio collaborazionista impiantato da Hitler nell’Italia settentrionale), quella dell’Unione Nazionale Caduti della RSI e quella dell’Associazione Nazionale Paracadutisti d’Italia (ANPdI), sez. prov. di Genova «Dario Pirlone».

di Nicoletta Bourbaki * – La prima puntata si trova qui

INDICE DELLA SECONDA PUNTATA

5. Urbe e Sassello, primavera 1945: gli eventi
6. Nomi, cifre, fosse, luoghi, salme
7. Spostamenti supersonici di partigiani
8. I fantaelenchi dei caduti repubblichini
9. Cui prodest?
10. Appendice: visita a Monte Manfrei

5. Urbe e Sassello, primavera 1945: gli eventi

Primavera 1945. Monti della Liguria. Provincia di Savona. Comuni di Urbe e Sassello. Negli ultimi cinque-sei mesi in questi monti non si è fatto che combattere.

Tra Urbe e Sassello la resistenza armata è portata avanti dalle brigate «Buranello» ed «Emilio Vecchia» che, assieme alle formazioni delle valli vicine, formano la Divisione «Mingo». Sono le ultime forme assunte dalle forze resistenziali, che durante il conflitto dovettero più volte cambiare inquadramento, responsabilità, compiti e qualifiche per adattarsi al continuo mutare delle situazioni.

Combattono contro la forza di occupazione nazifascista, organizzata in diverse formazioni, ma principalmente contro la Terza Divisione fanteria San Marco. Guidata dal generale Farina e facente parte dell’Armee Ligurien della Wehrmacht, dal cui comando riceve gli ordini, la San Marco è composta da personale reclutato in Italia e addestrato in Baviera.

Campo di addestramento di Grafenwöhr, Baviera, 28 aprile 1944. Benito Mussolini, ormai null’altro che un burattino in mano a Hitler, passa in rassegna la Divisione San Marco. Due mesi dopo, la San Marco lascerà a scaglioni la Germania per raggiungere la Liguria di Ponente, dove si impegnerà in rappresaglie contro i civili, esecuzioni sommarie, incendi di villaggi, rastrellamenti, deportazioni di massa.

Dislocata formalmente a protezione del litorale ligure contro un possibile sbarco alleato, nei fatti l’impiego primario della San Marco è la guerra antipartigiana, portata avanti anche attraverso violenze sui civili, come testimoniato da diverse memorie della gente del luogo e persino da una relazione nazifascista del settembre 1944:

[DOCUMENTO 130 – SEGRETO – OKH/Chef H.Rust E Bdc/Chef Ausb. – Ispettore unità italiane – Prot. N°807/44 segreto STARNBERG 22-09-1944]

«Bisogna sorvegliare strettamente la popolazione. Fucilare senza riguardo gli istigatori! Prendere ostaggi! Finora la divisione “San Marco” ha mandato ai campi di concentramento 1700 civili. Località sono state bruciate […]»

(da: P. Baldrati, San Marco… San Marco. Storia di una Divisione, vol. 2, pag. 919, come riportato in: Triste. Storia, cit.)

Nel corso del conflitto le brigate partigiane hanno inflitto perdite durissime ai nazifascisti, i quali non hanno fatto che rispondere con rastrellamenti e cruenti eccessi di violenza, fucilazioni sommarie e case bruciate. Eccessi che il generale Farina approva e spinge a eseguire.

A metà marzo del 1945 il comando regionale della resistenza dirama le prime direttive per l’insurrezione generale: si prevede l’arrivo delle truppe alleate entro tre-quattro settimane, con conseguente ritiro delle forze nazifasciste, che presumibilmente si lasceranno alle spalle alcune formazioni di brigatisti neri e altri oltranzisti per svolgere azioni di sabotaggio e agevolare il ritiro della Wehrmacht.

La Divisione «Mingo» consta oramai di circa un migliaio di effettivi. Nonostante la disparità di forze, la difficoltà della guerra partigiana e la violenza dei nazifascisti, la resistenza non fa che macinare successi. Come testimonia Domenico Patrone (Triste. Storia, p.80)

«[…] noi eravamo molto più forti e determinati perché combattevamo per un ideale di Libertà e Democrazia, mentre i tedeschi, che oramai intravedevano la prossima fine, scaricavano i loro alleati fascisti che si battevano ancora spasmodicamente sapendo che ben presto avrebbero dovuto rendere conto delle loro malefatte.»

Purtroppo le cose non andranno proprio così.

Tra il 20 e il 23 aprile la liberazione è oramai nell’aria: si attende a breve la fuga dei nazifascisti e si prevedono scenari tattici plausibili. Si stabilisce che la «Buranello» dovrà raggiungere l’abitato di Sampierdarena e disporre le proprie forze lungo il costone fra Porta Angeli e la collina della Lanterna, con l’obiettivo principale di impedire al nemico il transito lungo la via di Francia e la camionale. Messaggi, dispacci, ordini e aggiornamenti si susseguono freneticamente e la tensione è altissima, come ben espresso da una «nota urgentissima» del 23 aprile che riporta testualmente:

«Le truppe tedesche stanno sgomberando, le forze fasciste sono in preda al panico. Voci e informazioni sopraggiungono secondo le quali si sta trattando per la resa di tutte le forze nemiche tedesche» (Gimelli, Cronache militari della resistenza in Liguria, vol. 2, Ed. Istituto Storico Resistenza Liguria, 1969, p. 909).

Sempre il 23 aprile viene trasmesso alle formazioni di montagna l’ordine di spostamento sulle nuove posizioni, disponendo che le brigate «Buranello», «Pio», «Balilla» e «Severino» si mettano agli ordini del Comando Piazza di Genova, per agire secondo le ultime direttive. L’ordine tuttavia non arriva, a causa di problemi di comunicazione, e questo causerà un certo ritardo nelle operazioni successive. Il giorno stesso arrivano alcuni uomini della brigata «Olivieri» con scorte di viveri per la «Buranello». Alla sera scatta l’insurrezione popolare di Genova. I rumori dei combattimenti in corso si odono fino ai monti di Urbe (Triste. Storia, p.81).

È a partire da questo momento che iniziano i «fatti del Manfrei».

