7 commenti su “Scarica «Emilio Comici Blues», radiodramma musicale di Wu Ming 1 & Funambolique, tratto da #PointLenana

  1. Anzitutto c’è in “Emilio Comici Blues”, se confrontato con “Arzestula”, un ampliamento delle soluzioni da voi messe in campo, sia tecniche sia espressive. Direi che la cosa si spiega facilmente: sono passati alcuni anni, e sono stati anni in cui vi siete esibiti insieme, avete fatto prove, avete approfondito l’interplay. Già questo si avvertiva nitidamente negli estratti dei vari live che avete messo online dal 2013: la registrazione in studio, se da un lato sacrifica una parte della chimica che si crea sul palco, dall’altro permette di apprezzare meglio le sfumature e i dettagli che rivelano l’accuratezza del lavoro: il semplice fatto che Paolo abbia sotto le dita anche uno strumento acustico, e non solo una tastiera, contribuisce a dare profondità alla musica; la materia ne è scaldata.
    Rispetto ad “Arzestula” mi sembra che la scrittura dei temi sia più contrappuntistica, specie nei primi movimenti. Così com’è più vasta la gamma delle armonie esplorate: domina quella tonale, in “Arzestula” era lo stesso, con le classiche estensioni jazzistiche degli accordi, ma ci sono momenti di politonalità (il trasporto delle quinte –perdonatemi tutt*- contro il tema che precede “Triste domenica”), il lungo pedale verso la conclusione, e sprazzi atonali, rumoristici o timbrici. Il tutto è però messo insieme con coerenza: i cambi d’atmosfera, anche quando bruschi, sono logici, producono drammaturgicamente senso. L’acme di tutta la costruzione è “La falciata della morte/l’impronunciabile giorno”, momento potentissimo, vero e proprio spannung della suite.
    Più variegate sono pure le modalità d’interazione con la voce: tutta la band che improvvisa, oppure tutta la band che esegue il tema, bassa di dinamica, oppure ancora gruppi di due o singoli strumenti che si alternano (forse in questo ultimo caso il volume del missaggio sotto alla voce è stato tenuto un poco basso, ma magari è un’impressione solo mia).
    Rispetto ad altre esecuzioni, soprattutto de “Le ali dell’angelo”, qui la lettura ritmica è portata in modo più sciolto, non rigidamente agganciata al ¾, per quanto la metrica si avverta perfettamente: non ha l’aria dell’esercizio, insomma.
    Aggiungo ancora che escono swinganti tutti i tempi di danza, grazie anche al modo in cui è stata microfonata la batteria, con tanta presa dell’ambiente, mi pare.

    • Verissimo, e anche in «Val Rosandra». La lettura “agganciata” al ritmo, quasi da filastrocca, era eccessiva, in parte dovuta al potere trascinante del 3/4, e forse in parte al metro che già era sotteso a quella parte di testo: Emilio “danza” in parete, danza un walzer ecc. Mi è stato consigliato di “trattenermi”, di contrastare l’impellenza del ritmo, ritardando di una frazione di secondo le entrate, stando fermo col corpo (prima tendevo a dondolare mentre leggevo) e altri trucchetti. Adesso la lettura è sempre a tempo col 3/4, ma non nel modo pedante di prima.

