Terrorismo, migranti, foibe, marò, fascismo… Appunti sul vittimismo italiano

Colpevole di essere italiano

di Wu Ming 1

Ho cominciato a prendere questi appunti ormai molti mesi fa, dopo aver letto in sequenza il libro di Federico Tenca Montini Fenomenologia di un martirologio mediatico. Le foibe nella rappresentazione pubblica dagli anni Novanta a oggi (KappaVu, 2014) e il pamphlet Critica della vittima di Daniele Giglioli (Nottetempo). I due libri sono complementari. Tenca Montini e Giglioli affrontano gli stessi nodi di fondo. Il primo lo fa analizzando un case study molto significativo, ricostruendo genesi, sviluppo e affermazione, nel corso degli anni Novanta e degli anni Zero, del discorso sulle «foibe». Discorso quintessenzialmente vittimistico, perfettamente coerente con l’autonarrazione deresponsabilizzante spesso riassunta nell’espressione «Italiani brava gente»; Il secondo, invece, fotografa la tendenza egemone dei nostri tempi, la centralità della «vittima» nell’immaginario italiano e occidentale contemporaneo.

Quella che era partita come riflessione ispirata dalla lettura quasi contemporanea dei due saggi, si è gonfiata come un torrente a fine inverno e ha trascinato a valle detriti di polemiche di cronaca, storiografiche e di costume.

duelibri


RIMUOVERE TUTTE LE PREMESSE TRANNE UNA

Ovviamente, le vittime sono sempre esistite. Quelle vere e quelle presunte. Anche il vittimismo – il “fare la vittima”, l’atteggiarsi a vittima – non è una novità, e si manifesta da sempre in tutto il mondo.
Anche il vittimismo dei poteri costituiti, il vittimismo di stato, ha una lunga storia, e plausibilmente un radioso futuro. Per ragioni facilmente intuibili, nella storia non c’è guerra d’aggressione che non sia stata scatenata da una sedicente vittima, da qualcuno che affermava di doversi difendere, reagire a una minaccia, riparare un torto subito, far valere un diritto negato ecc. Ogni volta si fa iniziare la storia dove fa più comodo, per negare le proprie colpe e responsabilità e poter dire che «hanno cominciato gli altri».

Su chi siano esattamente questi altri è meglio che le idee rimangano confuse, in modo da poter attribuire loro, con elasticità e senza dover spiegare troppo, il maggior numero possibile di nefandezze, anche in contraddizione l’una con l’altra.
Ad esempio, dando all’opinione pubblica un’idea disinformata e dozzinale sugli “islamici”, i “musulmani”, i “terroristi arabi”, insomma quelli là con gli stracci in testa, gli USA poterono attaccare l’Iraq in nome delle vittime newyorkesi dell’11 settembre 2001, anche se l’Iraq e il suo regime (notoriamente laico) erano totalmente estranei all’attentato, e la guerra aveva evidentemente altri scopi.

Saddam non aveva mai appoggiato Al Qaeda. Al contrario, gli USA avevano a lungo e pubblicamente foraggiato – in chiave antisovietica e antipanarabista – lo stesso fanatismo islamico che ora dicevano di voler combattere. Lo avevano fatto in tutto il mondo musulmano, dal Nordafrica alla Palestina all’Afghanistan, creando mostri un po’ ovunque. Ma tutta la storia precedente l’11 settembre 2001 era stata rimossa dal racconto. Bisogna sempre rimuovere il maggior numero possibile di premesse, lasciandone solo una di comodo: quella che ci deresponsabilizza.  L’abbattimento delle Twin Towers era diventato quella premessa.

In seguito, le catastrofiche guerre di Bush sono state rimosse a loro volta, come è stato rimosso tutto il razzismo, tutto l’imperialismo culturale vomitato su arabi e musulmani negli anni della War on Terror, come sono stati rimossi gli abusi di Abu Ghraib e – soprattutto – Guantanamo. Scomparse le extraordinary renditions, scomparse le torture CIA.

Oggi si blatera dell’ISIS senza mai spiegare che quel movimento ultrareazionario, schiavista, islamonazista, è l’esito di decenni di precise scelte politiche, militari ed economiche. È senz’altro più comodo parlarne come se fosse nato dal nulla, o meglio, da una misteriosa predilezione dei musulmani (tutti!) per il fanatismo e la violenza politica. In questo modo, si può piegare la lotta al terrorismo a una generica “politica della paura”, come la chiama Serge Quadruppani, finalizzata a un sempre più capillare controllo sociale.

E fateci caso: ogni volta si riparte da capo.
L’11 settembre 2001 tutti i commentatori dissero: «Da oggi, abbiamo la guerra in casa».
Quando fu colpita la metropolitana di Madrid, tutti i commentatori dissero: «Da oggi, abbiamo la guerra in casa».
Quando fu colpita la metropolitana di Londra, tutti i commentatori dissero: «Da oggi, abbiamo la guerra in casa».
Dopo la strage nella sede di Charlie Hebdo, tutti i commentatori hanno detto: «Da oggi, abbiamo la guerra in casa».
Non si va mai più indietro di oggi. E quindi non si capisce un cazzo.
Anche perché scompaiono le lotte vere, le resistenze popolari concrete all’ISIS, come quella che ha luogo da mesi a Kobane.

Troviamo la stessa strategia discorsiva quando si parla di immigrazione. Normale, perché il dibattito sul terrorismo maschera quello sull’immigrazione, o meglio, quello mai esplicito sulla forza-lavoro migrante, forza-lavoro da sfruttare riconoscendole il minimo dei diritti – o meglio ancora, nessuno.
Si parte inveendo contro l’ISIS… e  si finisce subito a parlare dei “barconi”, si ripropone tutto il repertorio di bufale razziste sui soldi immaginari che lo stato darebbe agli “extracomunitari” ecc.

Anche qui, viene rimosso il maggior numero possibile di premesse.
Il colonialismo europeo – compreso quello dell’Italia – ha invaso, devastato e depredato Africa e Asia.
Le multinazionali nordamericane ed europee – comprese quelle italiane – continuano a sfruttare e depredare quelle terre, a sottrarne sistematicamente le risorse, in un sistema di “scambio ineguale” e divisione internazionale del lavoro che ha come principio regolatore un razzismo oggi non più dichiarabile ma pienamente operativo. Ai popoli implicitamente ritenuti “inferiori” toccano lavori peggiori e salari più bassi.
Ma quando si parla di immigrazione, tutto questo scompare. Non siamo più “noi” (bianchi, occidentali, capitalisti, colonialisti) ad avere invaso l’Africa, sterminato popolazioni, sfruttato il lavoro dei colonizzati, rubato terra e materie prime ecc.
Macché, sono gli africani che stanno “invadendo” noi. Stop invasione!

Perché noi siamo le vittime. Sempre. Da sempre.

Soprattutto noi italiani.


ALLE RADICI DEL VITTIMISMO ITALIANO: I MITI DI ROMA E VENEZIA

Si diceva: il vittimismo non è una novità. Parlare del vittimismo è, per molti versi, parlare dell’acqua calda. Ma quello dell’ideologia dominante italiana è un vittimismo peculiare, specifico, e negli ultimi decenni si è caricato di ulteriori connotazioni. Ogni paese ha le sue sorgenti, la sua acqua, con diverse percentuali di stronzio e altri minerali.

L’Italia come nazione è pressoché interamente edificata su un immaginario vittimista, a partire dall’Inno di Mameli: noi fummo «sempre calpesti e derisi». Vittimismo chiagni e fotti: rileggiamo La grande proletaria si è mossa di Pascoli, pensiamo al mito della «vittoria mutilata» (espressione coniata da D’Annunzio)… L’Italia, che è stata molto più spesso carnefice, non sa rappresentarsi se non come vittima. Vittima di soprusi antichi e recenti. Si veda com’è raccontata la vicenda diplomatica dei due Marò, «i nostri ragazzi», l’India cattiva, gli oscuri complotti…

A monte di tutto è implicito un sopruso più grande, il sopruso. L’Italia sarebbe vittima di una caduta in disgrazia rispetto ad «antichi fasti» come quelli dell’Impero Romano, del Rinascimento o di Venezia come potenza coloniale. Una “pappa” di entità e periodi diversi che con l’Italia intesa come stato-nazione (sabaudo, fascista e poi repubblicano) non c’entrano assolutamente nulla.

Quello della continuità tra Roma e lo stato-nazione italiano è un mito tecnicizzato, nato nell’Ottocento ma portato al parossismo durante il Ventennio, e poiché col fascismo non abbiamo mai fatto i conti fino in fondo, la “romanità” farlocca del fascismo è ancora oggi largamente accettata e riproposta senza alcuna messa in discussione (ad esempio, nel 2011 da Roberto Benigni durante la sua lectio magistralis sull’Inno di Mameli, che ho analizzato qui), a dispetto della sua infondatezza.

Benigni sul cavallo bianco

In nessuna fase della sua storia Roma si pensò «Italia», né i Romani si sentivano «italiani». Roma era Balcani, Nordafrica, Asia Minore, Iberia, Europa settentrionale ecc. Roma fu poi Bisanzio, la «romanità» non fu mai «italianità», ci si diceva «romani» in Anatolia, nel Mediterraneo orientale e in luoghi oggi definiti “Oriente”. Alcuni imperatori romani non misero mai piede sulla penisola italica. Diocleziano vide Roma una volta sola nella vita, al momento di abdicare.
Prima dell’Ottocento, l’idea dell’Italia come stato-nazione non era nella testa di nessuno.
Quanto a noi, non siamo mai stati la “stirpe romana”. Mai. Siamo i discendenti meticci di tutte le popolazioni che hanno invaso la penisola o vi si sono stabilite, ibridandosi con quelle che c’erano arrivate prima, processo il cui inizio si perde nella notte dei tempi e tuttora prosegue. Siamo etruschi, celti, longobardi, ostrogoti, normanni, arabi, spagnoli e chissà chi altri. Siamo da sempre terra di immigrazione. Siamo immigrati di n-esima generazione.

Fittizia anche la continuità con Venezia nel discorso revanscista sull’Adriatico orientale, recentemente riproposto da Simone Cristicchi e Jan Bernas nel fortunato e disonestissimo spettacolo Magazzino 18, dove si afferma che in Istria «anche le pietre parlano italiano».
[N.B. In quella parte di spettacolo Cristicchi cita, senza dirlo, il verso di una canzone neofascista – Di là dall’acqua della Compagnia dell’Anello – che a sua volta citava un autore fascista, franchista e collaborazionista, Renzo Lodoli.]

Il piedestallo di questo discorso, a malapena verniciato di culturalismo, è il solito, rancido concetto di stirpe. Gli scambi che derivano dalla premessa sono tutti sintetizzabili così:

– L’Istria, Fiume e la Dalmazia erano terre italiane, parte dell’Italia!
– Veramente no, sono sempre state terre multietniche e plurilingui. L’Istria fece parte del regno d’Italia per un periodo molto breve, dal Trattato di Rapallo del 1920 alla sconfitta dei nazifascisti nella seconda guerra mondiale. Quanto alla Dalmazia, solo una piccola porzione fu inclusa per breve tempo del regno d’Italia. Solo il 5% della popolazione dalmata parlava italiano, ed erano quasi tutti concentrati in una sola città, Zara. Quanto a Fiume, fu “italiana” per un periodo ancora più limitato, in seguito al colpo di stato fascista contro lo Stato Libero di Fiume, nel 1922, che portò all’annessione del 1924.

[Pausa…]

– E allora i secoli di dominazione veneziana dove li mettiamo?!!
– Beh, io una mezza idea ce l’avrei!

Se a far valere la patente di «italianità» sono i secoli di dominazione veneziana, perché mai nel 1915 si riteneva “italianissima” e perciò “irredenta” Trieste, che era asburgica da più di mezzo millennio (lo fu dal 1382 al 1918) e si era posta sotto la protezione del duca d’Austria proprio per non finire sotto Venezia, con cui era già stata in guerra?

Se a far valere la patente di «italianità» sono i secoli di dominazione veneziana, perché nel 1918 il Regno d’Italia occupò militarmente e dichiarò italiane parti dell’entroterra e della montagna slovena dove Venezia non aveva mai messo piede e – soprattutto – dove non viveva un solo parlante italiano?

E magari gli avi di chi rivendica tale continuità di stirpe con Venezia-che-era-già-Italia erano arabi di Sicilia o normanni di Basilicata, ai quali non passava nemmeno per l’anticamera del cervello di avere come patria “l’Italia”, o di pensarsi medesima stirpe del patriziato veneziano che, mille chilometri più a nord, si godeva i frutti delle razzie compiute oltreadriatico (e anche nell’entroterra della Serenissima, se è per questo).

Insomma, anche quella della stirpe italica in continuità col dominio veneziano è una supercazzola con scappellamento all’estrema destra, anche quando viene da bocca “di sinistra” (sempre per modo di dire, eh!), inconsapevole o paracula che sia. A volte inconsapevole e anche paracula. Le due cose non si escludono.


LA STORIA DEL CONFINE ORIENTALE COME «INSTRUMENTUM REGNI» E IL RUOLO DEL PD

Il vittimismo non è una novità. Ciò non toglie che, come strategia discorsiva, non sia mai stato vincente come appare oggi.

La novità è l’onnipervasività del «paradigma vittimario», come lo ha chiamato Giovanni De Luna. Oggi, scrive Giglioli, «chi sta con la vittima non sbaglia mai». La possibilità di dichiararsi vittima è «una posizione strategica da occupare a tutti i costi». Abbiamo assistito e tuttora assistiamo a guerre per «stabilire chi è più vittima, chi lo è stato prima, chi più a lungo». Chi combatte queste guerre lo fa in nome di una «aristocrazia del dolore», di una «meritocrazia della sfortuna»: – Io sono vittima perché è stato vittima mio padre, e prima di lui lo è stato mio nonno! Ho avuto la sfortuna di essere loro figlio e nipote, e quindi merito di essere considerato vittima!

Giglioli parla di «tragedie per procura», di «risentimento in appalto», ma io parlerei di usu capione: la mia famiglia vive in questa condizione vittimale da decenni, adesso è mia per forza di legge. Da qui la richiesta di uno status particolare, fatto di cerimoniali ad hoc, giornate commemorative, vie intitolate, bonus di vario genere, risarcimenti, riconoscimenti… Giglioli si chiede, retoricamente: «Chi, sano di mente e retto di cuore, prescriverebbe ai suoi discendenti di continuare a soffrire per lui?»

Simone Cristicchi

Eccoci, entriamo a pie’ pari nella vicenda del cosiddetto «Esodo giuliano-dalmata», innervata a quella delle «foibe».

Dapprima è stata la destra post-fascista (e sul «post» ovviamente ci sarebbe da dire) a «nazionalizzare» l’immaginario vittimale del confine orientale e a trasformarlo in instrumentum regni. Questo è avvenuto grazie alla fine di quegli «impedimenti» post-bellici che l’avevano confinata in una nicchia.

Nel suo libro Tenca Montini lo ricostruisce molto bene: fino agli anni Novanta del XX secolo, soltanto in Venezia Giulia l’immaginario vittimale “giuliano-dalmata” si era compiutamente trasformato in instrumentum regni. Persino l’urbanistica di Trieste e altri centri urbani nei dintorni furono radicalmente modificate dall’immaginario vittimale.
Molto chiara in questo senso la storia dei nuovi sobborghi per profughi costruiti per «italianizzare» zone ad alta presenza slovena ed alterarne gli equilibri non solo etnici ma anche elettorali, come spiegano con dovizia di esempi Piero Purini nel suo libro  Metamorfosi etniche. I cambiamenti di popolazione a Trieste, Gorizia, Fiume e in Istria. 1914-1975 (KappaVu, 2010) e Sandi Volk nel suo Esuli a Trieste. Bonifica nazionale e rafforzamento dell’italianità sul confine orientale (KappaVu, 2004).
Nel resto d’Italia, nulla di paragonabile.

Ma con la caduta dell’URSS, la fine della Jugoslavia, la fine della «Prima Repubblica» e dell’arco costituzionale ecc. la situazione cambia all’improvviso, scompaiono i «blocchi» e la destra post-missina, soggetto di importanza strategica nel blocco di potere berlusconiano, può darsi subito un gran daffare.
Raccontata così, però, sarebbe davvero troppo semplice. Fin da subito aiuta la destra il cosiddetto «centrosinistra». Si sviluppa una forma di «consociativismo della memoria» funzionale alle «larghe intese» che – molti anni prima di essere ufficializzate in parlamento – già hanno luogo nell’economia e nella società.

In quest’epoca, a metà degli anni ’90, si verifica quella che Tenca Montini definisce «inclusione dei postcomunisti nella storiografia nazionalistica». Sono gli anni in cui Luciano Violante cerca la conciliazione con gli eredi dei “ragazzi di Salò”, espressione edulcorante per i soldati  di uno stato-fantoccio collaborazionista voluto da Hitler.

Oggi siamo andati molto più in là, il testimone è quasi interamente passato di mano e il ruolo principale ce l’ha l’intellighenzia dell’area PD. E’ stato  Giorgio Napolitano la figura politica e istituzionale più attiva su quel versante. Solo per ricordare l’episodio più recente, poco tempo fa ha commemorato il capo neofascista Almirante, già redattore della rivista La difesa della razza.
Se Napolitano è primus inter pares, rivalutazioni del genere le troviamo a tutti i livelli del partito, ovunque giriamo lo sguardo: il governo Renzi si era appena insediato quando il neoministro della difesa Roberta Pinotti ha omaggiato l’aviatore fascista Luigi Gnecchi, reduce della guerra civile spagnola, tra i responsabili dei bombardamenti a tappeto su Barcellona, cioè di un famigerato massacro di civili.

Locandina dell’incontro Memòria i justícia: Barcelona sota les bombes feixistes (Memoria e giustizia, Barcellona sotto le bombe fasciste, tenutosi al centro Pati Llimona di Barcelona il 30 gennaio 2013 con la partecipazione di Xavier Domènech, storico, Jaume Asens, avvocato e Ida Mauro del’Associazione AltraItalia.

Locandina dell’incontro Memòria i justícia: Barcelona sota les bombes feixistes (Memoria e giustizia, Barcellona sotto le bombe fasciste), tenutosi al centro Pati Llimona di Barcelona il 30 gennaio 2013 con la partecipazione di Xavier Domènech, storico, Jaume Asens, avvocato e Ida Mauro del’Associazione AltraItalia.

Del tutto logico. Il PD ambisce a essere il «partito della nazione», e quindi il partito di tutti, e quindi il partito della «memoria condivisa».

E quindi anche il nuovo partito dell’Esodo istriano.

[E forse anche il nuovo partito dei cosiddetti “rimasti”, le comunità italiane ancora presenti in Slovenia e Croazia, dopo la fine della Jugoslavia non più etichettabili come “titine”. Si è prestata meno attenzione del dovuto a come Cristicchi ha inserito nello spettacolo una parte strappalacrime sui “rimasti”. Ancor meno attenzione si è prestata a certe manovre politiche intorno all’Università Popolare di Trieste, «soggetto privilegiato di collegamento tra il Governo italiano e la minoranza in Istria, Fiume e Dalmazia.»]

Dal 1918 al 1941 (anno in cui l’Italia invase la Jugoslavia insieme a Hitler), il nostro confine orientale venne spostato con la forza sempre più a est. Si veda la progressione in quattro mappe proposta in questo post. In quelle terre l’imperialismo italiano fu responsabile di stragi, deportazioni, persecuzioni.
Il trucco che consente di far sparire tutto questo è, come si diceva sopra, far cominciare la storia più tardi.
Per la precisione, farla cominciare dal 1943 in Istria, e dal 1945 a Trieste e Gorizia.
In questo modo, e con qualche altro accorgimento, gli italiani sono solo vittime.
Vittime, come disse Napolitano in un discorso del 2007, di un presunto «disegno annessionistico slavo».
Sin troppo facile da denunciare, dopo che si è rimosso il reale annessionismo italiano.

Il ruolo del PD emerge con ulteriore chiarezza seguendo gli sviluppi del caso Cristicchi, artista sponsorizzato e difeso dal PD triestino e nazionale. Certe scritte sui muri sbagliano: è vero che Cristicchi ripete pappagallescamente luoghi comuni tipici di ambienti e gruppi “nazional-patriottici”, neoirredentisti e neofascisti, ma non è in senso stretto un fascista; è dalla radice dei capelli alle unghie dei piedi, antropologicamente e narrativamente, in tutto e per tutto Homo Piddinus, e perciò maschera da commedia dell’arte dell’italiano medio “post-ideologico”.

Nella figura di Cristicchi, e nel modo in cui risponde alle critiche, possiamo leggere ancora una volta l’autobiografia della nazione: l’uomo medio, l’uomo che oggi vota Renzi, è convinto – intempestivamente, visto cosa ribolle nel ventre d’Europa  – che il fascismo sia “fenomeno del passato”, ma al tempo stesso incarna tutte le tare, le rimozioni e i clichés che la cultura italiana si porta dietro dall’esperienza fascista, mai davvero elaborata e quindi mai superata.

Magazzino 18 è una storia vincente perché non c’è nessuna complessità, la sua è la versione più facile da raccontare, è unilaterale, tutte le addizioni sembrano funzionare senza riporti, «i conti tornano». Ne abbiamo già parlato in maniera dettagliata. Ho pensato a Cristicchi quando leggevo i passaggi in cui Giglioli scrive che nessuna vittima o testimonial della vittima si sentirà mai dire: «Che solfa, è la solita storia». La storia vittimaria è sempre «autorevole», e la si ascolta, se non commossi, almeno compunti, altrimenti tocca navigare in un mare di insulti, accuse di insensibilità o, peggio, di complicità coi carnefici.
Il vittimismo è funzionale al ricatto morale, che è finalizzato al dominio.

Leo Gullotta

A destra, Leo Gullotta.

Lo spettacolo di Cristicchi ha dei precedenti, uno dei quali va ricordato. Mi riferisco alla fiction Il cuore nel pozzo, andata in onda sulla Rai una decina di anni fa.
Si tratta di una delle più immonde porcate mai trasmesse dalla TV italiana. Tenca Montini ne esamina in modo esaustivo il razzismo, la rivalutazione sottotraccia del collaborazionismo coi nazisti, il profondo sessismo, le panzane…. Il cuore nel pozzo è stato visto come operazione della destra, voluta espressamente da Gasparri, allora ministro delle telecomunicazioni. Vero, ma si è prestata poca attenzione alla presenza attiva di figure bipartisan. Uno dei protagonisti dello sceneggiato era Leo Gullotta, un uomo per tutte le stagioni.

Gullotta è stato per anni la “signora Leonida” del Bagaglino, ovvero tra i protagonisti del più becero avanspettacolo di destra, diretto da quel Pierfrancesco Pingitore che, da caporedattore del settimanale fascistoide “Specchio”, aveva teso odiosi agguati mediatici a don Milani, Pasolini e molti altri.
[Cfr. Carlo Galeotti, Don Milani il prete rosso. Un caso di killeraggio giornalistico, Stampa Alternativa, 1999, e Franco Grattarola, Pasolini, una vita violentata. Pestaggi fisici e linciaggi morali, storia di una Via Crucis laica attraverso la stampa dell’epoca, Coniglio Editore, 2005.]
Epperò – misteriosamente –  Gullotta è anche considerato “uomo di sinistra”. Non ho idea del motivo. Vero, è amico di Bertinotti, ma nel corso degli anni abbiamo visto che di per sé vuol dire poco.

Prima Gullotta recita in una fiction nazistoide poi, facendo finta di niente, va al congresso del PRC a leggere le lettere dei condannati a morte della Resistenza, e giustamente viene contestato.
Nel marzo 2005 la “memoria condivisa” non si è ancora affermata del tutto, e l’episodio ha conseguenze limitate. Nove anni dopo, quando qualcuno oserà contestare Magazzino 18, la reazione a difesa del nuovo uomo per tutte le stagioni, cioè Cristicchi, sarà vastissima e trasversale. I media additeranno i contestatori come “nemici pubblici” e parleranno all’unisono di “violenza”, di “squadrismo”, financo di “anti-italianità”.


QUALI VITTIME NON VANNO BENE

Che cos’è la «memoria condivisa» se non la storia d’Italia riscritta in base al paradigma vittimario?
Non più diverse cause per cui morire: solo morti ammazzati, strumentalmente descritti come «tutti uguali»;
non più una dialettica oppressi-oppressori, solo generiche «vittime» di conflitti resi astratti, mai spiegati;
la colpa è delle sempre comode da scomodare «ideologie», dei «fanatismi» ecc.

Come spiega Giglioli, solidarizzare con le vittime è diverso dal solidarizzare con gli oppressi: quest’ultima opzione implicherebbe una lettura della realtà, una sua presa in carico, e quindi un’istanza di liberazione, «non una semplice scarica emotiva». Per questo il racconto vittimario è consolatorio e difende lo stato delle cose. Per questo è un racconto vincente. Per questo non tutte le vittime vanno bene e la selezione dev’essere accurata.

Ci sono vittime che, per i motivi e i modi delle loro persecuzioni e uccisioni, se ricordate riporterebbero nel quadro la discordia, ovvero il conflitto sociale nella sua concretezza. Ergo, operai e studenti uccisi dalle forze dell’ordine non vanno bene.

Non vanno bene nemmeno vittime come Enzo Baldoni, Vittorio Arrigoni, Ilaria Alpi, Miran Hrovatin e altre persone ammazzate o scomparse mentre “non si facevano i cazzi loro”, in circostanze che, se raccontate, disturberebbero la buona coscienza dell’Italia e il nostro quieto vivere geopolitico.

Ma le vittime meno adatte alla bisogna sono senz’altro le vittime non-italiane di italiani. Le vittime dei nostri pogrom in nome dell’italianità (Lojze Bratuž non va bene, per dirne uno), dei nostri crimini di guerra (i trucidati di Debra Libanos non vanno bene), delle nostre politiche genocide (la popolazione della Cirenaica non va bene), della nostra guerra chimica… Troppo complicato, troppe cose da spiegare, troppa Storia da scomodare, troppi fantasmi scomodi. Tutto troppo contrario ai dettami di concordia nazionale.

Molto meglio raccontare degli italiani buoni trucidati dagli slavi cattivi. Trucidati «solo perché italiani».

Perché la storia ha inizio dove vogliamo noi.

[Continua]

N.d.R. I commenti a questo post saranno attivati dopo il 12 gennaio 2015, per consentire una lettura ragionata e – nel caso – interventi meditati (ma soprattutto, pertinenti).

