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Genova

Il gioco delle tre dighe. Grandi Opere e «Partecipazione» al porto di Genova.

Le torri di Msc al porto di Genova

[WM: A ritmo serrato di Recovery si annunciano in questi giorni devastanti Grandi Opere, compreso quel bolo indigerito del berlusconismo che è il ponte sullo stretto di Messina. Nel contempo si affinano i già noti strumenti di cattura del consenso e marginalizzazione del dissenso, primo tra tutti quel «dibattito pubblico» di cui ci siamo già occupati a proposito del Passante di Bologna. A Genova, in occasione di una nuova diga del porto al servizio degli oligopoli del trasporto merci, si celebra il primo «débat public» dell’era (post?)covid. E alcuni dei protagonisti sono esattamente gli stessi. Com’era quella frasetta? «Nulla sarà più come prima»? Buona lettura.]

di Wolf Bukowski *

Lo scorso febbraio ho scritto per Internazionale del proliferare di magazzini e infrastrutture logistiche nella pianura bergamasca. Ognuna delle storie di cemento e autostrade che avevo incontrato da quelle parti rimandava a un altrove. Un altrove lontano, com’erano i luoghi in cui le merci erano prodotte, e un altrove prossimo, come il porto in cui le merci, raccolte in container, approdavano. Il tabernacolo della logistica, il luogo sacro della sua produzione di valore, si manifestava ancora una volta come radicato nell’altrove. E infatti stanarlo, precipitarlo almeno temporaneamente a un qui preciso – per esempio bloccando una rotonda o l’accesso a un magazzino – si era dimostrato il solo modo modo efficace per contrastarne lo strapotere.

Con questi pensieri in testa compulsavo i progetti del magazzino «intermodale» di Medlog nel comune di Cortenuova. Medlog è la società di logistica di Msc, secondo operatore al mondo nel trasporto merci marittimo. Il suo magazzino bergamasco era un esempio di quella che un utilissimo podcast di ReCommon indica come «fagocitazione» dell’intera catena logistica da parte dei giganti dello shipping. Dagli oceani fino a terra, fin nelle strade provinciali della bassa Bergamasca, potenzialmente fin sotto casa tua. Prosegui la lettura ›

#Tolkien a #Genova

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di Wu Ming 4

Il tour di presentazioni di Difendere la Terra di Mezzo è agli sgoccioli. Mancano un paio di date a marzo, dopodiché ne avanzeranno forse altre due molto distanziate una dall’altra, a giugno e a settembre. Considerando che ad aprile inizierà il “grand tour” collettivo per L’Armata dei Sonnambuli, sarà giusto evitare le sovrapposizioni e reindirizzare le energie sul nuovo romanzo.
Colgo dunque l’occasione dell’annuncio della presentazione genovese per tirare un paio di somme. Prosegui la lettura ›

«Il Manifesto» – Intervista a Wu Ming 1 sul post-15 ottobre

What is our one demand
[Su «Il Manifesto» di oggi, a firma Roberto Ciccarelli, compare quest’intervista a Wu Ming 1. Il titolo è «Wu Ming, autocritica in movimento». Nel sommario, il dibattito su Giap è definito «il più franco e orizzontale sul 15 ottobre».]


«Bisogna raccogliere tutte le informazioni possibili prima di decidere che un suono è rumore». Con questa citazione di Tom Waits, Wu Ming 1, membro del collettivo degli autori di Q (come Luther Blissett), 54 e Altai, è intervenuto a metà della fluviale discussione sulla manifestazione del 15 ottobre avvenuta sul blog Giap. Nei 467 post prodotti in tre giorni, di suoni se ne sono registrati parecchi e anche il “rumore” è stato meno fastidioso degli inviti alla delazione di massa, o alla ricostruzione dei fatti in base ai rapporti dell’intelligence registrati nell’ultima settimana. Nella discussione pubblica più lunga e articolata avvenuta in rete, molti partecipanti hanno dichiarato senza remore di aver preso parte agli scontri in Piazza San Giovanni, pur riconoscendo che molte cose non hanno funzionato e la manifestazione ha avuto un esito politicamente disastroso. E così anche chi ha condannato con decisione gli scontri ha riconosciuto la difficoltà di leggere i fatti distinguendo tra «violenti» e «non violenti». Finita la lettura, un elemento sembra emergere con chiarezza: la convinzione che la divisione tra la “massa” e “pochi facinorosi” non regge più, così come è a dir poco inadeguato dirsi soddisfatti per aver fatto fallire una manifestazione. Prosegui la lettura ›

