Il professore, il barone e i bari. Il caso #Tolkien e le strategie interpretative della destra

Sergio Chakotino, «Italiche nere grinfie sulla Terra di Mezzo», 2011

Sergio Chakotino, «Italiche nere grinfie sulla Terra di Mezzo», 2011

[Arriva oggi in libreria il numero 4 di Nuova Rivista Letteraria, sul quale compaiono due nostri articoli: uno analizza la dichiarazione di non-appartenenza «Né destra, né sinistra», ed è scritto da Wu Ming 1; l’altro lo trovate in questo post e prende le mosse dalla conferenza che Wu Ming 4 ha tenuto alla RASH di Roma nel febbraio scorso. A quella serata partecipò come correlatore Roberto Arduini, presidente dell’Associazione Romana Studi Tolkieniani, e non è un caso che questo post sia gemellato con quello che oggi compare sul sito dell’ARST, la recensione di un saggio monografico molto fresco di stampa… e un po’ meno fresco di stesura.
AVVERTENZA: Il pezzo di Wu Ming 4 ha due livelli di lettura. C’è l’articolo nudo e crudo come esce in cartaceo, a uso di chiunque sia generalmente interessato all’argomento. C’è poi un apparato di note, che oltre a fornire i riferimenti bibliografici, costituisce una vera e propria espansione del testo (praticamente lo raddoppia), entrando più nello specifico, aggiungendo esempi e argomentazioni, per chi intendesse spingersi un po’ più addentro alla questione trattata.]

Gianluca Casseri[POST SCRIPTUM POST-STRAGE. Nel lungo articolo che segue, WM4 analizza soprattutto la raccolta di saggi «Albero» di Tolkien (Bompiani, 2007, a cura di Gianfranco De Turris), che raduna il gotha della pseudo-tolkienologia di estrema destra.
Avevamo appena terminato l’impaginazione, ieri pomeriggio, quando ci è giunta la notizia: uno degli autori del suddetto libro, Gianluca Casseri, aveva compiuto un massacro razzista a Firenze, uccidendo a colpi di arma da fuoco due ambulanti senegalesi e ferendone gravemente altri tre. Inseguito dalle forze dell’ordine, l’assassino si era infine suicidato.
Ad «Albero» di Tolkien Casseri aveva contribuito con il testo «Frodo Baggins, l’eroe che non ha fallito».
Dedichiamo la nostra piccola opera di controinformazione a Samb Modou, Diop MorMoustapha Dieng, Sougou Mor e Mbenghe Cheike, vittime dell’odio fascista. Mentre scriviamo, gli ultimi tre lottano ancora per la vita.]

«In fin dei conti, l’opera di Tolkien non è una pagina bianca sulla quale si possa scrivere qualsiasi cosa: al suo interno vi sono precisi concetti impliciti e talvolta anche espliciti.»
Brian Rosebury, «Tolkien, un fenomeno culturale» (Marietti, 2009)

1. Cultura di destra

Cultura di destraL’idea di questo articolo nasce dalla recente ripubblicazione di un testo del 1979 di Furio Jesi, Cultura di destra (Nottetempo, 2011), e dalla constatazione di come il caso “Tolkien in Italia” verifichi proprio certi approcci culturali praticati dalla destra, che Jesi analizzava in quel saggio. Non si tratta di una coincidenza. Jesi prendeva in esame, tra gli altri, l’operato del barone Julius Evola, cultore del “simbolismo tradizionale”, nonché padre putativo di diversi ammiratori nostrani dell’opera di Tolkien.
Non ripercorrerò qui la storia della mistificazione tolkieniana in Italia e le modalità del suo perpetrarsi, se non altro perché esiste già una ricostruzione fatta da Lucio Del Corso e Paolo Pecere: L’anello che non tiene. Tolkien fra letteratura e mistificazione (Minimum Fax, 2003). A essa si può rimandare per quanto riguarda l’approfondimento del pensiero tradizionalista alle prese con questo autore.
Vorrei invece mostrare alcuni esempi concreti della tecnica di lettura messa in atto dai critici di destra, e utilizzata per erigere un’impalcatura ideologica intorno a Tolkien.

2. Idee senza parole

Oswald SpenglerJesi trae l’espressione “idee senza parole” da Oswald Spengler, per riferirsi all’importanza che nella cultura di destra assume la conoscenza della radice primigenia della realtà, raccolta nel segreto inesprimibile, un livello esoterico di consapevolezza a cui solo pochi possono accedere [1]. L’azione conoscitiva razionale viene sostituita da un cammino iniziatico. Tappa fondamentale di questo cammino è cogliere l’essenza dei simboli che ritornano in ogni cultura e fase storica. Tale essenza è per definizione eterna, e compito dell’eletto è precisamente quello di scremare le incrostazioni storiche, contingenti, per recuperare la purezza dell’idea incarnata nel simbolo.
Se dunque i simboli celano un’essenza recondita che prescinde dal contesto (e per la quale le parole saranno comunque insufficienti), va da sé che, come fa notare Jesi, i collegamenti possibili diventano pressoché infiniti, si tratta soltanto di associare le idee in un certo modo:

«I simboli riposanti in se stessi sono, come s’è detto, suscettibili di infinite letture esegetiche. Il fatto di possedere un senso conchiuso nella propria pura presenza sembra quasi conferire loro una amabile disponibilità a lasciarsi usare: tanto, nulla li tocca nel loro vero.» [2]

Questo tipo di approccio al simbolismo è tanto più paradossale quando si applica a un’opera narrativa, cioè a una storia che ha uno svolgimento e un’interconnessione tra ogni sua parte.
Prendiamo, per esempio, il saggio di Sebastiano Fusco «L’uso del simbolo tradizionale in J.R.R.Tolkien», contenuto nella raccolta curata da Gianfranco De Turris “Albero” di Tolkien (Bompiani, 2007).
Secondo l’autore, Tolkien sapeva «maneggiare i simboli tradizionali con una profondità di conoscenza e soprattutto una capacità di farne oggetto di narrativa non raggiunta da nessun altro autore di romances dall’epoca di Chrétien de Troyes e Wolfram von Eschenbach» [3]. Gli esempi portati a sostegno di questa roboante affermazione sono tre (sic!): la spada di Aragorn; la caduta e risalita di Gandalf dall’abisso di Moria; il salvataggio del medesimo Gandalf da parte di una gigantesca aquila.
«La spada simboleggia la regalità vista come qualità superiore dell’uomo […] più che comune, […] persona che si innalza sulla volgare gleba». La trasformazione di Gandalf da Grigio in Bianco sarebbe descritta da Tolkien «come una vera e propria operazione alchemica» [4]; infine il volo in groppa all’aquila sarebbe un simbolo di “elevazione spirituale” [5].
Innanzi tutto è evidente che se la presenza di una spada regale la presenza di una spada regale bastasse a fare di Tolkien un simbolista, allora il primato attribuitogli da Fusco sarebbe insidiato da migliaia di romanzieri e cineasti. Quanto all’innalzamento “sulla volgare gleba”, è ben difficile che possa essere la qualità di un personaggio del Signore degli Anelli, romanzo i cui protagonisti sono gli Hobbit: esseri minuti, legati proprio alla terra. Ma il vero paradosso è pretendere di verificare l’uso consapevole dei simboli da parte di Tolkien rinvenendo riferimenti alchemici nelle sue storie, quando non risulta che Tolkien si sia mai interessato di alchimia. Tant’è che le implicazioni di tale simbologia ai fini dello sviluppo della vicenda restano inspiegate. Riguardo all’aquila, poi, in molti miti è un animale associato alle divinità celesti: se proprio si volesse trovare un riferimento simbolico, il salvataggio di Gandalf richiamerebbe l’intervento divino che giunge dall’alto, più che un’elevazione spirituale dell’uomo. Per altro, nel ciclo dell’Anello quella non è la prima né l’ultima volta che le medesime aquile salvano i protagonisti dalle peste (e per Gandalf è almeno il secondo passaggio aereo). Evidentemente questo delle libere associazioni simboliche è un gioco che lascia la fantasia libera di galoppare un po’ dove le pare.
Prosegue Fusco:

«Potrei continuare a lungo con notazioni analoghe, ma sarebbe opera immensa: non c’è pagina, non c’è frase in Tolkien che si sottrarrebbe a uno scrutinio del genere» [6].

In effetti questo è vero, e si può aggiungere che non c’è frase in tutta la letteratura che potrebbe sottrarvisi, poiché di ogni cosa, se astratta dal suo contesto narrativo, si può fare simbolo di qualcos’altro. Ancora:

«Può verificarlo chiunque – avendo una qualche conoscenza del simbolismo tradizionale acquisita ad esempio attraverso la lettura di opere come La Tradizione Ermetica di Julius Evola o Simboli della Scienza Sacra di René Guénon – si ponga a rileggerne i testi con l’animo di chi voglia coglierne queste connessioni» [7].

Insomma, chi cerca il simbolo lo trova.
Infine, Fusco contraddice la premessa iniziale affermando di non credere che «Tolkien si sia reso pienamente conto della elaborazione simbolica che la sua fantasia gli andava suggerendo», e che l’attitudine di Tolkien per il simbolismo sarebbe “innata” e “inconsapevole” [8]. Nessuna “profondità di conoscenza” dunque: Tolkien avrebbe inserito il simbolismo nella propria opera inconsciamente. L’autocontraddizione non sembra turbare l’autore del saggio, che ci spiega come «fu Julius Evola a notare che molti di questi scrittori ‘parlavano dell’Arte Regia senza rendersene conto’. Anzi, in loro forse la voce della Tradizione si esprime nel modo più puro, perché non è filtrata attraverso intenti didattici né offuscata da censure razionalistiche» [9].
E’ tutto chiaro: il racconto non è altro che un vettore di simboli, i quali trascendono la storia che l’autore ha scritto e il senso stesso della narrazione.

3. Personaggi senza trama

Aragorn
Il discorso è ancora più evidente per i personaggi dei romanzi di Tolkien. Se astraiamo le figure eroiche dalla pagina, è facile farle combaciare con i modelli del mito, invece di considerarle per quello che sono: declinazioni narrative, cioè originali o perfino critiche, dei suddetti modelli.Prendiamo ad esempio un altro saggio della raccolta già citata: Errico Passaro, La figura dell’eroe in Tolkien. Qui Aragorn viene identificato con l’eroe “tradizionale”, che «partecipa della natura divina» e che «nasce, vive e muore come un eroe, senza un’esitazione o un crollo, pienamente e fermamente conscio dei diritti e dei doveri connessi al suo status» e per il quale la spada «è strumento per dispensare vita e morte secondo giustizia». In questo senso la sua figura assomiglierebbe «più ad un re e ad un eroe pagano, legato ad un’etica guerriera senza mezzi termini» [10].
Ora, la figura di Aragorn è senz’altro archetipica, ma è anche calata in una trama. La prima cosa che salta agli occhi dunque è la moderna umanità del personaggio che si discosta dalla monodimensionalità degli antichi eroi. Su tutto valga la sua consapevole inadeguatezza come capo della Compagnia, l’indecisione e il fallimento in quel ruolo, risolti soltanto dalla scelta unilaterale di Frodo di proseguire il cammino da solo, alla fine della prima parte del Signore degli Anelli. E questo ci ricorda che l’impresa dell’Anello – il viaggio di andata e ritorno attraverso la terra desolata, per riportare la salvezza collettiva, la vita, dalla morte – non tocca all’eroe “solare” Aragorn, ma a una coppia di “mezzuomini”. Le prove a cui Aragorn viene sottoposto lo reintegrano nella regalità a cui è destinato, ma non garantiranno la salvezza del mondo: occorrerà il sacrificio di Frodo, la tenacia di Sam, e perfino l’intervento provvidenziale di Gollum (con il quale Aragorn, al contrario degli hobbit, non è riuscito a relazionarsi). L’archetipo dunque è sì abilmente riprodotto, ma si presenta fuori centro e intaccato da elementi spuri, nondimeno decisivi.
Quanto alla spada dispensatrice di giustizia, si pensi alle parole di Gandalf a proposito dell’eventualità di uccidere l’infido Gollum:

«Molti tra i vivi meritano la morte. E parecchi che sono morti avrebbero meritato la vita. Sei forse tu in grado di dargliela? E allora non essere troppo generoso nel distribuire la morte nei tuoi giudizi: sappi che nemmeno i più saggi possono vedere tutte le conseguenze» [11].

Dunque non spetta agli uomini, nemmeno ai più saggi, giudicare. Nel Signore degli Anelli la spada, qualunque cosa le si voglia far simboleggiare, è uno strumento di difesa contro le schiere dell’Ombra, non di giustizia. Ciò che gli uomini invece possono esercitare è la pietà, come sottolinea ancora Gandalf [12]. Ma forse è una qualità che non si addice all’eroe dei tradizionalisti, i quali non mancano di ricordare che perfino Frodo – identificato con «l’eroe moderno […] che sintetizza i valori religiosi cristiani» -, «in più di un episodio usa Pungolo in maniera convinta ed efficace, dando un contributo essenziale alla risoluzione armata degli scontri» [13]. Una considerazione che sarebbe almeno in parte condivisibile se non si fondasse sull’esempio sbagliato, tralasciando ancora un dettaglio significativo, e cioè che proprio nell’ultima battaglia Frodo rifiuta di sguainare Pungolo. Ma abbiamo visto che valutare la parabola di un personaggio nel suo insieme non è esercizio a cui il lettore simbolista sia interessato [14].

4. Parole senza traduzione

rimozioniLaddove la lettura selettiva e la citazione monca non bastano, ai lettori tradizionalisti non resta che ricorrere all’elisione di parole, temi e addirittura interi testi dell’autore. Per quanto riguarda Tolkien questa necessità si verifica quando si tratta di affrontare il complesso rapporto tra paganesimo e cristianesimo presente nella sua produzione narrativa e saggistica.
Tralasciando i più sprovveduti, che si spingono a definire la cosmogonia del mondo tolkieniano come “univocamente” politeista [15] (smentiti da ogni versione redatta del mito della creazione di Arda, in base al quale in principio esisteva Eru, l’Uno, chiamato anche Ilùvatar, che creò per primi gli Ainur), va detto che la tendenza dei commentatori evoliani è piuttosto quella di rinvenire il simbolismo cristiano nell’opera di Tolkien soltanto per ricollegarlo alla fantomatica Tradizione. Entrando nel merito delle loro interpretazioni infatti si fatica a trovare traccia di temi come la pietà, la provvidenza, “le piccole mani” che agiscono «per necessità, mentre gli occhi dei grandi sono rivolti altrove» [16]. Occorre qui ricordare che esiste anche una lettura confessionalista dell’opera di Tolkien, la quale si distingue da quella evoliana [17]. Quest’ultima infatti chiama in causa il cattolicesimo conservatore di Tolkien per rivendicare il suo essere “di destra”, ma poi, presentandolo come un nostalgico del paganesimo, rende lineare quello che nella sua poetica è un passaggio problematico:

«Cioè – si deve intendere – un cattolico (romano) che non aveva affatto dimenticato le proprie radici pagane delle quali non provava certo vergogna e che nella Realtà Secondaria dei suoi capolavori aveva voluto recuperare i valori di quel mondo ormai irrimediabilmente perduto delle origini, con tutti i suoi eroismi e con tutti i suoi lati negativi, per non lasciarlo abbandonato all’oblio della storia e degli uomini…» [18]

Un’affermazione di questo tipo passa sotto silenzio la questione che almeno da metà anni Trenta animò la narrativa di Tolkien, vale a dire la creazione di un modello eroico che potesse superare la contraddizione tra paganesimo e cristianesimo, separando i lati negativi da quelli positivi. Si tratta di fingere che Tolkien non abbia mai scritto un testo come Il Ritorno di Beorhtnoth figlio di Beorhthelm (1953), vero e proprio j’accuse contro l’ideologia eroico-aristocratica retaggio del paganesimo, nonché contro la perniciosità della tradizione epica se assunta acriticamente come fonte di ispirazione per le gesta dell’eroe [19]. Ma del resto, gli elementi di questa riflessione sono già rintracciabili ne Lo Hobbit e vengono fissati nel Signore degli Anelli.
E’ evidente che le figure eroiche tolkieniane non ricalcano tout court quelle della tradizione antica, bensì mantengono alcuni elementi fondativi dell’eroismo pagano – l’idea che si può essere sconfitti ma non sottomessi, la lealtà, lo spirito combattivo – per rigettarne altri – l’orgoglio aristocratico, l’obbedienza indiscussa al signore, la ricerca della bella morte.
L’elisione tematica è infine agevolata dalla sparizione di una parola chiave nella traduzione italiana del Signore degli Anelli. Si tratta del termine inglese “heathen“, cioè “pagano”, un anacronismo troppo evidente per non essere intenzionale da parte di un filologo come Tolkien. La parola compare soltanto due volte in tutto il romanzo, riferita alle usanze degli antichi re del passato, condannate da Gandalf [20]. In questo modo il testo originale comunica una cosa molto chiara: la parte migliore della Terra di Mezzo è già un luogo post-pagano, benché non ancora cristiano, che si colloca sulla faglia tra due mondi e dialoga problematicamente con entrambi, senza identificarsi con l’uno o con l’altro.

5. Poetica senza opera

Casa Hobbit
Per concludere è necessario considerare lo slittamento semantico che in certe letture subisce la poetica tolkieniana. L’immagine che i critici di destra ci restituiscono è quella di un autore in rivolta contro la modernità, intento a riportare in auge gli antichi valori tradizionali:

«Tolkien della Evasione del Prigioniero dal carcere della Modernità ne ha fatto un atteggiamento positivo e costruttivo, indispensabile per uscirne indenni mentre si superano tutti gli ostacoli che si frappongono alla libertà.» [21]

Tolkien, trovandosi a disagio «nel mondo industrializzato del Novecento» ne avrebbe creato un altro «che facesse da contraltare […] a quello in cui era costretto ad operare» [22].
Non ci sono dubbi che Tolkien rivendicasse l’arcaismo delle proprie ambientazioni narrative come frutto di una coincidenza tra ragioni di ordine estetico e insofferenza per gli sviluppi del progresso contemporaneo. Tuttavia quando nel suo famoso saggio Sulle Fiabe (1939) scriveva che l’evasione del prigioniero non deve essere confusa con la fuga del disertore, non si riferiva all’evasione dalla modernità, bensì dalla realtà. Tolkien rivendica l’uso della fantasia nell’arte creativa e respinge le accuse di escapismo che vengono rivolte alla letteratura fantastica, criticando la limitazione del concetto di “realtà” al dato che ci circonda (e di conseguenza anche al dato contemporaneo, che non è più “reale” di quello passato o immaginario). Ciò che resta da chiedersi, però, è quale passato e quali valori inserisce nel suo universo narrativo.
La risposta dei tradizionalisti è semplice: da un lato ci sono i popoli liberi della Terra di Mezzo, che rappresenterebbero la Tradizione; dall’altro Mordor, «simbolo evidente della Modernità […]: una fusione della dittatura materialista orientale e dell’ipercapitalismo, della tecnologia massificante occidentale» [23].
Questa lettura ignora bellamente le aporie e gli anacronismi che animano la creazione tolkieniana, a partire dal fatto che i protagonisti de Lo Hobbit e del Signore degli Anelli provengono da una parte della Terra di Mezzo che non ha nulla a che vedere con il medioevo o l’antichità. La Contea è un luogo abitato da piccoli proprietari e servitori domestici, che ricevono a domicilio la posta, sorseggiano tè, mangiano “patate”, stipulano contratti e partecipano ad aste pubbliche. La visione della vita che gli Hobbit esprimono non è affatto arcaica o tradizionale; il loro coraggio non coincide con quello degli antichi guerrieri che incontreranno durante i loro viaggi, ma si fonda essenzialmente sul ricordo del bene e sulle gioie del vivere quotidiano.
Proprio questo consentirà a quei piccoli mezzuomini di rivelarsi più resistenti al potere dell’Anello. Se saranno le loro “piccole mani” a portarlo fino al luogo della sua distruzione, è perché in quelle degli antichi campioni e dei saggi l’Anello del Potere sarebbe tanto più pericoloso. E’ con questa precisa argomentazione che lo stregone Gandalf e la dama elfica Galadriel rifiutano l’Anello quando viene loro offerto (e vale anche per Aragorn). Come è stato fatto notare, «nessun cronista, autore di romanzi cavallereschi o agiografo medievale si sarebbe trovato d’accordo con tale affermazione»; si tratta di un tema assolutamente moderno [24].
Così come è moderna la voce di Gandalf che riecheggia nella parte più antica della Terra di Mezzo, quando ricorda al Sovrintendente di Gondor che benché detenga l’autorità del comando, i suoi servitori hanno il diritto di opporsi a essa «quando significa pazzia e infamia» [25]. Siamo lontani dall’obbedienza indiscussa al signore o al re. Siamo già oltre la fedeltà alla sorte del capo, quel führerprinzip che aveva spinto gli housecarls di Beorhtnoth a emularne l’inutile fine sulla piana di Maldon (e che riecheggerà nel “vincere morendo” fascista messo a fuoco da Jesi nel suo saggio [26]).
Nella creazione letteraria tolkieniana compaiono elementi che provengono direttamente dalla modernità e che non sono affatto associati a Mordor, al quale appartengono invece gli aspetti del progresso industriale e materialistico, che Tolkien sintetizza nella triade “fabbriche”, “mitragliatrici” e “bombe” [27].
In definitiva con la sua opera Tolkien non crea un mondo radicalmente alternativo al nostro, bensì problematizza il rapporto tra l’universo valoriale antico e quello moderno, scegliendo come vettori della sua narrazione arcaica piccoli grandi uomini molto più simili a noi che agli eroi dell’epica. E’ questo anacronismo che sancisce l’universale attualità dei suoi personaggi, e non ciò che essi dovrebbero simboleggiare all’interno di una fantomatica Tradizione. Quella Tradizione sciolta dalle parole, dal testo e dalla trama, che sarebbe suonata alle orecchie dell’antimoderno Tolkien come niente più di un flatus vocis.

– NOTE –

Furio Jesi1. Va detto che Jesi non ritiene il linguaggio delle idee senza parole un’esclusiva dei teorici e delle formazioni politiche di destra, nonostante sia in quel filone di pensiero che trova la sua origine e compiutezza. Lo considera infatti un tratto distintivo “di quanto oggi si stampa e si dice”, a dimostrazione del fatto che la cultura di destra, in senso lato, è assai più radicata e permeante di quanto si possa credere. Un esempio di linguaggio delle idee senza parole, per Jesi, è anche quello che va a comporre un certo discorso liturgico sulla Resistenza, o il “sinistrese” dei gruppi extra-parlamentari (F. Jesi, op. cit., p. 26).

2. F. Jesi, Cultura di destra, op. cit., p. 48.

3. S. Fusco, op. cit., pp. 69-70.

4. Ibidem, p. 70.

5. Ibidem, p. 72

6.
Ibidem

7.
Ibidem

8. Ibidem, p. 74

9. Ibidem

10. E. Passaro, op. cit., pp. 145-48 e 156.

11. J.R.R.Tolkien, Il Signore degli Anelli, Rusconi 1977, p. 94

12. Ibidem. In questo frangente, Gandalf, come spesso accade, riflette il pensiero dell’autore, vedi Lettera 181, in J.R.R.Tolkien, La realtà in trasparenza, Bompiani, 2001, p. 265: «…la salvezza del mondo e la salvezza dello stesso Frodo vengono raggiunte grazie alla sua precedente pietà e capacità di perdonare le offese».

13. E. Passaro, op. cit., p. 154

Éomer 14. In un altro passaggio, lo stesso commentatore non resiste alla tentazione di recuperare alla difesa della Terra di Mezzo la ferina dismisura di Éomer (definito come “eroe lunare”) nell’episodio in cui rinviene il corpo della sorella sul campo di battaglia, si dispera e si lancia contro le schiere nemiche chiamando la morte su di loro e su se stesso. Si tratterebbe di un «esempio di eroismo cieco, furioso selvaggio, incurante della morte. […] Questo slancio distruttivo, nichilistico, appunto, ha qualcosa di affascinante ed, insieme, di perverso, ed è solo un tassello nero nell’immane mosaico di una Terra di Mezzo che difende con ogni strumento, anche quello meno ortodosso, la propria libertà» (p. 153).
Insomma, secondo Passaro, ai fini della lotta contro il male anche un “tassello nero” farebbe brodo. Tuttavia il romanzo ci racconta una storia ben diversa. Infatti la sorella che Éomer crede morta, è in realtà soltanto ferita. La cosa giusta da fare quindi sarebbe prestarle soccorso, anziché farsi prendere dalla disperazione. Se Éomer trovasse davvero la morte in fondo al suo slancio nichilista, morirebbe per niente, per un banale equivoco. In quel passaggio, Tolkien ribadisce – con la consapevolezza del reduce della guerra moderna – una distinzione netta: i combattenti utili sono quelli che rimangono lucidi e presenti al loro dovere, non quelli che si lasciano trascinare dalla furia come antichi berserker.
A conti fatti, quando si prende in esame la critica tolkieniana prodotta da certi commentatori di destra è difficile distinguere dove finisca l’equivoco dovuto a sovrainterpretazione ideologica e dove cominci la citazione strumentalmente monca. In certi casi addirittura ci si trova in presenza di quella che sembra semplicemente confusione delle fonti, come può essere, ad esempio, lo scambio di brani del Signore degli Anelli con scene del film di Peter Jackson tratto dal romanzo. E’ quel che accade nel saggio di Adolfo Morganti, Un giorno un re verrà…, contenuto nella raccolta già menzionata, dove si citano come fonte primaria le parole che Boromir rivolgerebbe ad Aragorn in punto di morte, chiamandolo “mio Re” (p. 166). Ebbene, questa battuta è pronunciata nel film dal personaggio interpretato dall’attore Sean Bean, ma non compare affatto nel testo letterario.

15. Alberto Lombardo, Il sentimento politeista di J.R.R.Tolkien, in “Albero”…, p. 114

St. Theodore's Anglican Chapel16. J.R.R.Tolkien, Il Signore degli Anelli, p. 340. La mera strumentalità dell’assunzione del cattolicesimo di Tolkien da parte di questi lettori trova conferma anche nella poca accortezza con cui costoro trattano l’argomento, a volte con affermazioni ridicolmente false. Come ad esempio quelle di G. De Turris sul fatto che Tolkien avrebbe convinto l’amico C.S. Lewis ad abbandonare il protestantesimo per farsi cattolico (J.R.R.Tolkien, Il Medioevo e il fantastico, op. cit., nota del curatore n. 49, p. 213) e sulla connotazione “cattolica” del circolo letterario di cui entrambi facevano parte, gli Inklings (“Insolito e Fantastico” n° 6, 2011, p. 33). Inutile dire che soltanto alcuni dei membri del suddetto circolo erano cattolici e di certo non lo era il suo principale animatore, cioè C.S. Lewis, il quale, una volta abbracciato il cristianesimo, fu anglicano fino al giorno della sua morte.

17. Si tratta dell’interpretazione che sostiene la stretta coincidenza tra i temi e le figure presenti nella narrativa di Tolkien e quelli della religione cristiano-cattolica. Cfr. J. Pearce, Tolkien, l’uomo e il mito, Marietti, 2010; ma anche S. Caldecott, Il fuoco segreto, Lindau, 2009, e in Italia, ad esempio, la lunga serie di articoli del padre gesuita G. Sommavilla (1920-2007) usciti tra anni Settanta e Novanta sulla rivista “Letture” (Edizioni San Paolo) e quelli del padre francescano G. Spirito, pubblicati sulla rivista della Società Tolkieniana Italiana “Minas Tirith”, oltre ai suoi saggi Tra San Francesco e Tolkien. Una lettura spirituale del Signore degli Anelli, Il Cerchio, 2003 e Lo specchio di Galadriel. I francescani celebrano J.R.R.Tolkien, Il Cerchio, 2006. Vedi anche: A. Monda, L’Anello e la Croce, Rubettino, 2008 e G. Bertani, Le radici profonde. Tolkien e le sacre scritture, Il Cerchio, 2011.
Anche questi interpreti si avvalgono di una lettura simbolista, ma la ancorano ai testi sacri e alla teologia cattolica, cioè a qualcosa di più concreto della fantomatica Tradizione. In questo modo forzano l’opera di Tolkien dentro “una metafora o parabola o profezia evangelica” (G. Sommavilla, “Letture”, 1988, pag. 693) e la trasformano in un sussidio dottrinale, ritagliando addosso all’autore l’abito che lui stesso rifiutava di indossare. Fu infatti l’avversione per l’uso della letteratura fantastica in chiave allegorico-morale e apologetico-religiosa che produsse la presa di distanza di Tolkien dall’opera di George MacDonald e la sua critica implicita a C.S. Lewis (vedi “Genesi della storia”, nota per Clyde Kilby, in J.R.R.Tolkien, Fabbro di Wootton Major, Bompiani 2005, p. 59-60).
Se infatti Il Signore degli Anelli ha fondamenta cristiane e cattoliche – come ebbe a riconoscere Tolkien stesso (lettera 142) – questo è vero non già in senso teologico-dottrinale, bensì etico-culturale, cioè al netto di ogni indirizzo propriamente religioso. Nella storia della Terra di Mezzo si possono rinvenire valori e princìpi cristiani più o meno evidenti, ma non c’è traccia di fedeltà all’evento resurrezionale e, di conseguenza, non c’è nemmeno promessa di redenzione. Le figure di quel mondo non possono essere metafore cristiane, se non incomplete, monche; tutt’al più alludono a simbologie religiose, ma certo non le citano, né le ricalcano.

18. G. De Turris, Postfazione a La Leggenda di Sigurd e Gudrùn, Bompiani, 2009, p. 436

Il ritorno di Beorthtnoth figlio di Beorhthelm19. J.R.R.Tolkien, Il Ritorno di Beorhtnoth figlio di Beorhthelm, Bompiani, 2010. Dopo la recente riedizione (corredata da un intervento esegetico del massimo esperto di Tolkien, il prof. T.A. Shippey), il silenzio su questo testo da parte di certi commentatori non ha potuto continuare. Nella prefazione del saggio di P.H. Kocher, Il Maestro della Terra di Mezzo, Bompiani, 2011, G. De Turris riprende il giudizio dell’autore – risalente a quarant’anni fa -, per il quale Il Ritorno di Beorhtnoth “è assai lontano dall’essere un ripudio delle ballate eroiche del Nord, alle quali Tolkien si è entusiasmato per tutta la vita, né – inutile dirlo – delle sue opere d’immaginazione che discendono da esse” (p. 12).
Tolkien infatti non ha mai ripudiato un bel niente, tanto meno le proprie stesse opere. Ha invece avuto bisogno di mettere in discussione i limiti del modello eroico esaltato nelle antiche ballate e non di accettarlo acriticamente. E’ precisamente questo lavoro critico sugli archetipi e sulla tradizione epica – nel quale Il Ritorno di Beorhtnoth rappresenta il momento antitetico – a consentire a Tolkien di raggiungere la sintesi che vediamo incarnata da personaggi come Aragorn e Faramir, da un lato, ma anche gli Hobbit, dall’altro. Prova ne è il fatto che questi eroi portano in sé soltanto alcune delle caratteristiche di prodromi letterari come Beowulf e Beorhtnoth, e ne ignorano completamente altre.

20.
J.R.R.Tolkien, The Lord of the Rings, Harper & Collins, 2007, p. 825 e 852. Il fatto che le società della Terra di Mezzo siano già post-pagane è spiegato dallo stesso Tolkien nella Lettera 156, in La realtà in trasparenza, op. cit., p. 231. Cfr. anche T. Shippey, La via per la Terra di Mezzo, Marietti, 2005, p. 290-291.

21.
G. De Turris, Introduzione a J.R.R.Tolkien, Il Medioevo e il fantastico, Bompiani, 2004, p. 17

22.
G. De Turris, Tolkien fra Tradizione e Modernità, in “Albero”…, op. cit., p. 134

23.
Ibidem, p. 137-138. Altrove, lo stesso G. De Turris definisce il conflitto che anima la creazione tolkieniana in termini di “Potere temporale negativo” contro “Autorità spirituale positiva” (Postfazione a J.R.R.Tolkien, I Figli di Hùrin, Bompiani 2007, p. 313-314). E’ una dicotomia solo in apparenza più corretta di quella citata nel corpo del testo, dato che sarebbe più giusto parlare di autorità morale, cioè basata sulle scelte personali, ovvero sulla coltivazione dei talenti interiori anziché sul potenziamento esteriore. Se infatti personaggi come Gandalf o i signori degli Elfi possono anche rimandare a una dimensione “spirituale”, di certo è difficile dirlo per personaggi come Bilbo, Frodo, Sam, Merry e Pipino, il cui anomalo eroismo è pure al centro del ciclo dell’Anello.
Capita poi che lo stesso commentatore si contraddica, affermando che «L’Unico Anello è il simbolo del potere malvagio e dittatoriale, in contrapposizione agli anelli degli uomini, degli elfi e dei nani» (Tolkien fra Tradizione e Modernità, op. cit., p. 137) e lasciando intendere quindi che gli altri Grandi Anelli rappresenterebbero un potenziamento/potere positivo.
Perfino chi ha letto soltanto l’esergo del Signore degli Anelli sa che l’Unico è stato creato “to rule them all“. Non esiste alcuna contrapposizione possibile tra l’Unico e gli altri Anelli, poiché questi sono stati fabbricati dagli artigiani elfici sobillati da Sauron, quindi da lui rubati e distribuiti ai re dei Nani e degli Uomini per soggiogarli al potere dell’Unico Anello, che Sauron ha forgiato per se stesso. Gli ultimi Tre Anelli salvati dagli Elfi vengono messi al sicuro e affidati a portatori molto saggi, perché anch’essi potrebbero ricadere sotto il potere dell’Unico qualora Sauron ne tornasse in possesso (vedi J.R.R. Tolkien, Il Silmarillion, Bompiani 2000, p. 362-363 e Il Signore degli Anelli, op. cit., p. 339). Tanto è vero che Gandalf afferma di non credere che, una volta distrutto l’Unico, i Tre Anelli possano “risanare tutti i mali del mondo causati da lui”, e ritiene invece più probabile che anche i Tre perdano il loro potere “e molte cose belle svaniscano e cadano nell’oblio” (SdA, p. 339). “Eppure gli Elfi sono pronti a correre questo rischio, pur di frantumare il potere di Sauron ed allontanare per sempre il terrore del suo dominio” (ibidem). E’ infatti così che andranno le cose: Sauron sarà distrutto e il prezzo da pagare sarà la perdita definitiva del beneficio elfico nella Terra di Mezzo. I portatori dei Tre Anelli, vale a dire Gandalf, Elrond e Galadriel, non parteciperanno attivamente alla ricostruzione del mondo devastato dalla guerra (gli ultimi due non avranno un ruolo attivo nemmeno durante la guerra). Saranno la saggezza di Aragorn e la perseveranza di Sam a risanare i danni causati dall’Oscuro Signore, non il potere degli Elfi e degli stregoni con i loro Anelli. I vecchi custodi della Terra di Mezzo quindi giocano la grande partita contro Sauron sapendo che per loro sarà l’ultima e che dopo dovranno lasciare gli Uomini al loro destino. Gli Uomini non detengono alcun particolare potere, e potranno contrapporre al male, quando si ripresenterà, soltanto la propria forza d’animo, la propria saldezza, se saranno capaci di conservarla. Né potrebbe essere altrimenti, dato che la storia non torna indietro e il cambiamento non può essere bloccato, anche se comporta la perdita dolorosa di “molte cose belle”.