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156 commenti su “Terrorismo, migranti, foibe, marò, fascismo… Appunti sul vittimismo italiano

  1. […] non userebbe proprio quel termine, vittime, che comincia ad essere abusato, come spiega benissimo questo articolo di Wu Ming, straordinariamente […]

  2. Apro io le danze con alcune considerazioni che ho fatto in questi giorni.
    Spero siano pertinenti come richiesto dall’autore.

    Primo spunto: ho letto un’intervista a Erri de Luca fatta ad altraeconomia il 7 gennaio 2015, e mi ha colpito la sua seguente frase, che getto nella mischia perché mi sembra confermi quanto espresso nel post: “..’Vittima’ è una parola che mi dà fastidio. Io sono testimone di un abuso nei miei confronti e nei confronti di una comunità.”

    Secondo spunto: Napolitano. Letto il post con il rimando alla ripulitura/rimozione storica effettuata da Napolitano nei confronti di Almirante e mi viene in mente un articolo di Marcello Foa che sul suo blog disegna Napolitano come traditore dell’Italia…per ragioni totalmente diverse. Insomma, mi dico, sto’ Presidente non piace davvero a nessuno. Mi verrebbe voglia di lanciare il vostro sassolino nello stagno (mentale) dei lettori e commentatori di Foa, ma mi passa dopo 5 secondi.

    Terzo spunto. Odifreddi nel suo ultimo post sostiene che non siamo in presenza di una terza guerra mondiale ma di una Terza Fase del Colonialismo…direi in perfetta sintonia con quanto detto nel post. Riporto parte di quanto detto da Odifreddi: “Peccato che tutti quegli interventi siano stati unilaterali, da parte dell’Occidente, e costituiscano in realtà la Terza Fase del Colonialismo, dopo la conquista delle Americhe nel Cinquecento, e dell’Africa e dell’Oriente nell’Ottocento. Alla fine del Novecento, con la caduta del muro di Berlino, si era brevemente cantato il mantra della fine della storia, riponendo le speranze nel “colonialismo dal volto umano” della globalizzazione, ma evidentemente è nella natura dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo che gli sfruttati non accettino di buon grado di esserlo, e finiscano per odiare gli sfruttatori armati fino ai denti, a volte tirandolo loro qualche pietre, come Davide contro Golia.”

    Alla fine però mi viene in mente che l’italiano medio trova sempre una giustificazione ad un evento: la ricerca della causa è declinata in giustificazione (è violento poverino perché il babbo lo picchiava). Quindi il dibattito nazionale è sempre in bilico tra il vittimismo e il giustificatismo (si dice così?)

    • Non sono d’accordo con Odifreddi. Il terrorismo dell’ISIS non va contro la logica del capitalismo e del colonialismo. E’ anzi del tutto interno a tale logica. La manovalanza forse è convinta di agire contro tale logica, ma chi decide strategie e tattiche lo fa all’interno di quella logica, con la spregiudicatezza di un capocosca.

      • Daesh / ISIS / Stato Islamico o come altro si fa chiamare è in tutto e per tutto una cosca capitalista, un progetto di stato sub-imperialista, una potenza colonialista in divenire. E se vedete i suoi servizi di propaganda televisiva su Mosul, l’ISIS si vanta – per usare una metafora che ben conosciamo – di “far arrivare i treni in orario”: il business va avanti, la grana circola etc. Ma su questo ci eravamo già espressi mesi fa:
        http://www.wumingfoundation.com/giap/?p=18609

        • Odifreddi mi fa incazzare. Un atteggiamento altrettanto odioso del dipingersi sempre come vittima, è quello di dipingere sempre come vittima l’altro, in blocco, con tono paternalistico e per questo di nuovo neo-coloniale. In medio oriente non ci sono solo vittime del nostro colonialismo. Ci sono oppressi e oppressori, e gli oppressori a volte sono “collaborazionisti” dell’oppressore colonialista, a volte sono oppressori in proprio, perchè ogni società ha i suoi conflitti interni. In medio oriente oggi, l’ISIS o come si chiama è un oppressore.

          • Ogni volta che dice una cosa, Odifreddi mi fa tornare in mente quell’aforisma di Wilde: “A volte è meglio tacere e sembrare stupidi che aprir bocca e togliere ogni dubbio.”

          • Più ci penso e più mi incazzo. Posizioni come quelle di Odifreddi fanno danni. Ma di brutto. Mettiamo che un immigrato è incazzato perchè viene sfruttato da qualche padrun dale bele braghe bianche. Sciopera, fa’ picchetti, magari si scontra con la polizia. La normalità del conflitto sociale, insomma. Poi un giorno arriva Odifreddi e dice che ISIS ecc. sono l’espressione della volontà di riscatto degli sfruttati, dando così involontariamente ragione a Salvini. Ecco, che bel servizio che ha fatto Odifreddi a quell’immigrato.

            • Stai parlando dello stesso che considera i valsusini No Tav dei montanari ignoranti che vogliono ostacolare il progresso… lo stesso che considera la letteratura fantastica diseducativa perché ci racconta delle bugie… Uno che riesce ad avere torto anche quando ha ragione. Fìdati: l’aforisma di Wilde è stato scritto per gente come Odifreddi.

              • mi fido, mi fido :-)

                me la ricordo, la querelle sulla letteratura fantastica. “ždanovisti per veltroni”…

        • Contro il fascismo targato #ISIS / #IS / #Daesh, oltre #JesuisCharlie, dopo l’alta marea, restiamo umani. Un magistrale post di Girolamo De Michele.

    • A proposito di #Napolitano: novant’anni al servizio di chi?

      • maledetti voi, adesso ogni volta che vado su wikipedia leggo per prima cosa la pagina delle discussioni…e indovinate chi interviene per difendere l’onorabilità di Sallusti nella voce su Napolitano (o l’onorabilità di Napolitano riguardo la grazia a Sallusti…non si capisce bene)?

      • Utile in questa occasione ricordare il ruolo avuto da Napolitano all’interno della Federazione del PCI di Napoli fra la fine degli anni cinquanta e l’inizio degli anni sessanta, quando contribuì all’epurazione degli intellettuali scomodi, come Guido Piegari.
        Operazione culminata con il suicidio di Renato Caccioppoli e Francesca Spada, vicenda dolorosa e scomoda che tutto il PCI del tempo, di cui uno dei leader era proprio Napolitano, contribuì a cancellare.

  3. Vista l’importanza del confine orientale nella costruzione dell’identità nazionale italiana, sia sabauda che repubblicana, vorrei segnalare un libro che secondo me è molto utile per capire in che modo certi enunciati siano passati dall’una all’altra senza soluzione di continuità.

    Si tratta di

    “Il nuovo ordine mediterraneo. Le politiche di occupazione dell’Italia fascista in Europa (1940-43)”, Boinghieri (2003).

    Rodogno dimostra in modo molto chiaro come l’Italia fascista, nella seconda guerra mondiale, seguisse una propria politica imperialistica autonoma e parallela rispetto a quella dell’alleato tedesco, a volte persino concorrenziale. Il luogo in cui i due imperialismi alleati entrarono in frizione in modo più evidente furono i Balcani, in particolare in Jugoslavia, in particolare sull’Adriatico orientale. Una volta chiarito questo contesto, diversi luoghi comuni del bravagentismo italico si sgretolano come merda secca. Ad esempio: la protezione accordata dall’esercito italiano ai serbi in fuga dai massacri ustascia (ma solo dopo il 1942!) non fu un “atto umanitario”, ma una mossa tattica nella ridefinizione delle zone di influenza italiana e tedesca. La Croazia di Pavelic, che in teoria sarebbe dovuta ricadere nella zona di influenza italiana, dipendeva economicamente dalla Germania, e per questo motivo fu presto assorbita nella zona di influenza tedesca. I comandi militari italiani, quindi, nella lotta contro il movimento partigiano cominciarono ad appoggiare tatticamente le formazioni cetniche anticomuniste (alleate però con gli angloamericani contro i tedeschi), inquadrandole nella Milizia Volontaria Anticomunista (MVAC). L’alleanza tattica sul campo divenne gradualmente alleanza politica.

    Perchè è importante chiarire bene questo passaggio? Per due motivi:

    1) perchè si smonta la leggenda degli italiani che dal ’42 intervennero per fermare gli scontri etnici in Jugoslavia: al contrario, gli italiani, al pari dei tedeschi, sfruttarono e aizzarono gli scontri etnici sia nella lotta antipartigiana, sia nella competizione col proprio alleato per il controllo dei Balcani.

    2) perchè la presa di distanza dei militari italiani dall’alleanza con la Germania non ebbe per tutti le stesse motivazioni. E’ vero che molti a un certo punto furono nauseati dalla brutalità dell’occupazione nazista – anche se la brutalità dell’occupazione italiana non fu molto da meno di quella tedesca. Ma per molti altri, forse per la maggioranza, contò di più la rivalità tra l’imperialismo italiano e quello tedesco, rivalità che vide fin da subito l’Italia nel ruolo dell’ underdog.

    Il distacco dall’alleato nazista quindi per molti non fu motivato dalla presa di coscienza di aver commesso un atto di guerra ingiusto e brutale *insieme ai tedeschi*. Fu piuttosto dettato dal risentimento – non privo di venature vittimistiche – nei confronti del senior partner tedesco e della sua voracità, e nei confronti del regime fascista, che non si era dimostrato all’altezza dei propri disegni imperiali. Per questo motivo la presa di distanza dal nazifascismo non comportò per tutti una presa di distanza dalla politica di espansione italiana nei Balcani. Anzi.

    • Per dare un’idea di come il rimosso prima o poi finisca sempre per riemergere:

      “È il 2 agosto del 1991. La Jugoslavia, o quel che resta di quella che fu la «creatura» di Tito, brucia. La Slovenia e la Croazia se ne sono andate. La Serbia reagisce e i suoi connazionali della Slavonia proclamano l’indipendenza. Zagabria risponde al fuoco. È l’inizio delle fine. Eppure in quel fatidico 2 agosto Gianfranco Fini, allora segretario nazionale dell’Msi-Dn, si reca a Belgrado accompagnato dal dirigente del dipartimento esteri del partito, Mirko Tremaglia (oggi ministro degli Italiani all’estero) e dal presidente del Fuan Roberto Menia (oggi deputato triestino di An). Oggetto dell’incontro è «un’eventuale richiesta dell’Italia per la restituzione dell’Istria e della Dalmazia». Fini decide di partire perchè la commissione Esteri della Camera guidata dal presidente Piccoli non aveva posto nella sua agenda i temi proposti dal leader missino. Ma non basta. Fini sostiene di essere venuto in Jugoslavia anche per dare appoggio alla Repubblica serba relativamente ai diritti umani e ai confini. Fini relaziona poi gli esiti dei suoi incontri all’allora capo dello Stato Francesco Cossiga e conferma che esponenti del Movimento di rinascita serbo hanno esplicitamente detto alla delegazione dell’Msi-Dn di trovare legittima una richiesta (italiana, ndr) sull’Istria e sulla Dalmazia.Chi viene indicato come il «grande mediatore» dell’operazione Istria e Dalmazia è l’allora senatore socialista Arduino Agnelli.”

      da “il piccolo” del 30 agosto 2003

      p.s. chissà perchè l’articoo è scompardo dagli archivi del piccolo…

      http://ricerca.gelocal.it/ilpiccolo/archivio/ilpiccolo/2003/08/30/NZ_02_FINI.html

      ma per fortuna c’è wayback machine:

      http://web.archive.org/web/20150114210100/http://www.hwupgrade.it/forum/archive/index.php/t-1021411.html

    • Per quel poco che vale, aggiungo qualche considerazione tratta dai racconti del fratello di mio nonno (contadino dell’entroterra siciliano chiamato alle armi appena diciottenne) che fino all’8 settembre si trovò a fare la guerra in Croazia.
      -A quanto racconta, lui fino all’8 settembre combattè insieme ai tedeschi, tanto che quando venne proclamato l’armistizio il loro ufficiale era talmente in confidenza con i tedeschi da chiedere loro un amichevole passaggio fino in Italia (i tedeschi accettarono ma a un certo punto del viaggio tolsero loro le armi e li portarono in campo di concentramento). Anche altri reparti italiani si trovavano a combattere fianco a fianco coi tedeschi, ma giunto l’armistizio i loro ufficiali ebbero idee meno “furbe” (tentare di scappare o combattere coi tedeschi).
      -Per la maggior parte della sua permanenza in Croazia il suo compito consisteva nell’andare nei villaggi dopo che questi erano stati già bombardati e “finire il lavoro”. Inizialmente mandavano direttamente i fanti, senza prima bombardare, ma subivano troppe perdite. Ufficialmente lo scopo era uccidere i titini, ma venivano ammazzati anche i civili.

  4. Con riferimento agli strumenti utilizzati, da coloro che presentano i fatti storici in modo strumentale al fine di affermare nell’opinione pubblica determinate convinzioni tendenziose, sono del parere che vada considerata anche la tendenza di “RESTRINGERE (1) O SEMPLIFICARE (2) IL CAMPO DI STUDIO DI UN FENOMENO” entro determinati ambiti a loro confacenti.
    AD ESEMPIO (1a) Nella trattazione delle “Foibe”, limitarsi a prendere in considerazione esclusivamente certe fonti storiografiche (anche quelle non attendibili), e non tener conto delle fonti bibliografiche non confacenti (magari anche quelle di altri paesi o quelli più approfonditi favoriti dall’apertura di archivi storici per anni secretati) – Nel caso specifico delle foibe, non considerare le analisi sulla qualità delle vittime, da cui traspare che la grande maggioranza degli infoibati erano appartenenti a corpi militari, che dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943 avevano preferito collaborare con i tedeschi, anche dopo che l’Italia (quella ufficiale) aveva dichiarato (ottobre 1943) guerra alla Germania – fatto questo che smentisce in modo deciso l’ipotesi che l’oggetto delle violenze fossero italiani solo perché italiani.
    AD ESEMPIO (1b) Nella trattazione delle “Foibe” considerarle come un fenomeno eccezionale senza nemmeno accennare a episodi di giustizia insurrezionale contemporanei, accaduti in altre parti del Paese (Triangolo della morte in Emilia ed esecuzioni a Genova, Torino ecc.) o in altri Paesi (Eliminazione totale dei collaborazionisti tedeschi che si erano rifugiati in Austria e che sono stati consegnati dagli inglesi al ELPJ o eliminazione dei collaborazionisti eseguite in Francia).
    AD ESEMPIO (1c) Nella trattazione dell’Esodo Istriano, considerarlo come una tragedia apocalittica, non considerando il fatto che l’esilio in fin dei conti era volontario e addirittura auspicato da alcune organizzazioni di Esuli, e non considerando fenomeni di gran lunga più drammatici (esodo dei Greci dalle città sulla penisola Turca dopo la guerra Greco-Turca con oltre 1.000.000 di profughi, esodo dei Tedeschi dalla Prussia con oltre 6.000.000 di profughi).
    AD ESEMPIO (2a) Nella trattazione delle “Foibe” lavorare sui grandi numeri, senza distinguere le varie specificità: infoibati nel 1943 piuttosto che quelli del 1945; oppure gli “infoibati” nei campi di internamento Jugoslavi per prigionieri italiani…

  5. Sul concetto di Italia prima dell’Unità. Per chi conosce un po’ la storia dei Cavalieri di Malta salta agli occhi la particolarità che i Cavalieri fossero divisi in Lingue (così si diceva) basate sulla nazionalità. Ebbene gli italiani erano radunati nella Lingua d’Italia. A che Italia ci si riferiva? Lo strano è che sia gli spagnoli che i francesi, cittadini (o sudditi se vogliamo) di uno stato unitario già da molto tempo, fossero invece divisi rispettivamente in Lingua di Aragona e Castiglia e Lingua di Provenza, Alvernia e Francia. Ancora: molte delle persone arrivate in Italia dall’Istria e Dalmazia dopo il 1945, avevano dei cognomi che finivano in ch. Quindi non erano italiani di etnia, ma semplicemente erano degli italiani che erano diventati tali attraverso la cultura italiana. Infine le comunità italiane nel Mediterraneo. Alcuni famiglie si consideravano italiane anche se non avevano messo piede in Italia da secoli. E che dire degli ebrei che, sempre nel Mediterraneo, a migliaia decidono che la loro nazionalità fosse italiana, quando sarebbe stato sicuramente più conveniente proclamarsi inglesi oppure francesi. Insomma, parafrasando un modo di dire in voga in America Latina, anche se oggi ci sembra incredibile, c’è stato un tempo in cui noi siamo stati storia prima che molti altri fossero geografia.

    • Attenzione, Davide, è sin troppo facile sovrapporre diversi concetti – riferiti a diversi criteri di appartenenza – quali lingua, cultura, koinè, popolo, nazione, nazionalità, stato, territorio… Sin troppo facile confonderli tra loro e trasformarli in un “noi” indistinto.

      Che una lingua italiana e una koinè italofona dei ceti borghesi e intellettuali esistessero ben prima che uno stato-nazione unitario si autodefinisse “Italia” è una delle primissime cose che ci insegnano a scuola, è un’ovvietà. Noi abbiamo scritto un romanzo, Altai, che si svolge tra Adriatico e Mediterraneo orientale tra il 1569 e il 1571, e facciamo vedere che l’italiano era lingua internazionale, usata negli scambi commerciali e diplomatici. Una parte del carteggio di Elisabetta I è in italiano. E se è per questo, una forma di italiano si parlava già alla corte di Federico II di Svevia.

      Il problema è quando si dà una lettura teleologica – cioè finalistica – dell’esistenza di tale koinè. Si identificano “italianità” (cioè la koinè italofona) e Regno d’Italia (poi Repubblica Italiana). Si dice, insomma, che il fine dell’esistenza di quella koinè era dar vita al Regno d’Italia, stato-nazione che avrebbe rappresentato tutti gli italiani. Non contenti, si va ancora più indietro, si dice che “noi” (l’Italia identificata con lo stato-nazione di cui siamo cittadini) eravamo già gli antichi romani (!) e che gli antichi romani erano già “noi” (!!). Tutto questo nasce nell’Ottocento, il secolo in cui nasce il nazionalismo moderno.

      Invece bisognerebbe porre l’accento sul dato di fatto che per secoli e secoli l’italofonia prescindette tranquillamente dallo stato-nazione. A dirla tutta, le due dimensioni non coincidono nemmeno oggi: non tutti gli italiani di lingua e cultura sono cittadini dello stato-nazione che chiama se stesso “Italia”, e infatti nessuno chiede di annettere il Canton Ticino.

      A essere rimosso è il fatto che ancora nel 1918 moltissimi italofoni cittadini di altri stati, pur dicendosi senza problemi “italiani” e chiamando “italiano” la loro lingua, non avevano alcun interesse a divenire sudditi del Regno d’Italia. La maggior parte degli italiani di Trieste e dintorni voleva che la città restasse parte dell’impero austroungarico, tutti gli studi storici minimamente seri e rigorosi devono ammetterlo. Come parte dell’Impero, Trieste era uno dei porti più importanti d’Europa. Per distinguere gli italiani di Trieste da quelli del Regno d’Italia era stata coniata una parola apposita: “regnicoli”. I sudditi del Regno d’Italia erano “regnicoli”.
      La sera stessa in cui il Regno d’Italia, rovesciando all’improvviso le proprie alleanze in Europa, dichiarò guerra all’Austria, a Trieste vi fu un tumulto anti-regnicolo, durante il quale una folla inferocita prese di mira simboli del Regno d’Italia e dell’irredentismo. Ebbene, quella folla era composta anche – e forse principalmente – di italiani, tant’è che vennero urlati slogan in dialetto veneto triestino.

      Queste sarebbero solo disquisizioni, dissertazioni para-accademiche, se la riscrittura del passato non fosse continuamente usata come arma nel presente. La confusione di cui all’inizio è alla base dell’ideologia italiana, del vittimismo “chiagnefotti” che da noi è un vero e proprio strumento di dominio. Questo ci ha impedito di fare i conti con *tutti* gli aspetti più controversi e scomodi della nostra storia nazionale. Non abbiamo fatto i conti con la repressione nel meridione d’Italia, non abbiamo fatto i conti col nostro colonialismo, non abbiamo fatto i conti con la prima guerra mondiale, non abbiamo fatto i conti con il nostro imperialismo a est, non abbiamo fatto i conti col fascismo, non abbiamo fatto i conti coi nostri crimini di guerra, non abbiamo fatto i conti con la continuità istituzionale tra fascismo e “democrazia”, non abbiamo fatto i conti con la strategia della tensione, continuiamo a non fare i conti con gli anni Settanta, non faremo nemmeno i conti con la stagione berlusconiana.

      Per quanto riguarda il definirsi italiani di molti esuli d’Oltreadriatico che non erano “etnicamente” italiani, i fattori per cui questo accadeva sono tanti. Purini e Volk li hanno sviscerati nelle loro ricostruzioni storiche. Non necessariamente costoro “erano diventati italiani attraverso la cultura italiana” (tra l’altro, qui andrebbe inserito un discorso non solo di cultura ma di appartenenza e autorappresentazione di classe). In certi casi, semplicemente, per vari motivi non volevano restare in Jugoslavia e includersi tra gli italiani era un modo per andarsene.

      Infatti il punto non è mai stato se fosse giusto – e fosse giusto per chi – andarsene o restare. E’ una non-questione. Il punto è come quella storia viene raccontata, è il mito revanscista della “italianità” di quelle terre.
      Mito che per quanto riguarda la Dalmazia raggiunge incredibili vette di perniciosità, e infatti come diceva Nicoletta Bourbaki l’inclusione della Dalmazia nel discorso è sempre una spia.
      Mito basato sulla rimozione della storia multietnica e multilingue dell’Adriatico orientale, dell’occupazione militare, della colonizzazione, dell’esproprio delle terre, della persecuzione antislava ecc. E’, come dicevo nei miei appunti qui sopra, il far cominciare la storia dove fa più comodo. E’ il non dire, ad esempio, che molti italiani poi inclusi tra gli “esuli”, in Istria e in Quarnero c’erano arrivati col fascismo.

      Ragion per cui, io vorrei tornare al punto della questione, cioè il rapporto tra mitologie nazionaliste, storia del confine orientale, paradigma vittimario e rimozione delle parti di storia che metterebbero in crisi il paradigma.

  6. Un caro amico, che segue con piacere i vostri articoli, mi ha segnalato questa pagina,
    chiedendomi un parere a caldo.
    Io, che di mestiere non faccio il blogger, (anzi produco numerosi errori sintattici per i quali mi scuso in anticipo) vi riporto la mia umile ma sincera opinione riguardante il vostro “teorema sul vittimismo italiano” applicato alla storia degli esuli giuliano-dalmati… che proprio non quadra.
    Farne un trattato pippozzo-pedagocico sull’italico motto “o stato c’abbandonato”, è quanto di meno pertinente al problema che tuttavia esiste. Eccome se esiste!.

    Dubito che l’autore abbia parenti profughi, tanto meno dei “rimasti” in tal caso non può comprendere la complessità storica e sociale dell’Istria di ieri e di oggi, come non potrà capirla il suo alter ego destroide di nuova generazione, che attinge ai ricordi dei nonni, conoscenti o peggio si informa tramite i giornaletti di casapound&Co.

    La propaganda italiota che ha cavalcato a fini propagandistici il dramma dell’esodo istriano, è probabilmente l’unica cosa che condivido di questa raccolta di pensieri copiati e incollati dai libri altrui. Nella lista di cose più o meno sensate aggiungerei anche qualche critica allo spettacolo di Cristicchi che non brilla per originalità, strizza l’occhio a quel romanticismo italiano che personalmente non mi riguarda, ma almeno racconta un pezzo di storia senza piombare nella stupidità dei precedenti sprechi cinematografici, quali il terribile “cuore nel pozzo”.

    Invece, per esperienza familiare, conosco molte di quelle creature che l’autore inquadra come vittimiste, donne e uomini che hanno abbandonato tutto: casa e campi, danari, ori e argenti, manzi, mussi e capre… il più delle volte sotto la minaccia di un mitra o una pistola. Dicevo, hanno abandonato tutto… ma non la dignità.
    Il vittimismo è sinonimo di mancanza di carattere, piacere quasi erotico nel lagnarsi, assenza di amor proprio, tutte caratteristiche che hanno poco a che fare con la storia degli esuli istriani e dalmati. Basterebbe questo aspetto per segare le gambe al Wu Ming e chiudere il discorso.

    Continuando il mio, di pippozzo, e posso asserire che la storia di quegli esuli (non il revisionismo storico che taluni loro additano) si inserisce a pieno diritto nelle vicende del dopoguerra italiano da cui sarebbero scaturite ben altre realtà di vittimismo reale e cronico. Il fatto che gli avvenimenti sul fronte orientale fossero rimasti celati fino alla fine del secolo scorso, è da imputare agli equilibri politici internazionali da un lato e alla stragrande egemonia sinistroide sulle cattedre scolastiche.

    La questione degli optanti (coloro che nell’Istria e Dalmazia jugoslava scelsero di programmare la partenza verso l’Italia) riguardava nuclei familiari che arrivavano principalmente dalla costa dove l’identità, la retorica patriottica italiana erano più radicate, tuttavia, anche nella storia dei miei familiari dell’entroterra e di ceppo slavo, le partenze erano conseguenze inderogabili al sistema repressivo socialista con tutte le conseguenze di povertà economica e sociale annesse.

    Sia i primi che gli ultimi hanno fatto l’esperienza dei campi profughi in Italia e all’estero, luoghi nei quali c’era da rimboccarsi le maniche e chi non lo faceva era uno scansafatiche disgraziato per la propria comunità e per se stesso.
    L’amor proprio per l’esule istriano è un elemento distintivo e determinante nella sua esperienza storica, il senso del sacrificio, del fare bene è un’eredità atavica, conseguenza di tecnologie adattative ad una terra magnifica che sa dare frutti solo se lavorata bene.

    Mi interrogo sull’utilità di questo articolo, trovando le risposte nel bisogno di antagonismo ed esibizionismo mediatico. Dover dire la propria a tutti i costi su argomenti che si conoscono poco e solo attraverso saggi storici di dubbia pertinenza,
    tirando in mezzo protagonisti che alla lunga si estingueranno tra meno di 20 anni, senza aver passato nemmeno un’ora ad ascoltare la loro versione, magari davanti ad un bicchiere di Malvasia o anche solo un caffè.
    Nel caso specifico credo che il Wu Ming, avesse bisogno di smuovere le acque per le ricorrenze del 10 febbraio prossimo (giornata del Ricordo) ma soprattutto debba fare un po’ di counting clicks sulle web pages dove l’articolo verrà condiviso.