Circa 200 marò della San Marco stanziati a Giovo (Pontinvrea), comandati dal tenente Giorgio Giorgi, marciano in direzione Acqui Terme. Non è accertato, ma probabilmente si tratta della 1a compagnia del 1° battaglione del 5° reggimento della San Marco. Circa alle ore 18 giungono a San Pietro d’Olba, in comune di Urbe, dove vengono accerchiati e disarmati senza sparare (Siri, E ma riordu, 2015, pp. 36,76). Il tenente Giorgi consegna i propri uomini ai partigiani. Secondo quanto riportato da Abriani, Giorgi tratta con Vanni, comandante della Brigata «Emilio Vecchia», mentre secondo la testimonianza della partigiana Fausta Siri, Giorgi tratta con Bruno (Clemente Delfino), comandante della «Buranello».

Per diverse ore i marò stazionano davanti al municipio di Urbe. Bambini del luogo e staffette partigiane si mettono a giocare con i cavalli prelevati ai marò. I presenti riconoscono tra questi alcuni uomini che nelle settimane e nei mesi precedenti si sono distinti per la violenza delle loro azioni: hanno picchiato selvaggiamente, ucciso e persino arso vive alcune persone. Il comandante Bruno intima a tutti i presenti di non toccare i marò: «Se toccate un prigioniero vi sparo addosso!» (Siri, op.cit. p.36). Infine i marò vengono condotti a Vara, ove vengono rinchiusi nella villa del Rostiolo in località «La Romana».

Secondo quanto riportato sia da Brenna sia in Fratricidio! la resa sarebbe invece avvenuta nella località di Palo, presso l’Albergo Appennino e successivamente una parte dei marò si sarebbe incamminata da Palo per andare alla Romana tramite il sentiero più breve e un’altra parte passando sulla statale (passando dunque da San Pietro in Urbe). Le diverse testimonianze in effetti possono essere compatibili anche con due episodi avvenuti a breve distanza temporale: uno a Palo nel pomeriggio ed uno a San Pietro verso sera. Come visto nella prima puntata di quest’inchiesta, diverse narrazioni sul Manfrei parlano confusamente di diversi gruppi di marò, e di marò fatti arrivare a La Romana attraverso due percorsi distinti. Va ricordato che in quei giorni frenetici è tutto un susseguirsi di episodi simili (ad esempio l’episodio citato da Domenico Patrone).

Non c’è coincidenza delle fonti sulla data della «consegna dei 200 marò», tuttavia c’è coincidenza su quando e come avvenne la discesa delle brigate verso Genova per la liberazione ed è dunque partendo da questi fatti accertati che, a ragion di logica, riteniamo che tale consegna possa essere avvenuta alla sera del 24 aprile, ossia nelle ultime ore di permanenza ad Urbe delle brigate e dei suoi capi.

Nel frattempo prosegue il frenetico scambio di messaggi tra i vari comandi partigiani. Il comando della «Mingo» viene a sapere solo attorno alle ore 20, cioè con parecchio ritardo, che la «Buranello» era posta agli ordini del Comando Piazza già dal giorno precedente e deve farla scendere subito a Sestri Ponente. Il comando della «Mingo» risponde positivamente, annunciando che la «Buranello» scenderà all’alba.

Oltre al ritardo iniziale delle comunicazioni, «il necessario chiarimento sul problema (solo apparentemente formale) portò certamente via altro tempo prezioso» (Gimelli, op.cit., p.956).

Già nella notte un primo drappello di partigiani va in avanscoperta sulla strada per Sestri, posizionandosi a difesa delle gallerie che potrebbero essere colpite da azioni di sabotaggio. All’alba il grosso della «Buranello» e la «Emilio Vecchia» marciano fino a Rossiglione dove entrano vittoriosamente e prendono un treno organizzato ad hoc, con cui si dirigono verso Mele. Un distaccamento si pone a guardia della ferrovia tra Campoligure e Masone. Giunti a Mele parte degli uomini prosegue lungo la statale, per poi ricongiungersi a Sestri con la restante parte della formazione che ha proseguito in treno.

All’alba del 25 aprile 1945, da Urbe, le brigate partigiane «Buranello» ed «Emilio Vecchia» marciano verso Rossiglione per proseguire verso Sestri, in parte col treno e in parte a piedi per altri percorsi. Clicca per aprire la mappa interattiva.

I pochi uomini della «Buranello» rimasti nei pressi di Urbe sono affidati al comando dell’intendente di brigata Albano (o Albanio). È probabilmente durante la giornata del 25 che vengono identificati tra i marò tutti quelli che si erano macchiati di gravi crimini nei mesi precedenti, complessivamente una decina circa.

Il tragitto dei partigiani in marcia verso Sestri è rallentato da numerosi drappelli di nazifascisti con cui devono scontrarsi. Solo alcuni uomini della «Buranello» riescono ad arrivare a Sestri la sera stessa del 25. Contemporaneamente, altre formazioni raggiungono i limiti di Genova.

Il 26 aprile la «Buranello» e la «Emilio Vecchia» si sono ricongiunte e all’alba entrano a Voltri, per poi raggiungere a piedi Sestri. Al contempo giunge a Sestri anche il 1° distaccamento della brigata «Olivieri» con i viveri destinati alle altre brigate partigiane. Nella mattinata la «Buranello» sfila per le strade di Sestri. Nella stessa giornata prosegue da Sestri a Sampierdarena, dove dispone diverse squadre per neutralizzare un reparto nemico asserragliato nel Silos Occhetti.

Contemporaneamente, a Vara, i marò sono sempre rinchiusi nella villa del Rostiolo sotto il controllo degli uomini della «Buranello» rimasti sul posto. I circa dieci marò riconosciuti colpevoli di gravi crimini vengono invece portati a poca distanza dalla villa e lì fucilati e sepolti.

26 aprile 1945. La «Buranello» entra a Sestri.

Tra il 27 e il 28 aprile la «Buranello» e la «Emilio Vecchia» sono ancora impegnate a combattere gli ultimi drappelli di nazifascisti nella zona di Sampierdarena, snidando gli ultimi franchi tiratori nascosti in diverse case. Nel corso delle azioni di bonifica che si susseguono in quelle giornate, queste formazioni partigiane catturano circa 500 prigionieri. Nel frattempo a Vara i marò arresisi pochi giorni prima vengono fatti marciare dalla villa del Rostiolo per circa 23 chilometri verso Rossiglione, per poi fargli prendere un treno che li porterà a Sestri e da qui, successivamente, in un campo di concentramento alleato (quasi certamente il campo di Coltano, presso Pisa), sulla linea ferroviaria ormai liberata. Gli abitanti di San Pietro salutano i marò che si mettono in marcia: «Li abbiamo visti e salutati incolonnati e sorridenti sapendo di raggiungere i campi di concentramento alleati e quindi al riparo dalle ritorsioni» (Siri, op.cit., p.77).

