Rapotez, ovvero: in Italia si tortura (e si torturerà)


[Quelle che seguono sono “note di visione” sul documentario Rapotez. Un caso italiano (Italia, 2010) di Sabrina Benussi, durata 53’.  Con Luciano Rapotez, Gherardo Colombo, Marcello Flores, Moni Ovadia.
Il testo è stato scritto nel gennaio scorso in occasione del Trieste Film Festival e allegato alla cartella stampa del documentario. Doveva uscire anche sul quotidiano Il Piccolo, ma all’ultimo momento l’accordo è saltato per ragioni (a-ehm! cough! cough!) tecniche. Dalla scheda del film:
«Una lunghissima e tormentata vicenda giudiziaria quella che il protagonista, oggi lucido novantunenne, racconta. Luciano Rapotez: arrestato, torturato e sottoposto per due anni e mezzo a carcerazione preventiva prima di essere assolto dall’accusa di aver commesso un triplice omicidio, infine costretto a emigrare per rifarsi una vita, lontano dagli affetti ormai perduti. Un caso risalente a mezzo secolo fa eppure di stretta attualità.»
L’autrice è a disposizione per presentazioni: sabrinabenussi@gmail.com ]

A BRACCETTO CON LUCIANO RAPOTEZ
Una storia che avviene sempre

In Italia si tortura. Questo è un esempio di uso «gnomico» del presente indicativo. Il presente gnomico è il tempo indeterminato di ciò che avviene sempre. Il significato è: in Italia si è torturato, forse si sta torturando anche in questo momento, ed è probabile che si torturerà in futuro.
Rapotez. Un caso italiano, il documentario di Sabrina Benussi, racconta un episodio di tortura (e carcerazione preventiva, e vessazione prolungata negli anni) a Trieste negli anni Cinquanta. Gli anni Cinquanta di Scelba, della guerra fredda, della persecuzione politico-giudiziaria degli ex-partigiani, della continuità col fascismo negli apparati statali.
Si tratta di un decennio (e di una temperie) che noi Wu Ming abbiamo esplorato a fondo per scrivere i nostri libri Asce di guerra e 54. Vicissitudini non tanto diverse da quella di Luciano Rapotez (che pure «brilla» per durezza e intensità) le abbiamo raccontate anche noi, e mi sento di dire: gli anni Cinquanta sono un decennio mistificato. Se ne sa davvero poco. Sono anni prigionieri di un’immagine offuscata. Tutto ciò che vi accadde è oggi occulto. In questo, sono «fratelli maggiori» (ma meno glamorous) di un’altra decade, gli anni Settanta. Anche lì, mutatis mutandis, violenza politica, scontri di piazza… e tortura.

«Incominciò a picchiarmi il poliziotto *******, mi avvolse una coperta sul torace e con un bastone mi percosse sul torace. Non so quanto stetti in quella stanza. Mi colpirono sulle tempie già gonfie, le fiammelle degli accendini sotto le punte dei piedi e sotto i testicoli, e il tentativo di introduzione del bastone nell’ano […] Mi portarono davanti a due persone in una stanza semibuia, solo in seguito seppi che quei due erano i giudici ****** e *******. Da dietro i poliziotti continuavano a suggerirmi di dire quello che avevo affermato davanti a loro, che era in parte quello che loro mi dicevano che avrei dovuto dire ai giudici». (Testimonianza di un membro dei PAC arrestato nel 1979 a Milano, da Le torture affiorate, volume 4 «Progetto Memoria», ed. Sensibili alle foglie, 1998)

In Italia si tortura. Ogni tanto la notizia di qualche «esagerazione» squarcia il velo, e i giornali si occupano di tortura (ma ufficialmente non si può definirla così!), trattando ogni caso come se fosse «isolato». Ogni tanto riusciamo a gettare una rapida occhiata dentro caserme, commissariati e luoghi simili. «Bolzaneto» è un nome che resterà impresso per sempre nella memoria della mia generazione, e non solo della mia. I fatti del G8 di Genova hanno colpito anche Rapotez, lo racconta nel film. Ha rivissuto, nelle parole dei seviziati, quel che capitò a lui nel 1955, in quelle fatidiche novantasei ore di «interrogatorio».