Perché voglio bene agli Yo Yo Mundi / Prima parte: #Genova2001, «Sciopero», #Utoya, questi anni

di Wu Ming 1

E’ la sera del 21 luglio 2011 e, a differenza di molte altre persone, non sono a Genova. Vari ostacoli e impedimenti mi hanno impedito di tornare in quelle strade, in via Tolemaide, in Piazza Alimonda.
Nei dieci anni trascorsi dal G8 – e dalla morte di Carlo Giuliani, dall’irruzione alle scuole Diaz, dalle torture di Bolzaneto, da troppe altre cose – ho rimesso piede a Genova varie volte, e un anno fa sono anche passato in Piazza Alimonda. Non la visitavo dal 2002, dal primo anniversario della morte di Carlo. In quell’occasione, avevo buttato giù alcuni appunti sulla memoria, sui monumenti, sui rituali. A distanza di otto anni, volevo vedere quali ricordi fossero rimasti bloccati tra gli edifici, impigliati ai rami degli alberi, stampigliati sul marciapiede di fronte alla chiesa. Volevo vedere, e prendere nuovi appunti, perché stavo scrivendo un breve racconto sul G8 del 2001. Un racconto, per riprendere in forma narrativa l’autocritica di qualche tempo prima. Ma quella visita è stata inutile: non sono riuscito a capire niente, faticavo a orientarmi, non sembrava nemmeno la stessa piazza. Non una scritta, non un mazzo di fiori.
Ieri, alla commemorazione del decennale, è stato tutto molto diverso. Ho visto i video, letto i commenti. Piazza Alimonda era quella Piazza Alimonda, cioè “Piazza Carlo Giuliani, ragazzo”. Adesso una targhetta c’è. E come ogni targhetta di quel genere, è in attesa dei propri vandali.
Il racconto, ad ogni modo, io l’ho scritto. Prosegui la lettura ›

Rapotez, ovvero: in Italia si tortura (e si torturerà)


[Quelle che seguono sono “note di visione” sul documentario Rapotez. Un caso italiano (Italia, 2010) di Sabrina Benussi, durata 53’.  Con Luciano Rapotez, Gherardo Colombo, Marcello Flores, Moni Ovadia.
Il testo è stato scritto nel gennaio scorso in occasione del Trieste Film Festival e allegato alla cartella stampa del documentario. Doveva uscire anche sul quotidiano Il Piccolo, ma all’ultimo momento l’accordo è saltato per ragioni (a-ehm! cough! cough!) tecniche. Dalla scheda del film:
«Una lunghissima e tormentata vicenda giudiziaria quella che il protagonista, oggi lucido novantunenne, racconta. Luciano Rapotez: arrestato, torturato e sottoposto per due anni e mezzo a carcerazione preventiva prima di essere assolto dall’accusa di aver commesso un triplice omicidio, infine costretto a emigrare per rifarsi una vita, lontano dagli affetti ormai perduti. Un caso risalente a mezzo secolo fa eppure di stretta attualità.»
L’autrice è a disposizione per presentazioni: sabrinabenussi@gmail.com ]

A BRACCETTO CON LUCIANO RAPOTEZ
Una storia che avviene sempre

In Italia si tortura. Questo è un esempio di uso «gnomico» del presente indicativo. Il presente gnomico è il tempo indeterminato di ciò che avviene sempre. Il significato è: in Italia si è torturato, forse si sta torturando anche in questo momento, ed è probabile che si torturerà in futuro. Prosegui la lettura ›

Pensando alle rivolte del 2011: Tamburi a Genova (nell’anno del decennale)

Scena da un riot qualsiasi (non è Genova)

In Italia e in buona parte d’Europa le ultime settimane del 2010 hanno visto un brusco inasprimento del conflitto sociale. La questione della “violenza” è tornata all’ordine del giorno. Questione banale, che costringe a essere banali: la “violenza” che accende di sdegno gli opinionisti,  fa esplodere i titoli dei TG e riempie articoli e servizi non è mai quella dei padroni e dei governi. Non è la violenza di chi taglia o licenzia, discrimina ed esclude, non è quella di chi specula,  gioca d’azzardo con soldi virtuali ma ne incassa di veri, e se perde paga Pantalone (“privatizzare i profitti, socializzare le perdite”), non è la violenza di chi reprime. Queste violenze sono anzi elogiate, chi le compie è un moderno benefattore o, se si vola basso, “sta soltanto facendo il suo lavoro”. Proprio come, a suo tempo, il figlio di Maria Schefferling e Adolf Karl Eichmann.
No, la “violenza” di cui si dibatte, la “violenza” che si condanna è sempre quella della rivolta. Non solo per ipocrisia e servilismo, ma anche perché la rivolta è … poco sottile. E’ visibile e vistosa. Fotogenica, telegenica e al contempo inaccettabile. La rivolta attrae e respinge, coinvolge anche chi non  la vuole e, in segreto, esalta anche chi la condanna.  Non c’è filmato di riot o sommossa che non attivi i neuroni specchio di chi lo guarda, facendolo sentire in quelle strade, tra chi alza barricate, fugge o insegue. La critica, la spiegazione, la condanna, gli argomenti…Tutto questo viene dopo. Prosegui la lettura ›