Il 1° maggio, a seguito di una denuncia, altri sei marò vengono dichiarati colpevoli e condannati a morte nei pressi del cimitero di Sestri: maresciallo Ameri, sottotenente Crupi, sergente Piochi, caporalmaggiore Bertelli, caporalmaggiore Todeschini, caporale Ballo. Il 2 maggio il tenente Giorgi, che era stato separato dai propri uomini, ottiene di poterli raggiungere a Sestri. Successivamente otterrà anche il permesso di far visita alla propria famiglia.

Il 18 maggio avviene l’ultima cattura di nazifascisti annidati sul monte Beigua.

Nei giorni immediatamente successivi alla Liberazione, la gente di Urbe sfoga la propria rabbia su alcuni collaborazionisti; ad esempio «vennero rasati i capelli alla Lilli che diventerà la moglie del dott. Zunini, la maestra Ines Siri, Idina Vitale, una signora anziana detta Peroccia […], Rina la postina, e forse qualcun’altra che non ricordo. Per raderle fu scelto Patatin, il postino spione che aveva tenuto per tutto il periodo bellico un comportamento infame» (Siri, op.cit., p.77).

Il dott. Zunini, sindaco di Urbe, sarà tra coloro che negli anni successivi getteranno le basi della leggenda della «strage del Manfrei».

Al termine del conflitto il comando della «Buranello» informa tutte le famiglie dei caduti precisando il luogo della sepoltura; non hanno tale privilegio quelli privi di documenti, o caduti in imboscate o per altre fatalità che non ne permettono l’ identificazione.

6. Nomi, cifre, fosse, luoghi, salme

Nessuna ricostruzione revisionista riporta i nomi dei supposti «caduti del Manfrei». Gli unici nomi che a volte vengono citati sono riferiti a quella parte di «personale civile, interpreti e impiegati amministrativi» che, come si è visto, alcune narrazioni affiancano ai militari della San Marco, oppure a ufficiali fucilati altrove.

Le diverse narrazioni consultate, quando parlano delle salme recuperate, o dicono che a nessuna di queste fu possibile attribuire un nome (cfr. ad esempio Oddone e Viale, Fratricidio! I caduti della RSI nelle stragi dell’entroterra ligure, cit., p.139), oppure non trattano la questione dell’identificazione.

Brenna ricorda che i 61 corpi ritrovati sono tumulati nel Sacrario di Altare (Brenna, Monte Manfrei: storia di un olocausto, in: San Marco n. 20, anno IV, giugno 1998).

Se ne dovrebbe desumere che ad Altare siano presenti 61 corpi ignoti morti nella supposta strage o almeno in circostanze collegate. Vedremo poi se le cose stanno così [spoiler: no].

Eppure dovrebbe essere di primaria importanza sapere se fu possibile stabilire l’identità di almeno alcuni dei corpi recuperati e le cause della loro morte, per determinare se c’entra la «strage». In base a cosa si è potuto affermare che supposti corpi non identificabili erano repubblichini della San Marco?

Mancando i nomi, le narrazioni tendono a incentrarsi più sui numeri dei caduti e a ventilare ipotesi sui reparti di provenienza. A questo proposito, tra i documenti a volte nominati – ma mai mostrati – dai narratori del Manfrei vi é l’elenco dei dispersi redatto dalla San Marco. Ma perché nominare una possibile prova senza mostrarla?

Forse perché narra una storia un po’ diversa da quella desiderata.

Leggiamo difatti cosa riporta l’elenco riguardo i dispersi nella zona del Sassellese (Da: Baldrati, San Marco… San Marco. Storia di una Divisione, vol. 3. p.1954-1955, cit. in Patrone, Toscani, p.119)

«25 aprile 1945

Caduti: 1 Sottufficiale 2°/I/5° Sassello

1 marò 3°/I/5° Sassello

1 maresciallo C.C.R-zona Sassello Disperso.

26 aprile 1945

Caduti: 1 Uff.Ignoto 6°Urbe-loc.Pian della Castagnola

3 marò Ignoti 6°Urbe-località Bricco Dano

1 marò Ignoto 6°Urbe-località Pelucco

2 marò Ignoti 6°Urbe-località Canai

1 marò Ignoto 6°Urbe-località Plina

27 aprile 1945

MONTE MANFREI: 49 marò Ignoti C.C.R. / 5 Caduti»

Dunque non si indicano 200 caduti, bensì 49 dispersi della compagnia comando reggimentale del 5°Reggimento. Il fatto che gli stessi redattori della San Marco ignorino l’identità dei dispersi che segnalano pone tuttavia seri quesiti sulla qualità delle informazioni che questi ricevettero in quei giorni, quando «se ne dicevano di tutti i colori» (Patrone, Toscani, op.cit., p.96). È possibile ipotizzare che la consegna di un reparto di marò e il successivo trasferimento in campo di concentramento, a causa di una mancata comunicazione e l’accavallarsi di voci, sia stato frainteso come cattura ed esecuzione?

Riprendiamo il filo iniziale: a dipanare in parte i nostri dubbi concorrono gli elenchi dei caduti della RSI: l’Albo Caduti e Dispersi della RSI – Edizione 2017, curato della Fondazione RSI; l’Elenco Caduti Repubblica Sociale Italiana “Livio Valentini”, e il già citato I caduti dell’RSI a Genova 1943-1946, a cura degli Amici di Fra Ginepro.

Innanzitutto è possibile verificare che di caduti segnalati come appartenenti al C.C.R. della San Marco caduti in date e luoghi vicine a quelle del supposto eccidio ve n’è solamente uno, del quale si ignora ogni dato anagrafico al di fuori del nome (Alfonso Blanco).

Gli stessi nomi a volte citati come caduti «del Manfrei», in questi stessi elenchi risultano caduti in date e luoghi del tutto incompatibili con la narrazione del supposto eccidio.

Giusto per fare alcuni esempi, basti far notare che Angela Biondi in Cagliano e Maria Maddalena Patrone, che ovviamente non erano marò e vengono spesso descritte come vittime civili «del Manfrei» sono indicate nell’Albo Caduti e Dispersi della RSI – Edizione 2017 come volontarie delle brigate nere uccise il 24 febbraio 1945, ossia ben due mesi prima dei supposti fatti del Manfrei.
Ancora: il sottotenente Edoardo Romano, anch’egli a volte indicato come vittima del Manfrei, in questi elenchi è segnalato come caduto in combattimento il 17 aprile 1945.
Tra le «vittime in più», poi, a volte (cfr. Brenna, op.cit.), compaiono «34 civili e numerosi soldati germanici».