L'Anello24. T. Shippey, J.R.R.Tolkien, La Via…, op. cit., p. 203. Nella sua più recente argomentazione su questo punto, G. De Turris ha sostenuto che sui “capi dell’Occidente come Gandalf, Elrond, Galadriel e Aragorn”, l’Anello non produce “nessun effetto”: costoro sarebbero immuni dal potere tentatore dell’Anello, avendo una predisposizione di spirito troppo solidamente rispettosa della libertà individuale per cadere in tentazione (Prefazione a P.H. Kocher, op. cit, p. 11). Ebbene, va detto che nell’intero Signore degli Anelli l’unico personaggio che gode di tale immunità è Tom Bombadil (libro I, cap. VII). Per quanto riguarda “i capi dell’Occidente” – come vengono impropriamente definiti Gandalf, Elrond, Galadriel e Aragorn – essi rifiutano di prendere l’Anello proprio perché hanno paura di lasciarsi tentare dall’opportunità di fare il bene attraverso la coercizione del potere (che equivarrebbe a fare il male). Altro che “nessun effetto”: proprio i più saggi e i più forti sono talmente consapevoli degli effetti che l’Anello potrebbe avere su di loro da evitare finanche di sfiorarlo. Coloro che invece hanno una maggiore resistenza alla tentazione sono i piccoli Hobbit, e per questo sono in grado di prendere su di sé una responsabilità superiore a quella dei nobili guerrieri, degli Elfi e degli stregoni.
Questa constatazione dissolve un’altra forzatura ideologica, cioè l’idea che nella Terra di Mezzo verrebbe riproposta l’antica tripartizione sociale di cui parlava Georges Dumezil: oratores, bellatores, laboratores. Secondo le interpretazioni di destra, gli Hobbit apparterrebbero infatti a quest’ultimo ordine (cfr. S. Giuliano, «La tripartizione funzionale nella Terra di Mezzo», in “Albero”…, op. cit., p. 75-93). Se così fosse si dovrebbe quantomeno acquisire il fatto che nella Terra di Mezzo la partizione gerarchica si presenta completamente ribaltata. Ribaltamento che trova conferma nelle stesse parole dell’autore, il quale afferma, nella celebre lettera 131, che con le ultime vicende legate all’Anello si compie il passaggio dal tempo leggendario ed eroico a quello storico, con un radicale mutamento dei protagonisti. La storia che comincia con l’ingresso degli Hobbit nelle vicende della Terra di Mezzo non è più incentrata sul potere elfico né sulle gesta dell’aristocrazia guerriera: “così come i primi racconti erano visti attraverso gli occhi degli elfi, quest’ultima grande storia, che dal mito e dalla leggenda scende sulla terra, è vista soprattutto attraverso gli occhi degli hobbit: in questo modo, in effetti, diventa antropocentrica. Ma attraverso gli hobbit, e non gli uomini, perché l’ultima storia deve chiarire del tutto un tema ricorrente: il posto che nelle ‘politiche mondiali’ occupano gli atti di volontà imprevisti e imprevedibili, e le buone azioni di chi apparentemente è piccolo, poco eroico e dimenticato invece dai saggi e dai grandi (sia buoni che malvagi).” (J.R.R.Tolkien, La realtà…, op. cit., p. 182).

25.
J.R.R. Tolkien, Il Signore degli Anelli, p. 1024. La scelta della disobbedienza all’autorità è anche quella della sentinella Beregond, che disattende gli ordini ricevuti, abbandona il presidio che gli è stato assegnato e affronta i servitori del proprio signore per salvare Faramir (SdA, p. 1023).

26.
Jesi constata che la mistica fascista della morte si incentra sull’idea di un sacrificio fondativo, e cita Mircea Eliade: «Il transfert rituale della vita per mezzo del sacrificio non si limita alle costruzioni (templi, città, ponti, case) e agli oggetti utilitari: si sacrificano parimenti delle vittime umane per assicurare il successo di un’operazione, o anche la durata storica di un’impresa spirituale» (M. Eliade, Maître Manole et le monastère d’Arges, 1970, in Jesi, op. cit., p. 67). L’idea che muove i combattenti fascisti è quella di una morte che fonda ritualmente l’emancipazione della stirpe, «donde la loro prospettiva non di vincere o morire, ma di vincere morendo» (F. Jesi, op. cit., p. 68).
Da questo punto di vista, un poema come La Battaglia di Maldon (X-XI sec.) esalta il sacrificio dei fedelissimi del conte inglese Beorhtnoth – i quali anziché cercare di salvare il salvabile decidono di morire combattendo una battaglia persa, per seguire la sorte del loro signore – e celebra così l’eroismo e l’orgoglio inglese, trasformando il sacrificio in un atto ideologicamente fondativo. Se n’era accorto Borges, quando nel suo celebre epilogo narrativo della battaglia di Maldon scriveva che i guerrieri anglosassoni «fin dall’alba avevano combattuto per l’Inghilterra e per il suo vasto impero futuro e non lo sapevano.» (J.L. Borges, Anno Domini 991, in La Moneta di ferro, 1976). Il sacrificio dei guerrieri di Beorhtnoth sancisce quindi la vittoria ideale e la supremazia valoriale inglese (“l’impresa spirituale” di cui parla Eliade).
E’ precisamente l’avversione per questa idea che spinge Tolkien a scrivere un testo come Il Ritorno di Beorhtnoth figlio di Beorhthelm. Tolkien rintraccia la radice pagana di quella concezione dell’eroismo e la rifiuta, da un lato perché la trova incompatibile con la propria fede, dall’altro perché la storia che aveva vissuto – in primis la Battaglia d’Inghilterra (1940) – aveva dimostrato come si dovesse resistere agli invasori con le unghie e con i denti, assai più che cercare una fine coerentemente eroica. In altre parole, per Tolkien l’eroismo è implicito nelle scelte umane, non può essere la loro premessa ideologica. Ne deriva che è giusto sacrificarsi per sconfiggere il male, ma è sbagliato pensare che la vittoria sia nella lotta stessa e nel conseguimento di una morte nobile.

27.
J.R.R.Tolkien, «Sulle Fiabe», in Il Medioevo e il fantastico, op. cit., p. 221. Nel saggio Sulle Fiabe, Tolkien non afferma di preferire “cavalli” e “cavalieri” alla penicillina, all’igiene pubblica o all’alfabetizzazione. La sua concezione del progresso, quella che lui rifiuta, è fatta di macchine di morte e luoghi di produzione seriale che bruciano, inquinano, alienano l’uomo dalla natura e dal paesaggio. Infatti specifica che “malvagità e bruttezza sembrano essere indissolubilmente collegate” ed è da esse, dall’infelicità che ci provocano, che vogliamo evadere attraverso la letteratura fantastica. Tuttavia, aggiunge, «ci sono cose più torve e terribili da cui fuggire, che non il rumore, il puzzo, la spietatezza e lo sperpero di un motore a combustione interna. Ci sono fame, sete, povertà, dolore, angustia, ingiustizia, morte.» C’è il desiderio recondito di superare “antiche limitazioni” fisiche, come volare, navigare negli abissi, parlare con gli animali, etc. (Sulle Fiabe, op. cit., p. 222-223). E questo conferma che “l’evasione del prigioniero” praticata attraverso le fairy stories coincide con il rifiuto del mondo moderno solo in senso contingente, perché è qualcosa di assai più profondo e universale, che sta alla base dell’attività narrativa umana.
In questo senso gli Hobbit protagonisti del ciclo dell’Anello non si avventurano soltanto nel passato, ma soprattutto nel reame fatato. Oltre a re, dame e cavalieri, dovranno incontrare elfi, troll, orchi, ragni giganti, ent, e tutte quelle creature “fairy” che nella moderna Contea non trovano più spazio e che stanno irreversibilmente abbandonando la stessa Terra di Mezzo. Fungendo da connessione fra i tempi moderni e il mondo arcaico di nani e draghi, gli Hobbit diventano il veicolo di un’indagine sul nostro rapporto perduto – ovvero latente – con il fantastico, le leggende, i miti, le fiabe.

Wu Ming 4

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204 commenti su “Il professore, il barone e i bari. Il caso #Tolkien e le strategie interpretative della destra

  1. […] una prospettiva storica. Il curatore, Gianfranco de Turris (i cui trascorsi si possono leggere nel recentissimo saggio di Wu Ming 4), nelle poche pagine dell’introduzione, si dilunga a spiegare l’etimologia del termine […]

  2. “Il trattamento inflitto ai neri riempie quasi sempre di orrore quando si esce dalla Gran Bretagna, e non solo in Sudafrica. Sfortunatamente non molti continuano a provare questi generosi sentimenti.”

    [J.R.R.Tolkien, lettera 61, 18 aprile 1944.]

  3. […] più orribile il legame dell’assassino con alcuni ambienti letterari. Ne parlano i Wu Ming su Giap. Leggete e diffondete. Ancora Firenze. Venerdì scorso ho pubblicato il comunicato sulla libreria […]

  4. La questione rispetto all’uso del simbolo trattata in apertura mi interessa molto, perché mette in campo due questioni collegate: quella del metodo e quella della legittimazione che sono strettamente collegate.
    La questione dell’apertura interpretativa del simbolo è ampiamente trattata dalle discipline semiotiche, in relazione alle problematiche che esso comporta. Data l’apertura pressoché infinita del simbolo a qualsiasi rimando è impossibile fondare su di esso alcun principio interpretativo dei testi.
    Il problema diventa allora come far convivere la possibilità di un’interpretazione con le possibilità di significazione garantite dal regime simbolico. La semiotica di matrice strutturalista ha elaborato il concetto di semisimbolico per rispondere e superare questa impasse.
    Con questo concetto si vincolano i simboli al sistema semiotico elaborato entro i confini del testo di riferimento. Scopo dell’analista è ricostruire questo sistema per poter leggerne i simboli. Si tratta di quello che WM4 chiama “contesto dell’opera” che viene eluso nelle interpretazioni simboliche che la critica di destra mette in campo nella lettura di Tolkien.
    Ora, quello che mi chiedo, di fronte a una carenza metodologica così grave come è stato possibile che questo genere di interpretazioni abbia potuto ricevere una qualsivoglia forma di legittimazione culturale?
    Mi sembra che si tratti di una questione di politica della cultura abbastanza scottante, sbaglio?

  5. […] di Gianfranco De Turris, di cui su questo blog si è parlato pochi giorni fa.  Come è scritto su Giap!, ha collaborato a un libro, edito da Bompiani, dove di Tokien si parlava. Aveva scritto un saggio […]

  6. Scusate, nella nota relativa alla strage leggo: “Mentre scriviamo, gli ultimi due lottano ancora per la vita” … quindi è morto anche Moustapha Dieng ? Cercando in rete non trovo però conferma, spero si tratti di un vostro errore, un tre che è diventato due …
    tra l’altro su repubblica on line non compare nessuno dei nomi delle vittime e (anche il corriere) i morti sono solo “i senegalesi”

  7. Ho visto ora il vostro tweet di questa notte e trovato quest’unico link http://www.reset-italia.net/2011/12/13/rognetta-italia-razzista-nazifascista-firenze/ riguardo la morte di Moustapha Dieng.
    Triste la morte di Moustapha e doloroso vedere che non ne viene dato tempestivo risalto come sarebbe accaduto in altre occasioni :-(

  8. @ pipcoman

    stanotte dei lanci di agenzia ripresi su Twitter avevano dato per morto anche Moustapha Dieng, stamattina non vedo traccia di questa notizia, speriamo fosse solo un falso allarme. In extremis, prima di andare a dormire, abbiamo emendato il post scriptum. Adesso lo ri-emendiamo, poi non lo toccheremo più.

  9. ho trovato questo:
    http://www.asca.it/news-FIRENZE__NOTTE_TRANQUILLA_PER_FERITI__PROGNOSI_RESTA_RISERVATA-1075676-ORA-.html

    speriamo bene (quel “tranquilla” mi sembra cmq macabro).
    In effetti sarebbe stato davvero troppo ignorare questa notizia per le testate giornalistiche.

  10. @ El Pinta

    Scrivi: “Ora, quello che mi chiedo, di fronte a una carenza metodologica così grave come è stato possibile che questo genere di interpretazioni abbia potuto ricevere una qualsivoglia forma di legittimazione culturale?
    Mi sembra che si tratti di una questione di politica della cultura abbastanza scottante, sbaglio?”

    In parte la risposta è contenuta nel post di Roberto Arduini gemellato con questo nostro di oggi: si tratta di un misto di sciatteria, inerzia e avidità da parte dell’editore che gestisce i testi di Tolkien in Italia.
    Ma c’è anche l’altra faccia della medaglia, a cui accennavo nel post di fine ottobre sul Lucca Comics: http://www.wumingfoundation.com/giap/?p=5979. Mi riferisco soprattutto al paragrafo 4, dove spiego perché certi critici intelligentoni hanno deciso che Tolkien era paraletteratura e “monnezzone”, roba per ragazzini nerd e per fascistelli, appunto. Se pensi che un autore non sia nemmeno degno di nota – nonostante nel corso di mezzo secolo sia diventato un fenomeno culturale planetario – allora perché preoccuparsi del fatto che quattro fascisti se ne appropriano e ne fanno quello che vogliono? Perché preoccuparsi che usando Tolkien o Lovecraft come vettori questi entrino nelle case editrici e si garantiscano rendite di posizione pluridecennali? Certo che è “una questione di politica della cultura abbastanza scottante” – e che trascende di molto il caso Tolkien. E’ che qualcuno se ne accorge solo quando saltano fuori le pistole. Perché questo è davvero O paese d’o sole…

  11. Davvero l’ideologia rovina la testa delle persone.
    In questo periodo sto facendo una full immersion nell’opera tolkeniana e le affermazioni di De Turris & Co. mostrano in maniera lampante i loro limiti interpretativi.
    Il modo in cui Tolkien ha demitizzato la figura dell’eroe, modernizzandola, trova traccia ovunque. A partire da “Lo hobbit” in cui il buon Bilbo nello scontro finale invece di ‘vincere morendo’ indossa l’anello dell’invisibilità e si acquatta osservando lo scontro, finché non sviene. Ma anche l’opera più ammantata di mitologia, cosmogonia e affini, ovvero “Il Silmarillion”, presenta costantemente la messa in crisi (e in critica) dell’eroe tradizionalmente concepito. Vedere cosa accade alla nobile casata dei Noldor, protagonisti reali del romanzo, in cui vi è un succedersi continuo di re-eroi ottusi e incoscienti, avidi e corrotti.

    Tutte queste letture così fortemente filtrate dall’ideologia ci allontanano dalla critica letteraria vera e propria. Conducono lontano e confondono. Non forniscono una motivazione una che illumini la grandezza dell’opera tolkeniana. E soprattutto, dettaglio ancor più grave, assurgono a livello di “esegesi”, con tanto di pubblicazione, che andranno ad influenzare migliaia di lettori, pur essendo state concepite nell’ignoranza della materia, nell’arroganza di voler assoggettare uno scrittore alle proprie convinzioni, nella cecità di chi avanza col paraocchi.

  12. @WM4: qui si tocca un punto veramente critico nel circuito cultura-intellettualità-impegno. Quella della legittimazione culturale è forse la strategia comunicativa più aggressiva messa in campo dalla destra neo-fascista. Una strategia che passa per la costruzione di un immaginario, un pantheon simbolico (di nuovo ritorna il discorso sul metodo che facevo prima) che si genera anche per coptazione: Casa Pound e Che Guevara, Casa Pound e Pasolini, Casa Pound e Rino Gaetano, Casa Pound e Pound stesso…
    A me è capitato troppo spesso di sentire intellettuali, anche straordinariamente intelligenti, liquidare in maniera frettolosa questa strategia come una bizzarria o peggio al grido di “Poud era un ebreo omosessuale, figurati che ci hanno capito questi”.
    Il problema è che di fronte a questa strategia, un atteggiamento del genere scava solchi profondi e crea zone franche che puntualmente vengono riempite con aggressività, non importa se con o senza argomenti e metodi critici rigorosi, anzi meglio se senza argomenti e metodi critici rigorosi.
    Così certe letture si diffondono, l’immaginario si moltiplica e poi, appunto, ci si chiede come sia possibile che succedano certe cose (i roghi, le sparatorie, i pestaggi).
    Il problema, per quella che chiami “l’altra faccia della medaglia”, è se saprà riconoscere questa strategia di legittimazione culturale quando questa arriverà a lambire le sue “terre consacrate”…

  13. @Ekerot:A proposito dei simboli regali…
    “…Beren rise. ‘A vile prezzo ‘ .disse ‘ i Re degli Elfì vendono le proprie figlie: per gemme, per cose prodotte dall’artificio. Ma se questa è la tua volontà, Thingol, ebbene, io mi inchinerò a essa. E quando ci rivedremo, la mia mano terrà un Silmaril strappato alla Corona di Ferro.’ ”

    [da Il Silmarillion, Beren ad Thingol, re elfico del Doriath]

    A proposito del concetto di eroismo tolkeniano:

    “…sovente, quando i Saggi si mostrano irresoluti, aiuto può venire dalle mani dei deboli.”

    [da il Silmarillion, Gandalf/Mithrandir]

    ….ed è il Silmarillion.

  14. Qui a Benevento è un po’ il luogo natale dei campi hobbit, c’è una *simpatica* associazione intitolata a Generoso Simeone e c’è la figlia (se non erro, si chiama Marina) che va in giro a santificare il padre e riportare la filosofia che ha dato vita ai suddetti *campi hobbit*, quindi decostruire l’immaginario della destrificazione di Tolkien è un’impresa complicata, anche se ci si prova.

    Fatta questa nota, volevo fare una domanda. Come si pongono i destrificatori di Tolkien nei confronti delle donne del libro? L’unica stereotipata, che rientra nell’immaginario classico di moglie e madre è Arwen (considerando che i pezzi di “Arwen figa che affronta i Nazgul al Guado” se li è inventati Jackson e nel libro al posto suo c’è Glorfindel).

    Poi, con ordine: Galadriel. E’ molto dea pagana di matrice celtica: è Brigid, la stessa a cui è stata ispirata la Dama del Lago del ciclo arturiano, che tra l’altro aveva tra i suoi nomi qualcosa tipo “la brillante, colei che brilla”. Che poi Brigid, la dea celtica, sia stata cristianificata in Santa Brigida, è un’altra storia.
    In ogni caso, a parte le associazioni con la mitologia celtica, la cosa che m’interessava era un’altra: l’idea che Tolkien da del rapporto tra Celeborn e Galadriel (almeno secondo me) è un rapporto a impostazione DECISAMENTE matriarcale, col primo assolutamente suddito della seconda.

    Baccador (veniva prima in ordine cronologico, ma ça va). Beh. Non mi ci soffermo troppo, ma a me il rapporto tra Baccador e Tom pare molto un rapporto alla “amore libero da fricchettoni in stile Woodstock”.

    Veniamo alla più importante. Eowyn. Come si mettono i destrificatori nei confronti di un Tolkien che a cavallo tra gli anni trenta e quaranta (piena Seconda Guerra Mondiale, in cui, teoricamente, gli uomini andavano in guerra e le donne badavano al focolare, e questo sia nei paesi dell’Asse che in quelli dell’Alleanza) tira fuori una figura femminile che sovverte TOTALMENTE l’idea della donna che bada al focolare?

  15. […] Per quanto mi riguarda: scrivo storie horror e fantastiche, sono di sinistra, atea e femminista, e mi rifiuto di essere accostata a un criminale razzista. […]

  16. Eveblisset. Perdona se aggiungo all’elenco il mio personaggio femminile preferito: Lùthien. Probabilmente il tuo elenco si riferisce solo al SDA, ma il personaggio di Lùthien, secondo me, è qualcosa di meraviglioso.
    La storia in breve l’ho anche riassunta da qualche parte, giusto per dimostrare quante azioni eclatanti compia quest’elfa da sola, con la forza dell’amore e della disperazione (e un po’ d’aiuto della madre).
    WM2 scrisse un bellissimo saggio su Euridice. Ebbene nel canto di “Beren e Luthien”, i ruoli si invertono. E Luthien riesce nella sua missione – non faccio spoiler se non l’avessi letto – pur al prezzo di un terribile sacrificio. Ed è l’unica credo a vincere su Sauron e Melkor.

  17. Scusate, mi permetto un’osservazione su Eowyn. Vado a ruota libera in base a memorie non troppo fresche del libro, quindi spero di non andare fuori strada.

    Da come l’ho sempre percepita io, il gesto di ribellione di Eowyn è letto come eroismo dettato dalla disperazione: una specie di quello che ha spinto Eomer a cercare la morte in battaglia e di cui si accennava prima.

    Eowyn fugge da una situazione che la fa sentire oppressa. “Tu sei una donna e il tuo posto è la casa: mentre gli uomini vanno a combattere, rimani pure e brucia con la casa…” la ricordo dire qualcosa di simile, piena di amarezza (perdonate, cito a memoria e non rileggo il libro da qualche anno).
    Va a combattere senza la speranza di ritorno che caratterizza positivamente gli Hobbit; è un’eroina, ma è un’eroina tragica e infelice.
    Almeno fino a che la battaglia finisce, lei incontra Faramir nelle Case di Guarigione e con l’amore si trasforma: da guerriera diventa una classica femmina accudente e dispensatrice di vita.
    La parentesi guerriera di Eowyn è un’anomalia, un curioso mostro come le Amazzoni greche: può essere affascinante ma non è naturale, e lei ritrova il suo posto e l’armonia interiore quando rientra nel ruolo tradizionale di angelo del focolare.

    Amo molto il personaggio, ma non mi sembra che sovverta davvero l’archetipo.

    Più trasgressiva Galadriel, dotata di grande potere e della capacità di usarlo: solo la sua saggezza, acquistata con il tempo, la ferma dal prendere l’Anello e dal trasformarsi in una Dea Bianca della vita e della morte.

  18. @eveblissett: …Eowyn. Come si mettono i destrificatori nei confronti di un Tolkien che a cavallo tra gli anni trenta e quaranta (piena Seconda Guerra Mondiale, in cui, teoricamente, gli uomini andavano in guerra e le donne badavano al focolare, e questo sia nei paesi dell’Asse che in quelli dell’Alleanza) tira fuori una figura femminile che sovverte TOTALMENTE l’idea della donna che bada al focolare?

    Ciao a tutti. Questo è uno dei tanti esempi di “funambulismo” dei pensatori destrorsi: Ewoyn soprattutto è il simbolo per eccellenza della donna. La donna, il cui ruolo ideale è quello di stare dietro ai fornelli o a badare ai figli, rifiuta quel ruolo e aspira a comportarsi da uomo, combattendo vestita da uomo, per poi ricredersi e comprendere fino in fondo quanto sia a lei naturale il ruolo di badante/infermiera/guaritrice. Negli anni Settanta per veicolare queste cretinate c’era anche una rivista. Il titolo? “Eowyn”, naturalmente…
    :-)
    Roberto

  19. @ eveblissett & sonomi

    Provo ad ampliare la risposta di Roberto Arduini (a cui do il bentornato su Giap!).

    In effetti l’idea del collettivo di donne di estrema destra che negli anni Settanta faceva la rivista “Eowyn” era quella della donna metà valchiria metà casalinga. La parabola del personaggio nel Signore degli Anelli veniva letta così: ribelle all’autorità patriarcale, diventa guerriera e poi scopre l’amore e decide di dedicarsi “a ciò che cresce”. E qualcuno subito la immagina già intenta a badare una nidiata di pargoli e a innaffiare le aiuole. Ma come ricorda Arduini, siamo alle solite mistificazioni. Si legga il romanzo. Mi spiace citarmi addosso, ma mi tocca… Nella terza parte del saggio “L’Eroe e la Dea” (in L’Eroe Imperfetto, Bompiani, 2010) – che altro non è se non un tentativo di lettura tematica del SdA – ho cercato di spiegare che la scelta di Eowyn è un bel po’ diversa da quella che si vorrebbe far credere.
    Qui proverò a spiegarmi ancora meglio.

    Eowyn non è soltanto ribelle all’autorità dello zio e del fratello maggiore, ma è anche evidentemente attratta da Aragorn. E’ innamorata del suo capitano e pretende di seguirlo in battaglia, come farebbe un fedele housecarl sassone con il suo signore. Vorrebbe cioè morire in battaglia al suo fianco. Questo è l’eroismo antico, germanico, che Eowyn vorrebbe condividere con gli uomini.
    Ora, occhio, perché tanto nel dialogo che avviene tra Aragorn e Eòmer mentre lei è svenuta, quanto nel dialogo che si tiene tra lei e Farmir in seguito, si dice una cosa chiara: l’amore di Eowyn per Aragorn era un’autosuggestione che in realtà celava il desiderio di gloria (cfr. SdA, libro V cap. VIII e libro VI, cap. V). Celava cioè l’ofermod. L’ofermod è la bestia nera di Tolkien, contro la quale ha innescato una battaglia per epurarla (questa qualità che lui non considerava tale) dalla teoria del coraggio nordica e approdare a una figura eroica che tenesse con sé solo gli aspetti positivi dell’antico eroismo.
    Ecco, quando Eowyn si riprende dalle ferite e incontra Faramir, tra i due nasce un amore dolente, terminale e senza speranza, ma la scelta della donna non ci viene presentata come una conseguenza di questo incontro, bensì della nuova consapevolezza che lei ha guadagnato. Soprattutto la scelta viene presa *dopo* la sconfitta di Sauron, quando la missione militare è finita. Ecco le sue parole:

    “Non sarò più una fanciulla d’arme [orig. ‘shieldmaiden’] né rivaleggerò con i grandi cavalieri, né amerò soltanto i canti che narrano di uccisioni. Sarò una guaritrice, e amerò tutto ciò che cresce e non è arido. […] Non desidero più essere una regina.” (SdA, libro VI, cap. V)

    La proposta di matrimonio di Faramir non precede questa scelta, la segue. Eowyn rinuncia a cercare la gloria e il potere regale, per dedicarsi alla ricostruzione post-bellica. Ma attenzione, la guerra è finita e il suo compito militare lei lo ha già portato a termine, e che compito! Ha ucciso il Capo dei Nazgul, il più forte servitore di Sauron. Ed è importante che la scelta avvenga a questo punto e sia quella giusta. La cosa importate, ci sta dicendo Tolkien, è riuscire a tornare indietro dalla follia della guerra che si è stati costretti ad affrontare. E non è impresa da tutti, perché “orgoglio e disperazione” sono sempre in agguato. Eowyn figlia di Eomund – scrivevo in quell’esercizio di lettura – è un personaggio che fa il paio con il vincitore Sam Gamgee, il giardiniere che farà rifiorire la Contea. Il suo non è un destino *al femminile*, anzi, il personaggio è caricato di un messaggio universale, che vale appunto anche per gli altri e investe l’intero romanzo.

    @ Ekerot
    concordo con te su Luthien, che, per altro, era il personaggio femminile preferito anche da Tolkien, tanto da inciderne il nome sulla tomba della moglie.

  20. Ridurre il personaggio di Eowyn alla storia del suo rapporto con la femminilità è purtroppo un’operazione che viene naturale, un riflesso pavloviano di cui i destrorsi hanno approfittato abbondatemente. Invece si tratta di una figura che ha una portata universale evidente, come ha scritto WM4, ed è questo che la rende secondo me uno dei personaggi più belli di Tolkien.

    @ eveblisset Per quanto riguarda Baccador e Tom Bombadil, capisco quello che volevi dire e con tutto il rispetto per i fricchettoni di Woodstock…però dai non mi si può fare un paragone del genere, sono due creature così splendide e archetipiche! Che c’entrano loro col fango e il rock?? Lasciamoli alle loro foreste e alla loro rugiada. Ehm come vedete, non mi si può toccà Tom Bombadil :D

  21. Universalizzare la figura di Eowyn è un passaggio a cui non avevo mai pensato, ma è un’interpretazione molto bella e che in effetti la inserisce armonicamente nella visione di Tolkien della guerra e dell’eroe :)

    Se posso spezzare una lancia per l’associazione ingenua Eowyn=emblema della condizione femminile, c’è da dire che Eowyn è il solo personaggio femminile della trilogia, o quasi: Arwen è una figurina sullo sfondo, Galadriel è più una semidea che un personaggio attivo, con cui potersi identificare.

  22. Bellissimo articolo e commenti molto interessanti. Complimenti a Wu Ming 4 e a tutti!

    Prima o poi “Cultura di destra” lo devo rileggere. Da come lo ricordo, un ottimo “manuale di autodifesa da se stessi”, considerato quanto facilmente l’ideologia delle “idee senza parole” possa fare presa anche su chi con il neofascismo non ha nulla a che spartire.

    Una domanda, su una questione sollevata di sfuggita da qualcuno: cosa mi dite dell’appropriazione da destra di Lovecraft? Non ne so nulla, se qualcuno ha qualche ragguaglio… grazie!

  23. Grazie Federico.
    Ce n’era bisogno, in modo doloroso.

    Vorrei ribadire l’urgenza e la necessità di estendere l’approccio di Jesi a tutte le appropriazioni indebite e le indebite distorsioni operate dalle destre. Quel che rimane da fare è un argomentare filologico, come quello che ci presenta WM4.

    Persino l’opera di Pound, che pure rappresenta quanto di più strumentalizzabile dalla destra (in quanto autore dichiaratamente fascista), andrebbe recuperata, sezionata e analizzata con occhio critico. La trasformazione di un autore (e della sua opera) in autore-feticcio (e quindi veicolo di vettori ideologici, “autore tecnicizzato”, per parafrasare Jesi) è l’operazione di fondo che si compie in maniera costante, è fondativa della cultura di destra, e va inchiodata.

    (stavo pensando che un buon titolo potrebbe essere “Tolkien a una dimensione” :D )

    Allo stesso tempo, l’articolo è un ponte. Ho una sensazione di “non finito”, ma non di incompletezza: come di un discorso che continua a tessersi, di note densissime e appena accennate, di porte sul buio. Vorrei invitare Federico a pensare all’opportunità di elaborare un pdf (e magari un epub) dell’intervento, eventualmente rivisto alla luce di una discussione allargata.

  24. sul Lovecraft destrorso, un testo come si vedrà imparziale e scevro da giudizi ideologici trinariciuti:

    http://www.fantascienza.net/vegetti/GDT/Compagno.htm

    sempre il prode De Turris ha dedicato attenzione allo scrittore di Providence in “L’ultimo demiurgo e altri saggi lovecraftiani”. Immagino con la stessa cura con cui tratta di Tolkien.

  25. Ciao a tutti!

    Articolo molto interessante, che mostra bene i rischi (se non la malafede) dell’interpretazione disinvolta, lontana dal testo e priva di rigore e onestà intellettuale.
    L’essenzialismo mi sembra un vizio che a tutti si può incriminare meno che a Tolkien!

    Poi i legami con l’attualità sono agghiaccianti. Sarebbe quella la “bella morte”, il “vincere morendo” di cui parlano?

    Visto che si è parlato di Baccador e Tom Bombadil, vorrei solo far notare che questi personaggi sono diametralmente opposti a tutto l’universo valoriale di destra.
    Sganciati dal volk, dall’obbedienza a un re, dall’identificazione di sangue tra una terra e un popolo, ma al contrario, intellettualmente e moralmente liberi e indipendenti. Sembra quasi che non facciano parte dello stesso universo diegetico degli altri personaggi, come se essi provenissero da un’altra storia. Tom Bombadil a me è sempre sembrato un’aporia, un elemento che scombina l’universo narrativo rendendolo imprevedibile, aperto e incredibilmente affascinante. è qualcosa che non si può mettere in nessuna casella, né tra i buoni né tra i cattivi, e in questo modo getta una luce al tempo stesso arcaica e “moderna” (in senso buono) su tutto il romanzo.

  26. [una digressione, che sembra un OT. Ho trovato su Delos questo spassosissimo pezzo di De Turris e Fusco, dove i due si difendono – con esiti direi illuminanti – dall’accusa di essere autori “di destra” nel panorama della critica italiana del fantastico http://goo.gl/nJIYs E’ gustoso notare come la redazione segnali che questo pezzo è stato loro inviato dai due autori e messo in forma di “falsa intervista”: ovvero il fantomatico “giovane fan” che fa le domande in realtà è fittizio (senza dubbio si può parlare di fan fiction ). Ne cito un pezzo che, letto alla luce dell’articolo di WM4 e di Jesi, è di un candore imbarazzante]

    [finto fan] “Ma voi avevate come pezze d’appoggio teorici del razzismo come Julius Evola!

    [R] Son luoghi comuni letti di seconda o terza mano. Un po’ difficile che Catani abbia approfondito l’argomento sui libri dello stesso Evola… Evola scrisse di certo di razzismo insieme al 99 per cento degli intellettuali italiani dell’epoca (compresi molti illustri antifascisti sopravvissuti di oggi, come venne in risalto nelle polemiche del 1998), ma così come lo cita Catani sembrerebbe che noi facessimo all’epoca riferimento ad Evola in quanto “teorico dell’antisemitismo e del razzismo ‘spirituale’ nella sostanza non dissimile a quello biologico”. Noi facevamo riferimento ad Evola in quanto teorico della interpretazione simbolica dei testi classici, uno di coloro che sostenevano che il mito delle origini si era trasformato pian piano in saga, epopea, romanzo cavalleresco, leggenda, fiaba e fantastico moderno, insieme a René Guénon e soprattutto allo storico delle religioni Mircea Eliade, architrave di questa tesi. E insieme a loro citavamo, Joseph Campbell, Elémire Zolla, Karl Kerényi, C.G.Jung, Tolkien e così via. Questi sarebbero i “nomi legati alla tradizione specifica e del fascismo” come dice Catani? Ci pare una genericità eccessiva, buona forse per le polemiche degli anni Settanta meno nel 2002. “

  27. @rArduini & WM4
    Grazie mille per le risposte (tra l’altro la storia della rivista mi mancava!). Per il resto, non avevo tenuto conto della parte che citate voi e Sonomi, perchè l’ho sempre ritenuta in continuità con quella precedente, non “in rottura” (anche se non avevo considerato l’universalizzazione del personaggio e l’accostamento con l’epilogo di Sam che fa WM4)

    A leggere le vostre risposte, comunque, mi è venuta in mente una discussione di qualche giorno fa quando, in seguito alle dichiarazioni di Miller, si discuteva sugli elementi di destra in Sin City e il discorso si è spostato su Gail. Praticamente, quindi, il motivo per cui Eowyn non è “a destra”, anche se lo sembra, è il contrario del motivo per cui Gail non è “a sinistra” anche se a primo acchitto lo sembra e cioè, che non leggendole solo come “figure femminili”, ma come personaggi universali, viene fuori che la prima ha anche un punto di “creazione e rinascita” mentre alla seconda questo aspetto manca del tutto. Sbaglio? Azzardo? Sono film mentali miei? Ho capito un cazzo per un altro?