      • Pardon, giorni che sono poco online, e leggo solo ora.
        Esatto, contrastare il tempo: è proprio quello l’elemento che crea la carica ritmica. Il contrasto tra una pulsazione fissa e un tempo più elastico, leggermente in anticipo o leggermente in ritardo rispetto al battito metronomico, è la classica spiegazione musicologica dello swing. Ci vuole anche altro per swingare, certo, altrimenti potrebbe farlo anche una drum machine (e invece lo swing è una delle cose più irriproducibili elettronicamente che la musica conosca), però questo è un altro discorso.
        Più in generale, ogni volta che all’interno di un ensemble c’è una sezione ritmica che agisce su un tempo regolare mentre lo strumento melodico o di canto, invece di fraseggiare anch’esso su quel tempo, si muove più liberamente, disegnando archi irregolari di note o parole, noi abbiamo la percezione di una tensione in atto, e scatta la carica ritmica che ci porta a oscillare il capo, battere il piede o muovere altrimenti e scompostamente il corpo. Se il solista, il cantante o nel caso di WM1 il locutore agisse sul tempo regolare come gli altri strumenti, sentiremmo comunque il ritmo, ma il suo impulso sarebbe più scarico, più resistibile.
        Alzo la mano sopra lo schermo del computer, c’è lo scaffale dei cd: prendo “Tomorrow Is the Question!” di Ornette (non ne possiedo il vinile, ma una copia digitally remastered pubblicata negli anni ’90)… btw, non ho ancora elaborato il trauma dall’11 giugno… TitQ è un album che non ha troncato i ponti con i precedenti due decenni di jazz: i temi, benché angolosi, non si sono definitivamente allontanati dal canone; la sezione ritmica, con Percy Heath/Red Mitchell al basso e Shelly Manne alla batteria, suona come o meglio di altre sezioni ritmiche della west coast sue contemporanee, ma anch’essa alla maniera canonica. Blues/swing/bop/hard bop, gli elementi sono quelli. Ma quando Ornette e Don Cherry attaccano a improvvisare, lo fanno in totale libertà dal 4/4 che basso e batteria proseguono a srotolare imperterriti. È quest’attrito che genera una potenza ritmica raramente sperimentata prima. La stessa che, ai tempi del quartetto classico degli Weather Report, si ascoltava quando Wayne Shorter sgranava gruppi mutageni di note sopra al tempo solidamente quadrato della batteria di Peter Erskine, come improvvisasse in completa solitudine. È questo il bello di contrastare il tempo, giustissimo consiglio che ti è stato dato.

        • Secondo me, se parliamo di reading, il lavoro più interessante su parola e ritmo lo ha fatto Linton Kwesi Johnson, scrivendo e recitando i suoi versi in modo da evocare il reggae, i tempi in levare, la poliritmia della koinè musicale afroatlantica e, nello specifico, afrocaraibica. Ascoltando bene Linton quando declama senza musica, ci si rende conto che non si limita a trovare una cadenza dondolante, ma la lavora da dentro, ne esce e ci rientra, accelera e rallenta, senza mai far perdere il senso del beat. Magari tu, Luca, puoi dire qualcosa di più tecnico su questo. Ho già linkato in una vecchia discussione su Giap questa poesia, la ri-linko ora:

          Linton Kwesi Johnson, If I Woz A Tap-Natch Poet

          Qui sotto metto il testo e, di seguito, una mia indegna traduzione (nessuna traduzione sarà mai all’altezza):

          If I woz a tap-natch poet
          like Chris Okigbo
          Derek Walcott
          ar T.S.Eliott

          ah woodah write a poem
          soh dam deep
          dat it bittah-sweet
          like a precious
          memory
          whe mek yu weep
          whe mek yu feel incomplete

          like wen yu lovah leave
          an dow defeat yu kanseed
          still yu beg an yu plead
          till yu win a repreve
          an yu ready fi rack steady
          but di muzik done aready

          still
          inna di meantime
          wid mi riddim
          wid mi rime
          wid mi ruff bass line
          wid mi own sense a time

          goon poet haffi step in line
          caw Bootahlazy mite a gat couple touzan
          but Mandela fi im
          touzans a touzans a touzans a touzans

          if I woz a tap-natch poet
          like Kamau Brathwaite
          Martin Carter
          Jayne Cortez ar Amiri Baraka

          ah woodah write a poem
          soh rude
          an rootsy
          an subversive
          dat it mek di goon poet
          tun white wid envy

          like a candhumble/ voodoo/ kumina chant
          a ole time calypso ar a slave song
          dat get ban
          but fram granny

          rite dung to gran pickney
          each an evry wan
          can recite dat-dey wan