Tutti gli elenchi citati contengono diversi nomi di fascisti caduti nei due comuni coinvolti in questa vicenda, Urbe e Sassello, tra l’estate del 1944 e quella del 1945. Pur trattandosi di dati incompleti e parziali vi sono nomi e cognomi, alcuni dati anagrafici e le formazioni di appartenenza. Sommando anche gli ignoti – le cui identità potrebbero essere già riportate in questi stessi elenchi – si arriva circa a 110 nomi. Nessuna traccia dei «34 civili» e dei «numerosi soldati germanici».

Di questi 110, soltanto 8 sarebbero caduti tra il 23 e il 29 aprile, le date in cui, stando larghi, sarebbe avvenuta la fantomatica strage. Tutti i restanti nomi sono indicati dagli stessi elenchi come deceduti in date, località ed episodi diversi nell’arco di un intero anno e su un territorio che si aggira attorno ai 130 chilometri quadrati.

A dire il vero chi narra della «strage del Manfrei» non considera tutti i 110 caduti a Urbe e Sassello come vittime del supposto eccidio, ma solo alcuni di essi. Quali di questi 110 nomi intendano non si sa.

Vediamo meglio.

Massimo Numa ne La stagione del sangue parla di 61 corpi recuperati, aggiungendo che a questi corpi «non è stato possibile dare un nome». La stessa cifra viene riportata anche da Cesare Brenna nel suo articolo sul periodico della San Marco e viene ripresa ancora da Viale e Oddone in Fratricidio!

Sempre Brenna, nel medesimo articolo, riporta che in un verbale dei carabinieri del 1948 si parla di 50 fosse ma che nell’aprile del 1955 ancora i carabinieri avrebbero dichiarato che di gran parte delle fosse non era possibile individuare l’ubicazione, e dunque le salme erano considerate irrecuperabili. Ma se nel 1955 dicono che queste fosse non erano individuabili in base a cosa nel 1948 si è asserito fossero 50?

Si può supporre che la cifra fosse una sparata nata da semplici supposizioni e poi trascritta dai carabinieri in un documento in cui venivano citati solo alcuni «si dice», redatto prima ancora di fare sopralluoghi approfonditi?

Cesare Brenna elenca anche 23 località relative alle esumazioni del dopoguerra:

«Alcune subito accanto alla villa, altre a Monte Manfrei, Fossa Grande, a La Bugastrella, Bricco Mondo, e più tardi, a casa dei Lencini, Casa Barbon, loc. Maietti, loc. Bricco Dano, loc. Pian della Castagola, loc. Pelucco, loc. Terracina, loc. Bricco del Porco, loc. Tuma, loc. Canai, loc. Meia delle Anime, Ca’ Barbaona, Bric Fratin, Pian di Blo, Ciapela, Civin, Roncazzi, Casa Polenta».

Fatta eccezione per l’iniziale «Monte Manfrei, Fossa Grande» (un’unica fossa in località Fossa Grande presso il Pian Manfrei? Una prima fossa a Fossa Grande – un avvallamento che si trova a oltre 500 metri da Pian Manfrei – e una seconda al Manfrei?), le altre località si trovano in monti e luoghi diversi dal Manfrei.

Il resto della lista è comunque approssimativo: ci si perde tra nomi trascritti erroneamente (ad es. «Castagola» per «Castagnola»), altri che si riferiscono allo stesso luogo («Ciapela» e «Roncazzi» sono la Ciapeleta dei Roncazzi) e altri ancora non identificabili (Casa dei Lencini, Civin e Ca’ Barbaona, forse doppione di Casa Barbon). Colpisce però la presenza di Bric Fratin (quasi a metà strada fra Urbe e Varazze) e Bric Mondo (tra Rossiglione e Campo Ligure), luoghi a diverse ore di marcia dalla villa «La Romana», ossia luoghi logisticamente assurdi se si volesse prendere per buona la narrazione dell’eccidio.

Forse è un caso, ma una volta ridotta la lista ai soli luoghi identificabili, ci si avvicina al numero di circa quindici fosse indicato da Numa, che tuttavia nelle stesse pagine riporta che «la topografia delle fosse» sarebbe «misteriosa» (Numa, La stagione del sangue, Ed. La Ricerca, 1992 p.58)

7. Spostamenti supersonici di partigiani

Ma perché i pochi partigiani rimasti nei pressi di Urbe, mentre il grosso delle brigate si era già spostato verso Sestri Ponente, avrebbero dovuto dividersi ulteriormente per passare 48 ore marciando a piedi tra luoghi distanti e inaccessibili sparsi su un territorio vastissimo per scavare cinquanta fosse da soli tre-quattro corpi ognuna, per poi tornare indietro, rifare gli stessi percorsi impervi con i prigionieri rallentati da legacci e lì ucciderli e seppellirli malamente? Anche prendendo per buona la narrazione dell’eccidio, tutto ciò avrebbe comportato solo un enorme dispendio di tempo ed energie, oltre ad aumentare drasticamente le possibilità che queste fosse venissero prima o poi ritrovate, a meno che non si trattasse di partigiani supersonici capaci di muoversi sui monti e scavare fosse a velocità incredibili.

Potrebbe suonare forse più plausibile se si narrasse che queste uccisioni avvennero in un’unica zona, con poche grosse fosse a breve distanza l’una dall’altra e fatte scavare dagli stessi prigionieri.

In effetti, per sedare eventuali dubbi su questi aspetti, le narrazioni utilizzano diverse carte jolly:
■ sepolture frettolose: sotto strati di foglie secondo Brenna, Viale e Oddone; nelle carbonaie secondo Numa;
■ una grande esplosione per far sparire i corpi rapidamente (come raccontava Castagnone).
Etc. etc.

Non solo mancano un movente sensato – se non «l’atavica violenza dei partigiani comunisti» –, una lista dei nomi e i corpi stessi: anche la logica – o forse è meglio dire la logistica – del supposto eccidio regge assai malamente.

8. I fantaelenchi dei caduti repubblichini

Torniamo ai nomi delle supposte «vittime del Manfrei».

Tra le narrazioni del Manfrei a volte si incontra la cifra di 140 corpi di ignoti marò ancora sepolti nelle misteriose fosse che non si sa dove siano. Il numero è ottenuto semplicemente sottraendo ai 200 marò la cifra di 60/61 corpi recuperati.