Ogni tanto sentiamo l’eco di rapporti di Amnesty International sull’Italia. Ogni tanto scoppia un effimero scandalo, c’è un po’ di clamore, poi tutti dimenticano. Chi ricorda più le torture inflitte dai parà della Folgore in Somalia, durante l’operazione “Restore Hope” (1993)?
Ogni tanto esce un libro di cui nessuno parla. Uno di questi, citato sopra, si intitola Le torture affiorate.

In Italia si tortura, ed è un presente più «gnomico» che mai. Succede di continuo, sottotraccia rispetto ai radar. Come spiegare altrimenti tanta resistenza contro l’introduzione del reato di tortura nel nostro codice penale?
Giustamente, nel documentario si ricorda che siamo il Paese di Pietro Verri e Cesare Beccaria. Ma forse sarebbe più corretto dire che siamo il Paese delle pratiche contro cui scrissero quei due illuministi.

«Poiché non rispondevo mi fecero aprire le gambe, mi alzarono la gonna, mi tolsero le mutande e iniziarono a strapparmi alcuni peli del pube. Provai del dolore e gridai. Mi decisi a dare alcune risposte. Poi entrarono i ‘buoni’. […] Dopo un po’ tornarono i cattivi, mi abbassarono nuovamente collant e mutande, mi strapparono altri peli, poi mi fecero alzare la maglietta e mi tirarono i capezzoli. Poi mi fecero alzare e mi fecero appoggiare sul tavolo dicendomi che mi avrebbero violentata infilandomi nella vagina una gamba della sedia. Allora mi decisi a parlare del sequestro Dozier. Quello più grande che mi interrogava ogni tanto mi chiedeva se mi dichiaravo prigioniera politica e ogni volta che rispondevo di sì mi dava un ceffone.» (Brigatista arrestata a Padova nel 1982, cit. in: Giorgio Bocca, Noi terroristi, pp.280-281).


Guardando il documentario, mentre Moni Ovadia teneva Rapotez a braccetto, mi sono chiesto: Rapotez è mancino? Mentre Ovadia gli cinge il braccio sinistro, Rapotez gesticola con quest’ultimo, non con il destro rimasto libero. Sottolinea le frasi con un movimento dell’arto, e ogni volta sembra che a Ovadia «scappi la presa», e invece rimangono a braccetto. Mi è parso di cogliere una metafora della vicenda raccontata (e del documentario stesso), ma ancora vaga, inafferrabile, comunque difficile da esprimere. Poi viene in mente il segno sulla falange, testimonianza dell’antico pestaggio. Quello che mostra Rapotez è un dito della mano sinistra.

La storia di Rapotez – di un’ingiustizia lunga più di cinquant’anni – sembra «scappare», eccedere la nostra comprensione, e invece è sempre lì, si lascia cingere, rimane a braccetto. E continua a porgerci il suo lato ferito, offeso. Il lato di sinistra. E’ una storia raccontata da sinistra. Coerentemente. Cocciutamente.

Questa è una storia di resistenza.

E potete metterci l’iniziale maiuscola, se volete.