    Qui si aprirebbe un altro fronte, ma è tardi anche per me.
    Posso constatare, tuttavia, che tra i mestieri più difficili in fatto di etica deontologica, quello del saggista-giornalista-storico sia davvero ai primi posti.
    Ognuno tira acqua al mulino del proprio pubblico, in pochi hanno la voglia di invertire la corrente del fiume e devono monetizzare per due lire su argomenti che richiederebbero un po’ più di rispetto umano.

    Tu menti tu menti tu menti menti
    conosco chi conosci tu
    so dove vai
    ti sei preso in giro
    ti sei rovinato
    ti hanno fottuto
    fregato fregato.

    • La prima obiezione che mi viene da fare a questo intervento è: nel post non si accusano di vittimismo i profughi istriani, ma si critica il modo in cui la loro vicenda viene raccontata e il ruolo che svolge questo racconto nel discorso pubblico. Infatti il vittimismo che viene sottoposto a critica non è quello riassumibile nel motto “lo stato c’ha abbandonato”, ma è quello dell’identità nazionale costruita sul paradigma del popolo “calpesto e deriso”.

      Oltre a questo però, e lo dico chiaramente, per me va sottoposto a critica anche gran parte del discorso che la comunità degli esuli produce su se stessa. E non parlo solo delle associazioni esplicitamente revansciste. Parlo anche dei “moderati”. Ci sono comunità che raccontando le proprie sofferenze, finiscono per raccontare le sofferenze di tutti gli oppressi, e il loro racconto si trasforma in uno strumento di riscatto universale. E’ il caso della poesia e della musica afroamericana, per dire, o del teatro yiddisch. Il racconto di chi si autorappresenta come esule “calpesto e deriso” (anche se è di 2° o di 3° generazione) invece è quasi sempre incapace di confrontarsi con le sofferenze dell’altro, dove l’altro non è solo lo sloveno o il croato bersaglio della repressione e della brutalità dello stato italiano tra il 1918 e il 1945 – parte di storia sistematicamente rimossa, anche nel commento qua sopra -, ma oggi è anche e soprattutto il profugo eritreo che arriva a Lampedusa su un barcone o quello afghano che arriva a Trieste nel cassone di un camion. Per dirla chiara e tonda, molto, molto difficilmente capita di sentir dire a un esule una frase come: “Povera gente, io ci sono passato, li sento fratelli”. Capita spesso invece di sentire frasi come: “Cosa vogliono ‘sti qua, quando ero profugo io nessuno mi ha dato niente, che si arrangino”.

      • Be’ forse dovremmo spingere questa narrazione “empatica” un po’ di più caro tuco, non di meno! Perché se fai ricordare agli italiani kativi (non solo gli esuli eh!) quello che loro stessi han passato in Belgio Svizzera o a Torino, o quel che passano i loro amici e parenti emigrati oggi (chi non ne ha più d’uno?) istantaneamente vengono a più miti consigli sulla “questione della soggettività migrante”, o almeno a un più decoroso silenzio.
        Dire invece agli esuli (che hanno sofferto, anche se alla fine era tutta colpa del loro babbo borghese): “ma che volete, sono morti anche i xxxxxxx, e poi eravate fascisti”; a chi si sente privato di un ideale di comunità nazionale (non come il pd, complice del colonialismo economico): “ma cosa volete, l’Italia non esiste, però se esiste è colonialista e pure vittimista”;
        è operazione anti-empatica che puzza di testosterone, storicamente discutibile, dannosa per ogni speranza di riconciliazione a ogni livello. Ma soprattutto inutile… (mitologi contro cristicchi? dai…)

        Ma qui mi fermo, folgorato dall’intuizione che sicuramente non è di questo che si vuole parlare. Penso che visti i fattacci di questi giorni WM1 stia parlando a nuora perché suocera intenda, tastando il terreno, e che sicuramente tirerà i molti (troppi) fili rimasti appesi. Voglio vedere la conclusione.

        • E’ dagli anni Ottanta che sento usare, contro il razzismo verso i migranti, l’argomento “Ma anche noi siamo stati terra di emigrazione! Anche noi abbiamo sofferto”.
          Ebbene, è sacrosanto ricordarlo, ma è inefficace, non serve a nulla, su quel piano l’immedesimazione e l’empatia non scattano.

          L’immedesimazione è disinnescata in partenza, per il semplice motivo che questo discorso è già stato fatto molto tempo fa, ma dalla premessa si sono tratte tutt’altre conclusioni. Conclusioni suprematiste che oggi fanno dire: ma no, il paragone non regge, la nostra è tutt’altra storia, questi qui (i negri) non sono come noi, noi abbiamo millenni di civiltà alle spalle, siamo gli eredi degli antichi romani, un torto fatto a noi è più grave di un torto fatto a loro, perché noi eravamo padroni del mondo, e poi siamo “brava gente” che “si rimbocca le maniche”, mica come questi ecc. e altre fregnacce essenzialiste. Fregnacce non sempre dette in modo tanto esplicito, ma sempre pensate, e non solo a destra. Fregnacce sempre sottintese nel nostro discorso nazionale, vere e proprie fondamenta dell’ideologia italiana.

          Rapa, il nostro nazionalismo è sempre stato basato sul vittimismo che giustificava in anticipo i nostri soprusi. In questo siamo stati precursori della situazione analizzata da J-H Lim (vedi la segnalazione di mdani qui sotto).

          Non è un caso se continuo a invitare a leggere “La grande proletaria si è mossa” di Pascoli: quello è uno dei testi più importanti della storia d’Italia, è quello che dà forma compiuta alla narrazione su noi stessi che ha giustificato il colonialismo, la mattanza della Grande guerra, l’imperialismo, il fascismo, l’autoassoluzione dopo la guerra, e che è ancora pienamente condivisa e operante. Ebbene, Pascoli parte proprio dalla premessa che stiamo discutendo io e te, senti che roba:

          «Prima [l’Italia] mandava altrove i suoi lavoratori che in patria erano troppi e dovevano lavorare per troppo poco. Li mandava oltre alpi e oltre mare a tagliare istmi, a forare monti, ad alzar terrapieni, a gettar moli, a scavar carbone, a scentar selve, a dissodare campi, a iniziare culture, a erigere edifizi, ad animare officine, a raccoglier sale, a scalpellar pietre; a fare tutto ciò che è più difficile e faticoso, e tutto ciò che è più umile e perciò più difficile ancora: ad aprire vie nell’inaccessibile, a costruire città, dove era la selva vergine, a piantar pometi, agrumeti, vigneti, dove era il deserto; e a pulire scarpe al canto della strada.
          Il mondo li aveva presi a opra, i lavoratori d’Italia; e più ne aveva bisogno, meno mostrava di averne, e li pagava poco e li trattava male e li stranomava. Diceva Carcamanos! Gringos! Cincali! Degos!
          Erano diventati un po’ come i negri, in America, questi connazionali di colui che la scoprì; e come i negri ogni tanto erano messi fuori della legge e della umanità, si linciavano.
          Lontani o vicini alla loro patria, alla patria nobilissima su tutte le altre, che aveva dato i più potenti conquistatori, i più sapienti civilizzatori, i più profondi pensatori, i più ispirati poeti, i più meravigliosi artisti, i più benefici indagatori, scopritori, inventori, del mondo, lontani o vicini che fossero, queste opre erano costrette a mutar patria, a rinnegare la nazione, a non essere più d’Italia.
          Era una vergogna e un rischio farsi sentire a dir Si, come Dante, a dir Terra, come Colombo, a dir Avanti! come Garibaldi.»

          Che lezione trae Pascoli da queste passate umiliazioni?
          Beh, che dobbiamo dare una lezione al mondo tornando agli antichi fasti, prendendoci le terre africane, facendo vedere che non siamo mica beduini, noi!
          Spargere sangue.
          Invadere la Libia.
          Tutto questo per… difenderci, naturalmente. Siamo sempre noi ad aver subito i torti, il primo dei quali – come scrivevo negli appunti – è il fatto che non siamo più l’impero (impero che in realtà non eravamo noi, non il “noi” che parla, ma tant’è). Senti qui:

          «Noi […] che siamo l’Italia in armi, l’Italia al rischio, l’Italia. In guerra, combattiamo e spargiamo sangue, e in prima il nostro, non per disertare ma per coltivare, non per inselvatichire e corrompere ma per umanare e incivilire, non per asservire ma per liberare. Il fatto nostro non è quello dei Turchi. La nostra è dunque, checché appaiono i nostri atti singoli di strategia e di tattica, guerra non offensiva ma difensiva. Noi difendiamo gli uomini e il loro diritto di alimentarsi e vestirsi coi prodotti della terra da loro lavorata, contro esseri che parte della terra necessaria al genere umano tutto, sequestrano per sè e corrono per loro, senza coltivarla, togliendo pane, cibi, vesti, case, all’intera collettività che ne abbisogna. A questa terra, così indegnamente sottratta al mondo, noi siamo vicini; ci fummo già; vi lasciammo segni che nemmeno i Berberi, i Beduini e i Turchi riuscirono a cancellare; segni della nostra umanità e civiltà, segni che noi appunto non siamo Berberi, Beduini e Turchi. Ci torniamo. In faccia a noi questo è un nostro diritto, in cospetto a voi era ed è un dovere nostro.»

          Ergo, mi spiace, ma l’idea che propugnando la narrazione “empatica” “istantaneamente [gli italiani] vengono a più miti consigli sulla questione della soggettività migrante”, è smentita dalla realtà. Non succede.
          Non succede perché il frame vittimista nazionale distorce il passaggio dalla premessa alle conclusioni “empatiche”, portando il discorso in tutt’altra direzione.

          Chiunque oggi pensi di poter fare un discorso “nazionale” senza affrontare le rimozioni, le incrostazioni della nostra storia, i paraculismi che ci plasmano, il razzismo di cui la vita italiana è intrisa, cioè senza fare chiarezza e senza cambiare frame, sta – nella migliore delle ipotesi – maneggiando una pericolosissima illusione.

          • Non a caso, la Mostra Triennale delle Terre Italiane d’Oltremare (fascista e colonialista), inaugurata nel maggio 1940 e subito chiusa per via della guerra, si ripresentò nel 1952, con il trucco rifatto, sotto il nome di Mostra del Lavoro italiano nel Mondo (vedi post su Carlo Abbamagal). Nel discorso vittimista nazionale, l’emigrazione dei lavoratori italiani viene riscattata dal colonialismo, poi nuovamente umiliata, perché ci vengono tolte quelle terre d’Affrica nelle quali abbiamo tanto sudato. Il colonialismo viene riletto, giustificato ed edulcorato come una forma di “lavoro italiano all’estero”. In realtà, un certo razzismo proprio questo teme: che gli immigrati, come gli italiani di Pascoli, pretendano di non esser più “calpesti e derisi”, pretendano diritti, pretendano il voto e infine pretendano di colonizzarci, di comandare a casa nostra, adducendo come scusa che parte di quella casa l’hanno costruita loro. Gli Houellebcq di turno fanno incubi sull’Islam che prende il potere in Francia, ma nel 1881, all’epoca dello “Schiaffo di Tunisi”, il Regno d’Italia voleva prendersi la Tunisia sulla base del fatto che in quella terra vivevano centomila lavoratori italiani, i cui interessi andavano tutelati. Anche questo, quindi, distorce il frame “siamo tutti popoli migranti” dalle sue conclusioni “empatiche”: il nostro essere migranti ci ha fatto meritare un certo potere e ha diffuso la cultura italiana, mentre l’Altro migrante non deve avere potere e non deve riempirci le strade con l’odore di kebab.

            • Forse non è il posto più adatto ma ci tengo a dire che per me il libro di Houellebecq è tutto tranne che un incubo sulla presa del potere dell’Islam. Secondo me parla di cose che avete affrontato anche voi ne “L’armata dei sonnambuli” (sia pure da tutt’altra prospettiva, ovviamente) e una delle sue chiavi di lettura (una sua ispirazione?) è il discorso del Grande Inquisitore dostoevskiano.

          • È facile immaginarti, caro WM1, cercare di parlare in modo empatico nei ruggenti anni ’80, ed essere inascoltato. Sono sicuro che la realtà di allora fosse quella. Ma la situazione è cambiata, a livello economico e quindi mentale. Credo tirasse un’aria diversa allora a Bologna, la immagino piena di yuppie… Sicuramente (a quanto mi riferiscono) tirava un’aria diversa qui al sud: era il periodo in cui gli emigrati tornavano in Mercedes (con coda di volpe appesa allo specchietto, segno sicuro dello svizzerotto di ritorno). Una massa di stronzi, mio nonno in primis, e vari studi tipo il famosissimo “money-empathy gap” inducono a pensare che era proprio il benessere a renderli tali.
            All’epoca insomma non c’era da battere sull’empatia. Ma oggi? Le cose sono cambiate, e di molto.
            Magari il discorso sull’empatia oggi, con la crisi, funziona. Io vedo che funziona con le persone con cui ne parlo, magari non sempre. Magari non con gli emigrati italiani in svezia come dice tania, (sicuramente loro hanno più soldi in tasca della cumpa del mio bar, però…). Di certo, la destra crede che funzioni (anche se solo “per italiani”) e quindi ci marcia, come testimonia il manifesto in capo al post.
            A me sembra proprio tanto, tanto strano che non possa funzionare a sinistra.

            • Forse *troppo* facile “immaginarmi”, dato che hai scazzato. Io non sono di Bologna, negli anni Ottanta non ci vivevo, e soprattutto, non è degli anni Ottanta che parlavo ma di oggi, delle stronzate da autobus che sento oggi, delle telefonate alle radio che ascolto oggi, delle lettere ai giornali che leggo oggi, dei commenti su siti, forum e social che leggo oggi. Non ho scritto “negli” anni Ottanta, ho scritto *dagli* anni Ottanta, perché l’immigrazione come la intendiamo noi oggi inizia a essere percepita allora, e ad allora risalgono i primi tentativi di impostare la solidarietà sul parallelismo tra l’emigrazione italiana e l’immigrazione in Italia. È un discorso che non ho mai visto far presa davvero, non ha mai preso piede, e penso che le ragioni siano quelle che ho cercato di esporre, con successive integrazioni di WM2 e altri. Ci sono motivi ricostruibili per cui in Italia non può darsi davvero alcun (taglio con l’accetta) “nazionalismo di sinistra”. Noi come paese siamo stati e tuttora siamo meno spesso tra gli oppressi che tra gli oppressori, meno spesso tra gli aggrediti che tra gli aggressori, e la nostra ideologia “nazionale” non può che rispecchiarlo. Lo rispecchia anche nel parallelismo mancato tra la nostra emigrazione e l’immigrazione in Italia di persone percepite (e non solo da razzisti conclamati, sto parlando di un riflesso sociale ben più esteso) come “nègher”, “baluba”, “clandestini” e potenziali terroristi.
              Il vittimismo è l’escamotage per nascondere la realtà, la nostra storia e la genealogia del nostro razzismo. Tutto questo, però, resta ineludibile e il rimosso torna ogni volta a mordere le chiappe.

        • @rapa Ti ha già risposto WM1, con cui sono perfettamente d’accordo. Aggiungo solo il link a questa immagine, che illustra perfettamente il concetto:

          http://www.wumingfoundation.com/images/beorchia.png

        • Vorrei aggiungere che l’empatia verso i migranti non ci coglie nemmeno quando siamo migranti noi stessi. Anche allora siamo fieri sostenitori della nostra alterità rispetto agli altri popoli e della nostra superiorità. Anche allora nei discorsi si affaccia il vittimismo. Basta entrare in qualunque bar frequentato da italiani per sentire questo tipo di ragionamento: “Se i fascisti e i nazisti in Svezia avanzano è certamente colpa di arabi, africani, slavi, rom (a seconda delle contingenze) ma a farne le spese saremo noi bravi italiani che viviamo qui rispettosi delle leggi e lavorando sodo, arricchendo il paese con la nostra millenaria cultura”.

    • Prodan scrive:

      «La propaganda italiota che ha cavalcato a fini propagandistici il dramma dell’esodo istriano, è probabilmente l’unica cosa che condivido di questa raccolta di pensieri copiati e incollati dai libri altrui.»

      Tralasciando l’accusa infilata alla fine, piuttosto bislacca dal momento che i miei sono dichiaratamente appunti di lettura basati sul raffronto tra due libri usciti di recente…
      Tralasciando l’accusa, dicevo, mi viene da dire che se Prodan condivide quel punto, allora condivide la tesi di fondo. Infatti, nessuno ha scritto che tutti gli esuli e discendenti di esuli, a livello di singoli e di comunità, si autorappresentano sempre e comunque come vittime. Sono gli opinion leader e le organizzazioni che li rappresentano a metterli in scena – e di conseguenza strumentalizzarli – in quanto tali.

      Però, però… Siamo sicuri che Prodan sia d’accordo col punto che dice? Se le sue prese di distanza dalla destra e dalla narrazione destrorsa dell’esodo sono sostanziali e non soltanto pro forma (per non farsi dare del fascio, insomma), perché mai viene qui a lasciare un simile commento?

      Anche al netto degli attacchi personali, delle insinuazioni e del tono livoroso, sarebbe un commento da manuale. È costruito esattamente su tutte le rimozioni e i “tic” che da anni prendiamo in esame su Giap e in diversi libri. C’è l’intero campionario:

      1. c’è il ricatto morale/emotivo che sostituisce l’argomentazione: se non hai parenti istriani non puoi parlare, non sai niente, solo chi ha sofferto può capire ecc.

      2. c’è l’enfasi sulle ricchezze, gli “ori e argenti”, le proprietà e le terre abbandonate. “Là eravamo i padroni!”, è il sottotesto. Manca un minimo cenno su come svariati di quegli “ori e argenti” erano stati acquisiti. In generale, non si è mai classe dominante senza colpe, ma passiamo dal generale allo specifico: nei discorsi sull’esodo non fa mai capolino l’Ente Nazionale Tre Venezie (già Ente di Rinascita Agraria per le Tre Venezie), che espropriò terre di contadini sloveni e croati per assegnarle a coloni italiani. Nei discorsi sull’Esodo non si parla mai dell’italianizzazione forzata non solo della cultura (fenomeno eclatante), ma anche dell’economia, cioè di tutte le aziende, banche, casse di risparmio, tipografie e società di vario genere che la legislazione antislava fece chiudere, con trasferimento in mani “italianissime” di ricchezza e forze produttive. Al posto di tutti questi elementi di contestualizzazione, sempre e soltanto la retorica sul “senso del sacrificio”, sulla “eredità atavica” ecc.
      Mi dispiace, ma nessuna presa di distanza formale dalla propaganda di destra (e dal paradigma vittimario) può essere sostanziale se permane questa rimozione.

      [Naturalmente, c’erano molti italiani che avevano le pezze al culo già prima di lasciare l’Istria. Ma di questo non si può dare la colpa a Tito, quindi è più frequente sentire la storia raccontata dal punto di vista di chi aveva gli “ori e argenti”. Anche questo è classismo.]

      3. c’è la solita bubbola della «stragrande egemonia sinistroide sulle cattedre scolastiche». Che è parte di una bubbola ancora più grossa, quella della “egemonia culturale della sinistra in Italia”. Egemonia mai esistita, se si guarda alle vere agency che hanno fatto cultura popolare (cioè senso comune) nell’Italia del dopoguerra: la TV di stato bernabeiana (per anni addirittura monocanale), i rotocalchi di vastissimo consumo come “Oggi” e “Gente”, la divulgazione storica per le masse dei Montanelli e dei Petacco, i film dove gli italiani erano quasi sempre “brava gente”, vittime della sorte e delle circostanze (al limite la colpa era tutta dei tedeschi kativi)…
      E naturalmente la scuola. Nel dopoguerra moltissimi maestri, presidi e dirigenti del ministero della pubblica istruzione erano gli stessi del Ventennio. Alla guida del ministero c’è stata per mezzo secolo la Democrazia Cristiana. I programmi nazionali li facevano i governi a guida DC. Non si trovano manuali di storia “di sinistra” prima degli anni Settanta.
      Del resto, se in Italia ci fosse stata davvero una “egemonia di sinistra” sulla cultura e sulla scuola, non ci sarebbero state tutte le vere rimozioni che hanno condizionato la vita pubblica: la rimozione del nostro imperialismo, la rimozione dei crimini coloniali e di guerra italiani, la rimozione della continuità strutturale tra apparato statale fascista e apparato statale repubblicano… Vi viene in mente un solo titolo di film italiano sui crimini di guerra italiani? E va ricordato che nei primi vent’anni di repubblica la stessa Resistenza era rimossa e criminalizzata.

      Quello della “egemonia culturale della sinistra” è un mito revanscista che ha preso piede negli anni Novanta, ed è basato sulla confusione tra due diverse accezioni di cultura: la cultura in senso stretto, quella “alta”, e la cultura in senso lato, quella popolare. E’ senz’altro vero che per qualche decennio dopo la guerra la grande maggioranza degli artisti “seri” e degli intellettuali italiani fu “di sinistra”, qualunque cosa voglia dire. Ma è altrettanto vero che il senso comune veniva prodotto e riprodotto altrove. Gli italiani non leggevano Fortini: leggevano “Oggi”. O almeno, ne leggevano titoli e didascalie.

      4. c’è poi la solita frecciata sui «saggi storici di dubbia pertinenza», che sarebbero tutti gli studi dove ricompaiono gli elementi di contesto, l’economia politica e la storia precedente al 1945.

      5. c’è l’accusa di “mentire”, sempre vaga, mai specificata, mai corroborata con prove di quali affermazioni dell’interlocutore sarebbero false. L’accusa è puramente retorica e sensazionalistica, e proviene da un pulpito dove è prassi quotidiana raccontare una (eufemismo) “mezza verità”.

      Quel pulpito, oggi, non è più occupato soltanto da “destri”, ma anche da piddini che (a volte) prendono (pro forma) le distanze dalla destra… poi dicono le stesse cose.

      • “[…] è probabilmente l’unica cosa che condivido di questa raccolta di pensieri copiati e incollati dai libri altrui.”

        Studio e analisi di libri di saggistica, rielaborazione delle informazioni acquisite, produzione di un nuovo testo, citazione di fonti utilizzate: ma non si chiamava “ricerca storica”?

      • “nel post non si accusano di vittimismo i profughi istriani…(Tuco)”- “nessuno ha scritto che tutti gli esuli e discendenti di esuli, a livello di singoli e di comunità, si autorappresentano sempre e comunque come vittime…(Wu Ming 1)” 
        Sono frasi che fanno pensare alla mano nascosta dopo aver gettato il sasso, alla mancanza di coraggio nel dichiarare a tutto tondo che questi esuli hanno rotto i coglioni; hanno stufato con le loro giornate del ricordo, di grotte carsiche e migrazioni post-belliche mascherate da esodo biblico. 

        Tornando al sasso buttato nello vostro stagno o mare che sia, posso dire che ha prodotto, com’è naturale, delle onde giunte a riva e io mi sono trovato semplicemente sulla spiaggia mediatica grazie ad un amico, esperto navigatore di wordpress e vostro stimatore: ecco svelato l’arcano sull’origine della mia presenza controcorrente in questa discussione. Lascio alla vostra intelligenza l’ipotesi di accettare che le mie riflessioni restino quella di un battitore libero e non l’avanguardia bislacca di eventuali subumani affaristi politici.

        Se mi è concesso, approfitterei ancora per poco della vostra platea

        “si critica il modo in cui la loro vicenda viene raccontata e il ruolo che svolge questo racconto nel discorso pubblico”

        Capisco e approvo il vostro dissenso nei confronti delle strumentalizzazioni bipartisan sulla vicenda, ma se per lunghi anni nessuno ha voluto dar voce alle tragedie di queste persone, come fate a pretendere una migliore esposizione storica delle vicende? Non avete mai pensato che qualcuno abbia colmato, in modo affaristico e maldestro, il vuoto culturale dimenticato scientemente da altri?
        Poi, è anche facile prendersela con i protagonisti delle vicende facendoli diventare alla lunga tutti ex-fascisti o simpatizzanti di una determinata classe politica.

        È innegabile che una parte degli esuli fosse collegata a doppia mandata con il regime, come è chiaro a tutti che dopo l’8 settembre bastava una divisa da postino o la tessera del partito per concretizzare esecuzioni sommarie frutto di povertà, regolamenti di conti o gelosie di sorta.

        Qui non si tratta di esternare ad libitum “la patologia dei tic” che vengono elencati nella derisione retorica di Wu Ming 1 ma di saper prendere anche le parti di chi è stato preso a calci dalla storia, abbandonato nella memoria, ripescato a fini elettorali e infine annoverato nel calderone dei vittimisti storici.

        Non c’è nessun ricatto morale/emotivo nel dichiarare che una conoscenza concreta del problema la si può ottenere solo se ci si mescola con i protagonisti delle vicende.
        È lo stesso discorso che faccio a quelle persone che straparlano di NoTav senza esser venuti una sola volta in Valle a sentire le nostre ragioni e tanto meno a constatare lo spreco nel catino della Maddalena.
        Ci sono luoghi che vanno vissuti per essere compresi, prima di ritritarne le vicende e le pietre che nel caso istriano parlano anche italiano, specialmente nei cimiteri.

        L’enfasi di “ori e argenti” espressa nel post precedente, era riferita più ai mussi e alle capre, veri tesori insieme alle case e ai campi abbandonati, possedimenti acquisiti nei secoli e non tramite espropri che invece furono cavalcati alacremente con la nazionalizzazione delle proprietà sotto l’amministrazione jugoslava.
        Ricordiamoci che se una fetta di esuli proveniva da ceti abbienti, consolidatisi più sotto l’Austria che sotto l’Italia, la stragrande maggioranza era composta da contadini che vivevano in borghi rurali o cittadine costiere, luoghi di rara bellezza e vitalità.
        Qualcuno poteva avere le pezze al culo già prima di lasciare l’Istria, sia a causa dell’amministrazione fascista che per la successiva guerra un po’ come nel resto d’Europa, ma altri devono dire grazie al sopracitato programma di collettivizzazione socialista per aver accelerato la corsa verso il baratro, compresi i poveracci come mio nonno paterno spintaneamente inviato a lavorare nottetempo nelle miniere di Arsia, per la gloria di chi si trastullava alle isole Brioni. 
        Qui non si tratta di crogiolarsi nell’”aristocrazia del dolore” e neppure perpetuare la sofferenza degli avi alla ricerca di “una meritocrazia della sfortuna”, ma di tenere accesa la lampada della coscienza per le nuove generazioni, elemento comune di democrazia e rispetto (che oggigiorno è merce sempre più rara).