Però, come abbiamo visto, negli elenchi dei caduti dell’RSI non risultano 60/61 caduti nelle date della supposta strage, bensì solamente 8. Gran parte dei 61 corpi riesumati nel dopoguerra tra Urbe e Sassello e che vengono spesso presentati come caduti «del Manfrei» sono oggi seppelliti al cimitero delle Croci Bianche di Altare. Le cose quindi stanno così: o tutti gli elenchi di caduti RSI e le lapidi del cimitero di Altare riportano date sbagliate, oppure le salme recuperate nel dopoguerra a Urbe sono relative a episodi bellici diversi e la narrazione del Manfrei è fondata su chiacchiere e fantasie.

Non si capisce nemmeno come sia possibile che Carlo Viale, coautore nei primi anni ’90 del già nominato elenco I Caduti della RSI a Genova 1943-1946, scriva invece nel 1998 che alle salme recuperate non fu possibile attribuire un nome (Oddone, Viale, op.cit p.139). Anche considerando che difficilmente può essere all’oscuro del fatto che nel cimitero di Altare soltanto una quindicina di salme risultano ignote: quel cimitero lo conosce bene, essendovi stato fotografato assieme a Cesare Brenna durante una commemorazione (in: Leonardi, Senza Patria. Con la San Marco in Liguria e sulla linea gotica, Associazione Culturale Italia, 2009)

Cimitero delle croci bianche, Altare. In primo piano, Cesare Brenna. Alle sue spalle, Carlo Viale.

A questo punto, dunque, occorre spendere alcune parole sugli elenchi dei caduti della RSI.

Diverse persone e associazioni si sono occupate, negli anni, di redigere elenchi dei repubblichini caduti durante la Liberazione. Si tratta di liste che dovrebbero riportare per ogni caduto i dati anagrafici, il reparto d’appartenenza, la data e il luogo di morte e qualche informazione in più. Molto spesso, però, questi dati sono incompleti o dubbi, e soprattutto mancano le indicazioni delle fonti, tanto da rendere impossibile capire da dove provengano le informazioni presentate.

Non è raro trovare più volte la stessa persona indicata con nomi leggermente diversi, così come non è raro che un elenco presenti dati in contrasto con quelli di un altro.

Un esempio? Le sopracitate Maria Maddalena Patrone e Angela Biondi in Cagliano, le due donne spesso citate come «vittime del Manfrei», sono segnalate come «civili» nell’ Elenco Caduti Repubblica Sociale Italiana “Livio Valentini” ma come volontarie delle brigate nere nell’Albo Caduti e Dispersi della RSI – Edizione 2017.

Sappiamo invece dalla testimonianza di Domenico Patrone che si trattava di due ragazze fortemente sospettate di «essere delle spie al soldo della Brigata Nera di Genova» in quanto sembra flirtassero con dei giovani sammarchini (Patrone, op.cit. p.76); fatto più che sufficiente in quel periodo di tensione per attirare sospetti di collaborazionismo. Ciononostante, qui interessa rimarcare che gli elenchi si limitano a classificare i ruoli degli elencati in maniera rigida, senza lasciar spazio ad alcuna interpretazione degli eventi.

Nella migliore delle ipotesi gli elenchi si basano sui documenti relativi alle esumazioni e alle identificazioni dei corpi eseguite nel dopoguerra. Documenti che possono presentare già in origine diverse incertezze: nomi trascritti erroneamente, date di morte solamente presunte o approssimative, persone identificate come «civili» solo perché quando furono riesumate non indossavano la divisa. Ma quelle imprecisioni, volute o meno che fossero, diventano certezze una volta trascritte nei diversi elenchi dei caduti della RSI.

Anche mettendo da parte i dubbi, tali elenchi che quadro dipingono del Manfrei? Come già detto, nelle date comprese fra il 23 e il 29 aprile 1945 nei comuni di Urbe e Sassello segnalano solo otto caduti a Sassello. E chi erano questi otto?

Quattro sono indicati come membri della San Marco (5° Regg 1° Batt, compagnie varie), tre come operai militari e uno come civile. Per sei di loro la data di morte indicata è il 25 aprile. Per i restanti due il 27. Solo per un paio dei caduti del 25 è indicata la zona del ritrovamento: Piampaludo-Dano.

Numeri e date non sono troppo diversi da quelli citati da Fausta Siri, che testimonia la fucilazione di circa una decina dei 200 concentrati al Rostiolo, poiché riconosciuti colpevoli di crimini durante i rastrellamenti effettuati nelle settimane precedenti. Pure l’indicazione «Piampaludo-Dano» porta a ritenere che gli otto corrispondano ai fucilati di cui parla Fausta Siri: dal Rostiolo parte una strada che porta abbastanza velocemente proprio a mezza via tra il Bric Dano e Piampaludo, zona a circa un chilometro dalla villa, una scelta sensata per esecuzioni lontano dagli occhi dei commilitoni internati.

Durante le ricerche abbiamo contattato diverse volte i comuni di Urbe e Sassello, chiedendo di poter avere copia dei documenti relativi alle fosse ritrovate nel dopoguerra e delle identità dei corpi dissotterrati. Dopo diverse insistenze l’unica risposta ottenuta è stato un elenco contenente gli atti di morte di 6 (sei) fascisti, la cui data di morte supposta per cinque di essi è il 21 aprile 1945 – anche se negli elenchi RSI la data indicata è il 30 aprile ed è riferita ad un episodio diverso dal supposto «eccidio del Manfrei» – e per l’ultimo collocata nell’ottobre 1944. Tutti i nomi sono presenti tra i già citati 110 caduti nella zona tra Urbe e Sassello.

Dagli elenchi delle sepolture al cimitero delle Croci Bianche ad Altare sappiamo che solo una quindicina dei corpi ritrovati tra Urbe e Sassello sono di ignoti. Ma se da una parte è plausibile ipotizzare possano essere davvero persone del tutto ignote o soldati tedeschi, dall’altra è pur possibile che si tratti di persone note e già inserite negli elenchi, ma di cui semplicemente non fu possibile collegare il corpo a un nome. In qual caso, la già esigua cifra di 110 caduti nell’ultimo anno di guerra nei due comuni potrebbe essere ridotta a 95.

I nomi degli ufficiali che il tenente Giorgi, nella testimonianza che abbiamo riportato sopra, indica come fucilati a Sestri figurano con dati anagrafici completi anche negli elenchi dei caduti dell’RSI redatti dagli Amici di Fra Ginepro e sono indicati come membri della Compagnia Comando della San Marco, fucilati il 1° maggio 1945 nel cimitero di Sestri Ponente. Gli elenchi ne aggiungono pure un settimo: sergente Michele Coppo.