    Quanto a Baccador e Tom Bombadil, la storia dei “fricchettoni”, era un’identificazione abbastanza emotiva e personale dei due personaggi con due compagni, però il punto, quello che volevo dire, è quello che dice Diego (anche se non concordo col fatto che sembrano in rottura col resto dell’universo narrativo)

  28. @eveblissett

    non penso che sia un elemento di rottura, ma di apertura.
    è un’anomalia nell’ordine costituito, un’eccezione alla regola, un personaggio che rifiuta di schierarsi e di partecipare all’agone, uno che rimane a margine per scelta. In questo senso, secondo me assume uno statuto autonomo non solo all’interno della Terra di Mezzo, ma anche nella struttura narrativa stessa. È una digressione, una pausa in un mondo “altro”, una sospensione. Ma, ripeto, per me è una soluzione di grande fascino, che un po’ ricorda Omero, un po’ Mark Twain.

  29. “Eowyn rinuncia a cercare la gloria e il potere regale, per dedicarsi alla ricostruzione post-bellica. Ma attenzione, la guerra è finita e il suo compito militare lei lo ha già portato a termine, e che compito! Ha ucciso il Capo dei Nazgul, il più forte servitore di Sauron. Ed è importante che la scelta avvenga a questo punto e sia quella giusta. La cosa importate, ci sta dicendo Tolkien, è riuscire a tornare indietro dalla follia della guerra che si è stati costretti ad affrontare. E non è impresa da tutti, perché “orgoglio e disperazione” sono sempre in agguato….Il suo non è un destino *al femminile*, anzi, il personaggio è caricato di un messaggio universale, che vale appunto anche per gli altri e investe l’intero romanzo.”
    WM4, ma sai che mi ricorda una vecchia discussione su un vecchio post, si parlava del post-eroico, di Lawrence…
    scusate se è ot.

  30. @eveblissett

    è che Miller, almeno credo, è molto rozzo nel tratteggiare i suoi personaggi (non so se questa rozzezza abbia a che fare con la sua visione politica destrorsa e manichea nè m’interessa) che ad esempio in Sin City (e pure in 300) sono tutti volutamente caratteri fissi privi di complessità vera…Tolkien, almeno stando a quanto leggo qui, mi pare molto più raffinato e meno “semplificante” nella psicologia dei personaggi.
    preciso che non ho letto i fumetti di Miller ma solo visto le trasposizioni cinematografiche (che dal punto di vista prettamente estetico-artistico non mi sono dispiaciute)

  31. @ paola di giulio

    hai ragione. Del resto, al di là delle mie speculazioni immaginifiche in Stella del Mattino, una cosa Tolkien e Lawrence hanno condiviso davvero: la condizione di soldati in guerra e quella di reduci, di sopravvissuti. Cioè il problema del rientro.

  32. Ho trovato l’intervento di Wu Ming 4 molto puntale: i limiti di questo approccio “simbolista” sono messi in luce in maniera direi quasi “inequivocabile”. Mi permetto di rimarcare anche un altro limite, che Wu Ming 4 non ha voluto prendere come “bersaglio principale”: quello della “competenza” in materia. Premetto che a Principe e Rusconi va ben riconosciuto il merito storico di aver per primi tradotto in Italia “Il Signore degli Anelli” in un periodo culturale davvero particolare. Trovo invece imperdonabile il fatto che in quarant’anni questa cultura è riuscita a rinchiudere Tolkien in un dibattito del tutto provinciale e marginale rispetto ai grandi “risultati” che la critica straniera ha nel tempo ormai acquisito. Ho letto molti (non tutti) gli articoli di De Turris e, al di la’ delle tesi sostenute, c’è un fatto inoppugnabile. In questi articoli egli non cita MAI nessuno dei testi che ad oggi sono considerati IMPRESCINDIBILI per capire Tolkien, quali Shippey, Flieger, Chance, Rosebury e via dicendo. Sarebbe come se uno studioso di Hegel non citasse mai Kojeve, o uno di Tommaso d’Aquino evitasse di nominare Gilson. Ora le alternative sono due e solo due:
    1) o egli non li conosce, nel qual caso è ignorante in materia;
    2) o egli li conosce e non li vuole citare e quindi è volontariamente oscurantista.

    La sua prefazione a Kocher (per chi ha seguito il link) è emblematica: parla di questo bel testo del ’72, ma senza inserirlo in un percorso storico, e cita solo la prefazione di Zolla (scritta nel 1969 e che non ha avuto nessuna importanza per lo sviluppo della critica successiva). A Zolla si può ben perdonare di aver detto qualche inesattezza (visto che scrisse 42 anni fa), ma continuare a citarlo senza nemmeno accennare a quel che è venuto dopo è imperdonabile. Ripeto: o ignoranza o oscurantismo, tertium non datur.

  33. @ Claudio Testi

    Io che sono meno “logico” di te, propenderei per una via di mezzo: mix di ignoranza e oscurantismo…

  34. E dagli con sta dialettica marxista ;-). Se vuoi sapere la mia, io sono invece per l’oscurantismo. E’ praticamente impossibile ignorare certe cose se per 40 anni hai coltivato un medesimo autore.

  35. Vorrei aggiungere alle osservazioni interessantissime, che una stampella alla macchina mitologica viene spesso fornita dalla psicologia junghiana. Assolutamente da non sottovalutare. L’inconscio collettivo come proposto e approfondito da Jung consente una collazione topologica alla menzionata “essenza recondita” dei simboli rinvenuti a tutti i costi e arbitariamente in Tolkien come in altri autori. Ma ancora una volta c’è in funzione una lettura ideologica che il tradizionalismo opera anche nei confronti di Jung, che rilegge simboli, archetipi e tradizioni esoteriche ma forse per fini molto distanti da quelli dei nostri fascisti. Certo è che tanto un tradizionalista ortodosso quanto uno junghiano ortodosso leggendo Tolkien senza una seria metodologia critica letteraria possono eseguire i loro voli pindarici solipstici e ripetersi infinitamente.

  36. […] (semmai, potrebbe esserlo la distorsione critica delle loro opere, come si accennava ieri su Giap!). Il problema non è neanche la follia individuale, quanto l’humus dove la medesima […]

  37. Poi me lo leggo con calma, intanto una segnalazione di problema tecnico: non mi è arrivata via mail – manco nello spam – la segnalazione di “nuovo post pubblicato”. Era un bel po’ che questo non accadeva (a me), non riesco proprio a capire da cosa dipenda… Sgrunt.

  38. @ Taliesin

    non so, a me è arrivato regolarmente, su entrambi gli account di mail che uso.
    Vedo che hai l’account e-mail con l’Università di Bologna. Forse dopo le nostre critiche sul caso Bartleby, la nostra amata Alma Mater ci ha messi in blacklist? :-)
    (se per caso il sorrisino non bastasse: scherziamo.)

    (…scherziamo?)

    (Sì, scherziamo.)

  39. […] wumingfoundation.com/giap/Il professore, il barone e i bari. Il caso Tolkien e le strategie interpre… Share this:TwitterFacebookLike this:LikeBe the first to like this post. Posted in neofascismo and tagged politica, società […]

  40. […] caldamente a leggere: – il post dell’autrice Lara Manni – e i relativi commenti. – l’articolo di Wu Ming 4 – esperto e studioso di Tolkien. – il post dei Luce nel Nero – dove gli autori prendono […]

  41. Grazie mille ai Wu Mings per l’ottimo post.
    Apprendo sbigottito dell’utilizzo del metodo tripartizionale di Dumézil da parte della critica tolkieniana di destra – del resto, essa sembra non smettere mai di stupirci.
    Avevo sentito parlare di una corrente di studi che stava cercando a tutti i costi di applicarlo al medioevo europeo,
    ma che esso fosse stato paracadutato pure sulla Terra di Mezzo mi giunge totalmente nuovo.
    Il povero Georges si starà rivoltando un’altra volta nella tomba…

    Saluti

  42. @ WM1:

    [credo] di ricevere i vostri aggiornamenti su una comunissima casella di GMail. Mi era già capitato un paio di volte di non ricevere il feed relativo a un nuovo post – ma erano passati diversi mesi dall’ultimo disguido del genere. Forse siete talmente potenti che Google stesso vi ha messi in blacklist :-)

  43. @ Taliesin

    dovrebbe mettere in blacklist se stesso, visto che la spedizione della mail avviene tramite Feedburner :-D
    Comunque, ad altri indirizzi Gmail (compreso quello che uso io ad hoc) è arrivato tranquillamente.

    La mia scientifica, inoppugnabile conclusione è: boh. E per non sembrare troppo sicumerico e razionalista aggiungo: mah.

  44. Personalmente non posso che vederla come Wu Ming 4. Sarà che ho divorato SDA, Hobbit, Silmarillion ecc. più e più volte tra i 13 e i 18 anni, ma solo in malafede si può non solo pensare ma pure dire in pubblico che Tolkien sia un autore di destra. L’unico personaggio del Signore degli Anelli che combacia bene con l’immaginario destrorso è se vogliamo Boromir. Che infatti fa la fine peggiore. Non a caso lo stesso Tolkien dice credo in qualche appendice che “mentre Denethor e Faramir erano quasi di puro sangue Numenoreano, per un caso della sorte ciò non era presente nel maggiore Boromir” (non sto citando alla lettera, sto andando a memoria ma il senso è quello). Come giustamente ricordato sopra, è emblematico il caso di Beregond che compie la cosa giusta disobbediendo a un ordine, salvando Faramir e indirettamente quindi Eowyn. Cosa ci sia di destra in questo non lo so. Come vedo pochi elementi di destra nella società della Contea tutta intenta a godersi i beni della terra erba-pipa in primis. Anzi la società più di destra è forse quella della Contea sotto il dominio di Saruman, ritratta non certo in modo lusinghiero da J.R.R.
    Aragorn è l’eroe “da cappa e spada” (espressione terribile lo so) più insicuro della storia letteraria :D ci impiega tipo 800 pagine per diventare un condottiero. Credo che la svolta in Aragorn avvenga con l’arrivo dei suoi raminghi prima dell’ingresso ai sentieri dei morti. Lì diventa Elessar, un condottiero di uomini che trova un popolo da guidare. Una delle cose che più ho apprezzato in tutta la trasposizione cinematografica è proprio il ritratto di Aragorn, a mio avviso centrato perfettamente.
    Il finale in stile Ulisse coi Proci trasmette anche un altro concetto a mio avviso: anche la terra e il popolo più amati dall’autore, la Contea e gli Hobbit non possono scappare per sempre dal Male che non potrà mai essere sconfitto definitivamente. Anzi credo che per certi versi Tolkien voglia “punire” gli hobbit per il loro disinteresse verso le altre faccende del mondo, in una parola il loro egoismo dovuto alle piacevolezze e alla sicurezza ovattata della Contea, che dopo il passaggio di Sharkey-Saruman “non tornerà più a essere come prima”. A me pare quasi
    Chiudo scusandomi in anticipo per eventuali cazzate e presentandomi essendo il mio primo post su Giap, sempre sperando venga pubblicato. Sono Carlo, un barista 30enne trevigiano trapiantato a Padova.

  45. Ah dimenticavo solo l’ovvio presupposto: in un’opera oceanica come quella in discussione, migliaia e migliaia di pagine, chi vuole può trovarci riferimenti a qualunque cosa, anche a Mourinho o Kate Moss.

  46. […] di affrontare i mostri. Mi lascio semplicemente divorare (e non me ne accorgo nemmeno). Omero come Tolkien… (continuerà) 0.000000 0.000000 diffondi il […]

  47. DEI DELIRI E DELLE PENE
    Ovvero: breve disamina ex post del saggio di Gianluca Casseri “Frodo Baggins, l’eroe che non ha fallito”, contenuto in “Albero” di Tolkien, raccolta a cura di Gianfranco De Turris, Bompiani 2007.

    Il negazionismo è una vecchia malattia dei fascisti antisemiti. Il negazionismo è altresì una forma di complottismo, dato che si basa sull’idea che la Shoa sia una montatura e che invece il complotto pluto-giudaico sia reale. La capacità di ribaltare la realtà delle cose e negare l’evidenza è dunque un requisito importante del modo di pensare fascista. E’ quello che Gianluca Casseri cercava di fare nel suo saggio sulla figura di Frodo Baggins.
    In questo testo Casseri afferma che nonostante tutte le letture della figura di Frodo siano relativamente valide “se le consideriamo ciascuna all’interno di un dato sistema di pensiero (cristiano, psicanalitico, tradizionale, hippy, ecc.), sarebbe però utile misurare la quota di adattabilità all’opera di Tolkien che presentano alcuni di questi sistemi.”
    Secondo lui nessuno ci avrebbe visto giusto riguardo a Frodo, dato che il suo compito, quello sul quale si misura il suo successo o fallimento come eroe, non sarebbe affatto la distruzione dell’Anello. Infatti, prosegue Casseri, nessuno dice “espressamente” a Frodo che dovrà buttare l’anello nella Voragine di Monte Fato. Nessuno dei personaggi pronuncerebbe una chiara affermazione in questo senso.
    La domanda qui sorge spontanea: se il compito di Frodo non era quello di gettare l’Anello nell’unico fuoco che poteva distruggerlo, perché salire fino in cima a Monte Fato? Casseri ce lo spiegherà. Ma intanto è evidente che già la premessa è falsa. Ed è una falsità talmente smaccata che l’autore stesso non si premura di mascherarla. Proprio lui cita le parole di Gandalf a Frodo: “C’è una sola strada: trovare la Voragine del Fato, negli abissi dell’Orodruin, la Montagna di Fuoco, e lanciarvi l’Anello, se desideri effettivamente distruggerlo” (SdA, libro I, cap. II). 
    Il fatto che Gandalf aggiunga una subordinata ipotetica in coda all’affermazione, cioè il fatto che non dia un ordine a Frodo, secondo Casseri è la prova che non si tratta di un vero e proprio compito assegnato.
    La mentalità del fascista evidentemente non riesce proprio a fare i conti con una cosa che a Tolkien invece stava a cuore tantissimo: il libero arbitrio. E’ uno dei temi cruciali del Signore degli Anelli. Nessuno degli eroi, piccoli o grandi, che agiscono per contrastare Sauron può essere costretto a farlo. Per ciascuno di loro deve trattarsi di una libera scelta. E questo è particolarmente vero per Frodo, dato che a lui toccherà il compito più difficile, essere il Portatore. E’ giusto quindi che Gandalf specifichi: “…se desideri effettivamente distruggerlo.” Perché invece sappiamo che al Consiglio di Elrond verrà messa in campo un’alternativa: portare l’Anello a Gondor e usarlo per abbattere Sauron prima di distruggerlo. Questa scelta toccherà a Frodo e a Frodo soltanto. Chi ha letto il romanzo sa quante e quali rogne la decisione porterà con sé. 
    Come riscontra Casseri: “Non avviene mai, nei colloqui che Frodo ha con le persone più sapienti come Gandalf e Galadriel, che uno di essi gli dica espressamente che il suo compito è di scagliare l’Unico nella voragine”. Nessuno può dirglielo, infatti. Nessuno, per quanto forte e saggio sia, può ordinare a qualcun altro di fare una cosa del genere. La scelta tocca al singolo. Perfino la scelta di ribellarsi agli ordini ricevuti se cozzano con ciò che si ritiene giusto (come fa la sentinella Beregond). E’ precisamente questa convinzione, più volte ribadita nel Signore degli Anelli, a impedire agli eroi della saga tolkieniana di pronunciare la frase che grava come un macigno sul XX secolo: “Ho soltanto obbedito agli ordini”. 
    La mente fascista può capire una cosa del genere? C’è da scommettere di no.
    Ma la domanda più importante è: qual era dunque il compito di Frodo secondo Casseri? 
    Semplice: realizzare l’eucatastrofe. Giungere in cima a Monte Fato e farsi staccare il dito con l’Anello da Gollum, così che il Male distruggesse poi se stesso. “Rivolgere quella forza contro chi la possiede e costringere infine il Male ad autodivorarsi è il vero compito cui è stato chiamato il nostro piccolo hobbit”. 
    Il compito di Frodo dunque non sarebbe stato quello di distruggere l’Anello – giacché nessuno poteva essere all’altezza dell’impresa – bensì produrre la circostanza nella quale il Male si sarebbe autodistrutto…
    Quello che Casseri e i suoi sponsor cercano di fare con questo saggio è abbastanza evidente:  eliminare l’elemento sacrificale e quello provvidenziale dalla vicenda di Frodo. La lettura di Casseri pretende di sostituire il piano provvidenziale sotteso alla trama dell’Anello con l’azione devastatrice del Male, talmente spropositata da ritorcersi perfino contro se stessa. In questo modo è ancora il libero arbitrio che viene eliminato, in favore di un manicheismo spicciolo. La concatenazione di scelte individuali che produce il disegno provvidenziale non è considerata da Casseri, nonostante sia più volte chiamata in causa dai personaggi del romanzo (oltre che tematizzata dall’autore). Eppure il testo parla chiaro: ciò che Frodo fa a Monte Fato è “non scegliere”, rinunciare alla dimensione etica (“Ma ora non scelgo di fare ciò per cui sono venuto”, SdA, libro VI, cap. III). Gli manca la forza, e anche se quella forza avrebbe dovuto essere sovrumana per avere successo, questo lo assolve su un piano morale, ma non certo psicologico, e nemmeno da un punto vista prettamente eroico, dato che non realizza l’impresa di sua volontà, bensì contro la propria volontà finale, ancorché distorta dall’Anello. 
    Certo, come dice lo stesso Tolkien: “Il suo vero compito era solamente quello di fare quello che poteva, di cercare di trovare una strada, e di andare tanto lontano quanto gliel’avrebbe permesso la forza della sua mente e del suo corpo” (lett. 246). Ma questo non cancella il peso del cedimento all’Ombra, tale da non consentire all’eroe un pieno ritorno a se stesso. 
    Avendo lottato fino all’ultimo, e soprattutto avendo esercitato “la pazienza e la compassione nei confronti di Gollum” (ibidem), Frodo viene alla fine salvato, cioè accolto nella terra beata dei Valar. Se non fosse uno sconfitto, se non si portasse dentro una ferita insanabile, non ci sarebbe bisogno di alcun passaggio sull’ultima nave, potrebbe riprendere la sua vita nella Contea come fa Sam. Frodo invece non ci riesce. Ecco dunque la lettera del testo: Frodo è un eroe che realizza il proprio compito, e il disegno provvidenziale, sacrificando se stesso, macchiandosi l’anima. E questo lo accomuna ancora di più a Gollum, per il quale invece non ci sarà salvezza alcuna (ma ci sarà comunque il perdono da parte di chi resta). Anche senza tentare azzardati paralleli, si può notare l’assonanza con quanto accade a Giuda Iscariota, almeno secondo l’interpretazione di alcuni esegeti e teologi. Perché la verità è che, nonostante gli sforzi di Casseri & soci, non solo Frodo non è un eroe invitto, ma soprattutto nella narrazione tolkieniana non si rileva alcun manicheismo, bensì, al contrario, un’indagine sulla complessità della relazione tra il Bene e il Male e sui paradossi che essa produce.
    Il presentimento forte è che anche complessità e paradossi non siano pane per i denti di certi pensatori con la pistola.

  48. @Wu Ming4

    Penso di non avere il background necessario ad una disamina troppo profonda, ma trovo sfocato il paragone di Frodo con Giuda, che non ha come ‘missione salvifica’ quella di tradire Gesù, a meno di non considerarlo un predestinato come dicono taluni, ma mandando a ramengo il concetto di libero arbitrio. E comunque “guai a colui dal quale il Figlio dell’uomo viene tradito; sarebbe meglio per quell’uomo se non fosse mai nato!” (Matteo, 27:6-10).
    Però ho anche qualche perplessità sui motivi della partenza di Frodo per Valinor: non so quali fossero le intenzioni di Tolkien, però ho sempre pensato che non fosse stato (solo) il cedimento finale sul Monte Fato a provocare le “ferite che non possono guarire”, quanto lo stesso percorso svolto da Frodo e tutto il male causato direttamente ed indirettamente dall’Anello.
    Un po’ come le ripercussioni maligne di Morgoth e dei suoi servi deturpano Arda, anche queste, espresse su Frodo in un modo così brutale portano ad un’ombra più grande che non quella del pentimento per un momento di debolezza, non il primo durante il percorso a Mordor e comunque rivolto ad una volontà terribile.

  49. mi sorge un dubbio dopo aver letto il vostro bel pezzo.
    Il mondo culturale di Tolkien era quello classico di un conservatore ultracattolico , come tale, appartente al background di destra.
    Ora, forse la risposta alla domanda “Tolkien è fascista?” è no. Ma alla domanda” Tolkien ha scritto opere che potessero far riferimento al mondo di destra?” bè, cosa rispondere?
    Il problema non è l’interpretazione tirata per i capelli che possono fare i fasci, ma quanto l’opera stessa che si presta (anche ) a quella interpretazione.
    E ora, è evidente che Tolkien abbia scritto una cosa che possa adagiarsi tranquillamente all’ideale fascista. La difesa della tradizione, l’onore, la battaglia, la caduta dell’eroe. Un mondo puro per il quale combattere. Tutti temi ricorrenti in quell’ambito.
    Per spiegarmi meglio utilizzo un altro esempio: Yukio Mishima. Non si era mai dichiarato fascista, nè di destra, nè appartenente ad un qualsiasi partito. Moravia lo definì come un “conservatore decadente”. Eppure le sue opere sono state riprese a mani piene dalla destra, sono state celebrate e glorificate, roba che neanche in patria lo avevano recepito così. Eppure la sua Filosofia dell’ Azione e l’ideale del samurai è roba che ha formato generazioni e generazioni di piccoli fascisti. (celebre la prefazione di marcello veneziani ad un opera di Mishima, quando ricorda i suoi 15 anni passati a sognare l’idea di poter incarnare il samurai delle Lezioni Spirituali)
    Quindi, in definitiva, i bari saranno anche stati fatti, ma forse per far aderire all’ideale ancora di più un ‘opera che aleggiava solamente a destra, che ne aveva un profumo lontano.

  50. @Ponyf88 @WM4

    Il rapporto tra libero arbitrio e Provvidenza è da sempre un tema centrale del cristianesimo, proprio perché sono due concetti contraddittori che stuoli di teologi hanno cercato di conciliare in qualche maniera. Il tradimento di Giuda condanna Giuda ma, indirettamente, salva l’umanità; in questo senso è provvidenziale. In due millenni si è fatta un bel po’ di speculazione sul fatto che non ci sarebbe stata salvezza senza tradimento e su quanto sia ammissibile dire che Giuda sia servito ai disegni divini tanto quanto Gesù.
    Si noti che anche Gesù di Nazareth nel racconto evangelico è libero di scegliere (tentazioni di Satana) e sulla croce, giunto al momento di compiere la sua missione, invece di fare il figo come il Cristo di Mel Gibson caccia sostanzialmente un bel bestemmione. Se prendiamo un Gesù poco eroico e “problematico”, forse Frodo ha un ruolo più simile al suo, mentre Gollum è più un Adamo (la caduta) – Caino (“nessuno lo tocchi”) – Giuda (bacio/morso)… Ma magari sto dicendo sciocchezze.

  51. @ Francesca Kowalski

    Non conosco a sufficienza la biografia di Tolkien per esprimere un giudizio sulle sue opinioni personali in fatto di religione, ma mi sembra che se alla fine del SDA egli concede a Frodo una possibilità di salvezza, nonostante i suoi numerosi cedimenti, non me la sentirei di definirlo un “conservatore ultra cattolico”.
    Quanto a Mishima, direi che hai citato un altro buon esempio di strumentalizzazione da parte della destra italiana di una figura talmente controversa da sfuggire a quasi tentativo di catalogazione.
    Certo, trattandosi di un omosessuale represso col culto del corpo, il feticcio dell’esercito e il pallino della tradizione, di sicuro Mishima offre il fianco ad eventuali appropriazioni indebite da parte dei loschi figuri in questione (che, sono pronto a scommettere, si arrapano di brutto con i suoi “Esercizi spirituali”).
    Ma riguardo a Tolkien mi sembra che, anche volendo ragionare per sommi capi, i fasci hanno un bel niente cui aggrapparsi.
    L’ottimo post qui sopra mi sembra chiarisca bene la questione, in ogni caso.

    Saluti

  52. @Marco Vanetti

    Non preoccuparti, ha cominciato WuMing4 con i paragoni ai personaggi biblici, quindi in ogni caso è colpa sua :P
    Però occhio con certi paragoni a non cadere proprio nel tranello della lettura simbolista, con contesti troppo diversi fra loro.

    @Francesca

    Non concordo affatto sull’affermazione che Tolkien abbia scritto qualcosa che “una cosa che possa adagiarsi tranquillamente all’ideale fascista.”.
    A proposito ti consiglio di rileggere i vecchi post su Giap sul tema: la rielaborazione dei temi classici della letteratura epica di Tolkien stravolge completamente la scala di valori tanto cara ai reazionari in genere, anche se l’ambientazione è simile.
    Giusto un paio di input: piccoli e deboli hobbit salvano il mondo, donne in cerca di emancipazione, l’onore e l’orgoglio come zavorra e lame a doppio taglio (vedi ‘I figli di Hurin’ o ‘Il ritorno di Beorhtnoth figlio di Beorhthelm’).
    Vedrai che avrai di che divertirti! Buona lettura :)

  53. @ Ponyf88
    Ho in effetti premesso: “senza tentare azzardati paralleli”. Non ho paragonato la figura di Giuda a quella di Frodo, ci mancherebbe altro. Credo che Mauro Vanetti abbia colto il senso del mio riferimento: da una corruzione personale si genera comunque il bene collettivo. Questo vale per Gollum come per Frodo. Ciò che salva Frodo è l’avere esercitato la pietà in precedenza, essersi dimostrato propenso alla compassione. E così sarà anche dopo che Gollum è morto: Frodo lo perdona.
    Lo stress, la prova, è stata talmente grande per lui che una volta tornato dall’Ombra, Frodo non sarà più in grado di esercitare violenza su chicchessia, nemmeno difensiva e non impugnerà mai più un’arma (al contrario degli altri hobbit che invece combattono, eccome, per liberare la Contea).

    @ francesca kowalski
    Il punto non è a quali interpretazioni si presti un’opera. Credo di avere dimostrato che a suon di citazioni monche e di letture a singhiozzo si fa presto a far tornare i conti come a uno pare. La questione – almeno per me – resta cosa c’è dentro un testo. Come dire: prima dell’interpretazione deve esserci la lettura. Tolkien era un conservatore cattolico e certo nei suoi romanzi non troverai una visione progressista o men che meno “di sinistra”. Ma resta il fatto che dentro i suoi testi non c’è quello che pretendono di leggerci i fascisti. Anzi, in certi casi proprio quello che loro ci leggono in positivo è ciò che Tolkien voleva mettere in discussione. Come dicevo nella disamina del testo di Casseri, per esempio, cercano di espellere dal testo la figura di un protagonista eroico che viene sconfitto dal male.

  54. @wu ming 4 e gli altri ragazzi
    vi lascio il link di una cosa scritta ieri, da me, proprio riflettendo sulla presunta letteratura di destra. A me era ricapitato tra le mani le Lezioni Spirituali per giovani samurai, di Mishima (è per questo che ho fatto il paragone qui sopra) e non avevo ancora letto questo vostro pezzo.
    un caro saluto

    http://lospezzatinodidostoevskij.blogspot.com/2011/12/lezioni-spirituali-per-giovani-samurai.html?spref=fb

  55. Avrei una domanda da fare. Prima una premessa: per me chiedersi se “L’opera di Tolkien è di Destra o di Sinistra?” è una questione senza senso, per due motivi:
    1) è una frase senza un gran senso: è un po’ come chiedersi se “il colore bianco è 100 kg o 200 kg”.
    2) in più, *oggi* mi riesce assai difficile capire la distinzione “sinistra/destra” Capisco che è un “domandone” ma cosa intendete con “cultura di destra”?

  56. @francesca kowalski

    Grazie per il link alle ‘lezioni’, anche se ad ora non ho lo stomaco sufficiente per reggerlo temo…

  57. @ Claudio Testi

    Il libro di Furio Jesi “Cultura di destra” [oggi ripubblicato da Nottetempo a cura di Andrea Cavalletti] è una lettura molto interessante, davvero. Non si tratta di un saggio sistematico, ma di una serie di percorsi che toccano autori ed esperienze diverse e che vanno a mappare i contorni di una galassia culturale variegata, i cui pilastri portanti, o comuni denominatori, sono il simbolo, il segreto, la mistica della morte, il linguaggio delle idee senza parole, l’antisemitismo, il razzismo, un certo rapporto con il passato idealizzato. Jesi nel ’79 fornisce per la prima volta delle chiavi di lettura culturali che servivano per esempio a capire fenomeni come il terrorismo nero, tanto per dirne una. E credo che anche il gesto di Casseri, nonostante sia indice di un certo quale malessere, rientri in un preciso percorso: quello di uno che si considera un guerriero e che decide di mettere fine alla propria (probabilmente poco invidiabile) esistenza dopo essersi tolto lo sfizio di ammazzare dei “negri”. Quindi al “bel gesto” (si fa per dire, ovviamente) segue l’hara kiri del samurai o il suicidio del kamikaze, se si preferisce. Non si tratta di una dinamica qualsiasi. Si tratta di un decisione precisa che, al di là delle motivazioni psichiche più o meno profonde, è comunque inscritta con ogni evidenza in un percorso politico, in una visione del mondo e dell’essere umano. La cultura non è mai neutra.
    Come facevo notare nel pezzo riportato in questo post, Jesi però non fa coincidere gli elementi della cultura di destra esclusivamente con le pratiche delle formazioni politiche e degli intellettuali dichiaratamente destrorsi. Non si tratta cioè di una partizione politico-rappresentativa, ma ancora una volta politico-culturale. Pratiche, usi e costumi di destra possono entrare nel discorso comune, perfino in quello di chi si considera di sinistra.
    Ecco cosa rispondeva Jesi alla domanda “Che cosa vuol dire cultura di destra?” in un’intervista a L’Espresso:

    “La cultura entro la quale il passato è una sorta di pappa omogeneizzata che si può modellare e mantenere in forma nel modo più utile. La cultura in cui prevale una religione della morte o anche una religione dei morti esemplari. La cultura in cui si dichiara che esistono valori non discutibili, indicati da parole con l’iniziale maiuscola, innanzitutto Tradizione e Cultura, ma anche Giustizia, Libertà, Rivoluzione. Una cultura, insomma, fatta di autorità, di sicurezza del comandare e dell’obbedire. La maggior parte del patrimonio culturale, anche di chi oggi non vuole affatto essere di destra, è residuo culturale di destra. […]”

    Alla domanda se fosse possibile distinguere in Italia una cultura di destra e una cultura di sinistra, Jesi (nel 1979!) rispondeva così:

    “Ho qualche dubbio circa la possibilità di applicare oggi, in Italia, la distinzione fra destra e sinistra, non perché in astratto io la ritenga infondata ma perché non saprei bene quali esempi di sinistra citare (se la destra è quello che dicevo).”

    Per me dire che Jesi era avanti di decenni con la sua riflessione è poco.

  58. Primo post. Ciao a tutti. Non so bene da dove iniziare, data la mole di cose che vorrei aggiungere al tema trattato, quindi proverò a riallacciarmi alla discussione proponendovi, in sintesi, quel che mi rimane nella memoria delle prime esperienze e problematiche con l’opera di J.R.R. Tolkien. Seconda media, un libro al mese, con recensione, come “comandava” la prof. d’italiano. Scelta casuale: Lo Hobbit. Amore a prima vista. Cresco io e cresce il mio interesse per questi hobbit. Con alcuni amici, compagni di scout, coltiviamo quest’interesse, ci passiamo i libri, giochiamo al Girsa, creiamo nuovi moduli, disegni e mappe. Poi un bel giorno alle superiori, avevo da poco iniziato la seconda o terza lettura del SDA, parlando con compagni più grandi qualcuno mi dice:”Tolkien?!?!?! Ma non lo sai che è di destra?”
    Vorrei provare a focalizzare questo punto sotto differenti aspetti:
    1) non è che io fossi in V Ginnasio, Mao o il Che o dell’ MSI, ero come tutti gli adolescenti in “espansione”, confuso e parte di un gruppo. Il tono però della domanda/affermazione suggeriva però due cose: che Tolkien non andava letto e che questa per chi l’aveva detta era una formula, un automatismo che scattava dopo il nome dello scrittore. (altri esempi per così dire biografici: Lucio Battisti, Lovecraft, Borges, Nietzsche)
    2) l’impossibilità di argomentare o ribattere mi demoralizzò. Sentivo che l’autore aveva tradito lo spirito con cui io e i miei amici ci eravamo appassionati al mondo da lui creato; il modo in cui avevamo condiviso i materiali e il tempo. Tutto ciò per una frase, di un amico che dopo quella catechizzava la platea dei bagni del liceo con una lettura AMAN-OVEST-USA-DESTRA vs MORDOR-EST-RUSSIA-COMUNISTI.
    3) dopo riflessione decisi che se a me era piaciuto così tanto non dovevo abbandonarlo e sopratutto avrei dovuto conoscere meglio molti aspetti delle opere e della vita dell’autore. Dalla “lingua delle fate” creata in trincea alla carriera accademica del prof.Tolkien.
    Quando sono venuto a conoscenza dell’interesse di un Wu per il “mio” J.R.R. ero al settimo cielo, un incrocio di scrittori che mi stavano tanto a cuore e che mi ha dato una ulteriore spinta e nuovi strumenti critici, consigliando link e libri.
    Spero di avere reso attraverso la mia eperienza personale chiari alcuni dei nodi di cui si parlava.
    P.S.: Ringrazio la mia pigrizia di lettore per avermi fatto saltare a piè pari fino ad una certa età l’introduzione al SDA.