        A raccontare il dramma e lo squallore dell’esodo ci hanno provato, ben prima del recente proliferare letterario. 
        Guido Miglia e poi il caro Tomizza nella “trilogia istriana”, entrambi hanno presentato alla cultura italiana e mondiale una fetta di europa la cui memoria storica e geografica restava pressoché abbandonata a se stessa, per non parlare dei programmi scolastici, totalmente assenti fino alla fine degli anni ’90.

        Invece nell’ambito della ricerca storica moderna, posso segnalare l’ottimo lavoro svolto dall’Istoreto di Torino (Istituto piemontese per la storia della Resistenza e della società contemporanea ‘Giorgio Agosti’)
        nello specifico il fondo delle interviste curate dallo storico Enrico Miletto. 
        http://www.metarchivi.it/dett_fondi.asp?id=352&tipo=fondi

        Un altro libro con interviste e recupero della memoria
        sull’esilio è “Un paese perfetto. Storia e memoria di una comunità in esilio: Grisignana d’Istria (1930-1960)”

        Chi ne avesse voglia e tempo potrebbe immergersi
        nelle vite dei protagonisti e capire qualcosa in più sulla materia prima umana, sfruttata e ribollita a destra e a manca nel passato e più recentemente negli appunti di vittimismo italiano.

        • Prodan, ascoltami: è inutile che prosegui con questa gnagnera sui secondi fini, su quello che c’è dietro, su quello che c’è sotto, su quello che c’è tra le righe, e coi castelli di carte eretti su quello che secondo te “pensa davvero” chi ha scritto questo post. Schermo canta: da anni ci occupiamo di storia del confine orientale, in numerosi post (e nel libro Point Lenana). L’onere della prova spetta a te: trovami un solo testo nel quale ce la siamo presi con gli esuli tutti in quanto tali, distribuendo colpe “a mantello” su base etnica (proprio la logica che contestiamo, dissezionandola) e altre amenità. Trovamene uno.

          Altrettanto inutili sono le deduzioni balzane e le insinuazioni su chi frequentiamo, con chi parliamo, di chi non siamo parenti. Ad esempio, il fatto che io abbia numerosi amici triestini di origine istriana (ci sono figli di esuli istriani anche tra gli autori di questo blog e nel gruppo di lavoro “Nicoletta Bourbaki”) non mi rende esperto di “Esodo”. Nemmeno essere figli di esuli rende esperti di “Esodo”. Dirò di più: nemmeno essere esuli rende esperti di “Esodo”.

          Se c’è una cosa che mi hanno insegnato i miei studi storiografici (prima) e la mia attività di scrittore (poi), è che a essere una fonte non è solo il ricordo, ma anche e soprattutto la trasformazione del ricordo nel corso degli anni. È questa trasformazione a essere oggetto privilegiato di indagine da parte degli storici che lavorano sulle fonti orali.

          Un incessante lavorìo sociale e ideologico, unito a quella che nelle scienze cognitive viene chiamata “retrospezione rosea” (e ovviamente alla semplice, fisiologica dimenticanza), modifica nel tempo le testimonianze e i ricordi, adattandoli a nuovi contesti e cornici di senso, rispondendo a pressioni sociali e contingenze politiche che pongono alla memoria domande diverse.

          Prendiamo come esempio lo sfollamento degli italiani da Zara, avvenuto già durante la guerra per via dei bombardamenti alleati. In quel caso, gli “slavocomunisti” non c’entravano nulla, totalmente assenti le foibe, la collettivizzazione forzata e altri tòpoi.

          Ebbene, nel tempo, i ricordi di quello sfollamento si sono modificati, “omogeneizzandosi” sempre più alla vulgata sull’Esodo “da Istria e Dalmazia”, nonostante le due regioni abbiano storie molto diverse e l’abbandono di Zara – unica énclave italiana nella regione – sia avvenuto in circostanze molto particolari.

          Ovvio: nella vulgata non potevano darsi sfollamenti diversi per cause diverse in momenti diversi, serviva una narrazione unitaria e omologata “giuliano-dalmata” (espressione inventata per la bisogna). Serviva l’Esodo.

          E così, se prendiamo in esame le testimonianze dell’abbandono di Zara rilasciate dalle stesse persone nel 1946 e – poniamo – quarant’anni dopo, riscontriamo enormi differenze: aspetti che erano secondari diventano centrali (e viceversa), l’accento e l’enfasi si spostano.

          Nella vulgata la spiegazione dell’Esodo doveva essere mono-causale.
          Nel mezzo del Piano Marshall e della guerra fredda, non era proprio il caso di accusare gli anglo-americani, tanto più che le associazioni di esuli erano legate alla DC.
          Inoltre, prendersela coi bombardamenti americani avrebbe ricordato che nella seconda guerra mondiale l’Italia era stata *dalla parte sbagliata*, ristabilendo il nesso tra l’occupazione italiana della Dalmazia e quello scomodo dato di fatto.
          Infine, Zara non era certo l’unica città ad aver subito bombardamenti, quasi tutte le città italiane erano state bombardate, alcune molto più di Zara.
          Insomma, la causa reale dello sfollamento aveva poca specificità, poco peso sul piatto della bilancia, e quindi poco “appeal”.

          Ragion per cui, col tempo si sono piegate le ricostruzioni dello sfollamento a una teoria pseudo-storica del complotto – analizzata qui su Giap da Nicoletta Bourbaki – in modo da far rientrare a forza Tito nel quadro.

          Questo “riadattamento” monocausale delle dinamiche dell’Esodo andava benissimo anche per la “retrospezione rosea”: in Istria e Dalmazia andava tutto bene finché gli s’ciavi non sono “venuti giù dai monti” (espressione che torna nello spettacolo di Cristicchi) e hanno rovinato tutto.
          Cosa manca in questa ricostruzione? L’ho già detto, non voglio ripetermi.

          Naturalmente, questo meccanismo non vale solo per l’Esodo. Anche i ricordi dei partigiani si sono modificati nel tempo, seguendo la contingenza politica, adattandosi a nuovi contesti e cornici di senso. E’ il motivo per cui avere un nonno partigiano, venire da una famiglia di partigiani, non ha mai reso nessuno più esperto di Resistenza rispetto a chi la Resistenza la studia. Nella conoscenza e nella scienza non può esserci ius sanguinis.

          [A proposito di trasformazioni e accenti che si spostano: se proprio volessimo parlare di “nascondere la mano che ha tirato il sasso”, potremmo esaminare il modo in cui hai raddrizzato la mira sugli “ori e argenti”. Ma a che vale?]

          Per quanto riguarda gli “esuli che hanno rotto i coglioni”, beh, alcuni esuli hanno certamente rotto i coglioni, e da lunga pezza.
          Hanno rotto i coglioni i dirigenti di certe organizzazioni; hanno rotto i coglioni gli agit-prop che vanno a disturbare le conferenze degli storici sgraditi; hanno rotto i coglioni quelli che scattano in modo isterico ogni volta che si cerca di andare oltre il paradigma vittimario e ricordare le responsabilità dell’Italia nell’Adriatico orientale.
          Ma questi non sono tutti gli esuli.
          A dirla tutta, molti non sono nemmeno esuli, ma romani, milanesi e torinesi con (sempre più labili e sempre più mitizzate) radici in Dalmazia, a Fiume o a Rovigno.
          Molti di costoro frequentano il confine orientale e ne vivono la realtà molto meno del Sottoscritto, che vive tra Bologna e Trieste, ha una compagna di vita cresciuta a Opcina e studia da anni la storia di Trieste e dintorni, cercando di raccontarne alcune storie.

          Oggi ci sono discendenti di esuli che non si bevono più, o non si sono mai bevuti, le narrazioni di comodo propalate dalle organizzazioni, e sono disgustati dalle idiozie che si sentono ogni 10 febbraio. Come ricordavo sopra, ci sono figli di istriani anche nel gruppo di lavoro “Nicoletta Bourbaki”.

          A proposito del 10 febbraio, vogliamo parlare della scelta della data?
          Pochi sanno che il 10 febbraio è stato scelto per contestare il trattato di pace del 1947 e quindi – nemmeno troppo obliquamente – rammaricarsi della sconfitta italiana nella seconda guerra mondiale.

          Sempre lì torniamo, dunque. Ma non per una nostra fìsima: il rimosso è quello, c’è poco da fare.

          Insomma, è legittimo attribuire al regime jugoslavo le responsabilità che effettivamente ebbe, ma:
          1. non ne andrebbero inventate ad hoc dove non ci sono;
          2. per non essere vittimisti e non sembrare dei paraculi, bisognerebbe prima riconoscere le responsabilità nel “nostro campo”, senza dire ogni volta, come fanno i bambini, «Sì, ma loro…»

          • Premesso che non credo che la Jugoslavia cosiddetta “socialista” sia stata capace di gestire con efficacia e vero internazionalismo la questione nazionale italiana, nonostante qualche tentativo iniziale di integrare perlomeno il partigianato italofono nel nuovo regime, nel manipolare questo materiale esplosivo vorrei che come prima cosa si partisse da informazioni ben fondate e non da suggestioni.

            E vado al punto: ma davvero “per lunghi anni nessuno ha voluto dar voce alle tragedie di queste persone”, come dice Dario? A me sembra che non sia affatto vero. L’esodo degli italiani dall’Istria e dalla Dalmazia è stato raccontato in tempo reale dalla stampa nazionale e già negli anni Cinquanta era oggetto di disputa politica. Per esempio sul “Candido” di Guareschi veniva spesso sollevata la questione.

            Anche questo modo di raccontare la vicenda in termini di «Clicca qui per sapere la vera storia delle foibe e dell’esodo che ti stanno tenendo nascosta!!!!» mi sembra rientri in uno schema vittimistico e complottista che non aiuta a capirci un granché. E infatti anche in questo thread il presunto “silenzio semisecolare” sulla questione è usato come giustificazione del fatto che oggi se ne discuta così male. Eh no, mi spiace tanto: se ne discute male perché per decenni la destra ha impostato il dibattito in un modo isterico, semplicistico e sciovinista; resta una colpa secondaria della cattiva e reticente storiografia di sinistra, ma chi ne ha parlato di più e tanto ha la maggiore responsabilità per come se ne è parlato.

            La storia degli “ori e argenti” nazionalizzati è complicata, perché non ho motivo di dubitare della parola degli esuli meno abbienti che lamentano espropri eccessivi dovuti ad animosità nazionali (non sarebbe la prima volta nella storia), ma o si dice chiaramente che nazionalizzare le proprietà dei coloni ricchi e collaborazionisti era giusto, e allora si acquisisce per me il diritto di lamentarsi quando questa operazione politica giusta è stata fatta male, oppure si sta facendo un discorso egoista, nazionalista e ancora una volta vittimista che è lo stesso spiccicato di tutti quelli che vengono espropriati durante una qualsiasi rivoluzione. E devo dire che spesso chi racconta la storia degli esuli italiani le distinzioni tra ricchi e poveri, tra fascistoni e zona grigia e antifascisti, non le fa; grave errore, se non si ha la coda di paglia, perché in questo modo ci si mette tutti nello stesso calderone di chi in camicia nera si è costruito latifondi coloniali. Chi ha interesse a fare un calderone unico e piagnucolare sono proprio i fascisti.

            • La “congiura del silenzio” è una classica strategia retorica, esempio di vittimismo, ma anche di presentismo, di quell’eterno ripartire da “oggi” che non ci fa capire come qell’oggi si è prodotto. Quando uscì il libro di Pansa sul “sangue dei vinti” e il Triangolo rosso, Galli della Loggia scrisse sul Corriere un articolo intitolato “I padroni della memoria” dove affermava che «Per molti decenni a quanto è accaduto dal 1943 al 1945 fu vietato dare il nome che gli spettava, il nome cioè di guerra civile… per le uccisioni indiscriminate di fascisti e non, commesse dai partigiani dopo il 25 aprile… è valsa fino ad oggi la regola che bisognava negare che quelle uccisioni fossero avvenute… finché con il recente libro di un noto e bravo giornalista di sinistra, Giampaolo Pansa, il divieto è stato tolto, sicché ora siamo tutti finalmente autorizzati a conoscere e a discutere liberamente gli avvenimenti di quei terribili giorni». Davvero? Eppure il nome di “guerra civile” era stato già usato in saggi importanti e discussi, e i “regolamenti di conti” avevano occupato le pagine dei quotidiani per tutto il lungo Dopoguerra, riemergendo puntualmente in occasione di nuovi processi, amnistie, ritorni di espatriati, nuove testimonianze, eccetera. Oppure consideriamo la frase di Pannone sulla quarta di copertina de Il sol dell’avvenir: «Ci hanno fatto credere che le Br venivano dallo spazio e invece sono figlie di una parte della sinistra storica». Urca! Scoop! Franceschini era nella FGCI, alcuni brigatisti avevano i nonni partigiani, altri erano stati cacciati dal PCI! Com’è che nessuno me lo aveva mai detto? Si scambia la propria ignoranza per censura, o il fatto che un’ovvietà non venga ribadita per oblio imposto, quindi si grida contro i “padroni della memoria”, e quando questi presunti padroni, infastiditi, decidono che con te non ci vogliono parlare, allora cazzo! vedi che avevo ragione! bastardi omertosi, censori, congiura del silenzio…

              • Basti dire che l’opera capitale, il saggio più ambizioso, la summa storiografica sulla Resistenza italiana, l’esplorazione più vasta del suo elemento soggettivo si intitola Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza. La prima edizione data 1989 (quasi tre lustri prima del libraccio di Pansa) e l’autore è Claudio Pavone, guardacaso il *decano* di quegli “storici di sinistra” che secondo pansiani, revisionisti e fasci avrebbero taciuto in blocco sulla natura di guerra civile del conflitto 1943-45.

              • Visto che avete fatto il nome di Pansa e riferimenti ai suoi libri, mi permetto di segnalare un articolo (di qualche tempo fa) a mio parere molto interessante.
                In particolare, a partire da pag. 4 (ma consiglio la lettura integrale) vengono analizzate nel dettaglio le dinamiche e i meccanismi che stanno alla base della produzione “storica” di questo giornalista. È un articolo di straordinaria chiarezza.

                Ecco il link

                http://www.academia.edu/1720067/L_uso_pubblico_della_Resistenza_il_caso_Pansa_tra_vecchie_e_nuove_polemiche

                • Un aggiornamento sulla più recente produzione di G. Pansa.

                  http://www.carmillaonline.com/2015/01/30/lo-squadrismo-riabilitato/

                  • Interessante il passaggio di Pansa su Caporetto:

                    “… maledetti imboscati che con il pretesto del socialismo non avevano mai preso in mano un fucile ed erano rimasti al sicuro a casa. I vecchi dei reggimenti di fanteria sostenevano che quando avevano visto il nemico attaccare si erano limitati ad alzare le mani, per dichiararsi prigionieri.”

                    Senza volerlo, Pansa coglie il nocciolo della questione, perchè i motivi per cui l’Italia entrò in guerra, il modo in cui furono mandati al macello i soldati, il tipo di propaganda che lo stato mise in campo, la militarizzzione della società, i prodromi di “bonifica nazionale” nei territori conquistati nel ’16 e persi nel ’17, il ruolo di intellettuali come D’Annunzio nel creare una “religio mortis”… sono già fascismo in incubazione.

                    Finchè non si farà piazza pulita della retorica tuttora dominante sulla grande guerra, non si riuscirà a fare piazza pulita nemmeno della copertura intellettuale al fascismo di ritorno.

            • Si, direi che è ora di finire la gnagnera come mi è stato suggerito;
              da parte mia sicuramente, perché gli impegni famigliari e lavorativi non mi permettono di tirare innanzi ulteriori discussioni, tant’è che da esse non percepisco gettoni di presenza.

              Nell’insieme ho trovato anche spunti utili, insieme alla conferma che distribuire patentini da vittimisti sia il modo più facile per delegittimare il pensiero differente, della serie: “poverini, gli piace tanto piangersi addosso che non trovano più il filo del discorso… e nella loro bagna si lasciano strumentalizzare”.

              Tengo a ribadire solo poche cose:

              – anche per voi è inutile lamentarsi, della manipolazione e della maldestrità con cui l’esodo e il tema delle foibe e stato trattato. Se “chi ne ha parlato di più e tanto ha la maggiore responsabilità per come se ne è parlato” è altrettanto vero che chi glielo ha permesso è complice, senza scusanti o secondarie responsabilità.

              – è sacrosanto attribuire al regime fascista e sabaudo tutte le colpe nella gestione delle proprie colonie e delle cosidette terre irredente. Lo stesso vale per una parte delle conseguenze, perché è di comune avviso che sotto l’amministrazione jugoslava vi fosse una strategia di slavizzazione equivalente a quella di italianizzazione nel ventennio precedente appesantita dalle spiate e rappresaglie prima, dalla riprogrammazione culturale dopo (mia madre ci raccontava delle forzature ideologiche e storiche nei programmi scolastici delle elementari e medie, frequentate in Istria a cavallo degli anni 50, comprese le inculcazioni sul mito della Velika Srbija).

              – rispetto alla Dalmazia, conosco meglio l’Istria e la sua storia perché frequento abitualmente il confine orientale sin dall’infanzia, sia per legami famigliari che per quella malattia chiamata affezione alle proprie radici.

              – non ho una formazione classica, ne tanto meno ho la presunzione di insegnare il lavoro a chi fa lo storico di professione, ma se certe tecniche non sono un opinione, penso che oltre ai registri parrocchiali e le lapidi dei cimiteri, anche le interviste rilasciate dai protagonisti abbiano il loro indispensabile valore. Quando inventeranno la macchina del tempo, forse potremmo vedere in modo più oggettivo i fatti trascorsi. Anche in quel caso dipenderà molto da come ce la racconterà la guida al fianco dell’autista.
              Da alcune di queste interviste emerge, ad esempio, che l’odio nei confronti dell’occupante jugoslavo si accresceva in coloro che, a rischio della vita, avevano foraggiato i partigiani in tempo di guerra, per poi venire bastonati dagli stessi garanti di una libertà verbale, difesa unicamente nel motto “smrt fasizmu sloboda narodu”.
(“clicca qui per sapere la vera storia” e se vuoi leggi il punto 12: http://www.metarchivi.it/dett_documento.asp?id=14595&tipo=FASCICOLI_DOCUMENTI)

              – che non sia un “druse” si è capito ampiamente, tanto meno rientro nella cultura fascio e neppure quella piddina.

              Bene, direi che l’ora si è fatta tarda. Ringrazio per la condivisione di opinioni e torno ad altri impegni, senza dimenticare di versare una lacrima al giorno sul mio nuovo patentino da vittimista.

              Buon lavoro a tutti.

              • Be’, Dario, mi sembra di aver solo detto che le responsabilità del cattivo dibattito sono prima della destra che il cattivo dibattito l’ha fatto, poi della sinistra che non ha saputo impedire che andasse così. Non c’era traccia di difesa d’ufficio della storiografia di sinistra (che pure non è che sia stata tutta muta).

                Il tuo link acchiappaclick l’ho letto un po’, e non lo leggo affatto come lo leggi tu, ma ci faccio un po’ di tara e metto il filtro non dello storico, ma semplicemente dell’appassionato di storia e politica che si domanda come mai a sentire gli esuli *tutti* erano un po’ antifascisti e aiutavano i partigiani ed erano poveri in canna, ma poi li hanno perseguitati lo stesso. Leggiamo insieme dei brani scelti (da un testo segnalato *da te*, eh).

                Partiamo da dove suggerisci tu stesso di partire. Il punto 12 l’ho letto, dicono che *controvoglia* dovevano dare da mangiare ai partigiani, descritti come dei rubagalline:

                «Però mia mamma mi diceva anche che tante volte venivano questi partigiani, razziavano tutto, dicevano di dargli la mucca e poi facevano il biglietto dicendo che poi [quello che portavano via] sarà pagato.»

                Diciamo che il fervore antifascista della madre ne esce un po’ ridimensionato: era una da cui i partigiani avevano preteso un boccone di pane. E a lei stavano sulle scatole, ‘sti scioperati sfaccendati fannulloni di comunisti:

                «Questo per dirle che mia mamma aveva quest’odio, e anche quando si sono messi in comune diceva che loro che avevano lavorato eccetera [erano stati soppiantati] da quelli che non avevano voglia di far niente che hanno preso possesso di tutto.»

                Il padre, naturalmente, anche se poi perseguitato dai malvagi comunisti, era socialista, anche se solamente “un po’”:

                «mio padre era anche di idee un po’ socialiste, ed è stato anche lui nel partito, aveva degli amici. Insomma, nei paesi poi ci si conosce… Mio padre faceva la bella vita: andava a Trieste [a vedere] l’operetta, gli spogliarelli, l’opera. A lui piaceva il teatro, il balletto… Insomma, lui si è divertito!»

                Hmm, OK. Come mai era stato “nel partito”? Ce lo spiega:

                «Però mio padre nel frattempo gli avevano socializzato la macelleria, ma lui non aveva problemi, perché era un uomo buono, di idee socialiste. Però poi ha provato a entrare lì nel partito: lui aveva la sua macchina privata, andava nei mercati, sceglieva il bestiame perché poi lo davano alle caserme, ai ricoveri, eccetera.»

                Con tutta la reticenza e l’affetto naturale di una figlia, sta forse dicendoci che chiusa la macelleria cercava di continuare la bella vita come burocrate di partito impegnato in piccoli traffici, o sono io che penso male? Poi:

                «Però, vede, noi non abbiamo mai avuto grandi problemi, non abbiamo mai avuto bisogno. […] Aveva un negozio, ma è morta che non aveva manco i soldi per il funerale: abbiamo dovuto pagarlo io e mia sorella, perché lei era una donna che se uno aveva bisogno, lei glielo dava.»

                Quindi: durante la guerra, se la passavano bene e non hanno mai avuto “bisogno”, ma guarda un po’, sono morti poveri, poverissimi, per la troppa generosità.

                «E lei dava farina e tutto quello che aveva. Quindi noi la fame non l’abbiamo trovata, neanche dalla parte di mio padre. Ho sentito parlare di mercato nero, che c’era gente povera, che non aveva da mangiare, ma su questo mi trova davvero poco preparata.»

                Vabbe’, dai, sulla povertà durante la guerra è poco preparata. Passiamo alle domande di riserva. Sulla ricchezza cosa ci sa dire?

                «Mio padre era mio padre, come dire, come si dice della serie lei non sa chi sono io! Nel senso che, comunque, lui non è che aveva solo una macelleria di proprietà, ma lui aveva anche certe amicizie, frequentava gente che stava bene [come] il marchese… Qui non c’entra la politica, perché, come le dico, mio padre andava con loro e si facevano servire dai camerieri… Insomma erano gente che avevano tutti un certo tono e mio padre, quindi, la sua casa la voleva. E hanno fatto pressioni su di lui, perché – le dico – quando è successo che sono mancata delle somme di denaro e, un’altra volta, sono mancati dei capi di bestiame, mio padre tremava, perché poi lui parlava italiano. Aveva degli amici slavi, però era difficile comunicare; come facevi a dimostrare che non c’entravi niente?»

                Secondo me se uno legge senza le fette di salame sugli occhi capisce benissimo cosa sta raccontando davvero questa signora che, tra l’altro, è nata nel 1950 e quindi riferisce e filtra ciò che le è stato riferito e filtrato.

              • Rilancio l’invito di Zora: parliamone.
                Condizioni essenziali per parlarne sono però la pazienza e la disponibilità ad accettare di non esser l’unico a conoscere la storia. A volte è molto peggio esser di fretta ed essere convinti di ricordare la strada che procedere con calma e fare domande ai passanti, per quanto sconosciuti.
                Immaginavo tu non fossi un ultrà, anche il fatto che citi Tomizza piuttosto che i soliti Oliva o Petacco mi faceva capire un po’ con chi parlavo (di Miglia non ho letto niente, ma anche il solo fatto che abbia dichiarato che l’Istria sia stata staccata dall’Italia per via del razzismo fascista e della sconfitta militare mi fa ben sperare).
                Immaginavo che tu non fossi un “druse”, ma forse la tua famiglia non è emigrata negli anni canonici dell’esodo (1945-1954), o magari proveniva dall’interno, tipo Pisino, città simbolo dell’Istria nazionale croata che pullulava di narodnjaci reinventatisi comunisti, o peggio ancora da Buzet/Pinguente dove gli italiani erano sempre stati scarsissimi, perlopiù gente con ori e argenti, come si diceva. In quei luoghi chi si riconosceva come italiano ha avuto la vita più dura che in altri posti ma, al netto di piccoli pionieri, parate, fanfare, titovke e propaganda assortita e di una generale ostilità (che d’altronde aveva il suo speculare rovescio in Italia per la comunità slovena come potrebbe raccontarci Zora) non venirmi a dire che “la slavizzazione” della jugoslavia faceva il paio con l’italianizzazione fascista, perchè proprio non ci siamo. Ci furono scuole, giornali, teatri, circoli di cultura italiani, sorvegliati quanto vuoi, ammaestrati quanto vuoi, ma ci furono. Alcuni cognomi furono nuovamente cambiati ma solo quelli che prima erano stati cambiati dal fascismo e dubito ciò sia stato fatto contro il parere degli interessati come si faceva all’epoca del sig. Pizzagalli. Va bene essere obiettivi, imparziali e impietosi contro qualsiasi regime, sono con te, ma questo non significa per forza inventarsi simmetrie a tutti i costi per dire che Tito e Mussolini eran tutt’un cazzo. E non è certo la reputazione della Federativna che voglio difendere eh, è la banalizzazione della bonifica etnica fascista a infastidirmi.

          • La cosiddetta “dittatura del testimone” – sfruttata da tanti format TV – contiene un classico errore di prospettiva: si pensa che la testimonianza oculare sia una fonte contemporanea agli eventi (“io c’ero!”), quando invece è una fonte contemporanea alla ricerca (“io c’ero, però è adesso che te lo racconto”). Per questo motivo, lo storico serio non si interessa tanto ai fatti della memoria, cioè ai contenuti del ricordo, ma può essere molto interessato alla memoria come fatto: il fatto che Tizio ricordi gli eventi in un certo modo è senza dubbio un evento interessante – per altro incontrovertibile – mentre i fatti che egli ricorda potrebbero essere distorti, manipolati, mai accaduti.