          still
          inna di meantime
          wid mi riddim
          wid mi rime
          wid mi ruff bass line
          wid mi own sense a time

          goon poet haffi step in line
          caw Bootahlazy mite a gat couple touzan
          but Mandela fi im
          touzans a touzans a touzans a touzans

          if I woz a tap-natch poet
          like Tchikaya U’tamsi
          Nicholas Guillen
          ar Lorna Goodison

          an woodah write a poem
          soh beautiful dat it simple
          like a plain girl
          wid good brains
          an nice ways
          wid a sexy dispozishan
          an plenty compahshan
          wid a sweet smile
          an a suttle style

          still
          mi naw goh bow an scrape
          an gwan like a ape
          peddlin noh puerile parchment af etnicity
          wid ongle a vaig fleetin hint af hawtenticity
          like a black Lance Percival in reverse
          ar even worse
          a babblin bafoon whe looze im tongue

          no sah
          nat atall
          mi gat mi riddim
          mi gat mi rime
          mi gat mi ruff bass line
          mi gat mi own sense a time

          goon poet bettah step in line
          caw Bootahlazy mite a gat couple touzan
          but Mandela fi im
          touzans a touzans a touzans a touzans

          Traduzione di Wu Ming 1:

          SE FOSSI UN POETA DI PRIM’ORDINE

          Se fossi un poeta di prim’ordine
          come Chris Okigbo
          Derek Walcott
          o T.S.Eliot

          Scriverei una poesia
          così dannatamente profonda
          da essere agrodolce
          come un prezioso
          ricordo
          che ti fa piangere
          ti fa sentire incompleto

          come quando la tua amata ti lascia
          e anche se ammetti la sconfitta
          implori e preghi
          finché non ottieni una proroga
          e sei pronto per il rock-steady
          ma la musica è già finita.

          Intanto
          io ho il mio ritmo
          ho la mia rima
          ho la mia grezza linea di basso
          ho il mio senso dell’andare a tempo
          il poetastro dovrà mettersi in fila
          perché forse Bootahlazy ne aveva duemila
          ma Mandela ne aveva
          migliaia e migliaia e migliaia e migliaia.

          Se fossi un poeta di prim’ordine
          come Kamau Brathwaite
          Martin Carter
          Jayne Cortez o Amiri Baraka

          scriverei una poesia
          così rude
          e popolare
          e sovversiva
          che il poetastro
          diventerebbe bianco per l’invidia.

          come un canto candomblè, voodoo o kumina,
          un vecchio calypso, una canzone da schiavi
          che è messa al bando ma
          discende dalla nonna
          giù fino ai nipoti
          e tutti quanti possono cantarla
          quanto gli pare.

          nel frattempo
          io ho il mio ritmo
          ho la mia rima
          ho la mia grezza linea di basso
          ho il mio senso dell’andare a tempo
          il poetastro dovrà mettersi in fila
          perché forse Bootahlazy ne aveva duemila
          ma Mandela ne aveva
          migliaia e migliaia e migliaia e migliaia.

          Se fossi un poeta di prim’ordine
          come Tchikaya U’tamsi
          Nicholas Guillen
          o Lorna Goodison

          Scriverei una poesia
          tanto bella quanto semplice
          come una ragazza dall’aspetto normale
          con un bel cervello
          e belle maniere
          con un atteggiamento sexy
          e tanta empatia
          con un sorriso dolce
          e uno stile sottile.

          eppure
          non mi inginocchierò né chiederò elemosine
          non farò la scimmia
          non chiederò una puerile pergamena di etnicità
          con soltanto un vago sentore di autenticità
          come un Lance Percival nero a rovescio
          o peggio ancora
          un blaterante buffone con la lingua sciolta.

          nossignore
          proprio no
          io ho il mio ritmo
          ho la mia rima
          ho la mia grezza linea di basso
          ho il mio senso dell’andare a tempo
          il poetastro dovrà mettersi in fila
          perché forse Bootahlazy ne aveva duemila
          ma Mandela ne aveva
          migliaia e migliaia e migliaia e migliaia.