  59. Postilla ad un post precedente. Secondo me è altrettanto sbagliato cercare dei segni di ideologia nel cuore dei personaggi di Tolkien.
    Non erano né di destra né di sinistra. Ovviamente. Come approccio critico (non solo letterario) è molto sbagliato, secondo me. Certo se Tolkien avesse manifestamente espresso le proprie simpatie per la condotta di Saruman, se ne poteva riparlare.
    Ma Boromir non è un uomo di destra. Aragorn non è un uomo di sinistra. Sono etichette totalmente errate in questo contesto, e a mio modo di vedere, in generale quando si parla di opere (e spesso anche quando si parla di realtà).
    Boromir fallisce per svariati motivi. Uno dei quali, molto tecnico, è che Tolkien non si poteva portare appresso per 1200 pagine tutti e nove i personaggi della Compagnia. Il sacrificio di uno dei membri è un topos letterario di antichissima origine ed era praticamente necessario. Perché Boromir? Boromir è l’umano contrapposto a Faramir che cede al potere dell’Unico. Ma anche credere che Boromir fosse il cattivo e Faramir il buono sarebbe assai riduttivo. L’addio di Boromir è un esempio lampante di quanto comunque Tolkien amasse anche questo personaggio. Troppi dimenticano che Boromir cede alla tentazione, ma si riscatta e capisce – cosa non secondaria – di aver sbagliato.

    Insomma quanto più eviteremo, secondo me, di nominare ‘destra’ e ‘sinistra’ parlando di Tolkien, tanto più renderemo giustizia alla sua opera.

  60. @ Wu Ming 4

    Bellissimo articolo. Non butterei pero’ il bimbetto con l’acqua sporca. Sacrosanto è il rifiuto dell’aristocratismo. Dubbia l’irrisione del simbolismo e della tradizione astorica. Infatti, l’eternità dei simboli non è che il riflesso, nella cultura di destra, di una verità di fatto che la cultura di sinistra tende ad ignorare un po’ colpevolmente, cioè l’esistenza di strutture biologico-cognitive relativamente stabili, accanto a strutture storico-culturali mutevoli. Quale che sia la gracilità del dito con cui pretendono di indicarla gli scrittori di destra, questa è pur tuttavia la luna cui giustamente fanno riferimento: qualcosa di vero del loro essere uomini che in quanto uomo non giudichero’ a me estraneo.

  61. @ Scolaro Mannaro

    Anche io avevo un sacco di problemi a parlare della mia passione per Tolkien quando andavo al liceo, ma alla fine questa cosa è stata solo uno stimolo in più per sforzarmi di ragionarci sopra con la mia testa.

    @ Ekerot

    Quoto tutto il tuo discorso, però teniamo sempre bene a mente che se la destra italiana utilizza da quarat’anni Tolkien per fare proseliti – perché tanto di questo si tratta, spero sia chiaro a tutti – anche mettere in discussione in maniera radicale i loro deliri è un modo davvero nobile di rendere giustizia alla sua opera.

    Saluti

  62. @ Lunobi

    Dunque secondo te i simboli sarebbero immutabili nel tempo, ho capito bene?
    E come faresti, in questo caso, a rifiutare l’aristocratismo?
    Se la figura dell’eroe rimanesse immutabile nel tempo non avresti nemmeno gli strumenti per metterla in discussione, non credi?

    Saluti

  63. Sì franzecke, ma bisogna combatterli su un altro terreno. Come ha fatto WM4 che ha contrapposto ai blateramenti, riferimenti precisi ai testi o saggi di gran lunga più puntuali e responsabili. Ora sto leggendo nel mio faticoso inglese “Tolkien: author of the century” in cui destra e sinistra non compaiono (almeno per ora). Si parla di morte, di umani e di elfi.

    I miei amici di destra che leggono Tolkien non lo amano perché lo sentono “come vicino alla loro ideologia”. Lo amano perché “Il signore degli Anelli” è un capolavoro assoluto. Ed è lo stesso motivo per cui lo amo io.

  64. @ Ekerot

    l’essenziale per me è riuscire a mantenere una propria visione, al di là delle strumentalizzazioni.
    Del resto, lo stesso Jesi ci ha messo in guardia rispetto alle tecnicizzazioni “di sinistra”.
    Dunque ben vengano le buone letture… ;)

  65. @ Scolaro Mannaro
    Grazie della testimonianza biografica. Significa che quello che si sta facendo serve a qualcosa e a qualcuno. Sono soddisfazioni.

    @ Ekerot
    In effetti io non uso “di destra” e “di sinistra” per riferirmi a un’opera letteraria. E nemmeno per riferirmi a Tolkien. Ho soltanto detto che era un conservatore cattolico. Questa è una constatazione biografica, non significa niente in termini letterari, anche se certo la biografia di un autore non è estranea alla sua produzione narrativa. Ho anche spiegato che quando uso il termine “cultura di destra” faccio riferimento a una determinata dimensione culturale e discorsiva, appunto, che è quella mappata da Jesi. All’interno della quale – sia detto per inciso – non credo che l’opera di Tolkien possa essere collocata, per i motivi che ho illustrato nel post. La qual cosa non significa che non possano esserci dei punti d’adiacenza tra ambiti discorsivi e storie che vanno a parare da parti diverse.
    E questo lo dico a partire dai testi di Tolkien, come fai notare tu, perché secondo me è sempre alla lettera del testo che bisogna restare. Leggere, leggere e quando si è convinti d’aver capito, rileggere ancora meglio. Tolkien sembra un autore facile, ma le apparenze ingannano.
    Il libro di Shippey che stai leggendo esiste in italiano, pubblicato dall’editore Simonelli, online si dovrebbe poter ancora acquistare.

    @ lunobi
    franzecke ha già detto qualcosa. Io aggiungo solo questo:
    Sui simboli abbiamo già discusso in precedenza qui su Giap e la nostra posizione è nota: non crediamo alla loro trascendenza. I simboli sono sempre “per noi”, non ci preesistono. Dopodiché non ci sono dubbi che esistano “strutture biologico-cognitive relativamente stabili”, ma pur sempre all’interno del divenire umano e storico. Questo non significa negare l’esistenza di un fattore “umano” che accomuna gli appartenenti alla specie e nemmeno negare l’ipotesi di un bene comune che provi a fare leva proprio su tale fattore (non voglio mettermi a rispolverare Marx, adesso…). Per noi si tratta di qualcosa che non viene da una dimensione trascendente, ma devo dire che non è questo il punto cruciale secondo me. Il punto è riconoscere la varianza e il divenire come parte integrante del nostro essere, e non pensare che questo aspetto dell’esistenza, cioè della storia, inquini la purezza eterna del simbolo, dell’idea, dell’archetipo mitico, etc. Secondo la visione di destra questo che ho appena detto apre le porte al “relativismo”, cioè a una visione in base alla quale ogni cosa può coesistere con qualsiasi altra, in una sorta di universale e indifferenziata equivalenza. Ma questo è il limite immaginativo di una cultura che si costringe a fare della fissità, della ricerca del punto eternamente fisso, cioè morto, la propria ragione d’essere.

  66. @franzecke

    Dipende da cosa si intende per simboli. Per esempio il triangolo equilatero, il pentagramma mistico o il tao hanno indubbiamente una forte componente astorica, legata a proprietà biologiche del nostro apparato cognitivo. Viceversa, la figura dell’eroe, o anche la spada regia, sono simboli più complessi, in cui la componente storica mi sembra effettivamente più importante. Rifiuto dell’aristocratismo significa certo rifiuto dell’oppressione e del disprezzo verso i poveri, i deboli, i semplici e gli infelici, ma non rimozione del dato di fatto che esistano persone più ricche, più forti, più intelligenti o più felici di altre. Di conseguenza, il mettere in discussione il valore di un simbolo, non necessariamente è un metro di giudizio. Ci sono alcune cose vere che si tratta semplicemente di apprendere da chi le sa. Altre, false o incerte, che è opportuno discutere.

  67. Addendum. A scanso di equivoci: l’idea cattolica di una provvidenza che si manifesta nella storia – idea messa in pratica narrativamente da Tolkien – secondo me è irriducibile all’idea di “destino” che vediamo all’opera nella cultura di destra. La provvidenza tiene comunque con sé il libero arbitrio e il divenire storico. La provvidenza è paradossale, ondivaga e inconoscibile. Il destino è una freccia, sembra assai più prossimo al predestinazionismo protestante.
    Questo ovviamente è solo uno spunto, non mi voglio avventurare oltre, perché non sono un teologo.

  68. Scusate, non ho tempo di intervenire, spero di riuscirci più tardi, o tutt’al più domani. Faccio solo notare, al volo, che la parola “simbolo” è truffaldina perché ha molti, diversi significati in molte, diverse discipline e aree discorsive.

  69. @ lunobi

    Credo che il mio socio voglia far notare che il triangolo è una “forma” che il cervello riconosce, ma non è già un “simbolo”. Diventa simbolo nel momento in cui è associata a qualcos’altro, cioè quando impatta con la storia. Se quel triangolo allude alla Trinità, allora sta agendo come un simbolo, ma da solo non può funzionare. Syn-ballein implica che ci siano almeno due cose “gettate” insieme.

  70. @ Lunobi

    Quoto il ragionamento dei Wu Mings e aggiungo che è vero quel che dici tu quando parli di cosa si intende per simbolo.
    Dal momento che io infatti ne rifiuto la trascendenza, non mi resta che considerarlo come uno strumento, creato e messo in funzione dalla mente umana.
    Da ciò consegue la spiegazione di ciò che intendo dire quando parlo di “mettere in discussione”, cioè a dire “utilizzare”.
    I simboli infatti, non so se ci hai mai fatto caso, *servono* sempre a qualcosa.

    Ora scusami, non ho tempo di proseguire la discussione, ma mi preme solo aggiugere una piccola nota.
    Parlare di “alcune idee vere che si tratta semplicemente di apprendere da chi le sa” puzza un pochino di aristocratismo.
    Ci sono idee più vere di altre?
    Un *idea* si può mettere su una scala di valori il cui metro di giudizio sia la sua intrinseca *verità*?
    Ragionando in questo modo, mi pare si arrivi in un attimo a pensare che esistono idee più forti di altre e che esse hanno dunque più diritto di esistere di quest’ultime.
    Bè, figurati, è assolutamente legittimo pensarla in questo modo.
    Ma se le cose stanno davvero così – visto che tu stesso parli di “apprendere” – mi trovo più d’accordo con il vecchio Goethe, quando ci insegnava che è sempre il debole ad educarci nella maniera più completa.

    Saluti

  71. Qui nessuno ha detto che Boromir è di destra, io ho solo detto che Boromir per caratteristiche è il più vicino agli ideali di destra, che non c’entra nulla con dire Boromir è di Dx, Aragorn è un comunista. Boromir è il più impulsivo e il più amante della guerra dei nove, il più legato alla fedeltà di gerarchia. Uno che se avesse visto Gollum gli avrebbe tagliato la gola senza rifletterci un istante per dire. Comunque per me l’essenza, tutto il riassunto del signore degli anelli sta nella frase di Gandalf a Frodo sul non desiderare la morte altrui e sul non giudicare. Chiedo a Wu Ming 4 se per lui ne esiste una più rappresentativa. Volevo poi porre una questione: quali sono per voi i personaggi resi peggio nel film? Per me nell’ordine Denethor, Faramir, Gimli.

  72. Dibattito molto dotto. Secondo me dopo Firenze non e’ giusto , ne’ saggio, eludere la questione . L’immaginario fantasy oggi e’ un immaginario prevalentemente reazionario e regressivo.
    Non credo che sia sufficiente smontare questo immaginario con un bel saggio su Tolkien. Perche’ oramai c’e’ un uso delle categorie del fantasy che prescinde dalle opere.
    Lo osserva , in modo molto lucido la Manni sul suo blog.
    P.s Consentitemi la battutaccia, pero’…Salgari continua a produrre antiimperialismo, Tolkien …De Turris…
    Lord Brooke stiamo arrivando..

  73. @ Marattoni

    Quella che indichi è senz’altro una delle frasi topiche del romanzo (la cito anche nel post). Certo non è la sola. Così a caldo me ne viene in mente un’altra: “Non tocca a noi dominare tutte le maree del mondo, il nostro compito è di fare il possibile per la salvezza degli anni nei quali viviamo”.
    E si potrebbe continuare…

    Riguardo ai personaggi del film, sono abbastanza d’accordo con te, quelli che citi sono resi in maniera molto più abbozzata e macchiettistica rispetto al loro corrispettivo nella pagina. A parte gli assenti, cioè quelli che nel film non compaiono proprio… :-)

    Infine su Boromir. Anche qui, mi scuso, ma c’è più di una parola da spendere. Boromir è il portatore di un’etica guerriera di matrice antica, il più compreso nel proprio ruolo di capitano di Gondor. Non è un caso che sia proprio su di lui che l’Anello esercita il maggior potere attrattivo. Boromir è l’unico membro della Compagnia che si lascia tentare e che cede alla tentazione (oltre a Frodo, alla fine). Per questo dovrà poi espiare morendo eroicamente nel tentativo di salvare due hobbit. Insomma nella Compagnia quello che sembra il più forte, il meno assillato dai dubbi sul da farsi (Gandalf e Aragorn ne hanno parecchi), si rivela il più debole. Come diavolo facciano i fascisti a dire che Tolkien esalta l’eroismo antico, pagano, bah, a me risulta ogni volta più grottesco.
    La spia che denuncia la “tara” di Boromir è – tanto per cambiare – l’ofermod che fa capolino nella sua prosopopea guerriera (che però non è una caricatura, occhio!, non c’è ironia nel dipingere Boromir). Quando dialoga con Frodo presso le cascate di Rauros (SdA, libro II, cap. X), prima di cercare di prendergli l’Anello, Boromir dice una cosa che risuona con l’ideologia di Beorhtnoth.
    Nel momento in cui Frodo gli comunica i suoi timori sulla forza d’animo degli Uomini, Boromir ribatte che quella forza ha mantenuto la Contea al riparo dalla minaccia di Sauron. Frodo allora dice che non mette in dubbio la forza della gente di Minas Tirith, ma che cosa accadrebbe se Minas Tirith dovesse cadere?
    Ecco cosa risponde Boromir: “Troveremmo sul campo una morte intrepida” e aggiunge “Ma vi è ancora speranza che le mura non cedano”.
    L’alternativa a una resistenza vittoriosa è la morte intrepida, che evidentemente per Boromir è una buona consolazione. L’alternativa vittoria/bella morte si accompagna, subito dopo, all’espressione dell’ideologia del capo guerriero: “Che cosa non farebbe un guerriero in un’ora come questa, un grande capo? Che cosa non sarebbe capace di fare Aragorn? Oppure, se egli rifiuta, perché non Boromir? L’Anello mi conferirebbe il potere del Comando”.
    Ora, è vero che in questo momento Boromir sta subendo l’influsso dell’Anello, il quale proietta nella sua mente un sogno di gloria personale, lo stesso sogno che poi, a Mordor, nel momento di massimo sconforto, Sam respingerà. Ma questo sogno di gloria agisce con efficacia perché si innesta su una ben radicata mentalità, o ideologia guerriera. Per lo stesso motivo non avrà presa su Sam, che rimane al riparo del buonsenso e dell’umiltà hobbit. Boromir è un leader nato, crede nel “potere del Comando” (“Ed allora tutti gli uomini si raggrupperebbero intorno alla mia bandiera”), nonché nel destino a cui un capo è chiamato. Ripeto: con ogni evidenza questa prosopopea non è conseguenza dell’influsso dell’Anello, ma il terreno fertile su cui tale influsso riesce ad attecchire. Aragorn ne è privo, perché pur essendo anche lui un grande combattente, non è sovradeterminato da un’ideologia guerriera e dal mito del comando. E per questo alla fine sarà degno di assumerlo.

  74. P.S. Con la disamina di cui sopra non intendevo tuttavia lasciare intendere che Boromir sia un personaggio negativo. Tolkien non lo presenta affatto come tale. E’ un personaggio che ha un limite evidente e a tale limite resta sotto. Ma finisce in gloria, coerentemente al proprio ideale.
    Chiedo scusa a tutti per la prolissità, ma mi sforzo di essere il più chiaro possibile e di non precludere a nessuno la discussione. Questo a volte mi spinge ad abbondare.

  75. Esco con un OT (ma fino a un certo punto).
    A Padova ogni venerdì pomeriggio un tale sulla cinquantina si piazza in piazzetta Pedrocchi (cuore assoluto della città) con uno sgabello e lancia una discussione pubblica su qualche argomento, generalmente di attualità e naturalmente spesso questa discussione esce dai binari iniziali. Tre settimane fa mi sono ritrovato a discutere in questa situazione davanti a una cinquantina di persone con un altro ragazzo (non avrà avuto più di 26-27 anni) di integrazione razziale, il tutto partito dalle parole di Napolitano sulla cittadinanza ai figli di immigrati nati qua ecc.. ricordate?
    Ecco in un frangente questo esce con la seguente frase: “Chi è a favore del meticciamento delle razze è un traditore della razza”. Non ho potuto resistere di fargli notare come per essere un traditore bisogna infrangere un patto, esplicito o implicito, con il tradito, e ho citato 3 esempi banali come la fedeltà coniugale (patto esplicito), la fedeltà alla patria (il suddetto tradimento è un reato previsto dal codice, un patto che io cittadino sono tenuto a non infrangere), la fedeltà ai genitori (un patto oserei dire di diritto naturale, nel caso ovviamente di un rapporto “sano” genitore-figlio). Dov’è un patto di fedeltà con la mia razza che eventualmente infrangerei sposando una straniera?
    Altra chicca, sempre dello stesso genio: meticciamento= genocidio.
    Il genocidio è una cosa precisa, la distruzione programmata e sistematica di un gruppo molto vasto e determinato di individui. Il meticciamento è una trasformazione di un popolo, mica una distruzione. Non mi sembrano due sinonimi.
    Tutta questa pappardella per dire che questa secondo me è cultura di destra: giocare con le parole sfumandone i significati con malizia. Vedi la delegittimazione di parole come libertà, amore, onore, rispetto eccetera, tutte parole stupende e usate in modo a dir poco arbitrario. Sorry se sono uscito anche io troppo dai binari.

  76. @ Wu Ming 4

    Concordo con te che non c’è nulla di trascendente nei simboli e che il loro funzionamento dipende dalla nostra lettura. Ma questo non basta, credo, a farne qualcosa di unicamente storico, perché neanche la nostra lettura, neanche noi, siamo unicamente storici. E non perché ci sia trascendenza, ma perché c’è molta più immanenza di quanto non sembri. Cioè, noi non siamo solo soggetti storici, ma anche oggetti biologici, determinati in parte da necessità immutabili, almeno rispetto alla temporalità storica. E’ d’altra parte solo sul limite di questa necessità che ci è dato aprire realmente margini di libertà (non puramente immaginari). Ed è proprio l’ignoranza collettiva di tale limite a spiegare gran parte della difficoltà ad agire che caratterizza tante delle nostre intelligenze.

    Tu dici che “il punto è riconoscere la varianza e il divenire come parte integrante del nostro essere e non pensare che questo aspetto dell’esistenza, cioè della storia, inquini la purezza eterna del simbolo, dell’idea, dell’archetipo mitico, etc.”. Questo è senz’altro vero, ma è solo per cosi’ dire lo sguardo di un’occhio. L’altro, consiste nel riconoscere anche gli aspetti di invarianza e di ripetizione come parte del nostro essere, senza temere che questi aspetti, cioè la natura, inquinino la purezza del divenire storico. Finché non lo faremo, lasceremo all’iniziativa esclusiva della cultura di destra la metà del campo di cio’ che è realmente umano.

  77. @ Lunobi (e gli altri)

    quello che intendevo dire sopra, e che WM4 ha già introdotto, è che l’invarianza (il genere di invarianza a cui fai riferimento tu, legata all’immanenza del neuro-fisiologico anziché a una trascendenza “sovra-umana” e trans-storica) non ha a che fare coi “simboli” nell’accezione del termine che stiamo usando noi. Può avere a che fare coi “simboli” nel senso di immagini-base, di forme che si offrono alla nostra percezione e soddisfano alcuni “requisiti neuroestetici” comuni a tutte le culture. Ma se parliamo del simbolo come figura retorica, del qualcosa-che-sta-per-qualcos’altro (aquila = regalità etc.), *questa* accezione del termine è tutta storica e culturale. Un triangolo non è già un simbolo: lo diventa in seguito a una codifica culturale. Senza quest’ultima, il triangolo è solo una forma che soddisfa un requisito neuroestetico.
    [Tra l’altro, a me la neuroestetica interessa, ma bisogna andarci cauti, altrimenti si arriva a eccessi come quelli di Ramachandran quando pretende di esporre una specie di formula universale della bellezza…]
    Insomma, io dico che è sbagliata anche la “luna” indicata dal dito della cultura di destra, perché quest’ultima destoricizza e rende “eterne”, trascendenti, extraumane quelle che in sostanza sono solo figure retoriche, costruzioni culturali. Che, certo, si basano anche su invarianze (nel senso anzidetto), ma che sono quel che sono per via di un intervento storico.

  78. @franzecke

    Un’idea vera che si tratta di apprendere è per esempio: “La somma dei quadrati costruiti sui cateti di un triangolo rettangolo è uguale al quadrato costruito sull’ipotenusa”. Che cosa c’è di aristocratico nell’ammettere che è vero, e che puo’ essere insegnato?

  79. Vorrei solo ricordare Lacan, quando dice che l’uomo è irrimediabilmente separato dalla Cosa, a causa del suo essere abitato dal linguaggio.
    Il linguaggio si fonda sulla capacità di astrazione e a sua volta é il fondamento del simbolo, di ogni simbolo, compresi quelli geometrico-matematici.
    Di sicuro possiamo parlare di un’immanenza organico-biologica che ha a che fare con la vita e il suo dispiegarsi, ma non possiamo avervi alcun accesso diretto e alcuna comprensione profonda, proprio perchè la nostra mente è irrimediabilmente informata dal linguaggio.

  80. @ lunobi

    Credo di avere capito il tuo discorso. Non ho alcun problema a riconoscere l’invarianza, come la chiami. Non so però quanto possa essere fatta coincidere con la “natura”, sinceramente. Prima di tutto perché – se non vogliamo togliere di mezzo Darwin e il Big Bang, come fa la destra, appunto – anche la natura è storia, benché su tempi lunghissimi. Secondo, perché distinguere il naturale dal culturale mi sembra sempre un esercizio difficile per noi altri “animali politici”. Per altro non so nemmeno cosa si intenda per “ciò che è realmente umano”, ma il fatto che sia difficile da individuare non significa che non debba esistere. Credo anzi che proprio la poesia e la letteratura nel corso dei millenni abbiano saputo fornirci squarci, visioni, di qualcosa che sta alla base del nostro essere umani (così come la matematica o l’astrofisica ci hanno fornito visioni dell’universo in cui viviamo immersi). Ma a meno di non individuare un principio esterno e trascendente alla storia, è ben difficile fissare una visione a tutto tondo, eterna. Ripeto: questo non significa negare la ricerca della verità, ma accettare il fatto che quella verità non sarà assoluta ed eterna, bensì storica.
    Ancora una cosa rispetto al trascendente. Credo che questa sia in effetti un’invarianza. Noi esseri finiti non riusciamo a concepire l’infinito: l’infinito tempo prima e dopo il nostro esserci, l’infinito spazio intorno a noi. E’ un’idea che unisce fisica e metafisica, c’è poco da fare, e rimanda immediatamente a una dimensione spirituale, che infatti caratterizza le culture umane dalla notte dei tempi. Il fatto che uno possa non credere a nessuna delle spiegazioni teologiche o scientifiche finora proposte (io le equiparo, perché quando si parla di infinito, non è cosa di cui posso fare esperienza…), non significa che non riconosca la concretezza di questa dimensione dell’esistenza umana.
    Cazzarola, però qui stiamo andando sul filosofico peso e non so se ci arrivo più…

  81. @ lunobi

    ehm, secondo me non aiuta mettere nello stesso insieme il teorema di Pitagora e la “Tradizione” di cui blaterano gli evoliani… Immagino tu non volessi fare questo, ma la progressione del confronto ha prodotto questo accostamento, mi limito a farlo notare.

  82. @lunobi e altri

    per quanto riguarda la “verita’” delle affermazioni matematiche, bisogna starci un po’ attenti. infatti le affermazioni matematiche sono vere o false *all’ interno della matematica*, e la matematica e’ una creazione umana. il fatto sorprendente che la matematica sia in grado di descrivere in modo precisissimo (fino al punto di poter prevedere) una gran quantita’ di fenomeni naturali, pone ovviamente degli interrogativi filosofici molto profondi, su cui dibattito e’ tutt’altro che chiuso.

    io comunque concordo pienamente con wm4, quando dice che le spiegazioni ultime della realta’ fornite dalla scienza sono una forma di religione, nonostante tutto.

  83. @ Franzecke

    guarda che “Wu Ming” è già plurale, non serve che metti la “s” alla fine :-) Si dice “Blur”, “Radiohead”, “OK Go”, “Jethro Tull”, “PFM”, “Pink Floyd”, non Blurs, Radioheads, Ok Gos, Jethro Tulls, PFMs, Pink Floyds etc.

  84. @ Wu Ming 1

    Converrai che la forza dell’articolo di Wu Ming 4 sta nel non rifiutare Tolkien, ma nel comprenderlo in un altro modo, più articolato di quanto non faccia chi lo mette al servizio di un’ideologia del disprezzo e della paura. Mi chiedo se una simile attitudine non gioverebbe anche nei riguardi del “simbolismo” (e se, in tal caso, l’accezione del termine che state usando non rischi di essere limitante).

    Quando dici che un triangolo è una forma e non un simbolo, perché un simbolo deve essere interpretato, mi domando, da un lato, se è lecito supporre che la forma sia percepita senza interpretazione e, dall’altro, se è lecito ritenere che l’interpretazione ci sbarazzi davvero della dimensione “neuroestetica”. Ad esempio, la trinità cristiana puo’ essere letta come un’interpretazione storica del simbolo del triangolo, ma puo’ anche darsi che padre figlio e spirito santo siano soltanto figure narrative per codificare e trasmettere un valore simbolico più basilare e non storico, come una certa tendenza della natura fisica (e della nostra mente che ne fa parte) a operare secondo strutture triadiche del tipo (+ N -).

    Esito anche a sottoscrivere la discontinuità tra il triangolo e l’aquila. Anche la regalità dell’aquila (che del resto chiamiamo da secoli “reale”) contiene qualcosa di astorico, nella misura in cui il nostro apparato cognitivo si è evoluto per milioni di anni in un mondo in cui le aquile rappresentavano una potenza meravigliosa e temibile. Sicché i tratti di forza, eleganza e predominio che noi percepiamo esteticamente nella testa dell’animale possono dipendere non meno da una memoria genetica che da una codifica storico-culturale. Direi almeno che la codifica storico-culturale deve buona parte della sua efficacia al fatto di intercettare questo tipo di dato biologico-cognitivo.

    Simili discorsi possono estendersi a molti tipi di simboli, compresi i segni linguistici. In ogni caso, non si tratta di negare la dimensione culturale, ma di coglierla come elemento non alternativo, bensi’ complementare e modificatore di un elemento naturale (giusta l’etimologia agricola del termine cultura: nessuno si sognerebbe di dire che il pomodoro è un fatto puramente culturale, solo perché per crescere nella forma in cui lo consumiamo ha bisogno delle nostre cure).

    [Tra parentesi, l’immensa fortuna, nella nostra immaginazione, di gnomi, hobbit, titani e simili potrebbe essere un ricordo mitico-genetico di un’era in cui sono esistite effettivamente diverse specie di uomini (circa 100 mila anni fa: sapiens sapiens, neanderthal ed erectus)].

    In conclusione, non voglio certo negare i diritti della storia e della cultura, che restano importanti. Vorrei soltanto affermare, al loro fianco, quelli della natura che è in noi. La comprensione della potenza della creazione fantastica resterà parziale, credo, fintanto che ne prescinderemo.

  85. @lunobi

    se posso pemettermi, credo che ogni comprensione non possa che essere parziale, perche’ noi siamo parziali, e perche’ lo spazio e il tempo in cui viviamo sono parziali.

    il nostro cervello ragiona manipolando simboli. nel pensiero matematico, i simboli non sono importanti in se’: la cosa importante sono le “regole” secondo cui il nostro cervello manipola i simboli. queste regole sembrano essere veramente un universale antropologico. dico *sembrano*, perche’ con questo tipo di affermazioni bisogna essere molto cauti. secondo me comunque e’ proprio il rapporto tra la natura e queste “regole” cio’ che pone i maggiori interrogativi filosofici.

  86. @ Wu Ming 1

    Eppure come forse sai il “teorema delle nozze” nasce proprio come legge esoterica. La sua forma più semplice, rappresentata dal triangolo di lati 3, 4 e 5, illustra infatti lo sposalizio tra i numeri dispari (considerati maschili, perché divisibili in due con il resto di uno in mezzo) e i numeri pari (considerati femminili, perché divisibili in due con un vuoto in mezzo), quale origine della generazione (rappresentata dal cinque in quanto automorfico, cioè figurante alla fine di tutte le sue potenze: 5×5=25, 25×5=125, 125×5=625, etc).

    Inoltre, in un’ottica spinoziana l’etica si puo’ dimostrare “more geometrico”, perché la mente fa parte della natura e le leggi etiche non sono fondamentalmente diverse da quelle naturali. Per esempio, il principio di reciprocità, illustrato variamente dai vangeli (non fare agli altri…), dagli alchimisti (la sezione aurea), da Kant (imperativo categorico), dalle neuroscienze (i neuroni specchio) è una legge fondamentale dell’etica che si tratta di apprendere, come il teorema di Pitagora.

  87. @Wu Ming 4

    Capisco cosa vuoi dire: tutto è mutevole, tutto scorre, non c’è dubbio. Anche la natura evolve, e inoltre anche la natura è varia e non deterministica. Su questo concordo pienamente. E quando dico “naturale” non intendo certo “universale”, “deterministico” o “meccanico”. Tuttavia intendo anche qualcosa di ben distinto da “storico-culturale”: qualcosa che non dipende dalla volontà cosciente degli uomini, e che eventualmente puo’ anche determinare quello che gli uomini percepiscono come la loro volontà cosciente.

  88. scusa lunobi, ma in “matematica si dice numero automorfo o anche intero automorfo un intero positivo che nelle notazioni decimali ha il quadrato che presenta nella sua parte finale il numero stesso” (da wikipedia).

    *nelle notazioni decimali*

    se noi avessimo 8 dita invece di 10, conteremmo in base 8, e addio proprieta’ esoteriche del 5, visto che, in base 8, 5×5=31

  89. @tuco

    Ne riparleremo quando avremo otto dita. Per ora suggerisco attenerci al fatto che ne abbiamo dieci.

  90. lunobi

    non penso che la mia osservazione si possa liquidare cosi’, con una battuta. il 5 e’ automorfo solo in base 10. e noi contiamo in base 10 solo perche’ abbiamo 10 dita. si tratta di un fatto casuale.
    (i gatti hanno 4 dita nelle zampe posteriori)
    (e comunque non tutte le civilta’ hanno contato in base 10)

  91. @tuco

    non era affatto una battuta: il fatto che il mondo sia come è, è la prima verità di cui dobbiamo tener conto, non qualcosa di cui possiamo prescindere. se sia casuale o no lo ignoro (ma leggi qui: http://www.science20.com/mark_changizi/why_do_we_have_ten_fingers). quello che mi pare certo, è che è reale.

    inoltre, che il valore esoterico del 5 si sia sviluppato presso gli umani e non presso i gatti, e presso i greci che contavano in base 10 e non presso i fenici che contavano in base 12, non toglie nulla al fatto che sia un valore esoterico, cioè appunto un simbolo destinato a veicolare una certa conoscenza all’interno di una cerchia ristretta

    se i pitagorici avessero avuto otto dita, avrebbero forse trovato altri teoremi per codificare altre conoscenze, ma appunto mi pare inutile parlarne, perché anche moltissime altre cose del mondo sarebbero diverse, e non possiamo sapere come (in particolare, non possiamo sapere se i pitagorici sarebbero mai esistiti, e soprattutto, se saremmo mai esistiti tu ed io, con i nostri computer, wu ming e il sito giap)

    lo stesso vale per la tua affermazione precedente che le verità matematiche sono vere solo all’interno della matematica. certo. ma non possiamo fare come se la matematica non esistesse. sarebbe come se io ti dicessi: “quello che stai dicendo ha senso solo perché siamo uomini in carne ed ossa che parlano in italiano: se fossimo proteine liposolubili che comunicano attraverso segnali elettrici non avrebbe alcun senso”. tu mi risponderesti: “d’accordo, ma appunto questo prova che ho ragione”.

  92. lunobi

    “se i pitagorici avessero avuto otto dita, avrebbero forse trovato altri teoremi per codificare altre conoscenze, ma appunto mi pare inutile parlarne, perché anche moltissime altre cose del mondo sarebbero diverse”

    perche’ inutile? immaginare quali teoremi avrebbe sviluppato una specie intelligente dotata di otto dita, ci porta a una maggiore conoscenza anche del nostro modo di ragionare.

    comunque secondo me c’e’ un equivoco di fondo. il fatto che il numero 5 sia automorfo in base 10 non gioca nessun ruolo nel teorema di pitagora. il teorema di pitagora afferma che esiste una certa relazione tra le lunghezze dei lati di un triangolo rettangolo. questo teorema e’ valido indipendentemente dalla base in cui si rappresentano i numeri. dipende pero’ dal sistema di assiomi su cui si fonda la geometria euclidea. perche’ i greci hanno scelto proprio quegli assiomi? perche’ quegli assiomi descrivono in modo coerente (ma la coerenza e’ tutta interna alla descrizione stessa!) una porzione di spazio sufficientemente ampia da sembrarci *tutto* lo spazio. pero’, ripeto, la coerenza e’ tutta interna alla descrizione. il problema della coerenza della descrizione della realta’ con la realta’ stessa e’ completamente diverso. la relativita’ generale ad esempio fornisce una descrizione piu’ sofisticata (e controintuitiva) dello spazio e del tempo, che possiede un grado di coerenza con la realta’ maggiore rispetto alla geometria euclidea.

    aggiungo che l’ attribuire ai numeri un valore esoterico costituisce un limite allo sviluppo della matematica. i pitagorici non amavano i numeri irrazionali. entravano in crisi davanti alla diagonale del quadrato. eppure senza i numeri irrazionali non ci sarebbe l’ analisi matematica, e non ci sarebbero i 9/10 della matematica moderna.

  93. per essere ancora piu’ chiaro: se noi contassimo in base 8, avremmo sviluppato una matematica in cui il teorema di pitagora sarebbe comunque ancora vero, e in cui la terna 3-4-5 sarebbe comunque ancora una terna pitagorica. solo che in base 8 il numero 5 non sarebbe piu’ automorfo, e quindi salterebbe l’interpretazione simbolica “3^2+4^2=5^2 rappresenta maschio+femmina=generazione”.
    puo’ darsi che la mancanza di questa possibile interpretazione simbolica avrebbe reso meno interessante l’ intera questione, e che quindi a nessuno sarebbe venuto in mente di enunciare e dimostrare quel teorema. io personalmente ne dubito, perche’ il contenuto matematico di quel teorema e’ molto piu’ importante della sua possibile lettura simbolica.