        • Come se essere figli/nipoti di esuli desse il diritto di rimuovere la realtà. E parlo essendo a mia volta figlio di esule, non dell’Istria, ma della Libia.
          Mio nonno si trasferì in Libia quando aveva 10 anni (con la famiglia) e mio padre è nato a Tripoli nel ’49.
          Eppure anche se personalmente ed umanamente essere esuli è un problema che non potrà mai essere del tutto risolto (recentemente mio padre mi ha detto che lui non potrà mai considerare l’Italia la sua “casa”), ciò non può e non deve impedire di capire ciò che realmente è successo.
          Non si può far finta, in qunto esuli, che i crimini commessi dagli italiani in Libia o in Istria siano di poca importanza rispetto all’essere mandati via dalle proprie case.
          Se due torti non fanno un ragione di certo non si annullano a vicenda.
          Mio padre molte di queste cose le ha capite da solo e in parte grazie a me, non avendo una connessione emotiva con la situazione in Libia dell’epoca mi sono potuto informare sulla storia del colonialismo italiano in Libia e ho potuto raccontargli ciò che è successo. Molte di quelle cose lui le ignorava (così come gran parte degli italiani immagino) e adesso comprende la lunga catena di cause-effetti che lo hanno portato ad essere esule. Anzi ti dirò di più, adesso che lo comprende e ne capisce le ragioni, si sente affrancato dallo status di vittima: non è più un uomo da compatire in quanto esule, ma uomo inserito in un quadro storico come tanti altri.
          Ed anche se quando ha saputo della morte di Gheddafi, aveva gli occhi lucidi per la gioia, questo è umanamente comprensibile (lui odierà sempre Gheddafi), però quando parla della situazione in Libia non dice “Noi eravamo gli italiani bravi e buoni e poi è arrivato il cattivo Gheddafi che ci ha cacciati”, bensì spiega la situazione storica arricchendola con le proprie esperienze personali, oggettive senza dubbio, ma come dice Wu Ming “lo storico serio non si interessa tanto ai fatti della memoria, cioè ai contenuti del ricordo”

          scusate per la digressione

        • Eccomi, mi sento chiamato in causa. Io sono effettivamente figlio di un esule e collaboratore del gruppo di lavoro Nicoletta Bourbaki, sono proprio quello che fra gli altri si è occupato della vicenda dei Bombardamenti di Zara e dei correlati sfollamenti di cui parla Wu Ming 1, proprio perché li ritengo un caso peculiare dell’intossicazione che permea la narrazione vittimista del mondo esule. Il motivo per cui essa non convince è già stato spiegato sopra da Tuco, mi permetto di integrare la sua risposta con lo spunto fornito da Massimo Zanetti: Erri De Luca preferisce il termine “testimone” a “vittima”, ha citato la questione nel suo romanzo Il torto del soldato parlando del rabbino protagonista dell’insurrezione del ghetto di Varsavia: Menahem Zemba rifiutò e decretò illecita la fuga. Affrontò il martirio, che alla lettera è testimonianza. Si tolse dal numero delle vittime e salì il gradino superiore del testimone che si alza in piedi e va da volontario a prestare giuramento alla sbarra. Non sugli eroi ma sui testimoni si fonda l’onore di un popolo. De Luca si serve dell’etimo della parola “martire” che è appunto testimone, testimone della fede per i cristiani, ma in senso più ampio per De Luca diventa testimone della tragedia universale dell’umanità. È vero che l’olocausto è stato monetizzato poi da alcuni movimenti politici come il sionismo ma ti sembra che la narrazione della shoah si fondi unicamente su un sentimento identitario israelitico? Ti sembra che il fine ultimo sia un messaggio antitedesco? oppure ti pare che abbia una mera funzione antinazista? A me no, a me sembra che gli ebrei morti a Varsavia, ad Auschwitz, a Dachau (e non solo gli ebrei, anche rom, polacchi, cechi, ucraini, francesi e… istriani! Ebbene sì, Boris Pahor nei lager nazisti incontra un istriano, colpevole di essere croato) testimonino un orrore più grosso, a monte dello stesso nazismo tedesco: l’orrore dell’odio razziale, l’orrore dell’istituzione totale, l’orrore dello sterminio sistematico. Spero che converrai che i due fenomeni, le deportazioni naziste e le opzioni in Istria, siano semplicemente inconfrontabili ma, con le dovute proporzioni, ti sembra che la narrazione delle sofferenze istriane riesca ad assumere un simile valore di testimonianza? Ovvero, ti pare che questa narrazione riesca a reggersi senza i mandanti dell’antislavismo e dell’anticomunismo? A me no, a me sembra che senza queste due stampelle sia una normale,drammatica storia di guerra e di dopoguerra come tante altre di quel periodo in altri luoghi, fatto di scelte dolorose ben più che di costrizioni, proprio per questo la “normale” storia di guerra dei bombardamenti di Zara, per essere narrata nell’ambito del discorso vittimista esule, viene ricondotta all’antislavismo/anticomunismo con il più spettacolare e squinternato dei salti carpiati: la tesi secondo cui dietro i bombardieri angloamericani ci fosse nientemeno che il nostro figlio di puttana preferito: Tito, e i sui drusi maledetti.
          La cosa che più mi spaventa è che ora gli italiani d’Istria, quelli “rimasti”, vengano blanditi da questo tipo di narrazioni. Non posso che felicitarmi se esuli e “rimasti” oggi si riappacificano e dialogano (per chi non lo sapesse, fino a vent’anni fa gli esuli li chiamavano con vezzeggiativi tipo “traditori”…) ma purché ciò avvenga nel segno della fratellanza e non del nazionalismo. Mi sembra che nella gioia della riconciliazione i “rimasti” chiudano gli occhi sui germi che vengono loro propinati da certe strette di mano. Per esempio in “Magazzino 18” il problema è solo il “romanticismo italiano”? Il nazionalismo revanscista, l’odio anti-slavocomunista ti pare siano stati accantonati? A me no. È vero: Cristicchi ha portato in scena per la prima volta Rab e le deportazioni e i massacri di bambini sloveni e croati, ma ti pare che i “due” popoli (perchè a me sembra sia lo stesso popolo… solo con inflessioni diverse) con i loro drammi vengano affratellati? Ti pare che alle due narrazioni venga dato lo stesso peso? sia quantitativo (in termini di minutaggio) sia in senso qualitativo (il tipo di racconto, i registri usati). Non si tratta di stabilire chi ha sofferto di più o prima, è la rigida separazione fra i due tipi di vittime a non tornare: gli istriani morti per mano dell’esercito italiano o della wehrmacht non funzionano come quelli la cui morte è stata causata dai tribunali partigiani jugoslavi e vanno tenuti a parte. Perchè, ad esempio, si parla sempre e solo di foibe e non si parla delle rappresaglie naziste in Istria che produsse un numero di morti cinque volte superiore?
          Tu citi Fulvio Tomizza e gli studi di Gloria Nemec. Ottimo, ma ti pare che l’articolo di Wu Ming si scagli contro la narrazione dell’esodo che ne ha dato l’autore di Materada o contro gli studi approfonditi come quelli della dott.ssa Nemec? A me non pare proprio. Dai su, parliamo di Tomizza: perché gli esuli – intendo il mondo associazionistico – non ne parla mai se non di sfuggita e se lo fanno non entrano mai nel merito dei suoi contenuti? Come mai oggi è più amato da sloveni e croati che non dagli stessi italiani? Forse perché non ha mai espresso endorsement per l’ANVGD? O forse perché la sua narrazione non risponde ai canoni di revanscismo e neoirredentismo e non è quindi spendibile nel discorso esule? in Materada il protagonista ammette persino che in famiglia parlava croato! Figuriamoci! Perchè quando si parla di tragedia degli istriani, si parla solo di un popolo emigrato (con la famosa cifra incredibile dei 350.000 di Rocchi) e non si parla invece del dramma di un popolo diviso, ché questo è sostanzialmente, sia che parli istroveneto che ciacavo… o un misto di entrambi, spaccatura che il discorso esule-nazionalista s’impegna a mantenere viva. Si parla di istriani, solo in termini di identità nazionale italiana ed è questa la fallacia su cui casca il palco.

          Sono figlio di un esule, mio padre stava per tirare i cracchi a Padriciano per colpa degli spifferi nelle baracche, da parte di mia madre i miei parenti di ascendenza slovena, come lo erano tutti i residenti nei sobborghi di Trieste prima dell’edificazione dei quartieri dell’Ente profughi, vissero nel terrore di finire deportati in Risiera. Anch’io ho pensato che questa discendenza mi desse automaticamente particolari patenti per poter parlare di questi argomenti. Poi ho studiato discipline storiche e antropologiche ed ho realizzato che l’eccessiva vicinanza all’oggetto dello studio è più un limite che un aiuto (potevo arrivarci anche senza quegli studi…). Se solo i congiunti, o peggio i diretti interessati, fossero abilitati a parlare del loro passato allora la storia sarebbe un fatto tribale, la sofferenza dello sfruttato sarebbe la stessa dello sfruttatore che ha perso i suoi privilegi…. se solo i valsusini fossero abilitati a parlare di NOTAV non sarebbe nient’altro che NIMBY, proprio come vorrebbero i loro detrattori.

          • A proposito di Shoah e di universalismo, mi viene in mente la lettera aperta che nel 2002 Marek Edelman, eroe dell’insurrezione del ghetto di Varsavia, scrisse ai leader della resistenza palestinese. Rivolgendosi a loro alla pari, da guerrigliero a guerrigliero, Edelman li invitava a cercare la via del compromesso con le autorità israeliane. La lettera mandò su tutte le furie l’establishment israeliano.

        • Da “vittima per procura” a mia volta – che però si pone dall’altra parte della barricata rispetto a Prodan – posso capire la sua reazione pavloviana a questo pezzo. Posso capire la mancanza di serenità e di distacco di fronte ad argomenti che devono avergli riportato alla memoria tutte le parole spese invano con chi non sa, ma pensa di sapere, e tutta la pazienza sprecata inutilmente per cercare di porre rimedio all’ingoranza e ai preconcetti altrui. Been there, done that, pertanto mi sento di dirgli soltanto una cosa: rilassati, Prodan, ché sei tra amici, e continua a discutere. Occasioni di confronto reale come questa non capitano molto spesso, e credo tu lo sappia.

        • Le tue argomentazioni sono il classico esempio di ripetizione acritica di affermazioni dell’ambiente delle organizzazioni degli esuli. E te la prendi con chi ha fatto delle considerazioni non sui profughi in quanto tali, ma con chi quella vicenda ha sfruttato e gestito.
          Dici che fino alla fine del secolo passato nessuno ne ha mai parlato a livello nazionale. Evidentemente non sai che il documentario “La città dolente” sull’esodo da Pola è del 1947, che durante le elezioni dell’aprile ’48 girava l’italia una mostra sull’esodo, che negli anni ’50 c’erano regolari trasmissioni radiofoniche RAI dedicata agli esuli e sull’esodo. Dici che l’egemonia della sinistra (termine qantomai vago) nel mondo intellettuale avrebbe impedito la ricerca su tale tematica – evidentemente non sai che la prima ricerca organica sull’esodo è stata promossa e finanziata dalla provincia di Trieste nel breve periodo in cui ha avuto una amministrazione socialcomunista con l’aggiunta dell’Unione slovena. Il libro in questione si chiama “Storia di un esodo”, ed è uscito nel 1980 (se non sbaglio). Aveva però il torto di non ripetere pedissequamente qanto ripetevano DC ed organizzazioni degli esuli ed è stato, questo si, boicottato, “dimenticato”. Chi l’ha scritto si è visto stroncare la carriera (nessuno dei numerosi autori fa più lo storico, tranne una, che però ha cambiato completamente tema e non vuole più saperne di esuli e simili). Oggi quel libro è introvabile, nonostante rimanga a mio avviso il testo migliore sull esodo che sia stato mai scritto (con dovizia di particolari sul come e perchè buona parte della classe operaia di Pola passò dal sostegno a poteri popolari alla fazione filoitaliana). Ti consiglierei anche “Socialismo adriatico” della Cataruzza, in cui viene chiaramente esposta la forte connotazione nazionale del socialismo italiano in Istria.
          Citi Guido Miglia – conosci questa sua affermazione” “Credo fermamente che il nostro esodo è stato favorito, indipendentemente dalla sensibilità di De Gasperi o di Nenni, da tutte le forze conservatrici e fasciste italiane, in funzione polemica verso le sinistre … Il nostro esodo divenne un fatto di politica interna italiana … e finì per ridare fiato ai fascisti risorgenti, che si servirono del nome di Trieste per fermare il corso della storia italiana, per resuscitare l’odio nazionalistico al confine orientale, per togliere credibilità e prestigio a chi auspicava un dialogo incisivo con Belgrado …” (La Voce Giuliana 16.3.1976, L’amaro dubbio). Sai che un altro esule, il fiumano Riccardo Zanella, in una sua lettera al Presidente del Consiglio dei Ministri del 22.10.1947 definì l’organizzazione da cui sarebbe nata l’attuale ANVGD come un “covo di fascisti, di squadristi, di collaboratori dei tedeschi, di picchiatori, di oppressori e di calunniatori di professione degli antifascisti” e che lo stesso in un altra occasione scrisse che tale organizzazione “… apre la strada alle voglie di molti di quei pirati e speculatori politici, tratti ….. dal corpo morto del fascismo per riportarli con i denari del governo antifascista di nuovo alla ribalta travestiti da legittimi, sovrani e disinteressati rappresentanti di quei profughi istriani, fiumani e dalmati che proprio che proprio essi avevano per vent’anni oppresso e perseguitato come servi, arnesi o mercenari del fascismo….”.
          Quanto agli “ori e argenti” ovvero la “terra magnifica che sa dare frutti solo se lavorata bene” (al di la del mio indubbio accordo sul fatto che l’Istria sia molto bella DA VEDERE) la realtà è un po diversa. E’ la realtà di una terra che già in epoca austriaca era zona di emigrazione, in particolare verso Trieste (una buona fetta di triestini ha origini istriani da prima dell’esodo), mentre nel periodo di amministrazione italiana le statistiche ufficiali la davano come seconda regione più povera d’Italia, seconda solo alla Basilicata. Tanto che un geografo italiano, Ganfranco Battisti, ha rilevato come la tendenza all’emigrazione dall’Istria si sia accenutata negli anni dell’appartenenza all’Italia e che i flussi migratori si diressero verso le zone più sviluppate del nord Italia. Arrivando a concludere, per quanto riiguarda l’esodo del dopoguerra: “Evidentemente le attrattive locazionali che hanno determinato la presenza dei giuliani negli altri compartimenti del Regno nel 1931, sono rimaste operanti trent’anni più tardi. Il ciclo espansivo verificatosi nel dopoguerra nelle regioni del centro-nord, unito alla presenza di consistenti nuclei di conterranei (specie se parenti ed affini) ha rappresentato un forte elemento di attrazione nei confronti degli esodati. Queste conclusioni suggeriscono una interpretazione dell’esodo come momento di accelerazione di un preesistente processo di spostamento della popolazione giuliana verso Ovest. Dal 1919 la tendenza inizia a manifestarsi anche verso la penisola, rovesciando la direzione dei movimenti precedenti alla guerra mondiale. Si inserisce in tal modo nel trend storico che vede la Venezia Giulia caratterizzata dal progressivo abbandono delle aree economicamente marginali da parte dell’elemento etnico italiano….” (questo non vuol dire che in Istria non ci furono violenze, ma generalizzarle come fai tu – “il più delle volte (partivano) sotto la minaccia di un mitra o una pistola” – non serve a capire un beeneamato nulla). E’ comprensibile che nelle memorie di chi se n’è andato, anche tra i più poveri, il ricordo sia felice, ma la realtà, per molta parte degli esuli, era un’altra. Tanto che uno degli intervistati del libro della Nemec che citi afferma letteralmente che per lui, abituato in Istria a lavorare la terra dall’alba al tramonto, fino a 16 ore al giorno, il lavoro in fabbrica, le 8 ore, erano una manna.
          E poi lo stesso titolo della Nemec – Un paese perfetto – lascia intendere come le memorie tendano a stravolgere la realtà. La memoria – come sa evidentemente molto bene anche la Nemec – dei testimoni può essere UNA delle fonti della storiografia, e come tali vanno vagliate e prese con senso critico. In nessun caso possono essere LA STORIA. Tanto più che variano nel corso del tempo, sono influenzabili da quanto appreso in seguito…. Ritornando poi alle testimonianze della Nemec, ritieni possa essere utile a capire cosa sia scuccesso il racconto di uno degli intervistati che dice che loro, gli “italiani” della “città” di Grisignana (credo tu sappia che tipo di “città sia Grisignana) andavano alle sagre nei paesi croati vicini e si portavano via l’incasso, senza alcuna conseguenza! Come avrei certamente notato che diversi degli “italiani” intervistati affermano che loro stessi e/o i loro genitori conoscevano e parlavano lo “slavo”. E non ti sarà sfuggito il racconto della signora, proveniente da un paese croato, che nella famiglia del marito era stata obbligata per oltre vent’anni a parlare esclusivamente l’italiano (più probabilmente il dialetto veneto locale) e che al momento della fine della guerra – e dell’arrivo dei partigiani – finalmente si sente libera di ribellarsi a tale imposizione e inizia a riparlare lo “slavo” in famiglia.
          Vedi, quello che disturba non è il parlarne, che, anzi, sono convinto l’esodo sia uno dei fenomeni più importanti da capire, perché è una questione chiave per comprendere la storia in generale di quelle terre, ma pretendere e imporre (perché di questo si tratta) un racconto che è lo stesso del 1945 e denigrare e squalificare come “saggi storici di dubbia pertinenza” (nel mio piccolo sono uno che ha scritto dell’esodo) chi cerca – consapevole dei prori limiti ed errori – di capire cosa e perché è accaduto ed ha il torto di non rifarsi alla racconto canonizzato (e francamente falso) di quella vicenda. Magari mettendo in luce che a tenere i profughi per anni nei campi profughi – spesso a morire – furono coloro che si proclamavano loro rappresentanti e “tutori”, per poterli sfruttare per i propri progetti di “bonifica nazionale e politica” (nei documenti sono questi i termini utilizzati).
          Ma ti interessa questo o ti interessa “tenere viva la memoria” con roba ributtante alla Cristicchi (che guarda caso proprio alla parte più drammatica della vicenda dell’esodo, quello che questa gente ha passato al loro arrivo in Italia, dedica pochissimo spazio)?

  7. Suggerisco la lettura di J-H. Lim, ‘Victimhood Nationalism in Contested Memories: National Mourning and Global Accountability’ in A. Assman, S. Conrad (eds), Memory in a Global Age. Discourses, Practices and Trajectories (Palgrave Macmillan, 2010), 138, dove si osserva che dal secondo dopoguerra i nazionalismi sono meno propensi a sviluppare una retorica basata sull’eroismo. Data la simpatia riscossa globalmente dalle vittime, la costruzione dell’identità nazionale attinge sempre più dalla memoria della sofferenza collettiva e dalla sacralizzazione delle vittime. Lo status di vittime garantisce uno spazio di immunità o comunque consente la giustificazione di futuri abusi.

  8. Carissimi giapster questo è il mio primo post. Vi seguo solo da un paio d’anni per motivi anagrafici- ho solo 21 anni – ma non ho mai commentato nulla. Interrompo questa passività per porre a tutt* un fiume di domande. Spero di non andare troppo off-topic, e soprattutto di non eccedere in stronzate: in quel caso anche Saint-Just sarà ben accolto.
    Mi scuso per le eccessive semplificazioni, sto scrivendo un po’ a braccio, ma con stima per tutt*

    Si possono inquadrare questi appunti sul paradigma vittimario per dare ulteriori precisazioni alla più ampia riflessione sul mito tecnicizzato?
    Soprattutto, l’eliminare tutte le premesse tranne una, ci dice qualcosa sull’articolazione temporale dei frame dominanti?
    Dopo i fatti di Parigi è abbastanza evidente l’uso contingente che se ne vuol fare. Alfano chiarifica alla grande. Per esempio, nel suo recente discorso alla camera : pericolo immigrati di seconda e terza generazione, questore potrà ritirare i passaporti, nuova figura del terrorista molecolare (come i cocktail, sembra una supercazzola!), rafforzamento dei dispositivi di vigilanza, in particolare su internet (http://www.ilfattoquotidiano.it/2015/01/09/charlie-hebdo-alfano-camera-monitorate-moschee-annuncia-nuove-norme/1325784/) ;
    allo stesso modo in Francia Le quadrature du Net già si sta mobilitando contro la strumentalizzazione securitaria (http://www.laquadrature.net/en/charliehebdo-no-to-securitarian-instrumentalisation);
    in Inghilterra Cameron si chiede con un’ironia che non capisco : “In our country, do we want to allow a means of communication between people which […] we cannot read”? . (http://www.independent.co.uk/life-style/gadgets-and-tech/news/whatsapp-and-snapchat-could-be-banned-under-new-surveillance-plans-9973035.html /http://www.ansa.it/sito/notizie/tecnologia/internet_social/2015/01/13/cameron-minaccia-di-bloccare- whatsapp_38b1bedf-8d04-4e0d-b494-96485de225ac.html).
    A partire da questo:
    La risposta dal “basso” è stata perentoria, emotiva ecc. Non so, forse ha agito un’analogia con l’undici settembre. Forse c’entrano le riflessioni su Lakoff sui biconcettuali, se a destra c’è la paura e a sinistra l’empatia, questi eventi sono una gran combo e potenzialmente universali.
    Però se proviamo a guardare la cosa da un punto di vista mediatico e diamo ascolto al Jenkins degli spreadeable media consideriamo che c’è una mediazione tra strategie dall’alto e risposta *attiva*, consapevole, dal basso. In questo contesto abbiamo visto affrontarsi, nella stragrande maggioranza dei casi, le reazioni all’evento da parte delle destre xenofobe e dell’estremo centro. Con le reazioni eccentriche marginalizzate, espulse sistemicamente dal dibattito . Davanti alle destre xenofobe è apparso a moltissimi quantomai necessario schierarsi al centro. Con l’assurda conseguenza di gridare alla libertà di informazione e sfilare con Netanyahu, Davutoglu, ‘enzi, ‘ajoy ecc.
    Il minimo comun denominatore tra questi due ( opposte? O che si autoalimentano?) fazioni è stato, noi, Occidente, siamo la vittima del terrorismo, *islamico*!Questo è il problema principale, irredimibile e su cui bisogna agire. Nonostante ““Islamists were responsible for only 0.7% of terror attacks in Europe between 2006 and 2013, according to Europol statistics” ( http://www.counterfire.org/news/17599-graphic-islamist-terror-accounts-for-only-0-7-of-attacks-in-europe) , e se lo dice l’Europol…
    Quindi, quali sono le strategie discorsive , che attraverso il paradigma della vittima, fanno sì che le risposte attive si orientino consapevolmente verso l’identificazione con la vittima-occidente? Noi vs loro? Rendendo possibile la paura di qualcosa che in realtà, almeno a Ovest, è minoritario?
    Devo ammettere che se posso confrontare le vicende in Nigeria, 2000 morti, e quelle in Francia la mia risposta emotiva è differente. Lakoff parla di frame in qualche modo consolidati ( fa proprio l’esempio di *guerra al terrore*) che agiscono in maniera *riflessa*, quindi sostanzialmente automatica, e non *riflessiva*. Come scardinare questi frame che agiscono anche in chi cerca tutti i dì di farsi gli anticorpi?
    La partita che si gioca è quella dell’uso della storia?
    Spero di non urtare nessuno parlando di una cosa in un cui io non c’ero.
    A posteriori , se penso ai movimenti di quindici anni fa, da quel poco che ne so, le prime cose che mi vengono in mente sono pratiche come i contro-forum, che raccontavano un altro mondo possibile, le narrazioni della storia dal basso.
    In Chiapas anche il solo frame di Zapata faceva appello alla storia per rivendicare i diriti degli indios, anche i WM con la bellissima “ Dalle moltitudini d’europa …”- ma sì, ritrattata – facevano riferimento alla storia. Le varie narrazione” dal basso” da sinistra, fanno leva sull’empatia che diamo alle *vittime* , al riconoscere la nostra condizione nei soprusi subiti dell’altro. Meccanismo che mi sembra inceppato alla grande, come ho letto anche qui, soprattutto dai giapster più volte. Mi riferisco, per esempio, alla difficoltà del precario a di riconoscere che l’immigrato irregolare vive la sua stessa condizione.
    Anzi azzardo. Il discorso sulla vittima. L’indistinzione di confini tra me e te che siam vittime, ma senza scadere nel vittimismo, proponendo anzi il contrario della deresponsabilizzazione : dobbiamo fare qualcosa! Non è il nucleo della sinistra-sinistra?
    Mi chiedo : l’uso da parte delle narrazioni dominanti del paradigma della vittima è all’origine, oppure è uno dei fattori, di tanta confusione sul concetto di sinistra, di lotta e quant’altro. E di diffidenza verso la sinistra senza posizioni né-né. È una pratica che ne scardina, ne contamina temi, tradizioni, discorsi ?
    È all’origine della – pare accresciuta- difficoltà politica a riconoscersi negli altri?

    Alla fine Berlusconi col suo dare del comunista a tutti, ha fatto lo stesso giochino confusionario?
    Insomma, ci sono delle istanze tipiche delle narrazioni di sinistra che sono riprese dalle narrazioni dall’alto scardinandole?
    Grillo ci ha creato un partito *anche * sulla confusione sul discorso della vittima?
    WM1, giustamente, storicizza e ci mette davanti all’idea di un processo di lunga durata. Ma il simbolo Gullotta trascina un bell’orizzonte simbolico e temporale.
    Se storicizziamo con la storia recentissima salta fuori qualcosa? Un esempio : dallo slittamento nelle formule guerra del golfo> guerra di pace> missioni di pace, c’è uno lento cambiamento del punto di vista, che interferisce con il discorso della/sulla vittima ed elimina la sostanza del fatto storico.
    E’ *anche* sul piano della Storia che i movimenti si sono inceppati?
    E in quelli odierni, che cosa ci dice la differenza tra chi usava Indymedia e l’appoggio di Twitter – multinazionale! – a quelli in Nord Africa?
    Possiamo inserirla in una possibile logica di ripresa di pratiche tradizionalmente emancipatorie, ma dall’alto?
    Certo, l’usare Twitter è una scelta attiva dell’utente. Ma agisce *anche* una violenza simbolica(dolce, invisibile, che ci permette di riprodurre cultura dominante e rapporti di dominio) ?
    Twitter – per quanto abbia degli indubbi punti di forza rispetto ad altri social network e per quanto il mondo non sia Twitter- con la necessità dei 140 caratteri, non dà il fianco all’appiattirsi su posizioni scomode; esempio, di nuovo, contro razzismo e violenza ma con chi della libertà fa quel che vuole.
    Non presta il fianco alla confusione su chi non è d’accordo con le destre xenofobe delegittimando l’altra parte e facendo il gioco del centro? Io Indymedia non ho fatto in tempo a vederlo, ma dalla vulgata non mi pare così.
    Del resto tra Fukuyama e quelli che “nonostante Fukuyama” dopo l’11/9 il riattivarsi della storia sembra tema n. 1 in agenda – come se si fosse mai fermata. Ma si corre il rischio di confondere un possibile uso strumentale della storia con la Storia tout court?