Wu Ming 1, Bologna, 20 gennaio 2011

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7 commenti su “Rapotez, ovvero: in Italia si tortura (e si torturerà)

  1. ecco, cominciare così la giornata è proprio una bella cosa!
    grazie, @WM1, per quello che hai raccontato, per come lo hai fatto (il particolare che si fa metafora generale…), per la l’iniziale maiuscola…

  2. Allargando un po’ il discorso dalla tortura agli abusi violenti in generale linko questa notizia di oggi

    http://torino.repubblica.it/cronaca/2011/07/01/news/la_brutta_nottata_dei_punkreas_assaliti_in_hotel_dai_carabinieri-18477679/

    di loro si viene a sapere in quanto famosi, se invece fossero stati 3 ragazzi qualunque finiva sicuramente peggio, e ogni giorno a qualcuno finisce peggio. Ormai da parecchi anni le forze di polizia si sentono autorizzate a fare di tutto perchè sanno che non verranno comunque toccate, e la cosa ancora più grave e che comunque i commenti che si sentono in giro parlano sempre solo di ‘casi isolati’ e di ‘non bisogna generalizzare’.

  3. a me, personalmente, questo discorso sulla tortura mi terrorizza, è come se sospeso sulla testa di ognuno ci fosse un pericolo trascendente, una follia irrazionale guidata dalla mano sicura e lucida del “potere”, forse inteso in senso assolutamente generico. perchè di fronte a questo calcolo di ottusa, “ordinaria”, strategica, incomprensibile violenza ogni uomo diventa l’ombra di se stesso. e forse anche chi non ha razionalizzato il pericolo nascosto dietro il volto trasformista del potere vive con inquieta, inconsapevole angoscia ogni possibile deviazione dal percorso tracciato

  4. Su Radio Onda Rossa:

    Da Bolzaneto alla Val di Susa: la polizia tortura

    http://www.archive.org/download/DaBolzanetoAllaValDiSusaLaPoliziaTortura/110706tortura.mp3

    “I racconti dei compagni arrestati domenica in Val di Susa ripropongono con forza la discussione sulla tortura, largamente praticata dalle forze di polizia nelle caserme, nelle carceri, nei CIE, nelle strade. Ne parliamo con l’avvocata Sara Busoli.”

  5. Bellissimo pezzo. In Italia si tortura anche nelle carceri…gli Stefano Cucchi, i suicidi- di detenuti e agenti.
    19,000 persone stanno portando avanti un’iniziativa guidata da Marco Pannella che chiede un’amnistia per svuotare le carceri e ripristinare un giusto funzionamento della legge http://www.radicali.it/democrazia/noi-sosteniamo-pannella Esiste un appello, sottoscritto da tantissimi artisti, gente di azione e di pensiero e di parole. Se WuMing volesse aderire potrebbe essere importante.
    E in generale, che bello sapere quello che fate.

  6. G8, premiato il medico delle torture
    Un “bonus efficienza” dalla Asl 3 – Genova – Repubblica.it

    La Asl 3 premia il medico genovese che, secondo i giudici della Corte d’Appello, è uno dei responsabili di quel “delirio di violenze, sopraffazioni, umiliazioni” che fu la caserma prigione di Bolzaneto durante il G8 del 2001. Nel 2010, a marzo, Giacomo Toccafondi, seppur i suoi numerosi capi d’imputazione siano andati in prescrizione, è stato però ritenuto civilmente responsabile per gli abusi che commise e i comportamenti che tenne, nella prigione speciale del G8.
    Ma un anno dopo, quando la direzione generale dell’Asl 3 ha dovuto stilare la lista dei dirigenti medici più meritevoli, ecco che Toccafondi compare nell’elenco dei buoni. Non a tutti i suoi dirigenti, infatti, la Asl 3 ha riconosciuto la voce “retribuzione di risultato” che premia i dipendenti più efficienti che hanno centrato i loro obiettivi. Si tratta di 4548,79 euro consegnati al medico che, scrivono i giudici, “anziché lenire la sofferenza delle vittime di altri reati, l’aggravò, agendo con particolare crudeltà su chi inerme e ferito, non era in grado di opporre alcuna difesa, subendo in profondità sia il danno fisico, che determina il dolore, sia quello psicologico dell’umiliazione causata dal riso dei suoi aguzzini” […]