  94. Mi permetto di riprendere il discorso sull’eternità dei o di alcuni simboli… Non credo sia in questo lo specifico della cultura di destra di cui si sta parlando (e prima ancora di cui parlava Jesi, che da kerenyiano poi critico conserva delle sofferte ambiguità a riguardo… no?). Credere o no in una permenenza di simboli, mutatis mutandis, in tutte le culture umane, permanenza diversamente collocabile (nella psiche se si è junghiani, nell’anima o in altro…) non ti fa aristocratico e di destra. Non è la trascendenza, ma l’uso particolare che ne fanno i Tradizionalisti, reificando e fissando un mistero vergine e immacolato di cui si eleggono difensori. Ma al contrario, se si leggono ad esempio le opere di Campbell, si può tranquillamente parlare della ricorrenza universale del mito dell’eroe senza stare a misticheggiare evolianamente… perché di volta in volta il mito viene rivissuto e ricreato… insomma: ELABORAZIONE DEL MITO, come diceva il buon Blumenberg! Cosa che fa anche Tolkien, rideclinando l’eroe e come la calzante analisi di Wu Ming 4 evidenzia. E si può amare le tradizioni, senza restare pietrificati da quel mostro della Tradizione.

  95. @ lucrezio

    Io credo di sì. A me però anche Jung pare già troppo trascendentalista, anche se scova l’origine del simbolo nella psiche anziché in cielo. Quindi, una volta fatta la tara dagli aspetti più fortemente junghiani, a me il discorso di Campbell piace moltissimo. Lo circoscrivo però agli aspetti narrativi, cioè autorappresentativi dell’umanità. Non saprei dire se un archetipo narrativo abbia una corrispondenza nell’anima/psiche umana (di certo non credo l’abbia nell’assoluto ideale) e, non essendo uno psicologo né uno pasicanalista, mi interessa anche poco. Di sicuro però è una costante rappresentativa che parla di noi e questo mi basta.
    Nella Premessa de “L’Eroe Imperfetto” scrivevo questo:

    “In ogni epoca, ogni narratore rimette in prospettiva le sopravvivenze mitiche del passato, le riscopre o le lascia cadere, a seconda di ciò che esse richiamano nel presente. Al di là di quanto gli archetipi letterari possano rendere i caratteri della psiche umana, è questa incessante riscrittura che garantisce loro longevità.
    E’ evidente che rintracciare le ricorrenze di certi temi e mitologemi per provare a reinterpretarli è un’attività molto diversa dall’ipotizzare l’eterno ritorno di un’immutabile simbologia mitica (o sacra). Non si tratta infatti di raccontare l’identico, ma di evolvere il punto di vista, l’angolazione da cui leggere e narrare l’universale divenire, attraverso le storie che sono giunte fino a noi. Cercare sempre nuovi germogli, cioè nuovi spunti e accostamenti, nella letteratura che ci ha preceduti è un modo di ribadire l’immanenza del racconto in relazione al qui e ora.”

    La riflessione prendeva a sua volta dichiaratamente le mosse da una citazione tratta dal maestro di Campbell, Heinrich Zimmer:

    “Il raccontare storie è stato, nei secoli, sia una cosa seria sia un passatempo spensierato. Un anno dopo l’altro le storie vengono concepite, affidate alla scrittura, divorate e dimenticate. Che ne è di loro? Alcune sopravvivono, e allora, come semi sparsi dal vento, volano di generazione in generazione, propagando nuove storie e dispensando nutrimento spirituale a molti popoli. La maggior parte del nostro retaggio letterario ci è giunta in questo modo, da epoche remote e da lontani, sconosciuti angoli del mondo. Ogni nuovo poeta vi aggiunge qualcosa della sostanza della propria immaginazione, e i semi così nutriti riprendono a vivere. La loro facoltà di germinare è perenne, attende solo d’essere stimolata. E così, sebbene di quando in quando alcune varietà sembrino essersi estinte, esse un giorno riappaiono, buttando fuori nuovamente i loro germogli caratteristici, freschi e verdi come prima.”
    (H. Zimmer, Il re e il cadavere, 1948)

  96. @ lunobi

    è che secondo me usi con troppa leggerezza parole come “invarianza” e “astorico”, e scambi per essere quello che è solo un divenire su tempi molto lunghi, finendo per naturalizzare anche ciò che è culturale. Quando scrivi:

    “Anche la regalità dell’aquila […] contiene qualcosa di astorico, nella misura in cui il nostro apparato cognitivo si è evoluto per milioni di anni in un mondo in cui le aquile rappresentavano una potenza meravigliosa e temibile.”

    io, sinceramente, mi chiedo cosa vi sia di “a-storico” in questo. Stai parlando di evoluzione, di divenire, di storia della specie, di codifica culturale.
    Insomma, quando parliamo di “invarianza”, dobbiamo intendere il concetto in senso molto relativo e – ancora una volta – il più possibile immanente, perché noi siamo creature in divenire, risultati apparentemente definitivi ma in realtà transitori di un’evoluzione in cui natura e cultura sono innervate in modo irreversibile, e la nostra civiltà è in divenire, e le nostre modalità di rappresentazione simbolica sono in divenire.

    Tra l’altro, un conto è dire che l’aquila *manifesta* una meravigliosa, elegante *potenza*. Ma con il suo *rappresentare* la *regalità* la faccenda si complica. La regalità è attributo di una particolare istituzione, ovvero la monarchia, e l’aquila può arrivare a rappresentare la regalità solo in una società dove esistano monarchi. Da sola, l’aquila non può far scattare quell’associazione.

    Sull’altra questione: nessuno qui vuole “sbarazzarsi” della neuroestetica. Semplicemente, la neuroestetica va intesa come la “base”, ma da sola non crea “simboli” nell’accezione usata qui (dall’etimo “syn-ballein”, gettare insieme più cose). Non è questione se quest’accezione sia limitante o no: semplicemente, il termine ha diversi significati in diversi ambiti di discorso e di analisi. In alcuni ambiti, per dire, simbolo e segno coincidono. In altri ambiti, sono due cose diverse. Poi c’è la questione della differenza tra simbolo analogico e simbolo convenzionale etc.

  97. @ Wu Ming 4
    Sottoscrivo e ammiro il tuo desiderio di immanenza letteraria. Dopo tutto questo è proprio l’insopportabile di quel brodo culturale, la loro non accettazione dell’umanità (dei suoi meravigliosi immanentissimi limiti). Però è appunto lecito, andando su piani extra-letterari, porsi domande sul trascentale sulla trascendenza, sull’espressione simbolica, sentire una sacralità nella piccolezza umana, essere animali religiosi e… non avere niente a che fare con questa cultura di destra, anzi. Scusate lo sconfinamento fuori argomento… ma ad esempio, per parlare di “intellettuali”, in Italia è stato totalmente dimenticato un tal signore, Ernesto Buonaiuti, prete scomunicato, animale religioso sincero che fu uno di quei pochi professori universitari a non prestare giuramento al fascismo.

  98. @tuco

    Capisco il tuo ragionamento, e non ho difficoltà ad ammettere che se avessimo otto dita molte cose andrebbero diversamente.

    Tuttavia, da un lato devo segnalarti che la storia maschio+femmina=generazione non riposa solo sulle proprietà automorfiche del 5, ma anche e soprattutto sulle proprietà geometriche del pentagono regolare stellato, che ho omesso per brevità (il pentagono è la più piccola figura geometrica che si riproduca al suo interno mediante le sue diagonali; inoltre le diagonali si intersecano nelle rispettive sezioni auree, dando luogo al rapporto PHI=1,618etc che a sua volta descrive la legge di generazione oggi nota come serie di Fibonacci).

    Dall’altro lato, quale che sia lo statuto di queste speculazioni, resta il fatto che storicamente Pitagora e i suoi, nel tardo VI sec. a.C. in quel di Crotone (se non sbaglio), hanno scoperto e tramandato il teorema di Pitagora come parte di un sapere esoterico. Cioè (per tornare al contesto della mia risposta a Wu Ming 1) l’opposizione tra scienze esatte e tradizione esoterica è troppo recente per darla per scontata. Ci obbligherebbe per esempio a classificare Newton tra i cazzari, dato che si firmava anagrammando il suo nome “Ieoua Sanctus Unus” (dove Ieoua è il nome esoterico di Dio).

  99. @ lucrezio

    Scrivi: “Però è appunto lecito, andando su piani extra-letterari, porsi domande sul trascentale sulla trascendenza, sull’espressione simbolica, sentire una sacralità nella piccolezza umana, essere animali religiosi e… non avere niente a che fare con questa cultura di destra, anzi.”

    E’ lecito, sì. Da un certo punto di vista forse è anche abbastanza inevitabile. Essendo noi esseri finiti davanti all’infinito, da sempre interroghiamo questo paradosso e ci proponiamo risposte (filosofiche, religiose, matematiche, etc.). La fede poi ce ne fa scegliere una piuttosto che un’altra, ma la questione in sé rimane aperta e certamente è una costante della condizione umana.
    Ad ogno modo, perdonami, ma io preferisco tornare agli spazi letterari, ché in quelli “extra” finisce che mi perdo… :-)

  100. La discussione si è un po’ “incartata”, digressione ultra-specifica dopo digressione ultra-specifica. Ognuno ha già detto la sua e resterà sulle sue posizioni. Possiamo tornare al tema del post, ovvero la disarticolazione dell’operazione ideologica neofascista su Tolkien e sulla letteratura in genere? Grazie.

  101. @ Wu Ming 1

    Sorry boss, avevo capito che fosse un nome proprio, non il nome della band ;)

  102. @ Lunobi

    Continui a far riferimento a tradizioni esoteriche, il che significherebbe che i simboli non sono poi così facilmente accessibili a chicchessia.
    Se essi infatti vanno spiegati – come fecero i pitagorici quando elaborarono il teorema – a me sembra infatti che tutto il tuo discorso sulla loro base naturale vada a farsi benedire.
    La tradizione esoterica difficilmente produce spiegazioni, almeno per quanto riguarda noi poveri mortali.
    Ragion per cui continuo di gran lunga a preferirgli la volgarità delle scienze esatte.

    Saluti

  103. @Wu Ming 1

    Concordo senz’altro, come dicevo a WM4, sul fatto che la natura è essenzialmente indeterministica e dinamica, sebbene su una temporalità diversa da quella della storia.

    Mi chiedo tuttavia se ai nostri fini sia realmente produttivo confondere i due tempi (come sarebbe a dire: “preparo il caffè, tu intanto invecchia, che appena l’alaska tocca la siberia ci andiamo a fare una passeggiata”). Certo, tutto scorre e tutto cambia, ma una cosa è quello che cambia in dieci anni (per noi tutti mutevole nella pratica), un’altra è quello che cambia in diecimila anni (per noi tutti immutabile nella pratica, mutevole solo nella nostra immaginazione teorica).

    Trascurando questa distinzione, non si rischia di cancellare differenze importanti, come il fatto che la storia è la cosa che facciamo noi (almeno in parte), mentre l’evoluzione è la cosa che ci fa lei?

    Mi chiedo poi se la nostra (storica) insistenza sulla variabilità, spinta fino al punto di negare la natura come limite e come invarianza, non sia tra le cause: a) del nostro (storico) ritardo nella comprensione della crisi ambientale e b) delle nostre (storiche) difficoltà pratiche ad agire nel mondo degli uomini “in carne ed ossa” (cioè dotati di una biologia).

    Prendere in conto l’invarianza è mettere a fuoco i margini precisi nei quali la variazione è effettivamente possibile (Lenin che fa l’alleanza con i contadini). Trascurarla, è perdere l’ago della bussola dei cambiamenti possibili nel pagliaio delle speculazioni sui cambiamenti immaginabili.

    Dunque mi pare giusto ma insufficiente affermare che siamo variabili e transitori: dobbiamo dire che, in parte, siamo (relativamente) variabili e transitori e che in parte siamo anche (relativamente) statici e immutabili. Se vogliamo prevedere o provocare variazioni e transizioni (reali e non immaginarie) dobbiamo farlo nel rispetto di cio’ che è (relativamente) statico e immutabile, in noi come nella natura che ci circonda.

    Circa l’aquila,

    “Stai parlando di evoluzione, di divenire, di storia della specie, di codifica culturale.”

    No: sto parlando di evoluzione, non di codifica culturale. Dire che c’è qualcosa di astorico nella nostra percezione dei tratti di potenza ed eleganza dell’aquila, significa dire che la percezione di questi tratti non è interamente codificata culturalmente, ma almeno in parte, geneticamente. Cioè: la struttura anatomico-fisiologica del nostro apparato cognitivo si è formata in un mondo in cui esistevano le aquile e il rapporto di forza tra noi e loro si è almeno in parte codificato geneticamente: chi non temeva e rispettava le aquile moriva o perdeva i piccoli, sicché una variante genica del tipo “ho la sensazione che l’aquila sia potente e temibile” è stata utile per sopravvivere e si è trasmessa. Questo spiega appunto che la sensazione di potenza ed eleganza sia estetico-emozionale (cioè evolutivamente antica) e non meramente cerebrale (cioè recente); che un bambino piccolo sia capace di riconoscerla; che l’uomo in generale si identifica facilmente con le caratteristiche “totemiche” degli animali, ecc.

    Tutto questo è cognitivo, ma non interamente culturale: è in parte culturale, in parte naturale. Naturale: il nostro corpo biologico è predisposto ad alcune sensazioni (relativamente) invariabili verso l’aspetto formale degli animali, delle piante, dei paesaggi, etc. in rapporto ai quali si è geneticamente costituito. Culturale: lungi dal fondare queste sensazioni, la cultura ne costituisce un’elaborazione, una sistematizzazione, una variazione sul tema, esattamente come la coltura del pomodoro è una variazione sul tema della pianta, non la sua creazione.

    Dunque, in conclusione: additando l’eternità metastorica dei simboli (quale che sia la perizia e la consapevolezza con cui lo fanno), i destri richiamano l’attenzione su una cosa vera, che i sinistri tendono da tempo a trascurare erroneamente (causa inguaribili vocazioni idealistiche), e cioè che l’uomo non è esauribile nella variabilità storico-culturale, ma possiede anche elementi (relativamente) invariabili e biologico-naturali. Loro chiamano questi elementi Tradizione o Transcendenza o Scienza Sacra, e questo rileva del loro paradigma interpretativo, ma la cosa interpretata è strettamente identica a cio’ che noi possiamo chiamare invarianza biologico-cognitiva.

    La risonanza estetico-emozionale che il fantastico ha in noi (come pure la risonanza che ha il carisma del fuhrer, per dire), dipende dall’intercettazione di correnti biologico-cognitive, e non semplicemente culturali, da parte del discorso letterario (o politico). E’ questo che ne spiega la potenza propriamente artistica (carismatica), giacché ogni vero risultato artistico è in fin dei conti in un superamento del codice culturale in vigore, operato in virtù di un appello (variamente trasfigurato e sacralizzato) al codice genetico.

  104. @ lunobi

    come dicevo qualche commento fa, la piega che ha preso la discussione ci sta portando troppo lontano dal tema del post, con il rischio di “sdilinquire” la connotazione e finalità antifascista del nostro discorso, e di allontanare chi vorrebbe restare sul punto. Potenzialmente avrei molte cose da dire e precisazioni da fare, ma in questa sede rinuncio ad argomentare il mio disaccordo su storia, divenire, “astoricità”, simboli, natura, cultura etc. Ci saranno tante altre occasioni di discutere di tutto questo, come tante già ce ne sono state. Chiedo a tutti/e di tornare al “nocciolo” del post di WM4.

  105. Accolgo l’invito di WM1 a tornare nei binari del topic. Allargando il tema su Tolkien alla letteratura di genere, sarebbe interessante sapere quanti e quali progressi siano stati fatti dalla critica letteraria nel nostro paese rispetto al “genere”.
    Leggendo “Lipperatura”, la situazione mi sembra lungi dall’essere rosea. Non è un caso che siano fioriti in rete blog e siti e fanzine messi su da “non tecnici”. Questo a fronte di un successo di pubblico non solo spiegabile grazie all’evasione che questi romanzi promettono rispetto alla realtà quotidiana. Mi pare anche che questi luoghi della rete siano cresciuti nel corso degli anni e abbiano creato un loro protettorato. In assenza di “grandi firme” le piccole – riunite – diventano comunque importanti.
    Tranne alcune eccezioni, ho notato che il discorso sul fantastico resta a livelli di grande superficialità. E questa, come abbiamo visto, imperversa anche nelle pubblicazioni ufficiali. Questo è già un punto di partenza, perché la cazzata, per quanto connotata ideologicamente, resta una cazzata.

    Certo, rispetto a 40 anni fa, oggi abbiamo un luogo come GIAP dove poterne parlare. Il che mi fa pensare che la rete sia il luogo di partenza. Su Tolkien esistono centinaia di siti. Con tutte le gradazioni e i colori possibili. Per non parlare del fantastico in genere. Non sarebbe il caso di cominciare a strutturare, ad organizzare, a radunare le forze in campo?
    Come per le lotte sociali, mi pare infatti che anche qui il problema sia l’enorme frammentazione e l’idea che i vari problemi non abbiano origini comuni.
    E’ invece evidente, ut WM4 dixit, che l’aver snobbato a monte il fantastico quando si presentò sulla scena italiana, abbia permesso molti dei mali di cui parliamo oggi.

  106. @franzecke

    Anche il secondo principio della termodinamica ha bisogno di essere spiegato e non è accessibile a tutti, pur essendo indubbiamente basato su fatti naturali, presenti a chiunque e operanti nel corpo di chiunque.

    Ci sono d’altra parte ragioni precise per cui non tutti i saperi possono essere diffusi nello stesso tempo. Per esempio, è molto difficile insegnare la fisica quantistica a chi non conosce la matematica.

    Analogamente, certi saperi di tipo spirituale non possono essere trasmessi a chi non ne possiede già altri, non perché sia vietato, ma perché l’apprendista non puo’ comprenderli né accettarli.

    Ad esempio, se uno non ha mai notato che il piacere è spesso seguito dall’infelicità, allora non comprenderà il consiglio di limitare i piaceri, perché gli sembrerà un inutile masochismo.

    Invece, se uno ha già notato questa correlazione, e se l’ha spiegata ad esempio con il fatto che tutti i sensi funzionano su soglie di tolleranza e che la felicità dipende da un certo equilibrio tra diversi tipi di piacere, allora potrà accettare il consiglio, perché comprenderà che limitando alcuni piaceri particolari potrà accrescere la propria felicità generale.

  107. @Wu Ming 1

    Mi scuso per l’OT, ma la conclusione era in tema:

    Additando l’eternità metastorica dei simboli (quale che sia la perizia e la consapevolezza con cui lo fanno), i destri richiamano l’attenzione su una cosa vera, che i sinistri tendono da tempo a trascurare erroneamente (causa inguaribili vocazioni idealistiche), e cioè che l’uomo non è esauribile nella variabilità storico-culturale, ma possiede anche elementi (relativamente) invariabili e biologico-naturali. I destri chiamano questi elementi Tradizione o Trascendenza o Scienza Sacra, e questo rileva del loro paradigma interpretativo, ma la cosa interpretata è strettamente identica a cio’ che noi possiamo chiamare invarianza biologico-cognitiva.

    La risonanza estetico-emozionale che il fantastico ha in noi (come pure la risonanza che ha il carisma del fuhrer, per dire), dipende dall’intercettazione di correnti biologico-cognitive, e non semplicemente culturali, da parte del discorso letterario (o politico). E’ questo che ne spiega la potenza propriamente artistica (carismatica), giacché ogni vero risultato artistico è in fin dei conti un superamento del codice culturale in vigore, operato in virtù di un appello (variamente trasfigurato e sacralizzato) al codice genetico.

  108. In breve, mi sembra che il saggio di WM4 comprenda in parte, ma non fino in fondo, la portata dell’operazione culturale della destra, sicché la vostra “disarticolazione” appare in parte, ma non fino in fondo, efficace.

  109. @ Lunobi

    “La risonanza estetico-emozionale che il fantastico ha in noi (come pure la risonanza che ha il carisma del fuhrer, per dire), dipende dall’intercettazione di correnti biologico-cognitive, e non semplicemente culturali, da parte del discorso letterario (o politico)”

    Quindi – aiutami a capire – secondo te il grande successo di pubblico che il SDA ha ottenuto negli ultimi quarant’anni dipenderebbe da fattori biologici oltre che culturali?
    Cioè a dire che una narrazione che utilizzi simboli ancestrali – il guerriero, l’aquila e così via – andrebbe a toccare delle corde profonde, cui invece una narrazione che presenti problematiche di tipo dialettico non riuscirebbe ad arrivare?
    Ma scusa, questo significa attribuire un valore metafisico ai simboli in questione!
    I Wu Ming ci hanno già ricordato il significato etimologico dell’espressione sun-ballein: mi pare si tratti di un ottimo esempio per dimostrare che, al di là delle motivazioni fisiologiche che ne possono aver determinato la genesi, i simboli sono semplicemente un prodotto dell’attività culturale dell’uomo.
    Si tratta di strumenti di interpretazione del reale, non di entità a-storiche.
    Il problema è proprio che “la portata dell’operazione culturale della destra” di cui parli mi pare basarsi essenzialmente su questo equivoco di fondo.
    E aggiungo: si tratta di un “equivoco” per noi che stiamo qui a ragionarci sopra, mentre nel caso dei nostrani pensatori a mano armata, credo si possa parlare in tutta tranquillità di “cattiva fede”.
    In questo senso, l’intervento di WM4 in cui si disarticolano le pratiche e i pretesti che stanno dietro le loro analisi deliranti, a me pare ben più che “efficace”.
    Oserei quasi definirlo *illuminante*.

    Saluti

  110. Ragazzi, la discussione si è spostata su un terreno troppo astratto. Dopo tutte le argomentazioni e obiezioni, non ci si è mossi di un millimetro dal punto di dissenso iniziale. Ovvio: quel punto è in un luogo “primordiale” da cui derivano due impostazioni (quasi due “atti di fede”) sostanzialmente irriducibili.
    Il post di WM4 è, all’opposto, molto concreto: affronta di petto alcune distorsioni della poetica tolkieniana portate avanti dai fascisti, facendo esempi precisi, tornando sempre al testo, segnalando veri e propri “sfondoni”. *Questo* è utile, perché illumina (appunto) il modo in cui lavorano gli “intellettuali” di ultradestra. Una disquisizione sui “massimi sistemi” di simbolo e simbolismo, sull’opposizione natura/cultura e sulla “eternità” delle idee è invece lontana dallo specifico del post (e dal suo “pragma”, per così dire) e, in questa sede, fuori luogo. Quindi, rinnovo il richiamo a rimanere *sul pezzo*.

  111. @ lunobi
    Non si può avere tutto! E comunque meglio che niente :-)

    @ Ekerot
    La questione che poni è epocale. Davvero complessa. C’è qualcuno che se ne mette, come riscontri anche tu, ma sono pochi.
    Provo a smontare la problematica nei suoi sotto-aspetti:

    – Le case editrici italiane (ma non solo) che pubblicano fantastico hanno un approccio che conferma i peggiori pregiudizi di chi snobba il genere considerandolo “paraletteratura”. Gli autori vengono “scoperti” (possibilmente under-20) e lanciati come nuove promesse con romanzi scritti tra i banchi scolastici. Se funzionano bene, se no avanti il prossimo dragaro, la prossima elfara o orcara, il prossimo urbanfantasista.

    – Gli autori di fantastico in Italia tutto sommato accettano questo stato di cose e ne sono complici, allettati dalla possibilità di sfondare o anche solo di vedere pubblicato il proprio romanzo in copertina rigida con elfa tettuta che masturba l’impugnatura di una spada.

    – La critica letteraria è ancora bloccata dentro l’ideologia novecentista che riconosce lo status letterario soltanto a certa narrativa e ne tiene ben fuori il fantastico, l’avventuroso, etc. Non è solo una questione generazionale, purtroppo. Non sono solo i vecchi parrucconi a pensarla così, ma anche critici under cinquanta (e TQ) come Andrea Cortellessa (o Daniele Ventre, giusto per citarne un altro).

    – I siti dedicati al fantastico sono quello che sono: cose parecchio personali, al massimo per piccole cerchie. Mi viene in mente come eccezione quello dell’autrice Lara Manni, sul cui blog ogni tanto anche noi andiamo a scrivere, e che mi pare provi ad allargare l’orizzonte. Su Tolkien poi, se si esclude il sito dell’A.R.S.T., e forse la webreview semestrale che fa Franco Manni (“Endore”) direi che il livello è molto basilare, più o meno contemplativo-feticistico, Ma per quello che vedo soltanto su Giap si discute di Tolkien a questi livelli.

    Sinceramente non saprei come consorziare o radunare le forze in campo. Io, nel mio piccolo in questi ultimi anni ho provato a fare da cassa di risonanza per gli studi che altri – ben più specialisti di Tolkien di me e da più tempo impegnati – traducono e pubblicano. Poi ho realizzato l’operazione “Ritorno di Beorhtnoth”, che considero importante perché direttamente agganciata a un testo di Tolkien quasi innominabile per i tradizionalisti. Ma visto che da Bompiani non ho più avuto feedback di alcun tipo, mi pare che la strada a questo punto sia chiusa.

    “Che fare?”. Io dico: quello che si sta facendo. Implementare l’uso della rete per veicolare i testi che l’editoria e la critica non sono in grado o non vogliono recepire. Tanto per dire: sto provando a contattare uno degli editori di Shippey per capire se mi lasciano tradurre qualche suo saggio breve, particolarmente interessante. Ecco.

  112. due righe solo per dire che avrei alcune cose “tecniche” da scrivere in risposta a lunobi, ma raccolgo l’invito di wm1 e mi astengo, per non incasinare di nuovo la discussione.

  113. Premetto innanzitutto che non ho mai letto Tolkien (e non l’ho fatto proprio perchè provengo da un “humus” di sinistra per il quale questo autore era quantomeno di dominio della destra). Inizio dunque col ringraziare Wuming per avermi invogliato a leggere un autore tanto importante nella narrativa di genere fantasy (sarebbe poi interessante intavolare un discorso sulla dualità fantasy/fantascienza, ma questo è un altro discorso), genere a cui mi sono accostata quando ho iniziato a divorare i libri di Ursula K. Le Guin. Per inciso, leggendoli mi sono chiesta se l’autrice si rifacesse in parte ad alcuni temi di Tolkien, se qualcuno per caso lo sapesse…
    Comunque per non andare troppo fuori tema, veniamo al discorso sui simboli e sull’universo simbolico e a cui questa autrice attinge a piene mani con un intento secondo me abbastanza palese di “decostruzione” dei significati storicamente assegnati ad alcuni di essi.
    Nella saga di Terramare la Le Guin mette al centro delle vicende, soprattutto negli ultimi due libri, la figura della razza dei draghi, animali simbolici di alcune culture arcaiche (ma attualmente ancora al centro di culture quali quella cinese) facendo un’operazione a mio avviso interessante, ossia sovvertendo il significato che storicamente a quel simbolo è stato attribuito. E lo fa in maniera convincente, nel senso che il “nuovo” significato che ci presenta (ossia quello originario ma ormai perduto) che attribuisce a quel simbolo sembra effettivamente plausibile. I draghi possono allora essere visti, in quel remoto e imprecisato tempo della narrazione, come l’ultimo brandello di una società matriarcale ormai scomparsa e, direi, già dimenticata. Eppure manca il racconto di come l’identità vera dell’essere drago sia stata recisa dal simbolo drago, manca per così dire il passaggio da una società, quella dei draghi, a un’altra, quella degli uomini. Perchè? Perchè la storia la scrivono sempre i vincitori, e nel farlo riscrivono anche, forse soprattutto, il significato dei simboli, sovvertendolo proprio perchè, in quanto simboli, rimarranno nella coscienza collettiva. Come dire che soprattutto se il passaggio è tra due società diametralmente opposte (matriarcale vs patriarcale) la recisione è netta, nella memoria potranno rimanere solo vaghe tracce dell’essere originario divenuto simbolo, sicuramente non tracce del processo di attribuzione di nuovo significato, sarebbe un po’ come lasciar scrivere a chi ha perso come la pensa.
    In fondo non è un po’ quello che il nazismo ha tentato di fare andando a pescare in vari universi mitologico-simbolici tentando di ricondurre appunto i simboli più disparati a un’unica “cosmologia” che sarebbe dovuta diventare dominante su tutto il mondo?
    Non è quindi la ricerca in sé sui simboli che sia di destra o di sinistra, quanto il metodo e il fine con cui al simbolo ci si accosta, e, direi anche, il tono, il registro con cui il significato simbolico si esplica. Per dirla banalmente, e paradossalmente, forse se Tolkien o la Le Guin avessero voluto fare del simbolo un sistema di pensiero avrebbero scritto qualcosa di simile al “Mein Kampf” invece hanno scritto romanzi fantasy.
    Infine una nota riguardo al tipo di società descritta in alcuni romanzi fantasy.
    Leggendo solo alcune parti dell’opera della Le Guin, al di fuori del suo contesto, e senza sapere che l’autrice è una femminista di orientamento libertario, si potrebbe pensare come per Tolkien a un’autrice “di destra”, questo per il semplice fatto di descrivere a volte società di tipo feudale in cui la discendenza dinastica e i legami “di sangue” sono alla base dei racconti. Il fatto che se ci si “limita” a descrivere una simile struttura sociale di fondo ad una storia senza condannarla significhi automaticamente che la si ponga a modello mi pare ben strano (più o meno come risulta ridicolo il commento, concettualmente opposto, di uno che vedendo un film di fantascienza commenta con un “ma non è possibile”) : come per le narrazioni ambientate nel futuro gli autori si basano su cose del presente e ne vedono una possibile evoluzione, perchè non dovrebbe avvenire un simile processo inverso nell’immaginare società collocate in un indefinito remoto storico?
    Dopo tali dissertazioni il mio discorso sarà certamente banale, spero che nella semplificazione estrema sia comunque chiaro e utile alla discussione.

  114. Sera compadres! Commento a tratti perchè sono un attimo ondivaga ultimamente ma ho continuato a seguire la discussione.

    Un po’ di cose sparse (che poi tra loro sono collegate).

    -Ieri ripulivo la libreria e mi è capitato tra le mani “Le uova fatali”, di Bulgakov. La chiave politica conservatoristica è palese e semplice (e credo, voluta dall’autore in funzione anticomunista). Ora, la domanda è: perchè secondo voi, Bulgakov, che si presta molto più di Tolkien per l’appunto a una lettura ideologico/conservatoristica, ha invece subito questo processo in misura molto minore (a parte quel simpatico-scrittore-onesto-criminale-che-va-a-casa-Pound-che-non-nomino, che lo cita tra i suoi “maestri”)?

    -La seconda è una proposta, che faccio anche un po’ egoisticamente, perchè andare all’università e vedere i manifestini di casaClown con il Che, la grafica psichedelica da anni sessanta e la scrittina “Aprendimos a quererte” mi dava la nausea. Sarebbe interessante prevenire le appropriazioni ideologiche indebite individuando gli scrittori (contemporanei, o non contemporanei meno conosciuti) e i personaggi/contesti sociali e politici e decostruire la possibile fascistizzazione ancora prima che la costruiscano. Poi boh, la butto lì, ho ancora i fumi cerebrali di Napoli-Roma vista con la telecronaca in serbocroato, quindi può essere che dico cazzate.

    Baci **

  115. @ tina

    Ursula K. Le Guin non ha mai fatto segreto di essere stata influenzata dalla lettura di Tolkien. Io ho letto poco di suo, e non il ciclo di Earthsea, però sono incappato in più di un’intervista dove citava Tolkien con grande cognizione di causa e riconosceva il debito nei suoi confronti.

    Scrivi: “Non è quindi la ricerca in sé sui simboli che sia di destra o di sinistra, quanto il metodo e il fine con cui al simbolo ci si accosta, e, direi anche, il tono, il registro con cui il significato simbolico si esplica. Per dirla banalmente, e paradossalmente, forse se Tolkien o la Le Guin avessero voluto fare del simbolo un sistema di pensiero avrebbero scritto qualcosa di simile al “Mein Kampf” invece hanno scritto romanzi fantasy.”

    Appunto, Tolkien non aveva alcuna intenzione di fare del simbolo un sistema di pensiero. Questo è quello che vorrebbero farci credere certi furbastri. La sua mente era filologica, tutta rivolta all’etimologia, alle radici e alla storia delle parole, molto più che dei simboli. Era una mentalità assai più diacronica che sincronica. Del resto non stiamo parlando di un filosofo o di un teologo, ma di un narratore, di un linguista e di uno studioso di antica poesia norrena e anglosassone (che forse sorriderebbe di tutta questa nostra disquisizione sui massimi sistemi a proposito dei simboli). Se ti capiterà mai di leggere qualche suo saggio ti renderai conto di quanto fosse poco propenso all’astrazione e molto più concentrato nell’approfondimento, nello scavo filologico, e come da quello scavo nascessero sempre le sue storie.
    Aggiungo che quando sosteneva che i miti contenevano verità parziali sulle cose, questo non significava che credesse alla veridicità delle storie narrate da quei miti. Per lui l’unico mito incarnato, verificato storicamente, era quello cristiano. La differenza con quegli sciroccati dei nazisti è anche questa. Sembra ovvio dirlo, ma a questo punto non lo è più niente. Tolkien sapeva che il mito è prima di tutto un racconto, un’espressione poetica. E quella andava a ricercare, l’effetto poetico originario, piuttosto che qualche esoterico significato. Ai nazisti, del resto, piaceva Wagner, con la sua riscrittura della saga dei Nibelunghi, e Tolkien la considerava pochissimo filologica, un’irritante reinvenzione moderna. La sua risposta fu “La Leggenda di Sigurd e Gudrùn” (che è la riscrittura tolkieniana della storia a partire dalle stesse fonti).

    Infine, riguardo alle strutture sociali che uno mette in scena nelle proprie opere, concordo con quanto dici. Nel Signore degli Anelli c’è un nobile re che ritorna, come c’è in moltissime fiabe e leggende e saghe antiche. La Terra di Mezzo è tecnologicamente e socialmente compresa – a occhio e croce – tra l’alto medioevo e la prima modernità. Quello è l’arco temporale in cui vennero scritti i testi poetici che Tolkien amava e che ha studiato per tutta la vita. Vuoi vedere che c’entra qualcosa…

    “Un lampione elettrico può essere ignorato, per la semplice ragione che è insignificante e transitorio. Le fiabe, invece, si occupano di argomenti più permanenti e fondamentali, come il fulmine.” (J.R.R.Tolkien – Sulle fiabe).