  9. Aggiungerei alla lista delle cose da dimenticare la strage di Lipa, 269 morti compresi vecchi donne e bambini.

    • La strage di Lipa è un caso molto interessante. Si sa che fu opera di reparti nazisti, con la partecipazione di alcune unità fasciste, ma ad oggi non è ancora chiaro quali furono i reparti coinvolti. Sicuramente alla strage partecipò il battaglione delle SS “Karstwehr”. Ma studi recenti ipotizzano anche un coinvolgimento del primo battaglione del Polizeiregiment “Bozen”, formato da sudtirolesi (aka altoatesini). Se questa ipotesi fosse confermata, la strage di Lipa andrebbe a sommarsi alle stragi di Belluno e della valle del Biois in cui fu coinvolto il secondo battaglione del “Bozen”. Perchè è importante? Perchè il terzo battaglione del “Bozen” è quello che fu attaccato dai partigiani in via Rasella. Il “Bozen” è stato spesso dipinto come un battaglione di “poveri padri di famiglia” arruolati loro malgrado dai nazisti. Una narrazione vittimistica che ha visto una singolare convergenza tra neo e vetero fascisti, revisionisti “liberali”, e sciovinisti sudtirolesi.

      • Io sono stato tirato su esattamente con questa narrazione (quando ho letto val del Biois ho detto “eccola”): i nazisti che se ne stanno andando tranquilli verso casa loro (o in fuga, a seconda delle versioni), i partigiani che per tornaconto personale, o per farsi belli, o per invidie, eccetera che li attaccano e poi si nascondono, facendo ricadere la giusta(?) ira dei nazisti su chi se ne sarebbe stato tranquillo, su chi non c’entrava.
        Prima di capire il come e il perché di questi argomenti, mi suonava davvero strano quando qualcuno tirava fuori la storia dell’egemonia della sinistra nel racconto della guerra di liberazione, o diceva di voler “raccontare quello che nessun’altro avrebbe il coraggio di raccontare” o cose simili. Perché nella mia esperienza il discorso dominante, il sentire comune è sempre stato quell’altro, quello dei partigiani assetati di sangue, o pazzi, o idioti che non avevano di meglio da fare, premiati e coccolati dalle istituzioni nel dopoguerra, eccetera

        • Il divertente (?) è che a volte sono state imputate ai garibaldini cose effettivamente idiote, che hanno portato a conseguenze gravissime, che invece poi si viene a sapere sono state fatte dai “partigiani bianchi” (in questo caso gli osovani). In Carnia negli ultimi giorni di guerra in un paese in cui c’era un presidio “cosacco” (in realtà mi pare fossero azeri) i “cosacchi” si asseragliarono nel presidio circondati dai partigiani, garibaldini e osovani. Vennero intavolate trattative per risolvere in via pacifica la questione e quando la cosa stava per realizzarsi !qualcuno” mise una bomba nella caserma e la fece esplodere. Le trattative si interruppero r i “cosacchi” risposero rabbiosamente sparando all’impazzata. Morirono diverse persone per un atto che non aveva alcun senso. A lungo nel dopoguerra si è attribuita la bomba – e le morti che ne seguirono – ai garibaldini, “assetati di sangue” e “irresponsabili”. Poi, alcuni anni fa, si scopre, da un testo scritto da osovani, che a mettere la furono gli osovani, che adirittura se ne vantano! Essendo un po casinista devo ritrovare i riferimenti, poi ve li posto

  10. […] “Fateci caso: ogni volta si riparte da capo. L’11 settembre 2001 tutti i commentatori dissero: «Da oggi, abbiamo la guerra in casa». Quando fu colpita la metropolitana di Madrid, tutti i commentatori dissero: «Da oggi, abbiamo la guerra in casa». Quando fu colpita la metropolitana di Londra, tutti i commentatori dissero: «Da oggi, abbiamo la guerra in casa». Dopo la strage nella sede di Charlie Hebdo, tutti i commentatori hanno detto: «Da oggi, abbiamo la guerra in casa». Non si va mai più indietro di oggi. E quindi non si capisce un cazzo”: il post dei Wu Ming, nell’affrontare l’analisi degli attacchi a Parigi, mette a fuoco soprattutto la modalità di approccio agli eventi storici in Occidente. Tagliando, minimizzando, banalizzando il contesto e gli antecedenti storici, ci si può sempre tratteggiare come vittime: “Terrorismo, migranti, foibe, marò, fascismo…Appunti sul vittimismo italiano”. […]

  11. Vorrei aggiungere uno spunto, riguardo a come si racconta e si insegna la storia, soprattutto quando non (ci) è gradevole. Casualmente mi sono imbattuto in un progetto didattico (è di un istituto di San Marino, ma credo che di simili si possano trovare ovunque) sulle foibe. Chi ha un po’ di dimestichezza con l’insegnamento (ma credo anche gli altri) non faticherà a trovare come il P.f. sia fortemente schierato e pensato per far prendere una è una sola opinione al discente . Consiglio la lettura a tutti ma in particolare ai miei ex colleghi insegnanti http://web.educazione.sm/scuola/servizi/CD_virtuali/lavori_scuole/Foibe.pdf

    • Vedo che la fonte più citata è Petacco, di cui si è parlato parlato qua. Il progetto didattico riprende tutte le mistificazioni e le falsificazioni classiche. Devo dire però che i questionari a risposta multipla per la verifica dell’apprendimento danno al tutto un tono surreale.

    • Inquietante lavaggio del cervello, ma più di tutto mi colpisce la lettera iniziale, firmata “Le insegnati [sic] di Storia e Cultura Generale” e “Gli allievi”, dove si presenta il progetto all’Illustrissimo direttore del Centro di Formazione Professionale. In quella lettera c’è questo passaggio che mi dà i brividi:

      «Questo anno, *per quanto si onorerà come di consueto il 27 Gennaio*, giorno della memoria delle vittime della Shoah, si imposterà una riflessione più ampia e più approfondita alla [sic] sconvolgente vicenda delle foibe.»

      La contrapposizione implicita tra Shoah e foibe è davvero rivelatrice.

      • Mi sembra un esempio perfetto oltre che di uso politico della scuola anche di didattica frontale e autoritaria fatta passare per “laboratoriale”.
        Nella scheda introduttiva al riquadro “competenze” i punti cominciano tutti per “sapere” argomentare, distinguere, illustrare, caratterizzare… e anche “sapere e basta” ma le “competenze” non dovrebbero prevedere il “saper fare” concretamente qualcosa? qualcosa non di vago, ma di ben definito da precise metodologie ad es. selezionare, interrogare, verificare, confrontare e contestualizzare documenti storici oppure saper scrivere un testo citando le fonti (tanto per stare alle basi della didattica laboratoriale della storia).
        E poi notate la completa assenza di citazioni da fonti primarie. Su tre libri utilizzati uno è Petacco, l’altro l’ha scritto un giornalista.
        Vi è poi il solito sporco giochetto di dare un nome, un volto, una storia ai morti “nostri” (sapere riferire la vicenda di Norma Cossetto) e trasformare in massa indistinta, in contabilità i morti “altrui” (sapere del lager di Arbe).
        Immagino la scena: “Ah si e poi c’era anche il lager di Arbe, dove pare siano morti alcuni slavi… eh bè c’era la guerra”. Nessun esercizio, cartellone o pensiero si sofferma su Arbe o sulla Risiera, mentre alla Cossetto viene dedicato un esercizio di una pagina intera.
        Inoltre si insiste sui particolari Horror e sul cercare a tutti costi l’empatia con gli infoibati (e acquisire la competenza di capire quale distanza ci separa dagli eventi storici no eh?)
        La cosa che più mi fa incazzare è che sta roba la fanno in un professionale. Conosco la mentalità: “ma si poverini a mala pena sanno leggere e scrivere facciamogli fare qualche cartellone e scrivere qualche pensierino edificante, più di così cosa vuoi pretendere?”
        Ma sta gente un minimo di coscienza non dico civile, basterebbe professionale…

    • Questo non deve stupire, se il Ministro dell’Istruzione afferma (http://www.10febbraio.it/il-ministro-giannini-celebrare-il-giorno-del-ricordo/), relativametne alla giornata della memoria del 10 Febbraio:
      «In occasione di questa giornata le scuole di ogni ordine e grado sono invitate, nella piena autonomia organizzativa e didattica, a prevedere iniziative volte a diffondere la conoscenza dei tragici eventi che costrinsero centinaia di migliaia di italiani, abitanti dell’Istria, di Fiume e della Dalmazia, a lasciare le loro case, spezzando secoli di storia e di tradizioni».
      “Costrinsero centinaia di migliaia di italiani”, “spezzando secoli di storia e di tradizione”. Sic.
      Naturalmente, dato il periodo dell’anno, il sito del comitato 10 Febbraio è straripante di vaneggiamenti in tono pienamente vittimista, ivi compresa una lettera aperta al Consolato Generale d’Italia in Slovenia. Tutta roba che rimbalza sui social, viene portata nelle scuole e nelle piazze dai locali comitati, etc.
      In parallelo a questo tipo di azioni ovviamente si continua a fare circolare la balla del “rischio che si blocchi la ricerca storica su quei tragici eventi” (http://viterbo.reteluna.it/it/giorno-del-ricordo-cancellare-il-termine-decennale-per-la-concessione-del-riconoscimento-AppQZ.html), ricerca che evidentemente per essere valida deve necessariamente essere quella narrata da un punto di vista prettamente vittimista, altrimenti non si spiegherebbe la “scomparsa” di tutta la ricerca storica abbondantemente compendiata in questo thread.
      E’ un martellamento difficile da fronteggiare e a questo punto mi chiedo – da un punto di vista *strategico e comunicativo* – cosa fare per cercare di controbilanciare un fuoco d’artiglieria così incessante e di tale calibro.

  12. Da storico e studioso dei movimenti migratori continuo a stupirmi per il semplicismo con cui vengono liquidate le motivazioni di un esodo: nella maggior parte delle testimonianze dirette (ma purtroppo anche nella pubblicistica, nei dibattiti e addirittura in studi storici accademici) la partenza dei profughi è banalmente causata dall’arrivo di un “invasore”, accusato di tutte le nefandezze possibili, quando invece la scelta della profuganza è una decisione complessa, in cui convergono ragioni di carattere politico, economico, personale, familiare, psicologico e sociologico. Chiaramente questo ragionamento non si applica quando la fuga si verifica davanti all’avanzata di un “invasore” brutale e sanguinario, che minaccia la sopravvivenza stessa della popolazione, ma quante volte questa percezione è reale e quante invece è una suggestione, magari propagandata dalle stesse autorità che stanno per perdere il controllo su quel territorio? In altre parole: se i profughi sono le vittime (affermazione comunque discutibile), chi è il loro vero carnefice?

    Visto che si parla di esuli istriani (ma il discorso potrebbe valere anche per molti altri movimenti di popolazione avvenuti nel corso della storia), mi pare estremamente riduttivo addossare all’ “invasore” (cioè a Tito ed ai comunisti jugoslavi) la responsabilità dell’esodo dall’Istria, dal momento che furono spesso anche organizzazioni e media italiani a spingere le popolazione alla partenza attraverso una martellante campagna propagandistica, per screditare internazionalmente il regime jugoslavo, per mostrare l’intrinseca malvagità del comunismo, per disporre di una massa elettorale conservatrice da poter sistemare a proprio piacimento sul territorio italiano, per creare un sistema di clientele legate al mondo dei profughi, per dimostrare a posteriori la prevalenza italiana nella Venezia Giulia, ecc.

    Chiaramente il profugo non può cogliere questi giochi fatti sulla sua testa e generalmente non ha nemmeno la percezione di essere una pedina eterodiretta, dal momento che non è nemmeno lontanamente consapevole dell’uso politico che può essere fatto della massa profuga. E’ dunque per questo che difficilmente da un punto di vista storico le testimonianze dirette hanno valore paradigmatico: possono al massimo rivelare una percezione personale o collettiva, che però sovente maschera una forma di manipolazione proprio da parte di quelle organizzazioni, media o apparati statali che vengono sentite dai profughi come loro difensori.

  13. E’ interessante notare l’uso strumentale pronazionalistico che si è fatto della questione esuli a Gorizia,per esempio…
    Ricollegandomi a quanto dice Piero riporto la sintesi di un post che avevo scritto in materia
    qui http://xcolpevolex.blogspot.it/2014/11/per-la-wikipedia-in-lingua-inglese.html a proposito di come la wikipedia inglese affronta la questione esuli e Gorizia rispetto a quella italiana.
    Nella versione inglese della più importante enciclopedia libera in rete si scrive che “dalla fine del 1940 in poi, Gorizia ha dato rifugio a migliaia di istriani italiani che dovevano fuggire dalle regioni annesse alla Jugoslavia. Molti di coloro che si stabilirono in città, hanno avuto un ruolo importante nel plasmare nel suo dopoguerra l’ identità nazionale e politica”. Voce che nella wikipedia italiana, ad oggi,( all’atto della scrittura del post ndr) non esiste. Così come non esiste, nella wikipedia italiana, la voce dedicata al censimento di Gorizia come strutturata nella versione inglese. Nella versione inglese si riporta, citando il censimento del 1910 e le ricerche di Branko Marušič, Pregled politične zgodovine Slovencev na Goriškem (Nova Gorica: Goriški muzej, 2005), la situazione demografica della città e si nota che nel 1936 il 68,1% della popolazione era italiana ed il 30% slovena, ma se come riferimento si prende l’intera area del goriziano le cose muterebbero in modo significativo a favore della comunità slovena. Ma su questo potrà dire certamente molto di più Piero…
    Togliatti, il 7 novembre del 1946, dichiarava che Gorizia era una “città che anche secondo i dati del nostro ministero degli esteri è in prevalenza slava”. Ribadendo che “agli italiani( che resteranno in Jugoslavia ndr) verranno riconosciuti tutti i loro diritti nazionali, avranno le loro scuole in lingua italiana, vedranno rispettata e potranno sviluppare liberamente la loro cultura secondo il nostro genio nazionale. Io ritengo assurda e antinazionale la campagna che qualcuno conduce per far fuggire gli italiani dai territori che rimangono alla Jugoslavia. Le popolazioni italiane devono restare in questi territori dove la loro funzione sarà quella di costituire un legame sempre più stretto tra i due Paesi e le due civiltà. E’ chiaro che tutte le campagne circa pretese persecuzioni degli italiani in Jugoslavia sono da porre nel novero delle calunnie e delle menzogne- su per giù come la notizia del mio arresto a Trieste”. D’altronde, in merito al “noto” esodo già a fine luglio del 1946 De Gasperi incaricava il vice prefetto ispettore generale Meneghini di costituire a Venezia “un ufficio direttamente dipendente dal Ministero-Gabinetto per la Venezia Giulia- con il compito di apportare un piano organico per l’eventuale esodo della popolazione italiana da Pola e da altre località della Zona B, predisporre i vari e necessari aiuti occorrenti ai profughi al momento della partenza, prendere opportuni accordi con i competenti organi per l’opera di prima assistenza ai profughi e per il loro smistamento verso le altre province che dimostrino adeguate capacità ricettive” Ciò a dimostrare che , non si può certamente escludere, che il così detto esodo era stato previsto, organizzato ed anche, in un certo senso, favorito da parte dello stesso Governo italiano e dalla DC, per ragioni prevalentemente strumentali a logiche meramente nazionalistiche, antislave, anticomuniste e da poter utilizzare, in via strumentale, per le “trattative” internazionali che si concluderanno solamente nel 1975. Gli organismi di parte rilevano che circa 5 mila esuli hanno scelto come luogo Gorizia andando a costituire circa il 15 % della popolazione residente. Il concentramento, non casuale, che è avvenuto a Gorizia, ha certamente favorito l’assegnazione della città all’Italia piuttosto che alla Jugoslavia, questo è un fatto incontestabile, così come è incontestabile che il muro di Gorizia, figlio della linea francese, è stato certamente anche una conseguenza, con tutte le sofferenze che si sono realizzate specialmente nei confronti di chi ha vista la propria vita spezzata da una linea nazionalistica invalicabile, di questa situazione come indirizzata e volutamente gestita dal governo italiano…comunque la logica complessiva del vittimismo paga, in tutti sensi…basta pensare ai milioni e milioni di euro stanziati a favore del panorama complessivo degli “esuli” senza dimenticare gli oltre 150 provvedimenti legislativi adottati vedi qui per approfondimento http://xcolpevolex.blogspot.it/2014/10/milioni-di-euro-stanziati-favore-degli.html
    mb

  14. […] Penso che in quel caso servano altre azioni, forse, oppure non saprei. Il punto è che se i Marò vengono considerati la bandiera  vittimista di un contesto patriottico e destrorso, queste ragazze, invece, vengono considerate un fastidio, un […]

  15. Un meccanismo di riduzione tipico del discorso vittimistico sulla lotta partigiana, e sulle foibe in particolare, è l’accento che si pone sulle uccisioni “in tempo di pace” – da ultimo visto nel post di Cristicchi in solidarietà del film Il Segreto di Italia https://m.facebook.com/SimoneCristicchiOfficialPage/photos/a.10150503286868579.379741.27323193578/10152755462428579/?type=1&source=46
    Il “tempo di pace”, naturalmente, sono i tempi immediatamente successivi alla resa nazifascista, a volte i giorni immediatamente successivi. Ma loro li chiamano “tempi di pace”, come se nel momento in cui i potenti decidono di sedersi intorno a un tavolo, tutti devono alzare le mani e tornare a sorridere e a darsi pacche sulle spalle, come se non ci fosse stata una guerra mondiale prima, e come se durante quella guerra mondiale non ci siano state occupazioni, genocidi, stragi, violenze sommarie sulla popolazione.

  16. Salute.
    Vi mostro un piccolo esempio recente di dove può arrivare il vittimismo alimentato dal ricordo personale nel fottuto nord-est.

    http://www.gazzettino.it/NORDEST/TREVISO/bernardi_libro_partigiani_treviso/notizie/1112240.shtml

    Il padre ucciso dai partigiani. Il sociologo: «Ecco i colpevoli»
    …. svela i retroscena legati alla morte del padre Arrigo, ucciso il 24 marzo del 1945 sulla Postumia, a Rovarè di San Biagio, mentre stava tornando a casa in bicicletta, disarmato. Era capitano della Guardia Nazionale repubblicana.

    Il 24 marzo, un mese PRIMA della fine della guerra.
    Un capitano della GNR di Salò.

    Capite quanto siamo messi male?

  17. Leggendo mi è venuto in mente un pezzo del collettivo Casa degli specchi:
    “Qua nessuno ha alcuna colpa e ne ha già scritto anche il Guareschi
    e da oggi c’ha una nuova scusa è tutta colpa dei tedeschi
    (…)
    Ma la colpa è dei banchieri, degli ebrei e dei neri
    dell’Europa, dei tedeschi o comunque degli stranieri
    della culona algida, ed anche un po’ del Canada
    non certo dell’Italia, la colpa è tua Angela
    Merkel”

  18. A proposito di vittimismo, un altro esempio da manuale ce l’ha fornito il tandem Belluco – Cristicchi.
    E un esempio della “logica” contorta che il vittimismo genera lo trovate in certe difese a spada tratta del povero artista “censurato”.

  19. Ieri su Twitter mettevo in relazione questa discussione alle ributtanti e livorose reazioni al caso delle due cooperanti Greta e Vanessa, quasi tutte ben al di là dei limiti di un legittimo dibattito sulla questione, dibattito che peraltro, guarda caso, non c’è stato (solo qualche esempio qui: http://www.vice.com/it/read/ragazze-rapite-siria-743).

    La tesi è che la teoria del vittimismo aiuti a capire tali scomposte reazioni (memo: sostituire “scomposte” con “spregevoli e merdose”). Ma andiamo con ordine, ribadendo qualche concetto già espresso.

    Il vittimismo è legato a doppio filo alla deresponsabilizzazione. Più ti deresponsabilizzi, più sei autorizzato a sentirti vittima; più ti senti vittima più che cazzo stai a prenderti responsabilità? E come è noto, dalle famose Classi Dirigenti Deresponsabilizzate, giù fino alla Casalinga di Verona, questo è un paese in cui è sempre “colpa di qualcun altro” (“a me m’ha rovinato la guera” diceva Alberto “ce lo meritiamo” Sordi).

    E’ stato già detto anche che il vittimismo richiede vittime “facili”, di pronta beva, poco divisive. Il vittimismo rifiuta la complessità. La complessità è una pratica devittimizzante. Come conseguenza, se è vero che “non tutte le vittime vanno bene”, non esiste niente di peggio di una vittima che rompe i coglioni. La vittima deve essere vittima “passiva”, essa stessa totalmente deresponsabilizzata, capitata lì per caso. Se morta è meglio, ma anche muta va bene.

    Ma non basta. Il discorso vittimista ovviamente mal sopporta chi vittimista non vuole essere e che magari si prende le sue responsabilità, prova a cercare alternative, agisce. Il vittimista “gufa” e gode del fallimento altrui e se questi diventa vittima, “non è una nostra vittima” (detto per inciso, un certo Presidente del Consiglio assai vittimista, dovrebbe riflettere su chi veramente gufa chi).

    La sintesi nella famosa regola di Homer Simpson: se non fai non sbagli, non provarci nemmeno. Anzi diffida di chi ci prova, sempre. Assumersi responsabilità, cercare alternative è pericoloso per l’Ordine Costituito. E poi tu chi sei, per volerci provare? Stai al tuo posto.

    Da qui l’ostracismo di chi “se la va a cercare” e di chi “non si è fatto i cazzi suoi” (e, a dirla tutta, anche la visione italica del fallimento come “punizione divina” che ammorba questo paese, ostacolando qualsiasi cambiamento reale).

    Vittimismo, deresponsabilizzazione, ostracismo per chi ci prova, rifiuto della complessità. Tutto questo, forte e chiaro, lo troviamo nel caso di Greta e Vanessa.

    Non mancano i commenti di stampo machistico (“sono due puttane”, etc etc), il paese è quello che è, non c’è dubbio. Ma a dirla tutta, cosa è il machismo, se non l’effetto vittimistico del maschietto italico incapace di affrontare la complessità della parità di genere e, nello specifico, imbarazzato di fronte a due giovani donne che hanno, comunque la si pensi, dimostrato di avere molti più coglioni di lui ?

    C’è chi commenta “troppo inesperte, giovani, ingenue”, che è come dire “ma chi te l’ha fatto fare?”, che è come dire “se la sono cercata”. Homeritudine allo stato puro: se non fai non sbagli e se trovi una scusa per non fare è anche meglio. 

    Sorvolo su chi chiede “perché non in Italia invece che in Siria? 12 milioni con tutti gli Italiani disoccupati?”. Tutto già detto nel post e nei commenti precedenti. Prima gli Italiani.

    C’è anche chi complotteggia: “chi c’è dietro?”. Perché è impensabile, indicibile per il discorso vittimista che qualcuno si prenda la briga, la responsabilità e di certo il gusto, di farsi il culo per una causa in cui crede, semplicemente e basta. La colpa comunque è sempre di qualcun altro, qualcuno che “manovra” (ehi, non viene in mente la famosa “manina” dell 19bis?).

    Molto indicativi i messaggi “ora speriamo che non vadano in televisione”. Ovvio, la vittima perfetta muore, coccolosa, inequivoca, stringendo possibilmente gattini in grembo, proferendo qualche ultima parola tipo “ora vi faccio vedere come muore una donna di Bergamo Alta”, cose così. La vittima perfetta non rompe i coglioni in prime time, non ci impone la complessità della sua alternativa.

    E chi dice: “abbiamo finanziato i terroristi”? Ehi ragazzi, abbiamo trovato due stronze cui dare tutta la colpa dei prossimi attentati. Così evitiamo di discutere nel merito di politica estera, intelligence, strategie di contrasto, analisi di rischi e opportunità; roba complessa, che impone scelte e responsabilità, che richiederebbe a questo paese di immaginare se stesso come “sistema”. Troppo complicato, se famo du’ spaghi ?

    E poi c’è il legame con “i nostri marò”. Perché questa associazione tra Greta e Vanessa e i marò ? Perché le prime devono “rimanere là” e i secondi “devono tornare a casa”?

    Qui ci aiuta Homer Simpson. 

    Nel primo caso Homer dice: “hanno provato, hanno sbagliato, glielo avevamo detto. Cazzi loro”. L’ostracismo si scatena sulle vittime, che però non sono proprio vittime vittime, hanno infranto la Regola, turbato l’Ordine Costituito, “se la sono cercata” e quindi “non sono vittime nostre”. Quindi “che paghino loro”, “che restino là”.

    Nel secondo caso Homer dice: “ce li hanno mandati, quindi, comunque sia, non sono cazzi loro”. Nessun turbamento dell’Ordine Costituito in questo caso, il vittimismo solidarizza con chi “obbedisce solo agli ordini” (più deresponsabilizzante di così!) e visto che non possono essere cazzi nostri (il che richiederebbe qualche valutazione responsabile e complessa, tipo “abbiamo mandato fucilieri d’assalto su una nave civile e senza regole d’ingaggio? Ma chi noi?”), i cazzi sono dei perfidi indiani che tengono in ostaggio i nostri ragazzi.

    Due situazioni completamente diverse ma è sempre Homer che parla. E ho detto tutto.

    In conclusione e scusandomi con tutti per la verbosità, sul caso delle due giovani donne, il paese ha semplicemente risposto da par suo, pavlovianamente, reagendo con vittimismo deresponsabilizzante (o con deresponsabilizzazione vittimistica) a un evento che sarebbe inutile provare a comprendere nella sua complessità. 

    Tanto la colpa è comunque di quelle due stronze.

    Dandoci al contempo una dimostrazione pratica della validità della qui esposta teoria del vittimismo e, ahinoi, di quanto il Bel Paese dei Balocchi, stia nella merda fino al collo.