          • Credo che Linton abbia pensato la performance in modo che ad ogni ritornello l’allontanamento dal beat fosse sempre più marcato. Come se stesse dicendo: “ok, ti ho fatto sentire il tempo sotteso alla poesia, ora puoi batterlo tu, mentre io lo deformo, mi muovo plasticamente al suo interno, improvviso metriche diverse”.
            E infatti: dopo il verso 1, scandito liberamente a mo’ di intro, le prime due strofe sono tutte a tempo. Tipo 100 bpm (battute per minuto), una cosa così, sto andando a spanne. Magistrale il modo in cui si appoggia sulle sillabe lunghe per legare i tempi forti ai tempi deboli: lo si sente benissimo al verso 11, dove la parola “incomplete” cade tra battere e levare, e lui fa perno sul “ple” per marcare il tempo forte. Idem sul primo “touzan” della seconda strofa: “tou” tempo debole, “zan” tempo forte.
            Al secondo ritornello le cose cambiano: la quarta strofa è ancora al tempo di prima, ma la terza no. La lettura della terza strofa è “offbeat”: c’è una metrica implicita, ma Linton, recitandola, la frammenta, rallenta e accelera a seconda delle necessità del testo. Addirittura c’è un verso, “like a candhumble/ voodoo/ kumina chant”, che è letto a tempo, però è un tempo più rapido, diverso dal reggae su cui è impostato tutto il resto delreading. Nessun altro verso è letto così. Ora, non vorrei esagerare, ma azzardo che l’effetto sia assolutamente voluto, cioè che LKJ avesse proprio in mente di evocare il tempo dei canti e delle danze candomblé.
            Con il terzo ritornello, strofe 5 e 6, il beat è dissolto: anche i versi “mi gat mi riddim” etc, che alla ripetizione precedente servivano per riagganciarsi al tempo di partenza, qui sono svincolati da una lettura metrica rigida.
            Comunque, considerazioni tecniche a parte, ascoltare questa roba è entusiasmante…

  2. Mariano Tomatis su «Emilio Comici Blues» – e su #PointLenana @Einaudieditore

  3. Mai titolo fu più azzeccato. Il reading musicale che avete dedicato alla vicenda umana di Emilio Comici è a tutti gli effetti un blues e, allo stesso tempo, è costituito degli elementi fatali della tragedia.
    Quello di Comici appare come uno studio matto e disperatissimo delle rocce e del modo di scavalcarle per portarsi sempre un po’ più in alto, nella maniera più elegante possibile. Un’ossessione così forte – nell’accezione in cui se ne parla ne “I falliti” di Motti – non può che far pensare al suicidio.
    Quando ho letto Point Lenana, di Comici non sapevo nulla di nulla, ma – così come emergeva dalle pagine – ho sentito da subito addosso al personaggio quel peculiare odore di disperazione di chi ha difficoltà a vivere del proprio talento, di chi è costretto a vivere lontano dalla propria missione. Ora, ascoltando il reading, quell’odore si è concretizzato in due figure esemplari. Una è quella di Piero Ciampi, con il suo suicidio lungo una vita. Emilio Comici, come il cantautore livornese, “ha tutte le carte in regola” per essere un artista, un eroe maledetto, un depresso che vola troppo in alto.
    La seconda figura, con quella morte grottesca, è quella di Durruti, del Durruti di Hans Magnus Enzensberger che, destinato a morte gloriosa, si spara per errore.

    La “falciata della morte” già alla prima lettura mi aveva commosso, qui ad alta voce e inquadrata dalle musiche dei Funambolique, mi ha molto impressionato, come anche la lunga marcia funebre finale: delicata, scura, intima, torbida, toccante.

    Go’ de devul in mah soul an Ah’m full uh bad booze
    Go’ de devul in mah soul an Ah’m full uh bad booze
    AH’m out heah fo’ trouble, Ah’ve go’ de Emilio Comici Blues