Fausta Siri ricorda che nel gruppo dei 200 marò era presente un tale Carlo Muti, assassino del partigiano Parigi (Serge Sommeralther), ma venne riconosciuto solo alcuni giorni dopo che i duecento avevano lasciato la Villa del Rostiolo in direzione Sestri. In effetti, sono gli stessi elenchi dei caduti della RSI di Genova, redatti sempre dagli Amici di Fra Ginepro, a segnalare un Carlo Muti nato nel 1925 e morto il 30 aprile a Sestri Ponente. Difficile uccidere qualcuno il 30 a Sestri se questo qualcuno già da alcuni giorni è sepolto in una fossa nei monti attorno ad Urbe.

9. Cui prodest?

Siamo ormai giunti quasi alla fine di questa storia. Abbiamo visto molti morti introvabili e molti riemersi per morire di nuovo, partigiani supersonici e conti che non tornano. E i documenti?

Riassumendo. Gli unici documenti riguardanti i fatti del Manfrei sono:

1. quelli riguardanti le ricerche, le esumazioni, le sepolture. Non vengono mai mostrati dai cantori del Manfrei e sono probabilmente la fonte dei diversi elenchi dei caduti della RSI. Indicano solo otto persone come cadute in date potenzialmente compatibili con la narrazione dell’«Eccidio del Manfrei».

2. lo stralcio parziale e inaccessibile in originale della testimonianza di Giorgio Giorgi che descrive una consegna ai partigiani dei 200 marò che vengono successivamente incarcerati a Coltano.

3. un elenco dispersi della San Marco assai impreciso, che é possibile presumere venne redatto raccogliendo alcune delle voci che si susseguivano nelle frenetiche giornate della liberazione.

Messi assieme, questi elementi smentiscono ogni narrazione di strage mentre invece collimano con la testimonianza diretta di Fausta Siri che dice chiaramente che non vi fu alcuna strage.

Raramente una storia falsa viene diffusa senza uno scopo utile per chi la inventa e/o la diffonde.

Questa che sembra a tutti gli effetti una storia falsa è nata in un determinato milieu politico, ed è prima di tutto funzionale all’ideologia ivi diffusa, basata sulla rivalutazione del fascismo e sulla denigrazione della resistenza. Questo è il suo senso principale.

Non dimentichiamo però che vi sono anche scopi decisamente più nobili e disinteressati, almeno sulla carta. Esiste appunto un’Organizzazione Non Lucrativa di Utilità Sociale (O.N.L.U.S.) denominata «Croce al Manfrei Onlus», con sede a Urbe, la quale si dedica, fra l’altro, ad allestire – a colpi di calcestruzzo – il proprio sacrario repubblichino sul Manfrei, dove negli anni è stato realizzato un vero e proprio altare con pseudocimitero simbolico. Carlo Viale e Roberto Nicolick sembra non manchino una delle messe sul monte.

Questa Associazione è legittima proprietaria dei terreni (ricevuti in donazione dalla cognata di Zunini) su cui sorge il «sacrario», e si occupa del mantenimento della croce e dell’altare. In quanto Onlus legalmente riconosciuta, l’associazione può anche essere indicata dai contribuenti come beneficiaria del 5×1000. Nel 2017 ha ricevuto per questa via, secondo i dati del Ministero, contributi per 8.060 euro.

Sarà possibile donare il 5×1000 alla Onlus Croce al Manfrei anche per il 2018. Siamo certi che, dopo questo nostro articolo, molti lo faranno.

A guerra non ancora finita, i fascisti rimasti si interrogavano su come occultare le testimonianze dei terribili crimini commessi. Una strategia che non ebbe molto successo, perché le testimonianze e le prove erano così nette e tangibili da render vana ogni negazione della verità. Allora cambiarono metodo. Per rendere più accettabili i crimini di guerra di una parte e poter continuare la loro vita politica con una sorta di amnistia implicita bisognava instillare nella mente delle persone il concetto che tali crimini fossero la normalità della guerra e non il delirio di menti assassine e di un’ideologia criminale. Bisognava trovare crimini anche dall’altra parte, crimini efferati. Li cercarono per un po’, finendo in molti casi con l’inventarseli. «Sono stati i partigiani!», «Hanno cominciato i rossi, i neri si sono solo difesi». Una strategia comunicativa pluridecennale: la «livella della violenza», come l’abbiamo definita e spiegata, qui.

Oggi più che mai una politica che misura i propri consensi con i cuoricini ricevuti sui post dei social network ha urgente bisogno di sdoganare i propri omicidi passati.

Eppure, nel caso dei fatti del Manfrei, quella stessa politica non si è esposta in prima persona. I leader dei partiti di destra non hanno mai, che ci risulti, nominato Monte Manfrei sui social network. Perché? La storia è talmente campata in aria che non hanno voluto rischiare la smentita e il ridicolo? Viceversa, la «bassa forza» – circoletti neofascisti di provincia, bloggettini, giornaletti, sedicenti storici e un bel numero di account anonimi su diversi social network – hanno usato e abusato della falsa storia e della falsa foto.

Lo abbiamo visto accadere anche per altre storie antipartigiane minori: ignorate su scala nazionale da giornali e politici, circolano solo a livello locale, dove non c’è nessuno in grado di controllarle, facendo presa sulla popolazione e radicando l’idea generica che anche i partigiani abbiano commesso crimini sistematici paragonabili a quelli dei fascisti.

Pare proprio la stessa logica di quelle che abbiamo definito «Foibe pro loco»: foibe “costruite” ex post, appositamente per avvelenare la memoria di territori altrimenti segnati da stragi nazifasciste e contraddistinti da una forte tradizione partigiana.

10. Appendice: visita al Monte Manfrei

Nel tentativo di trovare qualche elemento in più che permettesse di fare chiarezza sull’eccidio, abbiamo deciso di recarci personalmente al Pian Manfrei, alias Monte Manfrei, che si trova nel Comune di Urbe (SV) verso il Passo del Faiallo.

Pian Manfrei è segnalato da un cartello di legno, come un qualunque sentiero escursionistico.

Ci mettiamo in marcia per quella che appare una bella passeggiata in questo bosco dell’Appennino ligure, e dopo cinque minuti siamo sul posto.
Lo scenario che ci si presenta davanti è sorprendente: una grande costruzione di dubbio gusto in mattoni e cemento, a mo’ di tettoia, sotto la quale è posto un altare. Tutto intorno, pannelli solari, bacheche che riportano spunti riflessivi e preghiere, ma soprattutto alcune targhe commemorative, su sfondo chiaro e bordate a sinistra con una banda tricolore.

Bingo! Su queste targhe troveremo finalmente i riferimenti alla «strage dei 200».