    • E per completare il quadro vittimistico hanno deciso di perfezionare il racconto.
      Greta e Vanessa non sono solo “oche giulive” inconsapevoli strumenti in mano ai terroristi, diventano complici consapevoli, vanno a letto con il nemico (così dice Gasparri e qualche amico suo). Quindi da donne si concedono, sottraendosi di conseguenza ai maschi “buoni” che sono vittime due volte.
      E mi soffermerei sull’espressione usata da Gasparri: “rapporti consensuali”. Normalmente quel “consensuali” sarebbe stato inutile al discorso, mentre qui ha una funzione rafforzativa. Serve a specificare che quelle due stronze non sono vittime ma carnefici.

  20. «Mio padre si rivolta nella tomba quando certi personaggi pretendono di rappresentare gli interessi delle vittime costrette, dopo la guerra voluta dal fascismo, ad abbandonare la terra natia. Costoro continuano a identificare, come disse il duce, “l’Italia con il fascismo e i fascisti con i martiri dell’italianità”. Ma gli istriani non possono dimenticare che proprio i filofascisti “italiani” furono alleati dei nazisti nella deportazione dopo l’8 settembre dei militari allo sbando, spesso aiutati dagli ‘slavi’ a imbarcarsi o nascondersi, e che oltre 40 mila di essi combatterono nell’esercito di liberazione jugoslavo.»

    A proposito di figli di esuli che si rivoltano contro la propaganda vittimista e revanscista. Qui.

  21. […] sono poi quelli che mettono sullo stesso piano le ragazze e i due Marò, senza sapere, forse, che i Marò non sono stati rapiti. Sono accusati di un reato e per loro […]

  22. […] narrazione dei fatti nuda e cruda da parte dei media. Come  acutamente descritto dai Wu Ming in questo articolo, il vittimismo tipicamente italiano con cui affrontiamo gli eventi storici ci porta ad una politica […]

  23. Vorrei aggiungere un elemento nuovo a questa analisi, per sottolineare la continuità della narrazione sugli “italiani brava gente” nelle nuove migrazioni.

    In quanto residente ormai da anni all’estero, sono spesso confrontato al pessimo epiteto di “cervello in fuga” – espressione quanto mai fuorviante, anche se, per alcuni, mi chiedo se davvero il cervello non sia ormai fuggito su spiagge lontane :-)

    Il blues che si sente spesso suonare per questa generazione di precari della conoscenza è ancora una volta quello del bravo italiano che si rimbocca le maniche e che parte a mostrare il suo talento altrove. Da una parte rieccheggia – senza nessuna considerazione della differente situazione socio-economica – il mito dell’emigrato “buono”, che si fa da solo alla faccia di quei n***i scansafatiche che vengono qui da noi. D’altra parte, alimenta il mito dell’Italia disorganizzata e clientelare, un mito che ha certo solide basi, ma che si nutre della contrapposizione con un paese straniero (spesso più a Nord) ben organizzato e meritocratico. Questa contrapposizione è ben rappresentata dalle ormai macchiettistiche rubriche su la Repubblica o il Fatto Quotidiano (“cervelli in fuga”: nell’ultimo post si raccontava quanto è difficile essere bianco in Ghana…).

    Dal mio punto di vista, questa narrazione è fuorviante e mette in effetti in fuga molti cervelli, e sottolinerei 3 aspetti:

    1) insiste pesantemente sul “self-made-man” che abbandona tutto per dare – a prezzo spesso modico – il suo tempo e il suo sapere alla scienza o alla cultura (o meglio, a chi dalla scienza e dalla cultura trae profitto), costruendo un mito meritocratico quanto mai ingannevole.

    2) condiziona molte interpretazioni della politica sia italiana che locale da parte della maggioranza dei precari della cultura residenti all’estero – ciò che impedisce una vera empatia nei confronti dei migranti di qua e di là delle Alpi (vedi per esempio il commento @tania sopra), nonché una vera e propria coscienza di classe.

    3) crea il mito del politico cattivo e impresentabile (aka Berlusconi), supportando politici buoni e presentabili (aka Renzi)… quasi nessuno apprezza che si dica che ci dovremmo vergognare tanto di Draghi quanto di Silvio!

    Ringrazio per questo post e soprattutto per l’importante sottolineatura della parzialità nel ricordo e dell’auto-condizionamento a cui siamo noi stessi esposti, un effetto che parecchi sottovalutano.

    Concluderei con un piccolo parallelo tra la referenza al Benigni dell’Inno di Mameli, e quello che alcuni colleghi considerano un “inno del cervello in fuga”: “io non mi sento italiano” di Giorgio Gaber.
    In particolare, un passaggio dice

    “ma forse noi italiani
    per gli altri siamo solo
    spaghetti e mandolini.
    Allora qui mi incazzo
    son fiero e me ne vanto
    gli sbatto sulla faccia
    cos’è il Rinascimento.”

    Mi sembra che il testo e la discussione precedente diano un’ottima interpretazione di questo passaggio.

    • Ciao a tutt*! D’accordissimo con quello che dice MarBern. Quella sui cervelli in fuga è tutta una narrazione tossica, ed è verissimo che è molto utile per evitare di saldare nella coscienza l’esperienza migratoria italiana con quella di chi da straniero viene in italia. Noi siamo cervelli, loro sono solo braccia. Noi, poverini, dobbiamo andarcene per realizzare i nostri sogni. Loro sono “accolti” nel nostro generoso paese, che anzi deve sobbarcarsi il peso di tutta questa umanità miserabile (e ancora giù vittimismo).
      Aggiungo una cosa: che quella narrazione dei cervelli in fuga è anche estremamente utile anche dal punto di vista economico e di mantenimento della pace sociale. I giovani è meglio che vadano all’estero a cercare il lavoro. Così non stanno qua a protestare. L’emigrazione è sempre stata una valvola di sfogo per i problemi sociali di un paese. Senza l’emigrazione forse avremmo quelle masse in piazza che si vedono altrove.
      Foucault raccomandava di andare a guardare nelle strutture capillari del potere per capirlo davvero, più che nei suoi centri. Ebbene, il centro per l’impiego di Bologna organizza corsi di orientamento al lavoro nei quali consiglia ai giovani laureati di emigrare.

    • Aggiungerei che, guardando i dati, anche parlare di “fuga dei cervelli” è una semplificazione. I laureati sono una minoranza degli italiani che emigrano (un po’ meno di un terzo), meno numerosi degli emigrati con la licenza elementare o media (un po’ più di un terzo).

      In realtà ci sono tuttora molti italiani che emigrano per andare a fare gli operai, i minatori, i camerieri, i baristi, i muratori ecc. Fanno esattamente la stessa cosa che fanno gli africani che vengono in Italia (e che spesso se ne vanno in seguito negli stessi posti dove andiamo noi), ma dirlo è scomodo perché rompe l’idea che immigrazione in Italia ed emigrazione dall’Italia siano due fenomeni incomparabili.

      Per esempio si veda http://tg24.sky.it/tg24/cronaca/infografica/2014/01/28/immigrazione_emigrazione_dati_istat_2012_infografica.html

      • @maurovanetti: grazie per il link, scopro solo oggi di questo grande divario (come dicevo, è facile farci intossicare noi stessi!), anche se basta per esempio andare in un qualunque bar/ristorante di Londra per trovare un* camerier* italian* che è lì “per imparare l’inglese”… davvero una grande opportunità offerta ai “nostri ragazzi”!

    • @MarBern: da italiano all’estero da circa 10 anni, concordo completamente con il contenuto del post. Fammi aggiungere, pero’, che al punto 2) la questione e’ “internazionale”, nel senso che un problema di classe e’ il problema dell’intero precariato della cultura, nella mia esperienza abbastanza indipendente dall’identita’ nazionale. Non solo non c’e’ empatia verso i migranti di altre classi, ma vi e’ un iper-individualismo, nel peggiore dei casi, che diventa mera rassegnazione condita di paura, nel migliore, che distrugge l’idea di classe stessa in partenza. Questa e’ una cosa abbastanza grave, visto che un nazionalismo latente sta’ riemergendo in tutta l’Europa: dalla Germania lo vedo crescere giorno per giorno, e non e’ un bel vedere. L’unica soluzione che mi viene proposta da chi come sopra “[sbatte] sulla faccia cos’e’ il Rinascimento” e’ la completa assimilazione alla cultura “ospite”, senza se e senza ma. Una non-soluzione, per quanto mi riguarda.

  24. @MarBern ti consiglio di leggere il libro “Dove sono i nostri” del collettivo Clash City Workers. Il libro spiega bene nei primi capitoli quali sono le percentuali delle tipologie di lavoro e a chi “conviene” dare più enfasi su una certa tipologia piuttosto che su altre (ad es. gli operai). In goni caso per me è stato un libro illuminante per molti aspetti e ringrazio vivamente Wu Ming (non ricordo quale) per avermelo fatto conoscere.

    Per quello che riguarda gli italiani all’estero, vorrei aggiungere un paio di considerazione (ho vissuto 5 anni a Vienna e ora vivo a Sevilla).
    Sul tuo punto 1 (self-made-man) sono assolutamente d’accordo.
    Sul punto 2, per mia esperienza personale un razzista, rimarrà sempre un razzista. O per dirla meglio, una persona che crede che il problema siano gli immigrati, continuerà a pensare che gli immigrati siano il problema anche quando lui stesso è un immigrato. Aggiungo che molti che seguono questa linea di ragionamento non si vedono come immigrati, soprattutto all’interno della UE. Gli immigrati cattivi sono sempre “gli altri”, “noi” siamo quelli che sono andati all’estero per lavorare onestamente, “gli altri” sono quelli che sono andati all’estero per rubare e “sfruttare” lo stato sociale. Questi ragionamenti (purtroppo) li ho sentiti con le mie orecchie, perlopiù da italiani ma anche da altri stranieri emigrati in Austria (e in questi discorsi ritrovavo molti dei sintomi della “vittima” descritti).
    Purtroppo questo è un problema culturale più profondo, se bastasse un pò di empatia il problema sarebbe già stato risolto.
    Sul tuo punto 3, ad essere sincero non ho mai incontrato un solo italiano che considerasse Renzi (o Letta o Monti) politici buoni (nel senso di capaci), bensì ho incontrato molte persone che erano Berlusconiane (almeno fino a che Berlusconi era capo del governo). Nella mia esperienza all’estero nessun italiano considera Renzi decente, anzi credo che molti lo considerino semplicemente un burattino nella mani della UE e della Merkel.
    Nel mio piccolo ho sfruttato questi anni per liberarmi di tutti quei retaggi di nazionalismo che mi portavo dietro che ci vengono innestati fin da piccoli (ed è stato un lungo percorso).

    ps: forse sono andato un pò OT rispetto all’argomento del thread, me ne scuso

    • @Kante, grazie mille per il consiglio di lettura, me lo procuro appena posso! E riguardo al (faticoso!) percorso di liberazione dai retaggi nazionalistici, siamo compagni di viaggio :-)

      Per quanto riguarda la tua critica al punto 2, sono perfettamente d’accordo con te (e con @sandro più su): nel mio commento ho solo espresso uno dei tanti aspetti deleteri che mi sembra quello più direttamente connesso, nel caso dei “cervelli in fuga”, alle questioni sollevate dal post. Ma poi è chiaro che il razzismo si alimenta su tutti i fronti e non solo su quello!

      Sul punto 3, purtroppo ho un’esperienza diversa. Il ritornello di Berlusconi impresentabile perché fa le corna, tocca i culi eccetera (pienamente d’accordo, ma ci sono ben altri motivi di impresentabilità, molto più gravi e politici) ha dato una bella lucidata al PD. Personalmente, sento spesso dire “finalmente non c’è più Berlusconi” o “non c’è più da vergognarsi del premier” sia da francesi che da italiani. Poi quelli che guardano più da vicino la politica italiana sanno bene chi sono i Renzi, Draghi, Letta, Monti (e chi più ne ha più ne metta)… ma forse questo vale tanto all’estero quanto in Italia.
      Però in effetti qui forse vado un po’ OT o quanto meno entro troppo nei dettagli….

  25. Sentite questa. Qualche mese fa ero alla coop a fare la spesa, e mi cade l’occhio su un libro esposto su uno scaffale (alla coop sono intellettuali, quindi vendono anche i libri). Si tratta di “Una grande tragedia dimenticata. La tragedia delle foibe” (che titolo originale) di tale Giuseppina Mellace. Mi colpisce la foto in copertina:

    http://www.ansa.it/webimages/img_457x/2014/10/25/10ef3aa61b11d5d5d99d890e8db23734.jpg

    Non è proprio proprio una foto, sembra piuttosto la rielaborazione grafica di una foto.

    Però cazzo. Quell’immagine mi ricorda qualcosa, sono sicuro di averla già vista. E non mi convince. Cerca che ti cerca, finalmente oggi ho trovato questo:

    http://sh.wikipedia.org/wiki/Crne_trojke#mediaviewer/File:Crna_trojka_kolje.jpg

    E ti credo che non mi convinceva! Quella foto non c’entra niente con le foibe. Infatti si tratta di tre cetnici che sgozzano un partigiano comunista a Belgrado. La foto proviene dagli atti del processo per collaborazionismo contro Draža Mihailović nel 1946.

    Non è il primo caso di uso “disinvolto” di materiale iconografico nella costruzione dell’immaginario sulle foibe. Alcuni anni fa a Bastia Umbria il comune fece stampare un manifesto per il “giorno del ricordo” in cui era riprodotta la foto… della fucilazione di 5 civili sloveni da parte dei soldati italiani. Ci furono proteste dell’ ANPI e del ministero degli esteri della Slovenia.

    http://www.diecifebbraio.info/2012/01/nel-2011-a-bastia-umbra-il-giorno-del-ricordo-si-celebra-fucilando-contadini-sloveni/

    La risposta del comune di Bastia Umbra lascia senza parole:

    La volontà dell’Assessorato alla Cultura del Comune di Bastia Umbra, recepita graficamente nel manifesto del “Giorno del ricordo”, è stata quella di aver voluto evidenziare, con una creazione grafica attraverso elementi identificativi e simbolici, la violenza nelle sue varie forme, tutte esecrabili, violenza che ha caratterizzato quel periodo storico e segnatamente le zone di confine italo-slovene.

    Venghino siore e siori, ecco a voi la Memoria Condivisa.

    • Ahaha, ho sbagliato a trascrivere il titolo del libro di Mellace. Il titolo è: “Una grande tragedia dimenticata. La vera storia delle foibe”.
      Ma LOL.

  26. Scusate, seguo Giap da un paio di anni ma non ho mai commentato, lo faccio ora per chiedervi un aiuto collettivo. Spero di non usare impropriamente questo spazio, in caso segnalatemi dove posso porvi la questione.
    Io lavoro in un museo a Trento e mi occupo di didattica della storia contemporanea. Con un paio di insegnanti di scuola superiore abbiamo da poco aperto un blog, questo https://avanguardiedellastoria.wordpress.com/ (non sto a farvela lunga quello che vorremmo è spiegato qui https://avanguardiedellastoria.wordpress.com/2014/10/19/perche-questo-blog/ ).
    Mi piacerebbe fare un post “pratico” che possa essere utile agli insegnanti in occasione del “Giorno del ricordo”, quando in molte scuole si decide di affrontare l’argomento “confine orientale” con il rischio, vuoi per ignoranza vuoi per strumentalizzazioni di arrivare a risultati atroci come quel laboratorio didattico di San Marino che si citava qualche commento fa.
    Vorrei in sostanza elencare un po’ di materiali utili reperibili on line, inutile consigliare a chi deve prepararsi una lezione di leggersi tomi su tomi, penso sia più utile indicare alcuni materiali video, fotografici o scritti e magari corredarli con una breve sitografia o bibliografia.
    Io avrei individuato alcuni materiali sul sito dell’IRSML (Istituto Storico per lo Studio del Movimento di Liberazione) del Friuli Venezia Giulia e sul sito di Rai Storia. Credo che sia inevitabile, in ambito scolastico, partire da questi materiali perché sono quelli prodotti da istituzioni culturali preposte alla divulgazione storica, ma che occorre vederli in maniera critica suggerendo se occorre punti di vista alternativi:
    http://www.slideshare.net/INSMLI/aavv-un-percorso-tra-le-violenze-del-novecento-nella-provincia-di-trieste-irsml-trieste-2006

    http://www.irsml.eu/didattica-presentazione/confine-orientale-italiano/64-pubblicazioni-sul-confine-orientale

    E soprattutto:
    http://www.italia-resistenza.it/percorsi-tematici/frontiera-orientale/il-confine-piu-lungo/

    Vi è poi il documentario di Rai Storia
    http://www.raistoria.rai.it/cerca.aspx?s=MEJA

    Vedendo che a questa discussione partecipano persone che hanno alle spalle specifici studi sul confine orientale chiederei loro un aiuto di questo tipo: se potessero visionare il materiale (in primo luogo http://www.italia-resistenza.it/percorsi-tematici/frontiera-orientale/il-confine-piu-lungo/ e http://www.raistoria.rai.it/cerca.aspx?s=MEJA) indicandomi i passaggi che ritengono erronei o eccessivamente semplificati (sempre parlando in ambito scolastico, beninteso). Se fosse possibile suggerendo integrazioni o correzioni attraverso indicazioni bibliografiche o sitografiche.
    In tal modo il post che ne verrebbe fuori sarebbe impostato così: “gli enti preposti alla divulgazione hanno prodotto questo, ve lo corredo dei pareri critici e delle integrazioni che queste persone interessate/esperte della materia suggeriscono”.
    Vi ringrazio se vi fosse possibile darmi questo aiuto, naturalmente sarete citati come autori del contributo. Naturalmente se volete proposte diverse ditemi pure.

    Riguardo al tema del post, cioè le narrazioni vittimistiche diffuse tra la popolazione italiana, ricordo che qui in area trentino-tirolese ne abbiamo almeno tre:
    – vittimismo “italiano”: i cattivi tedeschi sono geneticamente nazisti oppressori.
    – vittimismo “tedesco”: i cattivi italiani sono geneticamente fascisti oppressori.
    – vittimismo “trentino-tirolese”: si parliamo in italiano ma stavamo tanto bene sotto l’Austria, poi è arrivata l’Italia massonica e corrotta a rovinare tutto (messaggi assai simili al Movimento Trieste Libera, ma qui pienamente istituzionalizzati).
    Ciò detto rimango sempre sconvolto quando constato che il grosso della popolazione italiana ignora alcuni semplici fatti storici:
    – Dal 1867 l’impero d’Austria diventa Impero Austro-ungarico, cioè uno stato diritto non una semplice “prigione delle nazioni” . Senza dubbio l’impero aveva molti aspetti reazionari e negli anni ’10 il suo parlamento era paralizzato dai conflitti nazionali, ma presentava anche elementi di indubbia modernità come l’articolo 19 della costituzione austriaca, secondo il quale ogni “nazionalità” dell’impero aveva il diritto di mantenere e rafforzare la propria lingua e la propria cultura, con tanto di diritto all’istruzione in tutti i gradi nella propria lingua madre. Per di più gli italiani erano una delle “nazionalità storiche” dell’impero, ergo avevano una propria borghesia ed un proprio ceto intellettuale. Per una descrizione e un’analisi della possibilità di riforma in senso socialista dell’impero vedi “La questione nazionale” di Otto Bauer, scritto nel 1908. A questo testo si ispirò (polemicamente) Stalin nel 1913 per scrivere “Il marxismo e la questione nazionale).
    – La vittoria italiana nel 1918 fu una tragedia per le popolazioni tirolesi, istriane, dalmate e giuliane di lingua tedesca e slava che vennero private dei più elementari diritti civili. Non molto meglio se la passarono gli ex-sudditi dell’impero italofoni che comunque videro peggiorare le loro condizioni di vita (a cominciare dai danni di guerra non pagati).
    – Lo sfaldarsi dello stato italiano nel 1943 spinge non solo le popolazioni alloglotte di area Trentino-tirolese e del confine orientale a sognare la fuoriuscita dall’Italia, ma incoraggia una presa di distanza da parte dell’ “Italianità” (coincidente con il fascismo e la guerra) da parte delle stesse popolazioni italofone di quelle stesse aree. Vengono sempre citati gli operai comunisti triestini come “traditori della patria” in combutta con gli slavo-comunisti e poi si ignora bellamente il fatto che i cattolicissimi contadini trentini furono sostanzialmente acquiescenti con l’occupazione tedesca che aveva inserito la provincia di Trento nell’Alpenvorland, cioè nella Germania nazista. Anzi, molti giovani trentini arruolati nel Corpo di Sicurezza Trentino (CST) vestirono l’uniforme tedesca e spararono sui partigiani (pur con molti casi di diserzione e passaggio alla resistenza). Questi “traditori della patria” non vennero mai additati al pubblico disprezzo in film come “Porzus”.
    – La continuità fascismo-repubblica nel trattamento delle minoranze linguistiche appare marcata, non conosco bene la situazione in Friuli-Venezia giulia, ma in Alto Adige negli anni ’60 c’è stato un vero e proprio conflitto armato con decine di morti, attentati e coprifuoco. Alcuni morti li abbiamo avuti anche a Trento, ma oggi la memoria di questi fatti sembra essere svanita anche qui.
    Il conflitto venne risolto con il secondo statuto d’autonomia del 1972, che sancì la pace, ma anche la separazione etnica. Segnalo a tal proposito gli scritti di Alex Langer che trovate qui http://www.alexanderlanger.org/it/30 e che personalmente trovo sempre molto interessanti quando si parla di conflitti etnici.

    • Da parte mia posso intanto commentare il documentario MEJA – Guerre di confine [On line qui, N.d.R.]. Innanzitutto ti ringrazio: ne venni a conoscenza più di tre anni anni fa quando fu presentato a Gorizia ma non riuscii a vederlo e poi mi dimenticai del titolo.
      Grazie alla tua segnalazione oggi l’ho finalmente visionato. Ne ho scritto un breve commento nel mio blog, che riporto qui:
      Il documentario è del 2011, secondo Rai Storia è inedito in Italia e non stento a crederci, dato che sulla televisione italiana regna una specie di Echelon dell’Esercito Italiano per cui ogni volta che si nomina Rab e i crimini di guerra italiani scattano misteriosi veti (vedi vicenda del documentario BBC “Fascist Legacy“). Dall’elenco degli intervistati si capisce subito il motivo dell’ostracismo verso questo prodotto, che comunque fa bella mostra di sé su un sito della Rai con questo soffietto: 4 episodi per comprendere la storia del confine orientale d’Italia e sfatare il mito dello “italiano? brava gente!”
      Le uniche note stonate del documentario sono attribuibili agli interventi di Gianni Oliva, che credo sia stato interpellato solo per mettere un nome della “vulgata classica” tra gli intervistati. Nel 2° episodio si affretta a rimarcare la differenza tra l’approccio tedesco e quello italiano, sostenendo che dietro i primi ci fosse una ideologia della violenza come controllo del territorio, mentre negli italiani tale ideologia sarebbe stata assente e la violenza avrebbe avuto unicamente una ragione difensiva. Un distinguo abbastanza fuori luogo il cui impatto nel documentario è comunque annullato dalla lettura dei dispacci e delle circolari dei generali Roatta, Robotti e Gambara con le loro ormai note frasi tutt’altro che difensive (Qui si ammazza troppo poco, Testa per dente etc). Come rimarca Dario Mattiussi nel 3° episodio su Rab – su argomento analogo: è vero che i campi di concentramento fascisti erano nati con intenti diversi rispetto a quelli nazisti ma se il risultato effettivo è stato lo stesso se non peggiore è un distinguo che non ha molto senso fare.
      Nella parte 4° Oliva sottolinea come nelle epurazioni fossero stati eliminati molti esponenti del C.L.N. italiano guardandosi bene dal dire come molti di questi comitati in zona fossero nati praticamente a guerra finita in funzione meramente anticomunista, il che ovviamente non giustificherebbe le eliminazioni fisiche ma almeno le contestualizzerebbe.
      Per il resto si nota che le foibe istriane vengono citate solo di sfuggita da Scotti (mostrando alcuni ritagli di giornale con gli articoli di Granbassi, facilmente assimilabili alla propaganda nazifascista) mentre il documentario si concentra sulle epurazioni del dopoguerra, scelta direi meritoria sia per l’entità di tale “rese dei conti” sia perchè contribuisce a spezzare il legame foibe – esodo, esodo che anche successivamente viene presentato a parte senza metterlo in diretta relazione alle epurazioni politiche, denotando un buon senso che raramente alberga nelle divulgazioni emotive di parte italiana.
      Anche quando Franco Miccoli cita la cifra di 5.000 vittime italiane in Jugoslavia nel dopoguerra (che è una di quelle cifre “da contrattazione” di Raoul Pupo, come i suoi 300.000 esuli) si perita di dire che furono un piccola minoranza rispetto ai 70-80.000 epurati non italiani, cifra che non ho controllato ma la prospettiva mi sembra corretta.
      Nel complesso mi sembra che anche le note stonate di Oliva siano tollerabili anche perchè è giusto sentire cosa dicono certi storici ma soprattutto sarebbe pretendere veramente troppo da un documentario RAI temerario che infatti da quanto mi risulta è stato debitamente occultato, proprio come il libro Storia di un esodo (1980) o come il rapporto della commissione mista italo-slovena (2000), a testimonianza di una censura che travalica ampiamente l’epoca della guerra fredda.

      • P.S. C’è da dire anche che pur citando il campo di prigionia di Borovnica non si specifica chiaramente che quei 5.000 epurati (perlopiù militari e prigionieri politici raramente civili) di cui parla Miccoli si ebbero spesso in prigionia a causa delle durissime condizioni di internamento (comuni peraltro a molti campi di internamento sovietici e alleati) e che solo una parte di essi morì di morte violenta a causa di fucilazioni (men che meno a causa di “infoibamenti“).

    • Sono l’autore di uno dei libri citati e ti proporrei questo che nonostante la non perfetta attinenza (puntata monografica di Correva l’anno su TITO)nella parte pertinente è fatto abbastanza bene. Indicativamente, la puntata è sparita dai canali “ufficiali”. https://www.youtube.com/watch?v=1X0BffPe-w8

      Per il resto potresti dare un’occhiata al libro di Pirjevec. Se ti fa piacere scrivimi pure così ne parliamo con calma.