  116. Finalmente anche nel “mainstream” qualcuno inizia a occuparsi di De Turris e del suo ruolo:
    http://www.gadlerner.it/2011/12/18/il-killer-casseri-lintellettuale-de-turris-e-i-pazzi-di-destra.html
    E forse è anche un po’ merito del nostro pluriennale lavoro, aggiungo.

  117. Ops… ho mangiato mezzo commento -.- vogliate cancellare quello sopra, o Wu Ming, signori dell’html, reggitori della fiamma di Bannor!

    @Wu Ming 1
    La prospettiva diacronica in Tolkien si vede anche e tanto dal non lasciare le sue storie e i suoi personaggi fluttuare nel nulla. Cioè: sappiamo praticamente tutto di tutti, dalla vocazione schiavista dei corsari di Umbar alla tristezza molto umana di Fangorn per la sparizione delle entesse, fino alle paure umanissime che spinsero Al-Pharazon a tradire i Valar… Insomma tutto descritto con un amore di narrazione e con una comprensione “storica” che andrebbe insegnata fin dall’asilo.

    “Ma gli Orchetti e i Vagabondi parlavano come capitava, senza alcun amore per le parole e per le cose, e la loro lingua era ancora più abietta e disgustosa di quanto risulti dalla mia traduzione. […] Ancor oggi coloro che hanno la mentalità d’Orchetti parlano in maniera molto simile: tetre ripetizioni piene d’odio e di disprezzo, talmente lontane dal bello e dal buono da aver perso ogni valore verbale salvo per coloro che considerano forte e deciso solo ciò che è squallido.”

    Non dite che zio Johnny Ronnie non ci aveva messo in guardia… :)

  118. @ rapa

    Forse volevi dire “reggitori della fiamma di Anor”… Troppa grazia, comunque :-)
    Ottima citazione. Mi permetto di aggiungere il riferimento bibliografico, che in questo caso è il capitolo II dell’Appendice F del Signore degli Anelli.

  119. @ WM4
    no, intendevo proprio Bannor… altro che Saint-Just e ghigliottine, nel mio pensier vi fingo ergervi sul ponte di Durin, a bloccare il passo a Balrog e trolls… “A nulla ti servirà il fuoco oscuro, fiamma di Udun. Torna nell’Ombra! Non puoi passare!”
    Ma questi sono i miei cortocircuiti mentali. Lasciatemi perdere. :-)

  120. @ rapa

    Ok, scusa, non avevo colto il gioco di parole tra “banner” e “Anor”. Abbi pazienza, stanotte ho dormito quattro ore, causa insonnia del pargolo. Chiedo venia.

  121. Stamattina, su l’Unità, pag. 40, articolo di Roberto Arduini sui legami tra Casseri e De Turris e sui cosiddetti “esperti” di Tolkien.
    Titolo: C’è del metodo nella follia di Casseri.

  122. L’articolo di Arduini è scaricabile qui:
    http://ge.tt/94E07QB/v/0

  123. A sto punto se Bompiani continua a dare man forte a De Turris, la faccenda si fa assai sospetta.

  124. E’ sospetta perché la Bompiani ha comunque una certa credibilità da difendere. Gli ultimi eventi hanno gettato un’ombra assai scura sull’operato di De Turris, ed una casa editrice seria non avrebbe dubbi a porsi degli interrogativi sulle proprie scelte.
    Senza contare che, a prescindere da come la pensino in politica, questi esperti italiani hanno mostrato una notevole ignoranza in materia, come abbiamo rimarcato più volte.
    Allora i fatti sono due.
    O la Bompiani, grazie a De Turris, vende di più di quanto farebbe con un altro saggista (anche noto). Oppure la Bompiani difende De Turris, per motivi a noi non noti ma che potrebbero proprio riguardare i trascorsi e incorsi di De Turris.

  125. @ Ekerot

    Sospetta, in che senso? Bompiani è un editore che ha preso per buona l’italica vulgata, e cioè che personaggi come Principe, De Turris, etc. siano grandi esperti di Tolkien. Nella parte finale dell’articolo Arduini dice finalmente ciò che tutti sappiamo: probabilmente costoro non hanno mai letto un saggio su Tolkien posteriore agli anni Settanta (e perfino sui testi di Tolkien prendono cantonate evidenti). Non sanno – o fingono di non sapere – nulla del dibattito che si è sviluppato nei trent’anni seguenti e campano di una rendita di posizione acquisita quando gli studi tolkieniani non esistevano ancora. La cosa si fa sempre più imbarazzante soprattutto perché nel frattempo certi studi seri sono stati tradotti anche in Italia (dalla Marietti 1820) e l’isolazionismo è finito.
    Adesso Bompiani cosa dovrebbe fare? Ammettere di avere preso un abbaglio colossale e di avere accreditato degli pseudo-studiosi per dieci anni? Significherebbe assumersi delle responsabilità e… be’, siamo in Italia. Per di più sotto Natale, che da queste parti significa essere ancora più indulgenti con se stessi.

  126. @ Ekerot

    Tutto può essere, non voglio mettere limite al peggio. Però io credo che la parte del leone in questa faccenda la facciano tre cose:
    – l’inerzia: avere ereditato da Rusconi un catalogo tolkieniano con paratesti annessi e curatori “acquisiti”;
    – la sciatteria: poca voglia di curare un testo per il valore che ha, “tanto Tolkien vende lo stesso” (per citare la chiusura del pezzo di Arduini);
    – la dabbenaggine: credere che certi intellettuali siano degli studiosi di Tolkien, quando al massimo sono dei lettori a singhiozzo.

    A proposito di quest’ultimo punto, mi è stato chiesto di spiegare ai non lettori di Tolkien i tre svarioni di De Turris nelle note al saggio di Kocher appena pubblicato da Bompiani, che Arduini cita nell’articolo di stamattina. Non si tratta di refusi o sviste dovute alla fretta con cui gli editori tendono a far lavorare curatori e traduttori, bensì di tre note inserite arbitrariamente dal curatore e *contenutisticamente* sbagliate.
    Eccole in ordine di gravità, ovvero di autoevidenza, dalla minore alla maggiore:

    1) pag. 54, si fa rifermento a “il Negromante”. Ora, chiunque abbia letto Lo Hobbit sa che questo è uno degli appellativi di Sauron, quando era ancora – per così dire – in clandestinità e si era stabilito nella fortezza di Dol Guldur, ai margini di Bosco Atro, da cui venne poi cacciato, trasferendo la sua base a Mordor.
    La nota inserita da De Turris in corrispondenza di questo nome è la seguente (pag. 64): “Uno degli appellativi del Capo dei Nazgûl (Cavalieri Neri), il Re di Angmar. Più avanti Kocher lo riferisce anche a Sauron (N.d.C.)”.
    No, è Tolkien che lo riferisce a Sauron e soltanto a Sauron, ed è quello che Kocher intende. Il Capo dei Nazgûl non c’entra niente, lo tira in ballo De Turris, probabilmente confondendosi con l’altro appellativo di “Re Stregone”.

    2) A pag. 327, Kocher fa riferimento a un episodio della storia di Turin Turambar, l’incontro tra Turin e il nano Mim. Il curatore, nella nota 98, si premura di precisare che nel 1972, quando Kocher scriveva, certi collegamenti tra le storie di Tolkien non erano chiari perché non era ancora stato pubblicato Il Silmarillion, dove si racconta “dell’incontro fra Tùrin e Mim, anche se in un contesto diverso e durante la Seconda Era, storia poi ampliata e pubblicata trent’anni dopo da Christopher Tolkien insieme ad altri testi collegati fra loro ne I Figli di Hùrin (Bompiani, Milano 2007). (N.d.C.)”.
    La vicenda di Tùrin figlio di Hùrin non si ambienta durante la Seconda Era, ma durante la Prima (la differenza è solo di qualche migliaio d’anni). Uno dirà: e va be’, è una svista, capita a tutti… Certo, ma è possibile che capiti proprio all’autore della Postfazione all’edizione italiana de I Figli di Hùrin? E meno male che De Turris ha curato quel testo, altrimenti cosa avrebbe potuto scrivere? Che Turin era il nonno di Aragorn…?

    3) A pag. 228 del libro, Kocher fa riferimento a un passaggio del Signore degli Anelli in cui Aragorn – durante l’inseguimento degli orchi, insieme a Gimli e Legolas – dimostra di avere finalmente preso una decisione con risolutezza e non si fa più tentare dall’idea di raggiungere Gondor. Ecco il passo: “Quando nelle pianure di Rohan vede la Montagna Bianca, che sembra attirarlo a sud verso Minas Tirith, non ha difficoltà a distogliere lo sguardo”.
    La situazione è chiara: i tre amici stanno percorrendo le pianure di Rohan, a nord di Gondor, quindi guardando a sud vedono la catena dei Monti Bianchi che al suo margine orientale culmina con la montagna su cui sorge la città di Minas Tirith, la capitale di Gondor. Molto probabilmente si riscontra già un errore di traduzione (indotto dal curatore?) perché i Monti Bianchi diventano la “Montagna Bianca”. Ma soprattutto ecco la nota 60 inserita da De Turris: “Taniquetil è il picco più alto di Valinor e sulla sua vetta risiedono Manwë, il più nobile dei Valar e il più vicino a Ilùvatar, e la sua sposa Varda. Le Aquile sono i suoi messaggeri. E’ il fratello di Melkor. (N.d.C.)” (pag. 244).
    Si tratta evidentemente di una notazione presa da qualche atlante o dizionario topografico tolkieniano alla voce “Montagna Bianca”, che in effetti è Taniquetil. Solo che si trova su un altro continente rispetto alla Terra di Mezzo e nulla ha a che vedere con la città di Minas Tirith.

  127. Vorrei proporre un discorso eccentrico. Lo spunto viene da “la salvezza di Euridice” di WM2. In breve: vale la pena fare anche un’indagine del fandom italiano su Tolkien (o, più in generale, del fantastico)? Sono d’accordo con WM2 quando suggerisce la riscrittura di un testo come critica attiva del testo stesso. Sto pensando a “The Last Ringbearer” di Kirill Yeskov, opera interessante di riscrittura tolkeniana in cui i mordoriani somigliano a degli illuministi (ne avete parlato anche voi mi sembra, e recentemente NI. Qui l’ebook dal sito del traduttore inglese http://ymarkov.livejournal.com/280578.html ). Stavo pensando che, nel nostro caso, eventuali testi del fandom nostrano, al netto dei prodotti derivanti da RPG, potrebbero risentire della distorsione ideologica messa in campo da trent’anni di insipienza editoriale (per citare Arduini). O magari non è affatto così, e l’applicazione di quelle tipologie della riscrittura delle storie tratteggiata nel suo saggio da WM2 (” una termodinamica della fantasia”) potrebbe dare, applicata al fantastico, risultati imprevisti. Ne vale la pena?

  128. […] mi addentro nell’interpretazione filologica di Tolkien, non sono Wu Ming 4 la cui cultura tolkeniana è a dir poco sconfinata al confronto della mia. Mi limito a citare […]

  129. @ blepiro

    Come sai, a noi la fan fiction interessa. E’ una strada da battere, perché no? So che qualcuno, a partire da queste discussioni su Giap, lo sta già facendo.
    Però devo dirti che non sono convintissimo che lo schema paradossale di Yeskov sia il migliore da seguire. Non ho letto il suo libro, che mi dicono essere un’opera dignitosissima e interessante. Magari è pure un capolavoro, non so. Tuttavia penso che leggere in chiave filosofico-politica le vicende della Terra di Mezzo, anche solo per ribaltarle, finisca per appiattire i significati del racconto. Paradossalmente la lettura di Yeskov è complementare a quella dei tradizionalisti. Ma il punto è che Mordor non è la Modernità, non è l’Illuminismo, non è una fottuta allegoria! Mordor è un aspetto della natura umana, una tentazione a cui tutti siamo sottoposti: quella del dominio sulle cose e sul prossimo, della scorciatoia, del potere, del rifiuto della morte, del potenziamento esteriore attraverso mezzi artificiali (armi, denaro, etc.). Prima di Sauron c’era Melkor, il Male si è introdotto in Arda fin dall’inizio, è una minaccia perenne, che si manifesta in forme diverse. Ridurre questo all’allegoria della Modernità contro cui gli eroi tradizionalisti (oscurantisti, per Yeskov) devono combattere, mi sembra davvero grezzo.

  130. […] così come studiando a fondo altri autori. Un ottimo articolo al riguardo è quello di Giap!, che vi consiglio di leggere cliccando su questo link. Spiega molto bene in che modo certa destra utilizza e manomette il senso dei simboli tolkieniani, […]

  131. Mi permetto di intervenire nella discussione pur confessando un grave errore di metodo: non ho mai letto il SdA. Sono un dilettante del talk-ienismo. Spero mi perdonerete, tantoppiù che la cosa potrebbe essere interessante, considerando che, avendo visto i film, possiedo grossomodo le conoscenze in merito dei nostri critici destri…

    Devo dire inoltre che avrei voluto scrivere qualcosa di simile a commento dell’articolo sul feticismo della merce, ma preferisco farlo qui perché mi sento meno fuori luogo con\ne la letteratura. Infatti ritengo sostanzialmente che gli argomenti siano affini e riguardino l’etica (della vita, della politica, della scrittura, …).

    Rendo pienamente merito ai Wu Ming di aver centrato il punto in entrambe le sue declinazioni, svelando i suoi aspetti insuperabilmente paradossali: l’etica si configura come un superamento paradossale della dicotomia dentro vs. fuori (e di tutte quelle discendenti da questa: bene vs. male, verità vs. menzogna, apocalittici vs. integrati, natura vs. cultura, essenzialismo vs. anti-essenzialismo, ecc…). Avete visto quanto sia duro da far accettare? Se potessi farei costruire in vostro onore un’idra a cinque teste nella piazza principale del mio paese.

    Attenzione: non un superamento dialettico, bensì paradossale. Ne volete un immagine suggestiva e razional-titillante? Pensate al nastro di Mobius (coi puntini sulla o…): dov’è la distinzione interno/esterno? A questo proposito ripropongo il commento un po’ trascurato di @DiegoV:

    «Vorrei solo ricordare Lacan, quando dice che l’uomo è irrimediabilmente separato dalla Cosa, a causa del suo essere abitato dal linguaggio.
    Il linguaggio si fonda sulla capacità di astrazione e a sua volta é il fondamento del simbolo, di ogni simbolo, compresi quelli geometrico-matematici.
    Di sicuro possiamo parlare di un’immanenza organico-biologica che ha a che fare con la vita e il suo dispiegarsi, ma non possiamo avervi alcun accesso diretto e alcuna comprensione profonda, proprio perchè la nostra mente è irrimediabilmente informata dal linguaggio.»

    Non sono convinto che il Reale si quella cosa organico-biologica a cui lui si riferisce, in ogni caso la questione importante è che non può esistere un fuori assoluto, perché tutto è mediato dal linguaggio ed è quindi potenzialmente (e praticamente) preda del potere. Gli spazi di libertà cui l’etica deve tendere sono paradossalmente interni al potere. Lacan diceva che non esiste un meta-linguaggio.
    Insomma: nessuno è vergine.

    Il tema è politicissimo ed il vero problema è inventare pratiche realmente disassoggettanti e disassoggettivanti (consiglio in proposito caldamente l’ultimo corso al College de France di Michel Foucault appena uscito in traduzione italiana) e, da un altro punto di vista, sfuggire per quanto possibile dai trabocchetti del potere nelle pratiche di linguaggio, come la letteratura.

    E Tolkien? Bhé, da quello che ne dice Wu Ming fa proprio questo: problematizza un’etica “classica” eroica rendendola indecidibile rispetto ad un’etica anti-eroica “moderna”. Il paradosso che ne viene fuori, l’indecidibilità in termini “tradizionali” stuzzica purtroppo il basso gusto esoterico di alcuni babbei a cui, per inciso, direi che se T. volesse dire senza dubbio quello che credono, non piacerebbe poi così tanto neppure a loro.

    Per quanto ne ho visto io, il racconto tolkieniano è assolutamente etico in quanto, sempre in ottica psicanalitica-lacaniana, reppresenta con grande forza la bruciante sconfitta dell’Uomo (lo he-man citato anche da Adorno nei Minima moralia) e l’isanabile ferita (come dice WM) del mezzo-uomo che fa esperienza della propria isuperabile mancanza-ad-essere, impossibilità di essere completo (l’amputazione del dito non è un evidente richiamo all’evirazione indi castrazione?), tanto da rendere problemetico per lui (e solo per lui che ne ha “conoscenza”) un atto apparentemente inappuntabile dal punto di vista etico, come quello della resistenza armata al male.

  132. CASSERI, DE TURRIS E I SAVI DI SION

    A dispetto della retorica eroica, un atteggiamento tipico dell’estrema destra italiana è sempre stato il vittimismo. Non c’è da stupirsi quindi di ritrovarlo anche questa volta. Su “Il Giornale” di oggi, Gianfranco De Turris si fa difendere dagli amici e tiene la parte di quello che frequentava intellettualmente Casseri per puro caso e saltuariamente. Pare che dello scritto di Casseri sui Protocolli dei Savi di Sion lo interessasse la “lettura di quel celebre testo, non visto come pamphlet antisemita ma come un romanzo antiutopico che, a inizio del ’900, voleva mettere in guardia da alcuni pericoli che avrebbero potuto verificarsi in futuro, e che in parte certi studiosi contemporanei denunciano. E questo ho scritto nella prefazione.”

    Dunque la cosa interessante sarebbe che Casseri interpretava i famosi Protocolli come fiction, letteratura fantastica, il campo di interessi di De Turris. Una fiction che avrebbe prefigurato gli sviluppi storici del presente.
    Ecco le parole di Casseri: “La questione della veridicità dei Protocolli si ripropone oggi in maniera sempre più inquietante. A chi si sente attratto da tale inquietudine – non dissimile, ripeto, da quella che alcuni traggono dalla fantascienza impegnata – consiglio di leggere i Protocolli, raccomandando di far presto: c’è il rischio che molte di quelle anticipazioni diventino storia, perché in larga misura il mondo descritto in quelle pagine è appena dietro l’angolo, se non è già qui. E la colpa di chi si celava dietro agli inesistenti Savi di Sion non stava nell’ordire piani segreti per sottomettere l’umanità, bensì nell’aver previsto il presente. Che poi a condurci a questo presente sia stato lo spontaneo progredire della storia, anziché le bieche macchinazioni di Grandi Vecchi, costituisce una misera consolazione.”
    Tutto chiaro. Casseri, ispirato dal maestro Julius Evola, sostiene “la veritiera falsità dei protocolli”. Il documento è un falso, ma il contenuto invece sarebbe stato verificato dallo “spontaneo progredire della storia”.
    Qual è il contenuto dello scenario “antiutopico”, dunque?

    Casseri lo illustra mettendolo in parallelo con i testi di osservatori critici del capitalismo nell’era della globalizzazione: speculazione finanziario-affaristica, dominio dei mercati, utilizzo dei media per conculcare le masse, sovrapproduzione di leggi e trattati per irretire l’azione dal basso, etc. Ma nei Protocolli tutto questo non è nemmeno per un attimo disgiunto dall’intenzionalità di un gruppo di persone identificabile come la lobby giudaica. Quando Casseri cita il passo dei Protocolli in cui si auspica che “la speculazione concentri nelle nostre mani tutte le ricchezze del mondo”, di quali mani si sta parlando? Quelle degli ebrei. Quando Casseri cita il passo dei Protocolli su illuminismo e rivoluzione francese (“sopra le rovine di una aristocrazia naturale ed ereditaria, costruimmo un’aristocrazia nostra a base plutocratica. Fondammo questa nuova aristocrazia sulla ricchezza che noi controllavamo”), qual è il soggetto in questione se non gli ebrei (e i loro alleati, s’intende)?
    L’argomentazione è sottile e nicodemitica: quello che viene buttato fuori con gran sbattere di porte – perché tutti sentano – rientra da una finestra socchiusa, sul retro, dietro la maschera della critica letteraria, dato che i Protocolli vengono paragonati a un romanzo di fantascienza. Ma l’antisemitismo di cui trasuda il falso storico non è fantascienza per il romanziere che l’avrebbe scritto: è l’elemento portante di tutto il testo.

    E veniamo infatti a costui/costoro.
    Se i Protocolli sono letteratura, come mai Casseri spende la maggior parte delle pagine a tentare di smontare ogni attribuzione esistente?
    E’ presto detto: perché se tutte le ipotesi sono infondate, se i Protocolli sono “il-libro-che-nessuno-ha-scritto”, allora può averlo scritto chiunque. E se può averlo scritto chiunque allora ogni ipotesi è tenuta in gioco.
    Ecco le sue parole: “In tutta questa vicenda il vero feuilleton è costituito dai Protocolli o dalla raffazzonata ipotesi sulla autentica origine degli stessi?”. E ancora: “In fondo, che differenza c’è tra il voler credere all’esistenza dei Savi, e il voler credere in una tesi inconsistente sulla formazione dei Protocolli?”.
    Casseri afferma che l’accanirsi degli storici a difendere attribuzioni secondo lui infondate sarebbe dovuto alla “riluttanza ad abbandonare un’ipotesi che costituisce il solo appiglio per chi nega che i Protocolli siano stati scritti dai Savi”. Del resto, nel suo pamphlet, attribuisce lui stesso ai “Savi” le citazioni dai Protocolli (forse senza nemmeno accorgersi del lapsus).
    In questo senso è molto più candida la chiosa di De Turris nella prefazione: “E se questi fantomatici programmi su politica, economia, vita sociale, morale, religione eccetera per disintegrare la società dei “gentili” e controllarla, inavvertitamente avessero un minimo di riscontro nella realtà effettuale dell’ultimo secolo, cioè negli anni successivi alla elaborazione dei Protocolli (1902-05), beh allora il caso non sarebbe chiuso e lo si dovrebbe ridiscutere in una nuova luce” (citato su Il Giornale di oggi).
    Il caso non sarebbe chiuso? Be’, di sicuro non è chiusa la finestra sul retro.

    “Non vi sono dubbi su quali siano gli scopi del Giudaismo : da una lato si serve di altisonanti principi democratici e egualitari per livellare il corpo sociale e istituzionale delle società non ebraiche; dall’altro lato conduce ad una identificazione nazionalistica e razzistica che innalza il popolo ebraico al rango di popolo “eletto” conformemente alle disposizioni della Torah , del Talmud e del documento programmatico noto come “Protocolli dei Savi Anziani di Sion” ovverosia del programma di accampamento, occupazione e spoliazione delle nazioni gentili.”
    (Julius Evola, “Psicologia criminale ebraica”, 1939)

    “Si assiste ad una negrizzazione, ad un meticciamento e ad un regresso della razza bianca di fronte a razze inferiori più prolifiche.
    Naturalmente, dal punto di vista della democrazia in un tale fenomeno non si trova nulla di male, al contrario. Si sa dello zelo e della intransigenza dimostrati negli Stati Uniti dai fautori della cosidetta «integrazione razziale», la quale non può che favorirlo ulteriormente. Peraltro, costoro non solo propugnano la completa promiscuità razziale sociale e vogliono che i negri abbiano accesso libero a qualsiasi carica pubblica e politica (per cui, di rigore, ci si potrebbe aspettare, in avvenire, anche un presidente negro degli Stati Uniti), ma non hanno nulla da eccepire che i negri mescolino il proprio sangue con quello del loro popolo di razza bianca.”

    (Julius Evola, “L’arco e la clava”, 1957)

  133. *desoggettivanti ;)

  134. L’intervista che mi ha fatto Peacereporter sulle letture ideologiche di Tolkien:

    http://www.eilmensile.it/2011/12/22/i-fascisti-italiani-e-tolkien/

  135. @Ekerot

    Perdonami se mi intrometto rispondendo ad un post che non era rivolto a me.
    Non credi però che considerare una interpretazione filologica (che è quello di cui cerco di occuparmi…) giusta e tutte le altre sbagliate sia un modo di ricadere nella subdola dicotomia del Potere? Che è più forte, più invasivo, più produttivo (e questa è la cosa peggiore) di quello che magari immaginiamo…

    Temo che l’interpretazione che tu (in parte giustamente) consideri corretta, ci metta un attimo ad essere “riassorbita” dal potere. Come? Per esempio diventando strumento di lotta e di identificazione (=identità): noi vs. loro.

    Per quanto mi riguarda tutte le interpretazioni sono sbagliate, come nessuna parola, perfino la più semplice, potrà mai centrare e definire completamente l'”oggetto” a cui si riferisce. Mi rendo conto che questo crei delle difficoltà, ma credo sia l’unico punto di partenza possibile.
    Era il paradosso a cui mi riferivo.

  136. x Wu Ming 4: scusa se piallo ancora su questo tema, però credo che rischi di finire sempre sottostimato. La sintesi dell’intervistatore manca di un puntello. Perché il problema vero, non nella società civile ma nel contesto tolkieniano, non è che De Turris & Co. siano evoliani, di destra, etc. Se avessero detto delle cose sensate, stimolanti, interessanti (non voglio dire ‘giuste’ perché mi pare esagerato), e soprattutto basate sui testi, noi avremmo potuto brontolare sui loro trascorsi, ma avremmo avuto un’interpretazione sana, una guida non faziosa per i lettori, delle opere di Tolkien.

    Invece questo non è avvenuto. Quindi il problema, in questa situazione, è che hanno scritto delle boiate. Non, ripeto, che siano evoliani.
    Se noi non mettiamo bene in luce tale fatto, viene impoverito anche lo sforzo che tu e altri intellettuali state portando avanti (a scanso di equivoci, tu lo hai ribadito più volte, io parlo di impressione esterna che desumo dall’intervista): le critiche da voi apportate non sono più puntuali perché vengono da sinistra, ma perché cercano di essere filologiche. Allo stesso modo in cui le interpretazioni di De Turris non sono errate perché vengono da destra, ma per i loro contenuti.

  137. Francioso credo che WM1 abbia risposto al tuo dubbio. Ho voluto proprio scrivere “non dico giuste perché mi pare esagerato” proprio per indicare che non esistono interpretazioni giuste.
    Ma esistono interpretazioni corrotte: sia da chi sfrutta l’opera altrui per propagandare ideologie proprie, sia da chi non analizza l’opera.
    Non pretendo che un critico studi il SDA per 40 anni prima di parlare, ci mancherebbe. Ma pretendo, come lettore, che almeno si informi un po’ in giro e nel corso degli anni amplifichi il proprio raggio d’azione e d’ascolto. E magari che si legga attentamente l’opera, per evitare strafalcioni come quelli su riportati.

  138. Un’opera, qualunque opera, contiene in potenza tanti mondi diversi, allegorie aperte. A meno che l’autore non avesse in mente pedisseque allegorie “a chiave”, con strettissime e meccaniche corrispondenze tra elementi della narrazione ed elementi del mondo extra-testuale (ma anche in quei casi l’opera non è mai scevra da “lapsus” ed “eccedenze” che schiudono altri scenari), nessuna lettura può essere imposta come l’unica legittima e possibile, perché il mero atto di leggere cambia l’opera. Rileggere un romanzo a 40 anni significa trovare un libro diverso da quello che si era letto a 16 anni, e nessuna lettura sarà mai uguale all’altra perché siamo tutti diversi.
    Per quanto riguarda l’interpretazione critica, è importante tenere conto del contesto storico e culturale in cui il libro è stato scritto, delle circostanze in cui l’autore ci ha lavorato etc., in modo da avere dei gradi di plausibilità, di rigore analitico etc. ma questo non significa “chiudere” il libro e dire: “Vuol dire questo e basta”. Un’opera letteraria non apre la via a un Uno, ma tiene aperte le vie del molteplice.
    Il problema delle letture destrorse di Tolkien è proprio questo: l’esegesi simbolistica ed “esoterica” pretende di *chiudere* le opere di Tolkien, di tracciare una Via Maestra per la loro lettura (quella che porta invariabilmente alla Tradizione). Inoltre, in Italia tale esegesi è stata fatta per decenni “in regime di monopolio”: l’egemonia degli evoliani ha impedito ad altre interpretazioni di arrivare sino a noi.
    La battaglia culturale specifica è consistita nel *riaprire* Tolkien, nel liberare la sua opera e la sua poetica dalla gabbia concettuale che l’estrema destra aveva costruito. Soffiare via la cappa di fumi mefitici dell’Uno fascista, per permettere ad altre letture di ricostituire la molteplicità del mondo narrativo e poetico di Tolkien.
    Per far questo, ovviamente, si è dovuto anche spiegare quali distorsioni, strumentalizzazioni e vere e proprie invenzioni avessero operato gli evoliani. Ma non lo si è fatto per dimostrare che la Via Maestra è un’altra, bensì per aprire altri passi e sentieri, alzare le sbarre, togliere i pedaggi, cacciare via i doganieri in camicia bruna.

  139. @Ekerot
    senza un briciolo di polemica, credo che WM1 abbia risposto ad entrambi. Ma più a te che a me! ;) Però non voglio assolutamente farne una questione di torto vs. ragione.
    Sono pienamente daccordo con la sua impostazione: attitudine critica alla Adorno, da esule, sfuggente, obliqua. E questa è certamente favorita dallo studio che tu “pretendi”. Tuttavia diffido anche degli specialisti che credono a quello che dicono e «tracciano la Via Maestra».

    Una psicanalista francese, Colette Soler, dice che tutti “sentiamo le voci”: c’è chi ne soffre come di un attacco alla propria identità (il nevrotico); c’è chi ne sceglie una e perfino ci crede (lo psicotico). Non di rado questa voce sussurra ossessivamente all’orecchio dell’Uomo di purificare il mondo dallo sconcio del diverso.
    Poi c’è chi sceglie di godere della loro sinfonia. Oh, perfino delle cazzate!
    :)

  140. Scrive Ekerot: “Quindi il problema, in questa situazione, è che hanno scritto delle boiate. Non, ripeto, che siano evoliani.”
    Io sono d’accordo, ma purtroppo temo che le due cose siano collegate: le strategie culturali di Evola rispetto a un autore come Bachofen (ne parla ancora Jesi in “Cultura di destra”) non sono dissimili da quelle che i suoi discepoli hanno applicato a Tolkien, vale a dire appunto costruire una gabbia intorno all’autore approfittando del fatto che lo si è importato in un paese provinciale come l’Italia dove l’inglese (nei primi anni Settanta) lo leggevano in pochissimi. Quindi sì, il problema è il pressapochismo e la poca serietà di questa gente, ma questo atteggiamento pressapochista non è speso a casaccio, bensì per raccontare un autore immaginario, che non corrisponde a Tolkien e per fargli dire cose che nelle sue storie non ha mai inteso dire. E questo risponde a una finalità politico-culturale ben precisa.

    Certo, ha ragione Francioso a sottolineare i rischi di sostenere un’unica interpretazione “vera” contro tutte le altre, ma questo non significa accettare *ogni* interpretazione. Dal mio punto di vista la cosiddetta “interpretazione tradizionalista” di Tolkien non ha alcuna dignità, per il semplice fatto che non ha basi concrete, non ha punti d’appoggio e quelli che trova sono tali solo perché accuratamente selezionati e astratti dal contesto.
    Oggi esiste per fortuna la collana Tolkien e Dintorni della casa editrice Marietti 1820 che pubblica saggi appartenenti a tutte le correnti interpretative serie sull’autore (manca ancora quella ecologista, ma arriverà). Se uno volesse farsi un’idea generale, anche senza sapere niente di specifico su Tolkien, e avesse il tempo di leggere un solo libro, dovrebbe leggersi il bellissimo saggio di Brian Rosebury, “Tolkien un fenomeno culturale”. Nel capitolo 5, “Il posto di Tolkien nella storia delle idee”, dove l’autore fa un’ottima panoramica sulle varie correnti interpretative, non c’è traccia di quella “tradizionalista”. Perché? Per il semplice fatto che non esiste se non nella testa di De Turris & soci, si è sviluppata soltanto in Italia, e solo guardandosi bene dal confrontarsi con le altre (perché non reggerebbe mezzo secondo).

    Quindi per concludere su quanto dice Francioso, non c’è nessuna Via Maestra, ci sono diverse vie, diversi approcci all’opera di un autore, ma alcune cercano di fondarsi sulla lettera del testo – dato che è di critica letteraria che stiamo parlando – e magari producono interpretazioni differenti, altre invece si autoalimentano proprio prescindendo dalla lettera del testo. C’è una certa differenza.

  141. Quest’ultimo intervento di WM1 è davvero illuminante sul senso di qualsiasi operazione di critica letteraria *materialista*. Perché secondo me il vero punto discriminante è questo, al di là del fatto che si dia un’interpretazione dell’opera di Tolkien come opera fascista piuttosto che reazionaria piuttosto che conservatrice. Il punto è che si interpreta un oggetto narrativo come qualcosa che ha un rapporto col mondo materiale in cui è stato concepito e quindi come se fosse… *un intervento dal pubblico* nella grande assemblea permanente della cultura mondiale. Magari quello che è intervenuto è fascio o pirla, se sarà così lo faremo notare, magari ha detto una cosa opinabile ma comunque interessante, magari ha fatto l’interventone geniale che apre gli occhi a tutta la platea. Quel che conta è che si tratta di un intervento e non della Introduzione del Relatore. Si tratta di un commento nel thread e non del Post.

    Le interpretazioni idealistiche (il simbolismo è senz’altro una forma di idealismo filosofico, e il discorso qualche commento fa sui “simboli innati” ecc. mi sembra lo abbia messo in luce) invece prendono alcuni autori come se fossero evangelisti, che scrivono qualcosa che non è frutto della loro testa e di questo mondo, ma di una sorta di ispirazione divina metafisica. Quando noi materialisti diciamo che un’opera tradisce contenuti che eccedono le opinioni e le intenzioni consapevoli dell’autore, diciamo che tramite quell’autore parla un’intera epoca, parla un’intera comunità umana. Loro invece intendono proprio che l’autore è un semplice medium che evoca spiriti metastorici; la critica diventa un esercizio sterile di corrispondenze, una Smorfia per interpretare i sogni e giocarseli al lotto. “77 – le gambe delle donne! 9 agli uomini mortali che la triste morte attende – la strage di senegalesi!”

    Vorrei allora porre una questione e sentire cosa ne pensate. Nel caso di Tolkien l’operazione di critica che ha fatto WM4 fa leva sul fatto che l’appropriazione fascista di Tolkien sia indebita. Questo rafforza naturalmente l’importanza del discorso, perché costoro hanno costruito un castello sulla sabbia ed è più facile tirarlo giù. Eppure, l’operazione non consiste in un procedimento puerile di ribaltare il gioco dei fascisti dicendo che invece Tolkien la pensa come noi; Tolkien la pensa in un certo modo, racconta una storia su cui pesa la sua visione del mondo, ma questa storia noi la mettiamo in rapporto col mondo stesso e con la cultura umana e la usiamo per fare dei ragionamenti con la nostra testa. Questi ragionamenti possono anche condurci (e direi che in molti casi ci conducono) a dire il contrario di quel che probabilmente pensava l’autore. Mi piace molto la definizione che dà Milan Kundera del romanzo come “un esperimento antropologico”; se l’esperimento è ben costruito, ha una sua plausibilità (rispetto alle sue stesse premesse, quindi la cosa vale anche per il fantastico), chiunque ne può trarre le conclusioni che ritiene, l’autore ha scelto di presentarci un esperimento perché forse voleva condurci a certe conclusioni ma proprio perché ha creato un’allegoria aperta e non una parabola evangelica ci ha lasciato uno spazio di libertà.