E invece no.Una targa posta sul fianco della costruzione in cemento riporta soltanto: «Le fiamme bianche della RSI hanno sempre voluto questo “simbolo del passato” per affidarlo alla continuità».
Una seconda, posta alla sommità di un alto palo di legno, rivendica la proprietà del terreno: «Onlus Croce al Manfrei».
La terza è quella che inizia ad avvicinarsi al racconto dell’eccidio («Manfrei terra di RSI consacrata dal sangue dei suoi caduti»), ma senza spiegare alcunché. Né dove, né quando, né chi, né perché.

Sembra strano che chi decide di erigere una tale struttura, in un luogo che ritiene «terra consacrata dal sangue di caduti», non si preoccupi di informare chiunque si trovi a passare da questo luogo, anche solo per caso, di questa vicenda così importante.
Ci lasciamo alle spalle il possente capolavoro architettonico e proseguiamo per una strada bianca che ritorna verso la statale.
Dopo una decina di metri, sulla sinistra ci troviamo quello che ha tutta l’aria di essere un cimitero con 26 cippi di cemento.

Ecco che di nuovo il nostro entusiasmo torna a galla: su questi cippi saranno sicuramente riportati i nomi delle 200 vittime!

Ma la delusione non è pronta ad abbandonarci: sui cinque cippi non è riportato proprio niente, due sono dedicati, rispettivamente, «ai volontari» e al «marò ignoto». Su queste sono state poste delle mostrine e la scritta «Questa mostrina è stata ritrovata qui sotto terra dove a guerra finita furono uccisi».

Le domande, di nuovo, sorgono spontanee: dove? quando? chi? perché?

Ma le risposte continuano a non arrivare.

I restanti 19 cippi riportano targhe in memoria di persone defunte. Però: ben 17 riportano come data del decesso anni compresi tra il 1967 e il 2016; una riporta il 1942, e solo due riportano il 1945. Di queste ultime due, risulta chiaro che, sia per la prima – «Caduto eroicamente in combattimento» – che per la seconda, dedicata a Giuseppina Ghersi, non esistano legami con il racconto dell’eccidio.

L’ultima verifica che si poteva fare era un sopralluogo al Cimitero delle Croci Bianche di Altare, luogo in cui, nei giorni attorno al 25 aprile, vengono svolte iniziative più vicine a una «festa del revisionismo» che a una «festa della Liberazione».

Di tutti i corpi sepolti ad Altare gli unici che con una certa fantasia potrebbero essere collegati al fantomatico «Eccidio del Manfrei» sono solo una quindicina di ignoti, di cui non si sa nulla di nulla.

Dunque ci siamo recati personalmente anche in questo luogo, ma abbiamo trovato il cimitero chiuso, anche in un giorno e in orario di regolare apertura. Per accedervi ci è stato detto di rivolgerci alla Stazione dei Carabinieri di Altare, perché le chiavi del cimitero sono custodite dal maresciallo.

Fortunatamente, grazie al libro di Gianni Toscani Croci bianche. Il Cimitero Militare di guerra ad Altare (L. Editrice, Savona, 2010), gli elementi da verificare sono stati verificati: dei più di 1100 nomi, corrispondenti ai caduti sepolti – attualmente o in passato – nel cimitero militare, nessuno può essere ricondotto all’«Eccidio del Manfrei». La maggior parte sono caduti provenienti dal fronte bolognese e romagnolo. I pochi che risultano caduti nel territorio vicino a Pian Manfrei sono tutti riconducibili a date ed episodi diversi.

Gli unici a rimanere in gioco sono 14 o 15 marò ignoti, che risultano caduti a Martina di Urbe – a quasi 12 chilometri da Pian Manfrei – nel 1945 (non si specifica il giorno).

Forse dei famosi «200 marò» gli unici ad aver trovato sepoltura sono una quindicina, senza nome, senza una data esatta del decesso, senza alcun indizio su chi fossero e come morirono.

Non certo l’unica stranezza in questa storia.


N.d.R.
 I commenti a questo post saranno attivati 72 ore dopo la pubblicazione, per consentire una lettura ragionata e – nel caso – interventi meditati (ma soprattutto, pertinenti).

Nicoletta Bourbaki* Nicoletta Bourbaki è un gruppo di lavoro sul revisionismo storiografico in rete, sulle false notizie a tema storico e sulle ideologie neofasciste, nato nel 2012 durante una discussione su Giap, il blog di Wu Ming. Ne fanno parte storici, ricercatori di varie discipline, scrittori, attivisti e semplici appassionati di storia. Il nome allude al collettivo di matematici noto con lo pseudonimo collettivo «Nicolas Bourbaki», attivo in Francia dagli anni Trenta agli anni Ottanta del ventesimo secolo.
Il metodo di lavoro di Nicoletta Bourbaki è illustrato nell’ebook Questo chi lo dice? E perché? (2018). Il gruppo ha all’attivo diverse inchieste – pubblicate su Giap – sulle manipolazioni neofasciste della Wikipedia in lingua italiana e sui falsi storici in tema di foibe. Tra i vari risultati, ha contribuito a smontare la bufala della cosiddetta «foiba di Rosazzo», altrimenti detta «foiba volante».
Per l’edizione on line della rivista Internazionale, in occasione del Giorno del Ricordo 2017, Nicoletta Bourbaki ha curato lo speciale La storia intorno alle foibe.
Al momento, Nicoletta Bourbaki, coi suoi ricercatori sparsi in tutta Italia, sta lavorando sui materiali di diversi archivi per ricostruire, per la prima volta in modo storiograficamente sensato e accurato, il caso Giuseppina Ghersi.
Nicoletta Bourbaki è su Facebook.

BONUS TRACK

Intervista a Luca Casarotti del gruppo di lavoro Nicoletta Bourbaki
Intervista a Luca Casarotti del gruppo di lavoro Nicoletta Bourbaki
«Le dita nella presa», trasmissione di approfondimento tecnologico a cura del collettivo AvANa, in onda su Radio Onda Rossa, Roma. Puntata del 23 settembre 2018. Nuovo ciclo sull’attendibilità dell’informazione in rete. In questa puntata, focus su Wikipedia con Luca Casarotti del collettivo Nicoletta Bourbaki. I limiti dell’«enciclopedia libera», il metodo di indagine storiografica che Nicoletta utilizza, esempi dei metodi che i revisionisti usano per presentare una lettura distorta della storia su Wikipedia.
Durata: 44 minuti.