    Ora, e giungo alla mia domanda, tutto questo si può fare con efficacia anche con opere, e autori, veramente fascisti? Io credo di sì. Il punto che conta secondo me è “mettere sui suoi piedi quel che è a testa in giù”. Il fascista che strumentalizza “il Signore degli Anelli” o – ancora più paradossalmente – “Fight Club” o “Arancia meccanica”, per usare due esempi che mi tornano spesso in testa, non li tratta come oggetti narrativi che esistono nel mondo materiale. Li tratta come dei vangeli. Fa lo stesso con opere che magari sono fasciste o fascistoidi davvero, roba di D’Annunzio o di Ezra Pound che magari è pure in qualche modo di valore, o robaccia come “300”. Ripete ossessivamente le battute ad effetto, si identifica in modo puerile coi protagonisti prendendoli a modello, recita le poesie come salmi o mantra fatti per svuotare il cervello invece che riempirlo. Inquadrare un’opera per quello che è, prenderla come punto di partenza per un discorso e mai come punto di arrivo, secondo me è un modo che vale sempre per far fruttare quel che contiene di fecondo e per neutralizzare quel che contiene di mortifero.

  142. @ Mauro Vanetti

    Sia chiaro: quando rivendico una critica che parta dal testo non sto proponendo di feticizzarlo o di considerarlo come il Vangelo (c’è gente che con Tolkien lo fa, quindi è giusto specificare). Un testo parla diverse lingue, contiene sempre più della sommatoria delle parole, è evidente. Voglio però distinguere un approccio intellettualmente onesto da un approccio furbesco. Perché se togliamo di mezzo questo paletto, allora vale tutto – anche le cazzate, per citare Francioso – e allo stesso tempo non vale niente. I ragionamenti che facciamo a partire da un’opera letteraria devono avere una base d’appoggio. Poi è vero, come dici, che “possono anche condurci (e direi che in molti casi ci conducono) a dire il contrario di quel che probabilmente pensava l’autore”. E questo è uno dei motivi per cui bisogna saper distinguere tra pensiero dell’autore e opera letteraria (cosa che nel caso di Tolkien non sempre avviene, giacché l’epistolario viene spesso usato in maniera scriteriata, come se fossero le Confessioni di Sant’Agostino). L’autore prima o poi lascia il mondo, mentre la letteratura è materia che rinasce ogni volta che viene letta.

  143. mi sono loggato alle 11.00 e ho premuto invio alle 16.00, nel frattempo ho lavorato in laboratorio, risposto al telefono, mandato l’idraulico a casa che mi perdeva il bidet, stappato una bottiglia coi colleghi e non mi ricordo che altro…
    ma la discussione è andata avanti inesorabilmente, è bello discutere con voi, ma prendetevi una pausa! :-)

    Volevo scrivere ancora una roba in risposta alla boutade di saint-just http://www.wumingfoundation.com/giap/?p=6365&cpage=1#comment-10060

    Sono un a tutti gli effetti un tigrotto salgariano (non a caso ho scritto questo: http://bit.ly/rsKUTy), ma per onor di verità – e nonostante l’invidiabile biasimo che è riuscito a guadagnarsi presso i fascisti http://bit.ly/kbTGHN
    mi vien da dire che il mio caro Emilio non c’aveva nemmeno un quarto della profondità di pensiero di Tolkien.

  144. @Wu Ming 4 (pensato prima di leggere il tuo ultimo commento)

    Sei proprio sicuro di volerti stabilire in quel lussuoso attico vista mare che è il metodo filiologico? Certamente si tratta del metodo di critica ai testi letterari che oggi ha la miglior patente di razionalità, il maggior prestigio, la diffusione più alta… eppure non è certo sempre stato così e non è di certo una entità extrastorica.
    Il metodo filologico ha un’origine ed uno sviluppo storico affatto indipendente dal Potere, né più né meno di ogni altra disciplina/ discorso di metodo (vedi di Giovanni Leghissa, Incorporare l’antico. Filologia classica e invenzione della modernità, 2008, Mimesis).

    So che non ti andrà bene, perché mi dirai che non hai proprio voglia che si possa dire qualunque cazzata, che tu starai sempre con Sam e gli Hobbit che cacciano a calci in culo i cattivi dalla Contea. E fai bene: difficile darti torto.
    Eppure c’è chi a questa battaglia proprio non vuole partecipare e non perché si senta superiore, tutt’altro…
    E non può essere un caso che Tolkien li abbia descritti entrambi.

  145. Finalmente riesco a connettermi con il tempo sufficiente a leggermi tutta la discussione.
    Il passare dei giorni ha fatto sì che molte delle cose che desideravo scrivere le abbiano scritte altri, di questo vi sono grato: da una parte sento di non essere solo e dall’altro limito il mio commento a cose che ancora non sono state discusse.

    un piccolo aneddoto per illustrare una strategia culturale utilizzata (anche, ma non solo) da certi personaggi:

    Maggio 2010, al Salone del libro di Torino m’imbatto casualmente nella presentazione di “Ambigue utopie”, un’antologia di “19 racconti di fantaresistenza” http://bit.ly/txDcNI
    Sono un amante di certa fantascienza (Le Guin, Dick, Delany, Vonnegut, Ballard etc.) e mi ci infilo.
    Sono presenti i curatori Pizzo e Catalano, introduce e modera il dibattito De Turris.
    Ecco, quel giorno il nome De Turris non mi dice nulla. Ma quando attacca a parlare i recettori animaleschi mi si drizzano le orecchie: “Costui è un fascista”, penso. Lo si capisce dalla coltre di deliberato confusionismo politico/letterario, dall’accezione utilizzata per chiosare la celebre frase di Borges secondo la quale tutta la letteratura è fantastica, fino poi a svelarsi rivendicando con cameratesco orgoglio la curatela di un’antologia di racconti di “Fantafascismo”.
    Dopo gli interventi di Pizzo e Catalano, si accende il dibbbattito: dal pubblico una persona dice che non ha senso fare un’antologia di racconti di sinistra, perché la fantascienza è per definizione di sinistra. Le risposte dei curatori sono brevi e concise e confutano in maniera ragionevole la tesi esposta. De Turris e un’altra persona del pubblico (curiosamente anche lui in camicia nera per l’occasione) invece, compiono una particolare operazione: la buttano in vacca. Infatti entrambi, anche se con toni diversi, lamentano l’ideologizzazione della narrativa fantastica, l’eccessiva politicizzazione degli autori è la perdita d’ingenuità dei lettori; tutto ciò, asseriscono, non giova alle opere, alla loro fruizione e alla loro bellezza. Bellezza, che sostengono, sussiste solo nel momento in cui sia scevra da allegorie politiche – sia di destra che di sinistra! precisano entrambi – dettate dalle meschine contingenze storiche. Infine entrambi concludono con un peana per la leggendaria space opera degli anni ’50 che tanto faceva sognare e che metteva tutti d’accordo.
    Da lì in avanti il dibattito è prima finito in gazzarra e poco dopo si è chiuso.

    La nostalgia dei Tempi d’Oro in cui la letteratura (il cinema, la musica, etc.) era sogno, astrazione dalla realtà, divertimento puro, e il pianto per la dipartita di un’umanità ingenua che sapeva godere degli intrattenimenti senza farsi troppe domande: ecco elementi di una strategia che a destra si usa molto comunemente. Una strategia “tarallucci e vino” che se da un lato inneggia al disimpegno, al superamento delle opposte ideologie, alla conciliazione (come per i caduti della RSI), è di fatto un’ulteriore modalità per fare pappa indiscriminata delle narrazioni per poterle poi rivendere pervertite come avulse dalla storia e dalla società.

    Torniamo a Tolkien. SdA non è “La fattoria degli animali” di Orwell, ma anche qui le vicende e i personaggi parlano con e degli esseri umani del novecento. I dubbi di Frodo, l’umile buonsenso di Sam, la determinazione di Eowyn, l’amicizia fra Legolas e Gimli. Quanti agganci con la nostra storia e con il nostro quotidiano si possono trovare? Non si tratta di far diventare Tolkien un comunista rivoluzionario, si tratta di capire se la sue storie parlano di noi e del nostro mondo e come.

    In una celebre lettera a Milton Waldman, Tolkien scrive:

    “Detesto l’Allegoria – l’allegoria cosciente e intenzionale – , eppure qualsiasi tentativo di spiegare il significato del mito o della fiaba deve per forza adoperare il linguaggio allegorico. (E, naturalmente, più un racconto ha “vita”, più direttamente esso sarà suscettibile d’interpretazioni allegoriche: mentre, più è ben fatta, più un’allegoria consapevole risulterà accettabile come racconto in sé).”

    Ecco, io credo che con queste parole Tolkien tagli le vele sia a chi si affanna a far della sua opera una cascata di simboli immanenti, sia a chi vorrebbe astrarla dal piano delle cose che riguardano l’essere umano in questo lungo frangente storico.

  146. @ Francioso,
    sono filologa di formazione, ma devo dire che dalle mie finestre non ho mai visto il mare, ma solo alberi (genealogici, delle famiglie dei codici/testimoni/varianti) :-)!
    Credo che ci sia un leggero scarto di significato tra la filologia letteraria e la filologia così come la tratta Leghissa, da una prospettiva filosofica e inquadrata in un preciso contesto storico e geografico.
    Concordo pressoché in toto con Mauro Vanetti: per me è quella lì la filologia che “serve” alla lettura dei testi. Un metodo (ché questo è, intimamente, la filologia: una cassetta degli attrezzi) per prendere un’opera, girarla e rigirarla tra le mani, e poi metterla a disposizione per dare inizio a un discorso, a una pluralità di discorsi.
    Il problema di Tolkien è il manifesto problema della letteratura: pochi la studiano, molti la “fruiscono”.
    E se sono poco attenta, e se non mi va di approfondire, e se non so come si fa ad approfondire, e se la mia lettura critica preferita è il Bignami (esiste ancora?), bè il climax è bell’e pronto: “Tolkien è portatore dei sani valori della Tradizione, i nostri valori, la nostra identità… è il nostro Maestro, percorriamo la Via da lui tracciata…”.
    In una condizione così (ma qui sto ripetendo quanto già detto), solo la cara vecchia umile cassetta degli attrezzi filologica ci aiuta a scardinare un meccanismo ben innescato, con la pazienza e la tigna di uno sminatore…

  147. @ Francioso

    io non credo al Potere con la “p” maiuscola. Credo alle relazioni di potere (di classe, di genere, di proprietà, di produzione, di linguaggio etc.). Sta a te trovarmi qualcosa – una disciplina, una metodologia, uno sguardo – che sia indipendente dalle relazioni di potere. E comunque mi sembra che il discorso stia tornando astratto, allontanandosi dai testi.
    Sulla filologia, riporto una definizione celeberrima:

    «Fa anche parte del mio gusto non scrivere più nulla che non porti alla disperazione ogni genere di gente “frettolosa”.
    Filologia, infatti, è quella onorevole arte che esige dal suo cultore essenzialmente una cosa, trarsi da parte, lasciarsi tempo, diventare silenzioso, lento, essendo questa un’arte e una perizia di orafi della parola, che deve compiere un finissimo attento lavoro e non raggiunge nulla se non lo raggiunge lento. Ma proprio per questo fatto è oggi più necessaria che mai. E’ proprio per questo mezzo che essa ci attira e ci incanta quanto mai fortemente, nel cuore di un’epoca del “lavoro”, intendo dire della fretta, della precipitazione indecorosa e sudaticcia, che vuol dire “sbrigare” immediatamente ogni cosa, anche ogni libro antico e nuovo: per una tale arte non è tanto facile sbrigare una qualsiasi cosa, essa insegna a leggere bene, cioè a leggere lentamente, in profondità, guardandosi avanti e indietro, non senza secondi fini lasciando porte aperte.»
    F.W. Nietzsche, Crepuscolo degli idoli

    Per me questo brano è magistrale. E’ sempre una questione di *tempi*. Riprenderseli, riconquistarli, interrompere la fretta sudaticcia, non sparare la prima cazzata che viene in mente, e nemmeno la seconda o la terza.

  148. @ Francioso

    Probabilmente vorrai replicare agli altri, quindi ti faccio solo una domanda, perché sono un po’ lento (anche se non sono filologo :-) e non ho afferrato bene il tuo discorso. Magari se riavvolgo il nastro dalla fine capisco meglio…
    In che senso “non può essere un caso che Tolkien li abbia descritti entrambi”?

  149. Poco alla volta:

    @ Wu Ming 4
    semplicemente che se nel SdA è inserita una valida riflessione etica (che mi pare sia parte centrale dell’epica, ma mi sto allargando troppo) questa non possa che “rispecchiare” (ahi!) la dimensione di paradosso, di indecidibilità della stessa…

  150. @Danae
    “Silva portentosa” :) anche se avrei immaginato per te una casa senza finestre…

    @Wu Ming 1
    sta a me quanto a te :) e comunque ti do ragione sui poteri.

  151. @ Francioso

    Mi dispiace, non ti capisco. Limite mio, senza dubbio.

  152. @ tutti
    voglio esser chiaro, anche se forse non dovrei.
    Non credo che ora come ora ci sia un metodo migliore di quello su cui si è formata Danae, che è sicuramente diverso da quello considerato da Leghissa, perché ha subito un’evoluzione storica, ma ciò non significa che non debba anch’esso essere considerato «da una prospettiva filosofica e inquadrata in un preciso contesto storico e geografico».
    Mi sono convinto del fatto che gli spazi di libertà che riusciamo a prenderci, istantaneamente subiscano un tentativo di riassorbimento che spesso ha successo.
    Ho l’impressione che Danae e Wu Ming 4 abbiano un po’ eluso questa questione (che è un po’ OT). La vogliamo dare o no una soffiata alla polvere sui manoscritti? :)

  153. @ Wu Ming 4
    cosa non ti è chiaro?

  154. @ Francioso

    Evidentemente mi mancano gli strumenti per capire il tuo discorso (non ho letto Leghissa e non sono un filologo), che quindi mi risulta fumoso. Mi spiace.

  155. @ Wu Ming 4
    Dispiace a me ed è sicuramente un mio limite nell’esposizione.
    Ho voluto mescolare, in maniera sicuramente impropria, l’oggetto (SdA) ed il soggetto di studio (il critico/filologo)…

    Quale consideri sia (se consideri ce ne sia uno) il messaggio etico di SdA?

    Questo messaggio etico non può essere applicato ai diversi campi dell’esistenza, di cui la filologia/critica letteraria non è che uno?

  156. @ Francioso

    Sicuro di non volermele dare tu le risposte? Il messaggio etico del SdA può anche essere riassunto in un paio di frasi, ma sarebbe riduttivo. Soprattutto perché, sì, penso possa essere applicato a diversi campi dell’esistenza.

  157. @ Wu Ming 4

    Le ho già date! E sono daccordo con te! Perché non è affatto un messaggio semplice, non può esserlo se vuole essere genuinamente etico:

    «Per quanto ne ho visto io, il racconto tolkieniano è assolutamente etico in quanto, sempre in ottica psicanalitica-lacaniana, reppresenta con grande forza la bruciante sconfitta dell’Uomo […] e l’isanabile ferita (come dice WM) del mezzo-uomo che fa esperienza della propria isuperabile mancanza-ad-essere, impossibilità di essere completo […], tanto da rendere problemetico per lui (e solo per lui che ne ha “conoscenza”) un atto apparentemente inappuntabile dal punto di vista etico, come quello della resistenza armata al male.»

    Se, dunque, da un lato è giusto distinguere il bene dal male e combattere quest’ultimo, è altrettanto giusto dubitare del nostro metodo di scelta, del nostro criterio di giudizio, della nostra stessa capacità di giudizio, e non è detto che questo non ci conduca ad una impasse simile a quella di Frodo. Altro che “eroe che non fallisce”…

    Ho semplificato troppo? Spero di no.

  158. @Francioso & WM4
    A me pare che ci sia una differenza tra lettura filologica (ovvero: un metodo) e lettura onesta (ovvero: un’etica). E mi pare che la lettura di De Turris sia soprattutto disonesta (perché di uno che si occupa da 40 anni della materia è difficile pensare che sia solo frettoloso e sudaticcio).
    La lettura disonesta secondo me consiste:
    1) Nello sfruttare una rendita di posizione per evitare che altre letture si confrontino con la tua.
    2) Nel trascurare a bella posta alcuni passaggi del testo (perché a un’opera di narrativa puoi farle dire tante cose diverse, ed è magari questione di metodi, ma analizzarla nella sua integrità mi pare un prerequisito etico. Altrimenti non si fa critica, si fa censura.)
    3) Nell’introdurre passaggi che nel testo non ci sono (posso dare mille interpretazioni della Genesi, ma se dico che secondo la Bibbia Dio creò la donna dai piedi di Adamo, faccio un strafalcione, e se poi insisto nell’errore, faccio un torto a chi mi legge)
    4) Nel pretendere che la mia interpretazione sia “quel che voleva dire l’autore” e non già un’ipotesi su quel che potrebbe aver inteso.
    Tolkien ha detto questo, ha detto quest’altro. Capirei tanta smania di ricostruire un pensiero se appunto il SdA fosse Parola di Dio, ma visto che non lo è, dopotutto, che importa chi parla? Facciamo parlare l’opera, piuttosto: con mille magie, ma senza trucchi.

  159. Ritrovo la discussione con grinfie e denti belli che spuntati :)
    e siccome sono uno cui piace parlar chiaro, semplifico: sono l’unico a non nutrire la necessità impellente di scovare un messaggio etico nel SDA?
    Alla fine è solo un *romanzo*, regà, non è mica “Der Untergang des Abendlandes”!
    E daje…

  160. @ Francioso
    “quel lussuoso attico vista mare che è il metodo filiologico” – refuso a parte, sa un po’ di Lukács o sbaglio?
    Roba seria.

  161. @ franzecke

    Non stiamo intendendo – credo – “messaggio etico” nel senso di insegnamento morale. Credevo che su questo si fosse stati chiari ormai fino a stufare: il SdA non è un’allegoria morale (per altro avversatissima dal suo autore). Si intende messaggio etico nel senso di racconto del problema della scelta, del dilemma (in senso greco). Questo nel SdA c’è eccome e non è una roba semplice. Lo è soltanto per certe letture frettolose di cui parla il mio socio WM2: difesa dei valori tradizionali, dell’onore, del re, della patria. Ma se vogliamo guardare bene c’è una problematicità di ben diverso tenore, altro che Tradizione. Vedi qui di seguito.

    @ Francioso

    Credo che la lettura lacaniana del SdA mancasse ancora all’appello (finora ci si era fermati a quella freudiana). Non ho niente in contrario, sia chiaro, e l’impasse di Frodo nel lungo finale dopo l’episodio di Monte Fato è in effetti molto interessante. Frodo rimane un personaggio irrisolto, oltreché un eroe mancato (e le due cose sono inevitabilmente collegate). E’ irrisolto alla partenza, impaziente, smanioso. Compie un viaggio apparentemente in Compagnia, ma in realtà – a guardare bene – solipsistico, poiché nessuno può capire il peso che deve sopportare. Infine, dopo aver mancato l’ultima prova, quella decisiva, inizia un percorso di progressivo distacco dal mondo, nel quale rientra anche il rifiuto della violenza. Percorso che culminerà con il distacco reale.
    In definitiva non è lui che – in termini archetipici – riporta la vita dalla morte. E’ Sam. Sam erediterà la terra (e la casa) e la farà rifiorire. Anche se Frodo è stato indispensabile per determinare la vittoria su Sauron e a essa ha sacrificato tutto se stesso, quella vittoria non gli appartiene, non la sente davvero sua e nessuno gliela attribuisce, altri verranno celebrati, non lui.
    Nel destino di Frodo (nel destino umano) il bene e il male sono legati in un paradosso, in una complessità indicibile che svariati secoli prima di Lacan aveva ipostatizzato Paolo di Tarso, parlando di mysterium iniquitatis: il bene che sorge dal male.

    Per mettere altra carne al fuoco sul tema in questione, commento anche quello che secondo me è uno dei dialoghi più sottovalutati del romanzo, quello tra Aragorn ed Eòmer, la prima volta che si incontrano (libro III, cap. II). E’ necessario ignorare la traduzione italiana e ritradurre le battute, perché nella versione italiana sono rese in modo errato e il significato sfuma verso strani lidi (no comment).
    Eòmer chiede: “Come può un uomo in tempi come questi decidere quel che deve fare?”.
    Aragorn risponde: “Come ha sempre fatto. Il bene e il male non sono cambiati da ieri; non sono una cosa per gli Elfi e i Nani e un’altra per gli Uomini. E’ compito di ciascuno distinguerli, tanto nel Bosco d’Oro quanto nella propria dimora.”
    Non bisogna ovviamente disgiungere le battute dal contesto. Aragorn sta cercando di convincere Eòmer di una cosa: la necessità di disobbedire alle leggi del suo paese per prendere ciò che intimamente lui ritiene essere la decisione giusta.
    Il senso mi pare relativamente chiaro: non c’è modo di affidare il proprio destino, le proprie scelte, a qualcun altro, nemmeno alla legge del proprio re. Perché potrai trovarti sempre nel frangente in cui la cosa giusta da fare è trasgredirla. Né ti servirà nasconderti dietro il relativismo etico, cioè dietro l’idea che ciò che è bene a casa tua non è bene a casa di un altro, perché anche questo sarebbe un paravento, una parziale non scelta. Non sarà cioè il contesto a salvarti dalla necessità di scegliere: tanto nel luogo più strano quanto in quello più noto non potrai evitare di farlo. E dovrai farlo da solo, guardandoti tutt’al più allo specchio. Fosse anche lo specchio di Galadriel… :-)

  162. @ Wu Ming 4
    ok però il dilemma sta alla base di qualsiasi romanzo moderno o sbaglio?
    Questo per dire che secondo me Tolkien andrebbe semplicemente lasciato un po’ in pace: quel che intendeva dire col SDA sta tutto scritto lì, nelle sue 1200 paginette, e non mi sembra necessiti granché di un’esegesi – fermo restando che un lavoro come quello che state facendo per smantellare le deliranti architetture fascistoidi sia assolutamente necessario.
    Ma questo è tutto un altro discorso: fin troppi autori andrebbero sottratti dalle grinfie della destra italiana.

    Saluti

  163. @ franzecke

    La destra italiana basa la propria appropriazione proprio su un’esegesi. Se la vuoi smontare, bisogna che torni al testo e che lo interroghi [il metodo filologico avrà anche dei limiti, ma non me ne viene in mente uno migliore, nonostante sia ben lungi da sentirmici come in un superattico vista mare…]. Così scopri che sì, come dici tu, vi si affronta il dilemma etico che sta alla base di ogni romanzo moderno. Ma non è che ogni romanzo lo affronta allo stesso modo.
    Tolkien e quelli della sua generazione percepitavano questo dilemma come molto più importante di quanto non lo si percepisca adesso e questo era dovuto in gran parte alla storia e ai traumi che avevano vissuto.
    Secondo Tom Shippey, ad esempio, questo spiega perché nessuno degli emuli di Tolkien sia riuscito ad eguagliarlo e noi altri si stia ancora parlando di lui.

  164. @ Wu Ming 2
    Grazie, la tua distinzione mi sembra utilissima e me ne approprio, cercando di fare un passo in più. Se per i motivi che tu dici dobbiamo criticare le letture disoneste, non è affatto detto – e non è che tu l’abbia fatto – che una lettura rigorosamente filologica (intendendo con il massimo rispetto il metodo il più possibile serio, approfondito e “scientifico”) sia etica (intendendo con questa la non neutralizzazione del potenziale di libertà che un’opera dovrebbe possedere). Perché, come qualunque altro metodo tecnico, è in fondo un metodo di scelta (tra lezioni, tra varianti, errori, interpretazioni possibili, significati…) e questa scelta, in fin dei conti può essere pro o contro i poteri. Ma il tentacolo di riferimento del potere farà di tutto per neutralizzare questo spazio di libertà: come? Per esempio inserendo la filologia (che un tempo era letteralmente una eresia…) all’interno di una struttura, di un dispositivo come quello della ricerca e dell’insegnamento universitario (che poi, se vogliamo dirla tutta, ignora bellamente il SdA… ma ormai si capisce il perché). Se non ho capito male ciò che intendi, è qualcosa di simile alla rendita di posizione.

    @ franzecke
    Ammetto di aver voluto solleticare un po’ il sentimento antiborghese… ;)

    @ Wu Ming 4
    Ripeto che non dovrei parlare troppo del SdA proprio per non darne una lettura disonesta, però quello che scrivi mi piace da matti. Io ritengo incredibilmente produttiva la distinzione delle “razze”, perché nel passo che hai citato ci vedo proprio un’etica “tradizionale”, da uomo con la U maiuscola, in quel dialogo ci leggo un Io gigante.
    Ma se il protagonista è Frodo, non è fantastico pensare che T. si sia inventato una sorta di “etica eroica dell’alterità”? Le scelte giuste, le battaglie giuste forse esistono, ma non sono le mie, sono quelle di un altro.

    Sono lieto cmq se ci siamo compresi un po’ di più.
    :)

  165. @ Francioso

    In quel dialogo c’è un’idea universalista, “da uomo con la U maiuscola”, sì. In questo caso – conoscendo l’autore – di ispirazione cristiana, ma non è la sua matrice che qui conta.
    E’ una visione etica esposta anche a una lettura “tradizionalista”, certo (rafforzata nella traduzione italiana), anche se Aragorn non chiama in causa nessun antico valore, anzi in quel dialogo non è proprio detto cosa sia il bene. Se non contingentemente: il cavaliere di re Théoden farebbe bene a disattendere gli ordini del re stesso (in senso strettamente politico, non proprio una posizione conservatrice o tradizionalista).
    In generale è parecchio difficile trovare nel SdA valutazioni chiare in questo senso. Il personaggio che si espone di più forse è Gandalf, che comunque si astiene dal dare ordini e in più di un’occasione non ha risposte chiare nemmeno per se stesso. Non parliamo degli algidi Elfi, la cui risposta è spesso “sì e no” insieme, come viene fatto notare nel romanzo. Il dubbio e l’interrogazione, il dilemma, pervade tutta la narrazione.
    Nondimeno per essere umani (io ci metto la minuscola) occorre un’etica, cioè un’assunzione di responsabilità, che però non può sostenersi su alcuna garanzia precostituita (fede, legge, autorità, tradizione, etc.) [Conosco troppo poco Lacan per poter dire se in questo c’è un’incidentale eco lacaniana, ma non lo troverei affatto un’eresia, nonostante Tolkien probabilmente a stento l’avesse sentito nominare]. L’agire per una finalità è sotto l’egida di una “speranza senza garanzie” (Tolkien, lettera 181, 1956). Quindi in definitiva, che le battaglie giuste siano le tue o quelle di un altro, e per quanti condizionamenti possano inquinare il tuo libero arbitrio, ti tocca esercitarlo. Altrimenti ti condanni a essere uno schiavo, un orco.
    Dopodiché, sia chiaro, nella narrazione tolkieniana una eucatastrofe, una consolazione, una grazia, gli eroi sconfitti che hanno combattuto dalla parte giusta, alla fine la ottengono. Quindi, insomma, una parte giusta esiste. Non è proprio un happy end, a guardare bene, ma comunque Frodo viene imbarcato sull’ultima nave per Valinor, dove le sue ferite psichiche e fisiche potranno essere alleviate.
    Mi fermo qui. Forse ci siamo compresi un po’ di più, sì, anche se ho il presentimento che le tue provocazioni “franciose” avrebbero trovato più soddisfazione con un interlocutore meno “albionico” di me :-).

  166. @ Wu Ming 4
    Non volevano essere provocazioni gratuite :)
    Se c’è qualcosa di genericamente umano, comune, ontologico, probabilmente è letteralmente il nulla: per Lacan (ma già altri prima di lui) quello che ci rende simili è la mancanza-ad-essere, l’impossibilità, una falla, un buco (come la ciambella!), un vuoto. Saimo letteralmente fondati sul niente, e questo (non mi dilungo) è necessità ineludibile della struttuta del linguaggio.
    È chiaro che una posizione del genere si porta dietro il rischio di un relativismo totale: Lacan dopo non spiega più niente, gioca con le parole e disegna nodi di corda [sic!].
    Perché, evidentemente, si entra in un campo che ha una soluzione solo paradossale, in cui la critica costante e spietata deve accompagnarsi a qualcosa di positivo, propositivo… ma cosa?
    È più di un anno che cerco una risposta.
    Ho avuto “bisogno” di discutere con voi, perché ho letto in voi un livello di problematizzazione dell’etica superiore a chiunque altro ne voglia discutere liberamente, fermo restando i “puntelli” che, mi pare, consideriate necessari all’azione etica (xes. lettura filologica-scientifica di stampo tetesko). Ho avuto l’impressione che poteste comprendere quanto questi “puntelli” siano comunque problematici.
    Esco da questo dialogo ringraziando: mi porto un’impressione migliore del SdA (me lo leggerò in questa vacanze!) e un abbozzo d’idea riguardo una possibile altra etica eroica o “etica eroica altra”.
    :)

  167. @ Francioso

    A scanso di equivoci: non credo che le tue provocazioni siano state “gratuite”. E su Lacan, direi che laddove lui dice esserci il “nulla”, Tolkien invece dice esserci “qualcosa”. Ma non si spinge oltre. Anche per questo, direi che non c’è “puntello” che non sia problematico. Ma come diceva la canzone: “Eppur bisogna andar…”.
    A risentirici, magari dopo la lettura del SdA.

  168. Guardando un attimo al SDA con un obiettivo più grandangolare, mi viene in mente che nel retro della mitica copertina gialla della Rusconi si riportava – vado a memoria – “l’eterna lotta tra il Bene e il Male”.
    Ora, se uno si ferma a questo livello di lettura tutta l’opera di Tolkien parla di questo. Anche nel Silmarillion, difatti tutto procede allo stesso modo. Al posto di Sauron, c’è il suo signore Melkor-Lucifero. E si susseguono, stringendo stringendo, sei battaglie finché i Valar vengono smossi da Earendil tornano nella Terra di Mezzo e portano morte e distruzione contro il Vala traditore.

    Il punto nodale, però, è che se da una parte Tolkien con l’inserimento del canto di Melkor nell’Ainilundale difatto giustifica la presenza del Male nel mondo, dall’altra – e qui sta la sua grande rottura con la tradizione – il male non appartiene ad una sola parte (e mi vien da pensare che a queste riflessioni sia giunto soprattutto tramite la propria tragica esperienza bellica). E là dove il male non sia oggettivamente presente, si manifesta come tentazione. L’unico anello può essere soggetto a molteplici interpretazioni. Ma è piuttosto evidente la sua funzione tentatrice. E anche resistergli, come accade a Gandalf, Aragorn, Galadriel, in realtà implica già essere caduti nella sua trappola.
    Vorrei porre l’attenzione un attimo sul Nemico. Gli Orchi un tempo erano elfi che Melkor catturò e corruppe sino a farli diventare crudeli e mostruosi. Ebbene, nonostante l’iniezione diretta del male puro, dice Tolkien, nessuno come gli Orchi (e Feanor) aveva più in odio l’Oscuro Vala.
    Se aggiungiamo a tutte queste considerazioni le cadute, i fallimenti, i tradimenti, che hanno colpito il Bene a partire dalla prima Era – e, per inciso, anche i Valar buoni hanno commesso i loro errori, come sempre Tolkien specifica – allora quest’eterna lotta tra Bene e Male diventa qualcosa di assai complesso e forse più appartenente all’individuo che agli eserciti in Guerra [se percaso vi capitasse consiglio la visione de “Le idi di Marzo”, in cui mutatis mutandis, si trova un tema assai simile]. In quest’eterna lotta io vedo dibattersi più l’uomo contemporaneo che l’uomo medievale.

    Una cosa penso si possa aggiungere. Come per “Il nome della rosa”, i romanzi di Tolkien sono qualcosa di completamente diverso dalla tradizione. Sono un oggetto narrativo che all’epoca rappresentò la novità assoluta. Furono in questo senso romanzi rivoluzionari. E al pari di molti oggetti non identificati né identificabili, creano dei grossi problemi alla critica – a qualunque ideologia appartenga.
    E per concludere, torno all’inizio. Si dice, sempre nella quarta di copertina del SDA edizione Rusconi, che il romanzo in questione è “aldifuori del tempo”. Ora, se intendiamo che è un romanzo probabilmente in grado di superare indenne generazioni e generazioni di lettori, sono d’accordo. Se invece si vuol dire che con il Novecento ha poco a che spartire, allora significa essere caduti nuovamente nella stessa ottusità di prima. Perché solo il Novecento è di fatto riuscito a ‘produrre’ un’opera come quella tolkieniana.

  169. Giusto una puntualizzazione sui simboli.

    @WM1
    Tu scrivi:
    Il problema delle letture fasciste di Tolkien è proprio questo: l’esegesi simbolistica ed “esoterica” pretende di *chiudere* le opere di Tolkien, di tracciare una Via Maestra per la loro lettura (quella che porta invariabilmente alla Tradizione). Inoltre, in Italia tale esegesi è stata fatta per decenni “in regime di monopolio”: l’egemonia degli evoliani ha impedito ad altre interpretazioni di arrivare sino a noi.

    Io aggiungo:
    Un ulteriore problema é il pressappochismo della loro esegesi simbolistica ed esoterica.

    Se si scrive:
    «La spada simboleggia la regalità vista come qualità superiore dell’uomo […] più che comune, […] persona che si innalza sulla volgare gleba». La trasformazione di Gandalf da Grigio in Bianco sarebbe descritta da Tolkien «come una vera e propria operazione alchemica» [4]; infine il volo in groppa all’aquila sarebbe un simbolo di “elevazione spirituale” [5].

    evidentemente non si tiene conto della complessità di certi simboli. A me sembrerebbe la loro una interpretazione quasi “materialistica” e non simbolica. Per fare degli esempi riporto citazioni a caso dai primi libri che ho sottomano.