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10 commenti su “Monte Manfrei. Un “crimine partigiano” inventato di sana pianta. Seconda e ultima puntata

  1. Oggi diversi quotidiani han riportato la notizia dell’installazione a Savona di una lapide in memoria dei caduti delle Forze Armate che tra le varie formazioni segnalate include pure le Camicie Nere.
    Gli stessi quotidiani riportano che la lapide é opera dell’ “Opera Nazionale Caduti” che é proprio una delle associazioni nel cui seno é nata la leggenda del Monte Manfrei.
    Non si può far a meno di osservare che gli stessi ambienti prima producono storie fantasiose atte a mettere sullo stesso piano oppressi ed oppressori e poi, dopo averle fatte sedimentare, tentano di “incassare” istituzionalizzando questa normalizzazione.
    Il tutto, ovviamente, attraverso un uso tattico del “volemose bene”.
    Sarebbe interessante vedere come reagirebbero i membri di Onorcaduti se qualcuno proponesse di porre a New York una targa in memoria degli attentatori delle torri gemelle con motivazioni simili. Mi sa tanto che li sberlefferebbero etichettandoli come “buonisti”

  2. refuso: “San Pietro in Urbe” non esiste, è “San Pietro d’Olba”, una delle frazioni del comune di Urbe

    • Grazie, era inteso come «in comune di Urbe», ma in effetti sembrava parte del toponimo. Corretto.

  3. Monte Manfrei: un falso «crimine partigiano» inventato di sana pianta.

    Video integrale della conferenza di Nicoletta Bourbaki, #Savona, 21 febbraio 2019.

  4. La strage di Rovegno,un’altra strage partigiana inventata dai fascisti?

    Ci siamo imbattuti in un sito “ Misteri della terra.it” dove un team molto attivo nella scoperta di percorsi con manufatti legati alle due Guerre Mondiali,ha postato recentemente un filmato relativo alla Colonia di Rovegno, raccontando con commento orale e sottotitoli la storia del posto, dal tempo del fascismo quando ospitava 500 bambini con problemi respiratori,fino alla fine della guerra quando divenuto comando partigiano vi “furono imprigionate circa 600 persone mai più trovate”.
    Incuriositi abbiamo cercato notizie in wikipedia,e alla voce “Eccidio di Rovegno” leggiamo ancora di “ 600 militari ( fascisti e tedeschi) catturati o arresi,uccisi senza processo e sepolti senza croce… “ ; la fonte : il sito CONTROSTORIA FUTURA. I.S.S.E.S. – Istituto di Studi Storici Economici e Sociali, di NApoli, di spudorata fede fascista.

    Spontanea la domanda,viste le analogie,i protagonisti e la poca distanza geografica tra i due siti, non sarà anche questa di Rovegno come quella di Monte Manfrei,una strage partigiana inventata ?

    • La risposta è sì, la presunta strage della colonia di Rovegno è una bufala inconsistente, una leggenda metropolitana. Anche su quella Nicoletta Bourbaki ha pronta una dettagliata disamina, che pubblicheremo su Giap a marzo.

  5. Abbiamo saputo con rammarico la notizia della morte di Fausta Siri, staffetta della brigata Buranello, deceduta a Savona all’età di 94 anni. Le testimonianze di Fausta sono state uno degli elementi che ci hanno consentito di far luce sul presunto “eccidio di monte Manfrei”, appurando come esso sia frutto di pure invenzioni della propaganda neofascista.

    Siamo stati onorati del suo sostegno e di aver potuto conoscerla di persona quando siamo andati a presentare le nostre ricerche a Savona. Vederla in prima fila quella sera è stato il miglior incoraggiamento possibile per noi e per tutti coloro che intendono proseguire l’impegno e il lavoro di ricerca per disperdere finalmente le menzogne con cui la propaganda dei neofascisti e dei loro complici ha cercato di infangare le figure di tante e tanti combattenti della resistenza a Savona e in tutta Italia.

    • Sono molto rammaricato anch’io per la morte di Fausta Siri. Penso che un modo efficace per ricordarla potrebbe essere ripubblicare il libro che aveva autoprodotto (che è praticamente introvabile). Mi sembra di ricordare che quella sera a Savona mi avesse detto, con una delle figlie, che ci stava lavorando.

  6. ciao, due o tre impressioni (importanza scientifica zero, me ne rendo conto, semplici emozioni di chi vive e ha vissuto da quelle parti) e scusate il tempismo. Secondo me un grande non detto è la presenza, importante e quasi maestosa sulle pendici del monte, del sacrario dei martiri del Turchino, strage nazista del maggio del ’44. Negli anni ’80/ 2000 la sparuta popolazione delle frazioni di Urbe, che non è un centro unico ma appunto cinque frazioni riunite in comune)ha sempre più preso coscienza di sè come “altro” da Genova e Savona, allora rosse per quello che vuol dire. Parliamo di posti raggiungibili in 30 minuti dalle 2 città, che moltiplicano la loro popolazione d’estate per le “case in villa” di genovesi e savonesi, ma inconcepibilmente lasciate a se stesse. Parlo di miei coetanei (ho 44 anni), gente nata anche fino al 1985, che vede fisicamente i due capoluoghi, basta passeggiare per il monte Reixa che sovrasta tutta l’area di questa storia, ma che di fatto parla solo il dialetto, che fino agli anni ’90 andava alle elementari in un’unica pluriclasse manco fosse la casa nella prateria; che fino agli anni ’90 aveva una specie di medico condotto che girava una volta alla settimana per le frazioni: cinque frazioni, un giorno per uno; posti dove fino ai 2000 i quotidiani arrivavano alle 10, e solo le copie prenotate d’estate dai turisti. a mezz’ora da Genova, a mezz’ora da Savona. E strade larghe, belle, accessibili. Perchè tutto questo? boh. Comunque un pezzo di gotico italiano ancora sopravvivente. La gente di questi posti ha sempre più reagito a queste condizioni estreme ancorchè facilmente migliorabili con vero e proprio disprezzo dei villeggianti d’estate, delle istituzioni durante il resto dell’anno. Sti caxxo di genovesi e savonesi, anziani, in gran parte comunisti che negli ultimi 40 anni hanno occupato il loro territorio, avevano come radice il sacrario del Turchino. I giovani autoctoni, in spregio, si sono trovati qualche foresto ad alimentare una storia che si contrappone, e l’hanno seguita. Sono genovese, fino ai 25 anni andavo in vacanza a Vara, ho gente che considero amica fra i miei coetanei di lassù, e il sollievo e la gioia con cui accudivano la storia e il luogo fisico della piana del Manfrei mi hanno sempre impressionato. Stop. Due anni dopo la pubblicazione del post, ecco il commento più inutile della storia di Giap. mi scuso per la perdita di tempo!