    Sulla Spada:
    “Spada dell’evocatore, arma che disegna una croce e ricorda perciò l’unione feconda dei due principii, maschile e femminile; fusione, cooperazione dei contrari. La spada simboleggia inoltre un’azione penetrante come quella del Verbo ο del Figlio.”
    “…il cavaliere della Verità ottiene d’essere armato di Spada, simbolo del Verbo, che mette in fuga i fantasmi dell’errore.”
    (Oswald Wirth, I Tarocchi)

    “Anche la spada può essere considerata, in linea di massima, un’arma a doppio taglio [In un altro dei suoi significati, la spada è un simbolo del Verbo o della Parola, con il suo duplice potere creatore e distruttore (si veda ad esempio Apocalisse, 1, 16, e XIX, 15).”
    (Rene Guenon, Simboli della scienza sacra)

    Sull’Aquila:
    “la civetta si contrappone all’aquila, che, potendo guardare direttamente il sole, rappresenta spesso l’intelligenza intuitiva, o la contemplazione diretta della luce intelligibile].”
    (Rene Guenon, Simboli della scienza sacra)

    Il libro di Guenon lo citano anche, chi sa se l’hanno letto.

    Sulla presunta Albedo di Gandalf, mi chiedo invece dove siano finiti Gandalf il nero e Gandalf il rosso. Senza l’Opera al Rosso, tra l’altro, la Grande Opera non é compiuta.

    Insomma é puro stile evolvano. Prendo frasi a caso e ci vedo quello che voglio vederci, adattando qualsiasi cosa alla mia personale visione. Come già detto da WM4, Evola fece lo stesso con Bachofen, ma anche con Guenon e con l’intera tradizione ermetica.

  170. Ma, idiozia dell’evolismo a parte, può esistere una lettura esoterica e simbolistica che non sia pressapochistica? Il pressapochismo non è insito in qualunque operazione di questo genere? Il simbolo stesso è già presentato come il “pressapoco” di una supposta cosa in sé ineffabile, non direttamente esprimibile.
    In realtà quel che il simbolo realizza è una consolatoria riduzione di complessità. Il simbolo vorrebbe paralizzare il divenire e spacciare tale paralisi per l’Essere.
    Tre anni fa, in una risposta a Tiziano Scarpa, ho provato a riassumere quel che penso del simbolo come figura retorica, ripropongo qui alcuni stralci di quel testo:

    ——-

    C’è un’enorme differenza tra allegoria e simbolo. L’allegoria è dinamica e aperta […] Difatti, si manifesta necessariamente attraverso una narrazione, per minima e poco articolata che sia (nell’Allegoria del buon governo di Lorenzetti, non c’è figura che non stia compiendo un’azione).
    Al contrario, il simbolo è statico, fermo, raggelato. Si ottiene il simbolo quando si fissa, si cristallizza, si ipostatizza l’elemento caratteristico e vitale di una cosa. Se prendo il coraggio come tratto distintivo dell’impegno civile contro le mafie, e “fisso” quel coraggio in un’immagine che torna sempre uguale e si pretende sempre valida, faccio di quell’impegno un’astrazione, ne allontano l’esperienza, ne blocco il divenire [Parlavo del simbolo-Saviano, NdA]

    Due esempi molto diversi tra loro:
    1. Parlando delle foto della Shoah e attingendo agli studi di Barbie Zelizer, Marco Dinoi scrive:

    “…invece che veicolare la singolarità della vittima, la specificità dello spazio e delle torture e dell’evento, le immagini dai campi assunsero nella grande maggioranza dei casi il valore di testimonianza dell’orrore universale. Ciascuna immagine stava per quell’offesa assoluta inflitta dalla violenza nazista e non per la singola vittima che essa ritraeva, e infatti le didascalie che accompagnavano tali istantanee potevano essere molto vaghe o addirittura sbagliate, tanto da indicare un campo per un altro: il primo e più importante bisogno che le immagini dovevano soddisfare […] era esprimere simbolicamente l’enormità del male, e dunque di arrivare a una sorta di contenimento cognitivo dell’evento.”

    Il simbolo allontana l’esperienza, contiene la dirompenza dell’evento. Il simbolo, anche quando non sembra, è consolatorio. Quei capannelli o ammassi di corpi scheletrici non generano empatia, perché nell’ammasso (non a caso un “gettare insieme”, syn–ballein, il verbo da cui deriva la parola “simbolo”) svaniscono le storie singole.
    Il simbolo ci deresponsabilizza di fronte al dolore altrui.

    2. La caratteristica più evidente della regalità è il portamento. C’è un linguaggio del corpo fiero e austero che è parte dell’essere un re o una regina. Le movenze solenni, la lentezza studiata etc. Questa “anima” della
    regalità/sovranità è stata spesso “fermata” con uno scatto, “fotografata” nell’immagine di un’aquila: non si contano i regni e imperi che hanno usato quest’uccello come riferimento. Ecco il simbolo: ferma un movimento (in questo caso letteralmente, trattandosi di un insieme di movenze) e ipostatizza il tratto essenziale di una cosa, quello più legato al suo manifestarsi concreto.

    Il simbolo è perfetto per l’autorità, è la figura retorica a cui più ricorrono i poteri costituiti, che tramite la condensazione simbolica si affermano e perpetuano. Fissando quella che vuole presentare come la propria “anima”, il potere sacrifica tutti i dettagli, gli aspetti “secondari”, le eccedenze (di cui invece si pasce la dimensione allegorica).
    Il simbolo è la brusca semplificazione di cui il potere ha bisogno.

  171. @ Wu Ming 1

    E’ curioso, perché la risposta a Scarpa rovescia – provocatoriamente? – tutto un apparato interpetativo in materia di “simbolico”.

    In filosofia e in semiotica la questione simbolo/allegoria viene di solito impostata a termini invertiti: da una parte l’allegoria come qualcosa di rigido, statico, il cui significato si disvela compiutamente non appena si sia scoperta la “chiave” per ristabilire le corrispondenze tra il livello manifesto e quello latente; dall’altra il simbolo visto come complessità inesauribile, come massima espressione di una “semiosi aperta” le cui possibilità si ridefiniscono ad ogni nuova interpretazione, rinviando ad una fuga infinita di interpretanti.

    Se non sbaglio anche Deleuze, in piena temperie post-strutturalista, ha visto nel “simbolico” e nel suo carattere triadico un livello di esistenza eccedente rispetto all’unità del reale e alla “doppiezza” dell’immaginario.

    Qualche anno fa questa questione mi avrebbe entusiasmato molto più di quanto non faccia ora, e magari avrei potuto dare un contributo meno sciatto e dilettantistico; faccio sempre più fatica a muovermi su questo terreno, tanto più da quando sono diventato un quadrato… bolscevico bolognese :-P

    Però mi sembra – reminiscenze di studi passati, nulla più, per cui potrei dire una cazzata – che il simbolo “irrigidito” di cui parli tu sia quello che di solito viene chiamato “emblema” (lo stemma della casata nobiliare, il “logo” dell’impresa capitalistica ecc.).

    Tutto questo per dire: io non penso che il destino del simbolico sia segnato. Il simbolo secondo me mantiene ancora oggi un suo potere “sovversivo in senso lato”, limitato per ovvie ragioni alla sfera della provocazione e dell’innovazione culturale e intellettuale, ma non per questo del tutto inutile o definitivamente compromesso con le narrative tossiche del potere.

    Marcel Duchamp è stato in grado di sbeffeggiare sia l’establishment artistico che il retaggio della “tradizione ermetica” tanto strombazzata dagli evoliani proprio utilizzando in modo spiazzante e provocatorio la simbologia alchemica. Un discorso simile, forse, potrebbe essere fatto per il “medioevo fantastico” studiato da Baltrusaitis, popolato di grilli, ircocervi e altre combinazioni assurde che sarebbe difficile ricondurre ad un significato puramente allegorico (i dipinti di Bosch sono un esempio eloquente)…

    Insomma, perché dobbiamo per forza lasciare il dominio dei simboli alla mercé dei padroni e dei loro servi? :-)

  172. @ Don Cave

    per “allegoria”, se non si passa per Benjamin, si intende soltanto l’accezione classica, quella di una “metafora prolungata” che forma una catena di corrispondenze “a chiave” (tipo 300: Sparta è l’America, i Persiani sono l’Islam etc.). E’ Benjamin a sconvolgere il quadro, facendo dell’allegoria qualcosa di più mosso, aperto, cangiante. Ogni opera è allegorica (“dice altro”) e aperta a letture allegoriche sempre diverse e rinnovate.
    In ogni caso, anche l’allegoria “a chiave” ha bisogno di una narrazione per potersi esprimere. E’ dunque più dinamica del simbolo, che è una singola immagine ferma. Uno dei problemi delle letture “simboliche” di Tolkien, come faceva notare WM4, è che questi esegeti della domenica vanno in cerca di singole immagini ferme, di elementi fissi, mentre ciascun elemento è parte di una storia e riceve senso da questa, quindi nel movimento.

    Riguardo al “simbolico” di cui parla lo strutturalismo, vale quel che ho cercato di dire in questo thread ormai molti commenti fa: la parola “simbolo” ha significati diversi a seconda degli ambiti di discorso. *Quel* “simbolico” (tematizzato in maniera peculiarissima e al tempo stesso emblematica da Lacan) non ha niente a che fare con il “simbolico” esoterico, anzi, è la sua radicale messa in crisi. Oltre a essere del tutto immanente (c’è perché ci siamo noi), il simbolico dell’interpretazione strutturale (cito anch’io Deleuze)

    “non ha alcun rapporto con una forma sensibile, né con una figura dell’immaginazione, né con un’essenza intellegibile […] Niente a che vedere con un’essenza; si tratta infatti di una combinatoria concernente elementi formali che non hanno di per sé né forma, né significato, né rappresentazione, né contenuto, né realtà empirica data, né modello funzionale ipotetico, né intelligibilità dietro le apparenze.

    Una descrizione del genere non può che seminare il panico tra i “simbolisti” della Tradizione.
    Poco dopo, Deleuze aggiunge:

    “l’opera mitica, l’opera poetica, l’opera filosofica, le stesse opere pratiche sono soggette all’interpretazione strutturale. Ma questa reinterpretazione vale solo nella misura in cui anima opere nuove che sono quelle di oggi, come se il simbolico fosse una fonte, inseparabilmente, di interpretazione e creazione viventi.

  173. Aggiungo: “simbolo”, “simbolico”, “simbolismo” sono parole che ingenerano troppa confusione, perché affastellano in sé e intorno a sé troppi significati troppo diversi. Forse bisognerebbe proprio bandirle dai nostri discorsi, ma come si fa?

  174. @ Don Cave

    dimenticavo, sull’emblema: a me sembra che l’emblema sia una modalità di utilizzo del simbolo. Hai ragione, l’aquila è spesso usata come emblema (come “stemma”, si direbbe volgarmente). Però l’altro esempio che riprendevo (quello delle foto dei corpi scheletriti di Auschwitz che, per eterogenesi dei fini, finiscono per “anestetizzare” e rendere meno dirompente l’impatto della tragedia) mi sembra un’altra faccenda. E anche l’ormai famosa “spada” che Fusco pesca dal Signore degli anelli e usa pro domo sua, anche qualora fosse un simbolo (e non lo è), comunque non sarebbe un emblema.

  175. @ WM1

    Tengo a specificare una cosa riguardo alla spada di Aragorn, perché credo abbia una valenza più generale (ma purtroppo adesso non ho il tempo di svilupparla bene, perché sono in partenza). La spada spezzata che viene riforgiata può senz’altro avere un significato simbolico, ma esso è legato alla narrazione. L’abbiamo già detto, ma è meglio essere chiari. Non si tratta di negare valenza ai simboli tout court, ma di vederli sempre inseriti in un mito/racconto.
    Quindi, dicevo, nel SdA la spada non simboleggia la giustizia, né la croce. Simboleggia la regalità? Sì, come in centinaia di saghe, favole, leggende… Nel caso del SdA abbiamo un’antica spada spezzata che viene riforgiata. Era stata spezzata dal capostipite e viene riforgiata per il suo discendente: quindi è ovvio che rappresenta una linea dinastica interrotta che viene ricomposta, il re che ritorna, etc. Questi elementi interni al SdA sono connessi uno all’altro, senza dubbio. Il punto è cosa inferiamo da questa constatazione.
    De Turris scrive: “Indubbiamente Aragorn ha tutte le caratteristiche del re così come viene descritto dalla Tradizione: è il re che ritorna, riforgia la Spada che fu Rotta, ha il potere di guarigione e soprattutto possiede ‘un forte senso dell’importanza dell’autorità, del diritto e dell’onestà'” (Prefazione a P.H. Kocher, Il Maestro della Terra di Mezzo, Bompiani, 2011).
    In un commento più sopra ho fatto notare come in un dialogo con Eòmer, Aragorn cerchi di convincerlo a disobbedire alle leggi del suo re, cioè alla legittima autorità del suo paese. Ma il punto non è questo. Il punto è che mettere in scena un archetipo non significa aderire ad alcuna “Tradizione” (ammesso e non concesso che sia chiaro cosa essa sia, perché io non l’ho proprio capito). L’archetipo viene rideclinato, viene raccontato nuovamente, non riprodotto. Io posso anche dire che Aragorn = Artù , se ragiono per simbologie (Nasril/Andùril = Excalibur; Arwen = Ginevra) e per elementi astratti, ma questo non significa niente in termini narrativi. Ciò che importa è come quegli elementi ereditati dalla letteratura epico-cavalleresca o antica vengono fatti agire in un storia nuova. Per ora mi devo fermare qui.

  176. @Tina: sul rapporto tra la LeGuin e “Il Signore degli Anelli” (e Tolkien in generale) ti consiglio di leggere il suo (della LeGuin) “Il linguaggio della notte”, edito da Editori Riuniti. Non so se si trovi ancora in commercio, io l’ho letto in biblioteca. E’ una raccolta di saggi sul fantasy che secondo me si colloca molto bene nella prospettiva “wuminghiana” riguardo al genere, e in particolare si sofferma in diverse parti ad analizzare anche l’opera di Tolkien, con argomentazioni molto acute.

    • Grazie! Questo mi manca, credo non si trovi più in commercio ma lo cercherò per biblioteche. Che buffo che sia ricapitata su questo post quasi per caso e abbia letto il tuo commento proprio appena ho cominciato a leggere “Lavinia”.

      E @Wuming : ottima questa nuova funzione di rispondere direttamente ai commenti e poter ricevere notifiche delle risposte

  177. @ WM1, WM4

    Magari per una mia deformazione accademica, ma se si parla di simbolo o di simbolico io penso senza esitare un istante a qualcosa il cui significato si gioca nell’immanenza e che, quindi, per essere interpretato deve aprire ad un discorso narrativo. Le letture sedicenti “simboliche” alla Casseri, oltre a massacrare i testi, secondo me, fanno una violenza all’idea stessa di simbolico.

    Comunque sono pienamente d’accordo con la sostanza di tutti gli interventi che, se ho capito bene, “denunciano” l’esistenza di tutto un milieu culturale che si annida ben più in profondità delle degenerazioni strumentali dell’estrema destra “tradizionalista”.

    Il simbolismo “tossico”, infatti, non mi sembra appanaggio solo degli scribini del neofascismo redivivo. Non voglio scatenare un OT, e non vorrei neanche fare il passo più lungo della gamba, però… pensiamo solo al lustro di cui godono a livello accademico le tesi di Heidegger sul linguaggio, dove l’ineffabile – e, nelle traduzioni italiane, le parole con l’iniziale maiuscola – giocano un ruolo determinante; come alcuni studiosi hanno fatto notare, l’adesione di Heidegger al nazismo probabilmente non è stata soltanto un accidente storico…

    Dato che, come fa notare Wu Ming 1, termini come “simbolo” e “simbolico” non possono essere liquidati dalla sera alla mattina, l’unica cosa da fare secondo me è continuare ad opporre a tutte le concezioni – più o meno raffinate e più o meno sdoganate – che premono l’acceleratore sull’ineffabile, una visione alternativa, per la quale i riferimenti filosofici, letterari e artistici non mancano. E, ovviamente, incentivare tutte le pratiche che traducono questa visione alternativa in contestazione sistematica (anche e soprattutto) dei cliches accademici.

  178. Interessantissima discussione. Leggo con piacere, e un po’ di avidità. Mi permetto però di evidenziare una debolezza, o subalternità, di fondo. Va bene la demistificazione, in qualche modo la “fase” destruens: lo svuotamento dei simboli svela la cattiva interpretazione e rivela la cattiva narrazione, quella congelata nella Tradizione (basta una maiuscola a dare dignità al nulla). Ma un’operazione deel genere non legittima quella narrazione? E’ come se l’agenda setting dell’immaginario fosse passata definitivamente alla destra, e tutti a “rincorrere”, smontando tesi, obiettando, criticando. Ripeto il concetto: rincorrendo. Non auspico certo la sostituzione di un immaginario con un altro. Vorrei semplicemente che questa partita non venisse giocata solo con contromosse. Cattive domande fanno più proseliti di buone risposte.

  179. A proposito di manipolazione dei simboli da parte del neofascismo italiano, uno dei più eclatanti è l’ascia bipenne minoica di Ordine Nuovo: http://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/thumb/1/12/Ordine_Nuovo.png/250px-Ordine_Nuovo.png
    Oltre a essere un simbolo mediterraneo e preindoeuropeo, la Labrys minoica rappresenta infatti non un’arma ma l’ascia del disboscamento (la cui forma stilizzata ricorda quella della farfalla, immagine di trasformazione e rinascita dell’Antica Dea) che preparava la terra alla coltivazione. Era cioè il simbolo contadino di una civiltà che non aveva i miti guerrafondai delle aristocrazie e che al contrario esaltava la natura, il femminile, ed era fondamentalmente pacifica ed egualitaria.
    Esattamente agli antipodi degli stragisti di ON.
    Ora è spuntato un nuovo gruppo neofascista che ha adottato questo simbolo: http://www.atuttadestra.net/wp-content/uploads/2011/11/logo_Patria_Nostra21-300×3001.jpg
    Non cambiano mai. Ma credo che in queste manipolazioni siano favoriti anche da una sorta di rifiuto “progressista” (passatemi il termine) per tutto ciò che è antico, che caratterrizza “la sinistra” (passatemi anche questo termine) più o meno da sempre. E lo dico da comunista. Un po’ come la manipolazione di Tolkien, e più in generale del fantasy, è stata senz’altro favorita dallo snobismo di certa critica letteraria.

  180. @ Salvatore

    forse noi, che siamo immersi in questa querelle, diamo ormai troppe cose per implicite, e allora è meglio ogni tanto fornire “riassunti delle puntate precedenti”.
    Nello specifico del discorso su Tolkien, negli ultimi anni sono stati i destri a subire l’offensiva e a contrattaccare in modo davvero fiacco. Dal libro “seminale” di Del Corso & Pecere (2003) fino alle recenti operazioni telematiche ed editoriali su Tolkien compiute da WM4, passando per l’importantissimo, cruciale lavoro del gruppo di studio che ha curato i libri usciti per le edizioni Marietti e organizzato convegni e seminari in quel di Modena (e senza dimenticare il contributo continuo dato dall’ARST), finalmente in Italia sono arrivate letture di Tolkien ritenute ormai basilari in tutto il mondo, ma che l’egemonia evoliana aveva tenuto nascoste al pubblico.
    De Turris è un pezzo che annaspa, ha risposto sui giornali (da “Il Giornale” a “La voce repubblicana”, e grazie a lui abbiamo scoperto che quel foglio esisteva ancora!) ripetendo le solite due-tre nozioni, ma ormai l’incantesimo è rotto, e lo si è rotto principalmente *costruendo*, invitando in Italia studiosi del calibro di Shippey e della Flieger, riflettendo sui testi, valorizzando le creazioni del fandom etc.
    La recente tragedia di Firenze, con l’emergere dei rapporti tra De Turris e Casseri, sta solo accelerando una presa di coscienza già iniziata da tempo. Non per questo gli evoliani molleranno l’osso: godono ancora della fiducia di molta gente, a cominciare dalla direttrice editoriale della Bompiani, ma il loro non è più l’unico discorso presente in Italia, e sempre più lettori sanno che era un discorso sballato e strumentale.

  181. @ don cave

    io vado ancora oltre: per me non e’ nemmeno deformazione accademica, e’ qualcosa di piu’ profondo. dopo che uno mi ha spiegato che la spada e’ simbolo di regalita’, l’ unica cosa che mi vien da dire e’: “bon” (tu che sei veneto puoi capire tutte le sfumature che si possono esprimere con quel monosillabo: in bisiacaria, e’ qualcosa che sta in mezzo tra “urca” e “so what”).
    io la vedo come te: i simboli simboleggiano qualcosa solo se sono inseriti in un racconto.

  182. @ Salvatore

    La demolizione delle tesi destrorse e “tradizionaliste” su Tolkien è soltanto un passaggio all’interno di un percorso. Il ragionamento che si cerca di fare partendo da Tolkien è molto più vasto e non riguarda solo un autore importante e bistrattato, ma prova a riflettere sul valore delle storie e della mitopoiesi in generale. Il problema è che muovendosi nel panorama italiano, per poter affermare una cosa, devi liberare il campo da un’altra. Esempio: per poter spiegare perché “Il Ritorno di Beorhtnoth figlio di Beorhthelm” non è un’opera secondaria, ma importantissima nell’elaborazione della poetica tolkieniana, è necessario confrontarsi con le tesi consolidate che hanno preteso di ignorare quel testo per decenni. E’ faticoso, e uno ne farebbe volentieri a meno, ma è necessario. Detto questo, si lavora anche alla parte costruttiva, mi pare, sia qui su Giap, sia sul piano editoriale, ogni volta che si trova uno spazio.

  183. Solo un’ipotesi sul simbolismo. Se gli strutturalisti (ma forse anche post-…) hanno ricondotto a questo ambito l’intero linguaggio (o meglio: i significanti) probabilmente è per prendere le distanze rispetto ad una linguistica “ingenua”, secondo cui il linguaggio si ridurrebbe ad una semplica nomenclatura di oggetti. L’oggetto formato da pagine e copertina si chiama “libro” e si chiamerà sempre così perché il nome esaurisce e conchiude l’oggetto.
    Noi sappiamo bene che non è così semplice, da De Sassure in poi sappiamo che il segno linguistico è arbitrario e la realtà del linguaggio si compone di tre elementi (e non solo due): referente, significante e significato. Soprattutto, sappiamo che per quanto ingenuamente li possiamo considerare sovrapponibili, in realtà ognuno di essi in parte manca l’altro. Questo fa sì che, nell’evoluzione storica, vi sia un costante slittamento reciproco dei tre livelli.
    Dunque la mia ipotesi è che il richiamo al simbolismo serva a evidenziare la presenza di un terzo incomodo, di qualcosa di necessariamente altro.
    Un’interpretazione rigida e chiusa del simbolo, che è, appunto a-storica e quasi metafisica, sarebbe in quest’ottica un residuo di quella linguistica “ingenua” delle nomenclature: il simbolo spada significherà sempre l’autorità, o quello che è.
    Quindi @Wu Ming 1, direi anch’io che ogni operazione di questo tipo parte da premesse anacronistiche,monche e difettose e non può che finire peggio.

  184. Auguro a Wu Ming e a tutti i Giappisti buona Festa d’Inizio Inverno con questo link che forse molti di voi già conosceranno: http://www.youtube.com/watch?v=JTSoD4BBCJc&feature=related
    Drekka jol!

  185. Augurando a tutti un felice giorno del Sole, rientro in un dibattito davvero interessante, di cui ringrazio tutti.
    E dunque:

    @ Wu Ming 4 “Tolkien e quelli della sua generazione percepitavano questo dilemma come molto più importante di quanto non lo si percepisca adesso e questo era dovuto in gran parte alla storia e ai traumi che avevano vissuto.”
    Ti ringrazio per la puntualizzazione, è un argomento importante che sicuramente prenderò in considerazione non appena troverò il tempo di rileggermi il SDA.
    A proposito, ma una buona edizione da consigliarmi?

    @ Francioso …insomma sei proprio una linguaccia ;)

    @WM1 “per “allegoria”, se non si passa per Benjamin, si intende soltanto l’accezione classica, quella di una “metafora prolungata” che forma una catena di corrispondenze “a chiave” (tipo 300: Sparta è l’America, i Persiani sono l’Islam etc.). E’ Benjamin a sconvolgere il quadro, facendo dell’allegoria qualcosa di più mosso, aperto, cangiante.”
    Vero, però Benjamin non era un angelo piovuto dal cielo.
    La sua idea dell’allegoria ha radici molto antiche, che si possono far risalire fino a Filone di Alessandria, che leggeva la Genesi e l’Esodo come se si trattasse di manuali di meditazione.
    E non si trattava certo di semplici metafore a chiave: considera che tutta la mistica cristiana, passando per Origene ed Evagrio, viene da lì.
    (scusami per il piccolo OT ma ultimamente sto un po’ in fissa con ‘sta storia delle allegorie…:)

    @ Don Cave “ovviamente, incentivare tutte le pratiche che traducono questa visione alternativa in contestazione sistematica (anche e soprattutto) dei cliches accademici.”
    I cliches accademici, con tutti i loro simbolismi blasonati, sono una delle cause principali del declino della razza umana.

    @Tuco “i simboli simboleggiano qualcosa solo se sono inseriti in un racconto.” verissimoooo i simboli riposanti in sé stessi sono vampiri nella cripta, pronti a dissanguarci appena ne hanno la possibilità.

    Ed infine

    @ Giacomo no, di nuovo gli hobbit di plastica no.

    ;)

    Che Mitra sia con voi!

  186. @franzecke
    Hai ragione, mi taccio, mi taccio. :)
    @tutti
    Buon Natale.

  187. OT su Pound: nomina sunt consequentia rerum http://goo.gl/LwXVx

    aggiungo che per evitare l’impasse del simbolo potremmo sposare l’approccio di Jesi (mutato da Kerényi) che distringueva tra mitologia (ovvero discorso storico sul mito) e mito, a-storico e inconoscibile (una sorta do noumeno kantiano). Può darsi che dietro il mito ci siano le strutture biologiche che qualcuno rammentava, o può darsi che ci sia il nulla lacaniano. Non è importante la generazione della mitologia dal mito, ma come le mitologie si trasformano.

    (buone feste a tutti, gran bel dibattito :) )

  188. […] E vale anche per gente come Céline, Pirandello, D'Annunzio e Mishima (e non apriamo il complicatissimo caso Tolkien, altrimenti poi arriviamo a digerire insieme anche il pranzo di Capodanno!) […]

  189. @ blepiro
    quoto la tua sottolineatura importante della distinzione tra mito e mitologia (evviva Jesi) e gli auguri di buone feste.

  190. Ciao cari WuMing, ho alcune domande-proposte di discussione per voi.
    ovvero: I tre anelli elfici sono stati dati a Elrond, Galadriel e Gandalf.
    Ma Gandalf non è un elfo: appartiene alla “razza” degli Istari, ovvero quei Maiar mandati sulla Terra di Mezzo per sconfiggere Sauron nelle prime Ere. Quindi Gandalf non avrebbe necessità di un anello elfico per risanare la TdM dalla malvagità di Sauron, perchè Sauron e Gandalf sono Maiar di simile forza e provenienza.
    Quindi, le domande sono: quand’è che Gandalf ha ricevuto in custodia un anello degli Elfi e perchè con la forza dell’anello non ha sconfitto direttamente Sauron? in teoria, visto che Gandalf ~=Sauron, Gandalf + anello Elfico > Sauron… Inoltre si scopre solo alla fine del SdA che Gandalf porta Narya. Secondo voi, per quale motivo ciò è tenuto nascosto? Artificio narrativo?
    Inoltre, riguardo l’appellativo “Il Bianco”: Gandalf lo riceve dopo essere morto e resuscitato da Eru per aver sconfitto il Balrog. Sembrerebbe un titolo onorifico o comunque gerarchico. Domanda: quale idea ne trae la critica fascista? “Bianco” in senso razziale?
    Scusate, non sono pratico di critica letteraria-semiotica, ma solo un affezionato lettore tolkienian-wuminghiano =)
    grazie DaVe

  191. @ DaVeTheWaVe

    L’anello di fuoco è stato affidato a Gandalf dall’elfo Cìrdan il Carpentiere, al suo arrivo nella Terra di Mezzo, che lo ha riconosciuto come un Maia e ha pensato che l’anello potesse aiutarlo nella sua missione. Alcuni ritengono che prima del finale del SdA, dove compare al dito di Gandalf, l’anello fosse incastonato nel suo bastone.

    Il motivo per cui il disvelamento avviene solo nel finale secondo me risponde in parte a un’esigenza di efficacia narrativa, in parte a una logica interna alla storia. Se fosse di dominio pubblico che Gandalf il Grigio custodisce uno dei Tre Anelli, diventerebbe un bersaglio mobile. Ad esempio Saruman potrebbe prenderglielo quando lo imprigiona a Orthanc. In generale, poi, Gandalf è molto restio a usare il potere dell’anello di fuoco, anche contro Sauron, perché esso è indissolubilmente legato all’Unico. Lo spiego nella nota 23 del mio testo (vedi sopra).

    Riguardo al “Bianco”, no, l’interpretazione dei tradizionalisti non è razziale, in questo caso, ma “alchemica”, come spiego nel secondo capitolo della mia disamina.
    Aggiungo che la morte fisica di Gandalf e la sua resurrezione vengono date spesso per acclarate dai commentatori e lo stesso Tolkien ne parla in questi termini, ma leggendo il SdA l’interpretazione potrebbe essere anche leggermente diversa. L’espressione “ho attraversato fuoco e morte” potrebbe anche essere un’iperbole, una metafora, così come la frase “Allora fui avvolto dall’oscurità, errai fuori dal pensiero e dal tempo, e vagabondai lontano per sentieri che non menzionerò” chiarisce davvero poco di cosa è capitato a Gandalf in cima a Celebdil. Tolkien si dichiarò insoddisfatto della scelta narrativa di far morire Gandalf e farlo ritornare, la giudicò a posteriori una scorrettezza nei confronti del lettore e un modo irriverente di trattare la morte, come se fosse un mero incidente di percorso. Ad ogni modo Gandalf dice che “è stato rimandato indietro”. Ed è senz’altro più forte e più autorevole. In base dunque alla mitologia di Arda, i Valar hanno letto nel suo sacrificio sul ponte di Kazad-Dum una scelta giusta che lo rende meritevole di una seconda chance. Se non altro, aggiungo, perché tutti gli altri stregoni si sono lasciati corrompere o hanno fallito ancor peggio di Gandalf.

  192. grazie WM4 per la risposta! & buon 2012!

  193. Salve, premettendo che non ho avuto tempo di leggere tutte le risposte, dalla lettura di questo articolo
    la prima cosa che mi sono chiesto è: cosa accomuna i fascisti del ventennio ai neo – fascisti degli anni di piombo e quest’ultimi a quelli del 2012?
    Mi pongo questa domanda perché credo sia scontato affermare che il Fascismo è comunque un prodotto socio culturale che nasce in un determinato contesto storico e che quindi non si può ripetere al di fuori di esso (un giovane missino o Nar non è un ex combattente di trincea della prima guerra mondiale, non può avere la reale concezione di vittoria mutilata, questione fiumana ecc… ).
    L’unico filo rosso possibile dunque sembra essere il recupero delle tradizione (e tutto quello che ne consegue simboli, figure emblematiche, letteratura ecc…) che spesso fa tanto ridere, sentita dire da certi politici oltre che “dell’Italia la meglio gioventù”.
    Fa meno ridere però se ci chiediamo cosa significhi questo in termini sociali, perché esiste un gruppo di persone che sente questa necessità ? Questo gruppo di persone strumentalizzata o meno esiste ed reale e quindi anche la loro necessità è reale, se no credo sarebbe impossibile fare leva con certi argomenti.
    In questo senso, tutto si può prestare, alla causa se pertinente, vuoi per ignoranza, vuoi per ceca fede( questo comunque è già stato detto).
    Si passa quindi all’uso “sconclusionato” sia di simboli che testi, tutto fa brodo, questo però credo sia possibile solo perché il simbolo è sicuramente un codice secolarizzato ed in quanto tale può essere perduto. La svastica o lo swastika
    in fin dei conti è per noi incomprensibile, vuoi perché il nazismo è stato cosi cruento da sovrascrivere il suo significato reale con l’immagine di partito, vuoi perché più semplicemente abbiamo perso nel tempo i nostri rapporti con quel simbolo. (dico swastika, come posso dire croce, aquila, occhio).
    Va da sè che vi è un fondo di verità nel dire che l’uomo moderno/contemporaneo vive in una sorta di medioevo, se per medioevo intendiamo quel periodo buio della storia dove la società perde i contatti con una parte del suo patrimonio culturale da cui poi ne deriva una necessaria opera di “scavo archeologico” e di “restauro” (come è avvenuto con l’Umanesimo ed il Rinascimento)
    Il problema odierno però secondo me è che oggi non siamo in grado di stabilire in che punto della storia stiamo, sicuramente i nostri piedi sono piantati in una terra di mezzo, ma siamo più vicini al passato od al futuro ? Forse qualcuno di voi ha degli strumenti per orientarsi meglio, io dal canto mio mi sento più vicino ad un muro e so che prima o poi va buttato giù o scavalcato, ad ogni modo è qualcosa che va superato.

  194. […] Che Tolkien fosse un autore controverso lo sapevamo da tempo, ma finora ci limitavamo a scervellarci sulle controversie politiche e a decostruire i tentativi di appropriazione, in puro stile made in Italy, da parte di questo o quel gruppo politico come fa spesso (e benissimo) Wu Ming 4. […]

  195. […] del Signore degli Anelli, che ho spudoratamente ripreso a leggere: è infatti saltato fuori questo interessante pezzo dei Wu Ming su Tolkien e sulla cultura di destra, in particolare sul caso “Tolkien in Italia”. Share […]

  196. […] di Wu Ming 4,  sul sito dei Wu Ming, Giap (http://www.wumingfoundation.com/giap/?p=6365: #mce_temp_url#): un vero e proprio saggio, con analisi e commenti, riguardante le “misletture” di […]

  197. Sarebbe interessante anche approfondire un altro tema: il linguaggio e la poetica di Tolkien sono stati poco attraenti per la critica novecentesca che non ha saputo riconoscerne il valore letterario. Ci sono motivi palesi e altri più sotterranei, secondo me.

  198. @ munchausen

    ho toccato l’argomento nell’ultimo capitoletto di questo intervento:
    http://www.wumingfoundation.com/giap/?p=5979

  199. Secondo una ricerca apparsa su Psychological Science, i reazionari sono il più delle volte teste di cazzo. Il commento di George Monbiot qui:
    http://bit.ly/xU4ZR9
    Ambasciator non porta pena.

  200. […] di Oxford le più bislacche letture tradizionaliste (WM4 se n’è occupato dettagliatamente qui). Casseri era stato uno degli autori inclusi nella collettanea ‘Albero’ di Tolkien […]

  201. […] Come WM4 ha utilizzato Cultura di destra di Jesi per liberare J.R.R. Tolkien dalla cattura ideologic… […]