  27. Grazie mille dei contributi. Avevo già letto il rapporto della commissione italo-slovena, ma non sapevo come ritrovarlo. Credo sia un testo difficilmente contestabile e ideale da diffondere in ambito scolastico.
    Vi segnalo che i materiali di “Meja – guerre di confine” vengono utilizzati anche in una puntata de “Il Tempo e la storia”, programma abbastanza conosciuto (e che solitamente apprezzo) la trovate qui: http://www.raistoria.rai.it/articoli/guerre-di-confine/24107/default.aspx
    I contenuti di Meja sono però intervallati da interventi in studio che mi pare tendano ad edulcorare i crimini dell’esercito italiano. Si tende però a distinguere foibe ed esodo e far capire che gli infoibamenti furono frutto di regolamento di conti e non di un piano di pulizia etnica. Sul numero degli infoibati nella puntata Conti dice che la storiografia è divisa “si parla dai 500 ai 50.000 morti”.

    • Una parola su “Il tempo e la storia”, nota trasmissione di divulgazione storica di Rai3 condotta da Massimo Bernardini.
      Per chi non conoscesse il format consiste in un’intervista ad un ospite accademico su temi il più delle volte inerenti la storia patria (con confini labili, per esempio l’altro giorno si parlava di jazz però buttando un occhio particolare al jazz sotto Mussolini, ma non solo), il tutto condito da spezzoni di documentari, film inerenti al tema del giorno etc.
      Il programma va in onda all’ora di pranzo (fascia studenti – pensionati?) ed è facilmente intuibile che i contenuti che ne escono siano molto conformi alla linea “governativa”. Il format appare accattivante perché tratta di aspetti in molti casi negletti della Storia ma se si presta attenzione sui temi “caldi” il filo conduttore è piuttosto monotono, c’è una precisa narrazione della storia nazionale che ne emerge. Ho notato che in più di un caso alcuni storici ospitati hanno tradito un malcelato disappunto a fine puntata, e anche in quella che ha linkato Tom Trento ( http://www.raistoria.rai.it/articoli/guerre-di-confine/24107/default.aspx ) io noto un “certo imbarazzo” o almeno una certa evasività nell’ospite Giuseppe Conti, forse dovuta al fatto che non si è scelto di interpellare proprio il massimo degli esperti sull’argomento (pare presente più in quanto figlio di un ufficiale della Brigata Garibaldi operante in Montenegro che non per particolari competenze sul confine orientale).

      Comunque la puntata in questione è esemplare nel mostrare quel dispositivo che ho chiamato “Echelon dell’esercito italiano“, se si bada bene solo una minima parte del materiale di MEJA viene mostrato ed è montato in modo da venirne quasi completamente sovvertito. I tagli sono strategici e ovviamente i pezzi di Oliva vengono lasciati intatti mentre scompare Kersevan e le interviste più scomode. Rab, Gonars, Visco spariscono (un intero episodio dei quattro, il più duro è del tutto assente) e con essi spariscono anche i crimini di guerra italiani, via libera!
      In pratica ne emerge la solita narrazione, ben distante da quella che emergeva del documentario integrale:
      – i fascisti furono cattivi perché si sentivano superiori (quando l’Italia avrebbe benissimo potuto essere egemone sulla Jugoslavia con le buone… perché è ovvio che l’Italia abbia il compito di essere egemone sui Balcani, aggiungo io). Ma le robe brutte si limitarono alle italianizzazioni dei cognomi e agli incendi prima della presa del potere.
      – quando invasero la Jugoslavia e occuparono la provincia di Lubiana si ammorbidirono, a testimonianza di ciò viene mostrato un cartello bilingue! (come se ciò non rispondesse ad esigenze pratiche) Si dice (citando le riflessioni di Mussolini stesso!) che gli italiani furono “ingenui” nella loro “morbidezza” e che si sorpresero della reazione armata slovena – il sottotesto è che se gli sloveni non avessero rotto i coglioni non ci sarebbe stato nessun spargimento di sangue. Non mi risulta da nessuna parte tutta questa liberalità nell’amministrazione italiana, anzi. Soprattutto mi sembra irrilevante sottolinearla a fronte delle conseguenti impressionanti percentuali di persone internate o deportate a Lubiana (sottolineate proprio da Oliva nelle parti tagliate!).
      – i crimini di guerra di Roatta, Robotti & soci spariscono. Conti dice che i dispacci volevano solo galvanizzare i soldati “smarriti”. Come se nel dopoguerra non ci fossero state delle accuse pendenti sulla testa di questi generali al tribunale internazionale! Totalmente occultate le deportazioni di civili nei campi fascisti, spariscono gli incendi di villaggi con la distruzione delle derrate alimentari e la fucilazioni dei maschi abili con il resto del paese di donne, vecchi e bambini lasciati lì praticamente a morir di fame. Tutto questo per Conti diventa “normale repressione” difensiva comune a tutti gli eserciti.
      – alla fine Conti dice che la quantificazione delle persone “sparite” nel dopoguerra è incerta (vero) e che gli storici non concordano fra loro andando dai 500 ai 15.000: falso dopo un tot non sono più storici ma propagandisti politici, gli studi accademici seri, anche quelli più di manica larga, non sono mai andati oltre a cifre nell’ordine di alcune migliaia.

      • P.S. alcuni dettagli su Gianni Oliva che mi preme non lasciar correre: prima sostiene che quando “Tito” entra a Trieste instaura autorità “slave”, che è un falso totale, fu pure rispettato un certo equilibrio “etnico”: la contingentazione del potere su base etnica era proprio un trademark di Tito che nella cd. Venezia Giulia voleva istituire la settima repubblica federativa (Nello stabilire i funzionari italiani non furono nemmeno troppo oculati, visto che si presero dentro anche gente abbastanza ambigua, antifascisti dell’ultima ora come Manlio Cecovini diventato poi sindaco di Trieste con la “Lista per Trieste” che grazie a lui deviò clamorosamente verso la destra neoirredentista). Più avanti dice che TUTTO il c.l.n. della venezia giulia finì nelle foibe… una falsità bella grossa anche questa, non chè il clima fosse pacifico, ma almeno tutti i dirigenti di detto CLN a Trieste morirono in pace, di morte naturale, nel dopoguerra (Ercole Miani, don Marzari, Carlo Schiffrer etc.). Con ciò ovviamente non sto dicendo che nessun membro del CLN sia stato toccato ma come ho già scritto si tace completamente la natura torbida dei comitati locali, sorti in funzione antijugoslava all’ultimo minuto, con ambigui contatti con collaborazionisti e fascisti e che guardacaso nel dopoguerra finirono in massa a ingrossare le fila di Gladio.

      • E’ interessante notare che la “solita narrazione” nasce proprio all’interno dell’esercito italiano cobelligerante degli alleati, già nell’autunno del 1944, quando lo Stato Maggiore, avuta notizia che in Jugoslavia era stata istituita una commissione d’inchiesta sulle violenze degli italiani, cominciò a imbastire un lavoro di “controinchiesta”, teso a dimostrare presunti crimini commessi dal nemico e a discolpare la “legittima reazione” dell’esercito italiano. La “controinchiesta” divenne poi un memoriale difensivo (settembre 1945) a cura dello Stato Maggiore dell’Esercito. Dai documenti dell’esercito tuttavia la realtà dei fatti emerge lo stesso, nonostante le cortine fumogene. Ad esempio. Agosto 1942, operazione antipartigiana in Slovenia:
        *partigiani uccisi in combattimento: 965
        *fucilati: 791
        *catturati: 1136.
        Nel corso dell’offensiva le perdite dell’esercito italiano furono: 47 morti e 143 feriti.
        I dati provengono da: Amedeo Osti Guerrazzi, “L’esercito italiano in Slovenia 1941-43. Strategie di repressione antipartigiana” ed. Viella (2011), p.85

      • Quel che dice Oliva sull’ “ammorbidimento” italiano dopo l’invasione della Slovenia è totalmente falso. Basti pensare al secondo processo di Trieste, conclusosi nel dicembre del ’41 con 9 condanne a morte. Oliva evidentemente definisce “ammorbidimento” la cooptazione di una parte della classe dirigente slovena nella gestione della provincia di Lubiana. Sarebbe come parlare di ammorbidimento dei nazisti in Francia, per il loro appoggio a Petain.

        • P.S. Sul secondo processo di Trieste, si veda: Marta Verginella, “Il processo Tomažič” in “Dal processo Zaniboni al processo Tomažič. Il tribunale di Mussolini e il confine orientale (1927-1941)”, ed. Gaspari, Udine (2003).

      • Concordo assolutamente sul giudizio riguardo alla puntata che ho citato, analoghe sono le mie perplessità sulla puntata dedicata all’Ucraina (guarda caso!), dove mi pare si sorvoli un pò troppo sul contributo nei nazionalisti ucraini alle atrocità naziste.
        Ad essere sinceri credo che “Il tempo e la storia” abbia di per sè un format interessante, il fatto di spingere uno storico in studio a commentare criticamente un documentario spesso introduce elementi di complessità inimmaginabili nelle altre trasmissioni rai ad argomento storico e consente di “popolarizzare” le più recenti riflessioni storiografiche. A volte vengono anche dette cose indubbiamente coraggiose per una trasmissione dell’era Renzi (vedi la puntata su Giovanni Gentile dell’anno scorso o quella su Omar Mukhtar di quest’anno), dipende come si combinano la scelta degli spezzoni video con la scelta dello storico in studio. Un vero peccato che una trasmissione nel complesso stimolante abbia queste “cadute”.

        • Anch’io ero rimasto piacevolmente colpito dalla puntata su Omar al-Mukhtar. Spero di non essermi spiegato male, non criticavo il format di per sé, anzi, mi soffermavo soltanto ad analizzare come esso si appiattisse bruscamente al dettato “governativo” nel momento in cui si trova a solcare determinati territori.
          Il fatto che il giornalismo e talvolta persino l’accademia siano ostaggi di tali dettati a più di 70 anni di distanza dai fatti lo trovo particolarmente allarmante. Voglio comunque essere ottimista, documentari come MEJA (pur non privo di “smagliature”) o come il documentario di G. Donfrancesco “La guerra sporca di
          Mussolini” linkato da Tuco (andato in onda su History Channel di Sky), assieme all’opera di storici come Filippo Focardi mi fanno ben sperare che in tempi non lontani si potrà bucare questo velo istituzionale.
          Non è però una cosa da attendere passivamente, bisogna darsi da fare per forzare questo immaginario edulcorato e vittimista. Soprattutto occorre vigilare su come questi contenuti verranno sdoganati – perché prima o poi lo saranno. Per esempio è sintomatico che il primo a parlare sul primo canale nazionale di crimini di guerra italiani sia stato Cristicchi in Magazzino 18. Il rischio è che questi fatti anziché essere mostrati nella loro completezza dirompente, costituendo un’agnizione terapeutica collettiva, vengano ammaniti a poco a poco per rafforzare tatticamente vecchie narrazioni paradossalmente di segno completamente opposto.

  28. LA GUERRA SPORCA DI MUSSOLINI

    Documentario di Giovanni Donfrancesco

    http://youtu.be/_aAC-cdncro

    Partendo dalla strage di Domenikon in Grecia, si parla anche di Jugoslavia, Libia ed Etiopia. E dei motivi per cui nessu italiano fu mai processato per crimini di guerra.

    • Grazie per aver postato questo video, non lo conoscevo. Impressionante come le strategie repressive italiane in Grecia e nei Balcani siano identiche a quelle poi attuate dai tedeschi in Italia, in particolare vedendo il filmato mi veniva da pensare ai rastrellamenti nel bellunese e nel vicentino.

      • Per Tom – le strategie repressive applicate dall’esercito italiano nei Balcani (Jugoslavia, Grecia) sono identiche a quanto fatto prima in Libia, Etiopia e Somalia. Campi di concentramento, rappresaglie, citta circondate di filo spinato (Adddis Abeba, poi Lubiana, Mostar ….). Mi sa che è più una linea di gestione dell’esercito che una cosa propriamente fascista. Quanto ai suggerimenti che chiedevi per quanto riguarda la situazione nel dopoguerra al confine orientale ti consiglio i de volumi di Nazionalismo e neofascismo nella lotta politica al confine orientale (1945 – 75) (La Editoriale Libraria, Trieste, 1977). Datato, ma dopo su sta cosa non è stato scritto niente di ugualmente valido. E poi ci sono parecchie memorie, da quelle di Taviani a Vidali, in sloveno quelle di Babic. Magari può essere interessante anche il doc su Anton Ukmar, di Mauro Tonini, per quanto riguarda la realtà vissuta da Ukmar in Jugoslavia dopo la guerra e le sue posizioni (tutt’altro che stereotipate e scontate)- il titolo è LIKE A BULLET AROUND EUROPE, qui il link alla casa di produzione che ce l’ha – http://www.quasarmultimedia.it/quasarweb/index.php?option=com_content&view=article&id=67&Itemid=93&lang=it

      • Se può interessarti, sulla presenza italiana in Iugoslavia nel periodo ’41-’43 potresti leggere (sempre che tu non lo conosca già) il saggio di Eric Gobetti *Alleati del nemico*.
        Qui trovi una recensione-sintesi del libro in questione.

        http://www.academia.edu/6635758/Eric_Gobetti_Alleati_del_nemico._L_occupazione_italiana_in_Jugoslavia_1941-1943_

  29. […] trascorsa per me con meno retorica del solito. Ma siccome di retorica è sempre invasa e siccome con le vittime si fa spesso festa e si legittima un po’ di tutto, anche che possano essere poi, a loro volta, intoccabili carnefici, è il caso di ricordare tutte […]

  30. Grazie mille, credo che nel post metterò solo i materiali più divulgativi, ma archivio tutto. Sapevo delle atrocità dell’esercito italiano, ma mi sfuggiva quanto ne fosse stata teorizzata la “normalità” dai comandi al di là dell’azione di determinati ufficiali come Graziani o Roatta.
    Grazie soprattutto per avermi segnalato il documentario su Ukmar, quello devo proprio procurarmelo, sapevo dell’azione sua e di Barontini in Etiopia (credo sia lui quello che Barontini salva dandogli il chinino quando già lo davano per morto), ma ero rimasto fermo a quanto prodotto su Barontini, cioè a un libro agiografico e scarno di documenti (“Ilio Barontini un garibaldino del ‘900”) e alle pagine che vi dedica Matteo Dominioni in “Lo sfascio dell’impero”.

    • Su Barontini c’è anche un altro libro, molto più vecchio (e non so se più acquistabile), ma MOOOLTO migliore, scritto dalla figlia Era e da Vittorio Marchi – “Dario. Ilio Barontini”, Edizioni Nuova Fortezza, Livorno, 1988. Ukmar (e Barontini) sono stati molto di più che i membri della missione in Etiopia, il documentario racconta in parte cosa sia stato Ukmar, d’altra parte è difficile raccontarlo in 50 minuti. Ma la sua storia è esemplare di cosa sia stato, al di la delle storie finalistiche e agiografiche, in realtà il PCdI, il Komintern ecc. Come pure delle contrapposizioni dentro la Resistenza…. E di come dentro il “socialismo reale” jugoslavo ci fossero posizioni diverse, molto lontane dagli stereotipi che vengono presentati.

      • Grazie, il libro di Era Barontini e di Marchi è davvero introvabile! nelle biblioteche trentine non ven’è traccia, mi sa che il posto più vicino dove posso trovarlo è all’Istituto Storico di Modena. Già che ci sono vi domando se è uscita una biografia affidabile di Vidali, avevo le sue memorie anni fa e non sono mai riuscito a capire se fosse davvero coinvolto in tutto ciò di cui lo accusano.

        • Io l’ho in fotocopia, porta il timbro della Biblioteca Vallesiana di Castel Fiorentino (mi sa che è lontanuccio da Trento). Vidali ha scritto diversi libri di memorie, ma non cedo esista una sua biografia. So che c’era chi voleva scrivere di Vidali in base ai documenti del Komintern (il suo fascicolo personale), ma i familiari si sono opposti a che vedesse i documenti e qundi nisba. Quanto a quello che gli imputano io ci andrei con i piedi di piombo. Nel corso degli anni sono stati costruiti tanti e tali di quei stereotipi che non corispondoo a nulla alla realtà dei fatti. Certo che Vidali credo su sto suo mito ci ha pure marciato parecchio. Ma tieni conto che era un uomo del Komintern più che del PCI o di altri PC, ed erano personaggi particolari. Il libro su Barontini (della figlia), altro uomo d’azione del Komintern, spiega bene l’atteggiamento di questi personaggi rispetto a quanto si diceva di loro. Lo stesso Ukmar ha raccontato balle notevoli a destra e a manca (in particolare alla polizia jugoslava, l’OZNA e suoi successori) sulle sue vicende di vita e ci ha marciato tantissimo (non credo solo per vantarsi) su la sua missione in Etiopia.

          • Forse può esserti utile – per incasinare ancora un po di più le cose – il libro di Rudi Ursini Uršič – Attraverso Trieste. Un rivoluzionario pacifista in una città di frontiera, Roma, Studio i, 1996. Ursic è stato un alto dirigente del PC della Regione Giulia (poi PC del TLT) e racconta parecchie cose interessanti, anche su Vidali.

  31. Grazie mille di tutte le indicazioni biografiche, io archivio tutto e quando potrò mi metterò alla ricerca dei testi, nei prossimi giorni mi metto al lavoro per il post in vista del 10 febbraio dove metterò i contenuti più “didattici”. Per curiosità sono andato a vedermi il testo della legge che istituisce la giornata del ricordo e l’ho trovato allucinante: all’Art 1 dice:
    “La Repubblica riconosce il 10 febbraio quale “Giorno del ricordo”
    al fine di conservare e rinnovare la memoria della tragedia degli
    italiani e di tutte le vittime delle foibe, dell’esodo dalle loro
    terre degli istriani, fiumani e dalmati nel secondo dopoguerra e
    della piu’ complessa vicenda del confine orientale.”
    Capito? quando sono toccati gli italiani è “tragedia”, i morti degli altri tutt’al più sono “complesse vicende”. Questo è rancore tribale della peggior specie.
    Vivo in un’altra regione di frontiera e veder trattata così la storia mi fa venire i brividi dietro la schiena, questa roba è una didattica dello sciovinismo nazionale che non può che provocare nuovi guai.
    Ci tengo a precisare che personalmente non sono uno troppo tenero verso l’esercito popolare jugoslavo e l’OZNA, credo occorra dire fuori dai denti che quando c’è la polizia che inizia a prelevare la gente di notte e la si fa sparire non si sta più facendo nè la resistenza nè la rivoluzione ma qualche cos’altro (mi viene in mente un discorso di Gramsci in parlamento in cui identificava la differenza tra violenza degli oppressori e violenza degli oppressi nel fatto che quest’ultima non è sistematica).
    Ma ricondurre tutto quello che è accaduto al confine orientale al “noi poveri italiani vittime” e per di più farlo per legge è il servizio peggiore che si possa fare a tutte le vittime di quelle vicende perché è una violenza alla complessità del reale.
    Su Vidali devo dire che leggendo le sue memorie ho avuto l’impressione fosse davvero credibile quando diceva che con le cose peggiori che gli erano attribuite lui non c’entrasse niente, ma posso andare solo a impressioni. Credo anche magari fosse uno che si divertiva a fare “la faccia feroce”, magari per farsi rispettare dalla dirigenza visto che mi pare che rivendicò sempre con Togliatti l’autonomia del PC triestino. Anni fa un ex-deputato del PCI mi disse che quando vedeva Vidali “ringraziavo il cielo che stesse dalla mia parte perché quello era uno con gli occhi feroci” .

  32. Rispetto all’OZNA ecc. non conosco altra via per qualsiasi potere per affermarsi rispetto ai nemici che quella di neutralizzarli. Che l’OZNA arrestasse la gente di notte in massa fa parte della mitologia e dello stereotipo, vorrei qualche dato più concreto che non siano dicerie e affermazioni apodittiche di “storici” più o meno accademici (perché a questo siamo). Che l’OZNA sia andata giù un po pesante a Trieste lo rileva Kraigher, uno dei dirigenti del PC sloveno. D’altra parte trovi lettere di triestini alle nuove autorità popolari a Trieste in cui lamentano che settimane dopo la liberazione notori fascisti continuino – armati – a spadroneggiare e a intimidire la gente. Non si tratta di essere teneri o meno, ma di capire cosa e come stava accadendo. La mia idea di fondo è che gli oppressi sono molto meno abili nel gestire la repressione delle classi dominanti tradizionali, che di esperienza in tal campo ne hanno di millenaria.
    Quanto a Vidali e agli “occhi feroci” credo siamo nello stereotipo più becero. D’altra parte nel PCI c’erano gente come Veltroni, Violante, Bondi…. Oggi anticomunisti di ferro a cui Vidali fa comodo per scaricargli addosso questo genere di definizioni – loro “comunisti” buoni rispetto a Vidali, il comunista “dagli occhi feroci”. In realtà Vidali è un personaggio con una vita molto meno avventurosa di molti altri – da Barontini a Ukmar, ma anche ad altri meno noti. Tanto che Babic, il segretario “titino” del PC triestino, nella sua risposta a uno dei libri di memorie di Vidali lo prende per il culo dicendo che il povero Vidali, mentre lui e gli altri scorazzavano allegramente per i boschi a fare i partigiani, soffriva sulle spiagge del Messico ed è potuto rientrare, poverino, solo a guerra finita in Italia e a Trieste. Ma evidentemente su di lui si è creato il mito per il fatto che fosse stato commissario politico del 5° reggimento in Spagna. Che fosse un personaggio deciso e anche autoritario npon c’è dubbio, ma la sua figura andrebbe forse valutata a mente più fredda e furoi dagli stereotipi. Che poi alla fine Babic e Vidali avessero in realtà posizioni molto simili, anche dopo il ’48, è ad esempio una cosa mai riportata. Eppure era così. Ma evidentemente non rientra negli stereotipi stroiografici che si vogliono propagare da certa “storiografia”.

    • Su Vidali completamente d’accordo, intendevo proprio questo, che altri gli attribuissero gli “occhi feroci” per distinguersi da lui come “comunisti buoni” e questo ha rafforzato i peggiori stereotipi su di lui.
      Sull’OZNA mi veniva in mente il fatto che tra 1945 e 1948 i fucilati per motivi politici in jugoslavia sono stati circa 100.000, sto citando a memoria i dati di Ben Fowkes in “L’Europa orientale dal 1945 al 1970”, che è un libro riassuntivo di quelli del Mulino, (quindi magari ci sono studi molto più approfonditi che smentiscono questi dati). Da quello che sò in Jugoslavia l’istaurazione del socialismo era stata fin da subito più dura che negli altri paesi socialisti. A ciò che so Tito aveva fin da subito, cioè dalla creazione del movimento partigiano, rifiutato la logica dei “Fronti nazionali” in quella fase voluta da Stalin, impostando quindi fin da principio l’instaurazione di uno stato a partito unico.
      Scrivi giustamente che neutralizzare gli avversari è il modo con cui si afferma ogni potere, io però sollevavo il problema di quale potere e di chi sono i nemici. So benissimo che a Trieste nel ’45 si faceva una bella fatica a distinguere un democristiano o un liberale, o anche uno del Partito d’Azione dai fascisti se si parlava del rapporto con gli “slavi” (a Bolzano era così con i “tedeschi”), ma rimane il problema di come ci si rapporta con chi la pensa diversamente, di come si fa sentire “a casa” in un sistema socialista anche un antifascista cattolico come ad esempio Pahor. Se non si analizza questo nodo (ovviamente in maniera critica e non certo per tessere elogi della liberal-democrazia borghese) penso che le classi dominanti saranno sempre vincenti.
      In sostanza da quello che so (poi ammetto la mia impostazione di fondo è sostanzialmente togliattiana e quindi magari mi deforma la visuale e non inquadro bene la cosa) Tito ha sempre rifiutato di discutere con altre forze politiche all’interno di strutture tipo CLN, anche quando Stalin spingeva perché si creassero strutture simili nella resistenza Jugoslava. Poi nel 1947 al Cominform furono i delegati jugoslavi ad attaccare più duramente “l’opportunismo” del PCI. In sostanza vedo in Tito il leader che porta all’estremo il difetto di tutti i paesi a socialismo reale, cioè l’incapacità di includere nelle istituzioni statali chi è portatore di ideali e interessi diversi ma non del tutto inconciliabili con i propri. Poi magari nella situazione jugoslava non c’era modo di fare altrimenti ma a quanto so Tito nel periodo 1945-1948 è “il falco” del blocco socialista e porta avanti una visione militarista e “muscolare” del socialismo. Poi ripeto che il punto di vista che ho acquisito è quello della narrazione del PCI Togliattiano e magari sono rimasto fermo assieme a viecchietti della casa del popolo nella Bologna di “54”.

      • Scusate, mozione d’ordine: la questione è storiograficamente e politicamente importante, però mi sembra che questo sotto-thread si sia alquanto allontanato dal focus del post e della discussione, ovvero il vittimismo come base dell’ideologia italiana. Proviamo a riportare la palla al centro? Grazie.

        • Scusa, colpa mia che ho chiesto materiali. Ringrazio tutti per le indicazioni bibliografiche, filmiche e sitografiche.

          • Hai fatto benissimo a chiedere materiali, ne è venuta fuori una rassegna molto utile. L’importante è non allontanarci progressivamente dall’impostazione che abbiamo cercato di dare al dibattito. Per dire, anche la sotto-discussione qui sotto, quella su Caporetto e il Piave, rischia di diventare troppo specifica, andrebbe reindirizzata sul ruolo che ha il vittimismo italiano nella narrazione di Caporetto e del Piave.

      • Tom – Sono assolutamente d’accordo con quanto dici, capire cosa e come è successo è chi erano gli attori è indispensabile (è l’unica cosa che ha un senso), perché se tutto fosse stato perfetto ora vivremmo nel paradiso terrestre (più o meno). Comunque non è vero che Tito non volesse i fronti, anzi, ma il ruolo del PC era dominante in essi. In Slovenia buona parte dei dirigenti dell’OF non erano comunisti, ma cristiano sociali (con Kocbek in testa), e molti di loro dopo la guerra hanno avuto ruoli di rilievo. Pahor poi non è per nulla cattolico, il suo è più un caso personale che altro.
        Comunque mi scuso anch’io per essere andato clamorosamente fuori tema.

  33. Rispondo al commento di @tuco del 30.01 su Pansa – o meglio, lo integro. La leggenda degli “imboscati” di Caporetto nasce da un’apparente verità: l’esercito tedesco sfondò in quel punto come un coltello nel burro. La spiegazione (anzi, le spiegazioni) sono però riconducibili non alla presenza di “imboscati” o “socialisti traditori”, ma alla dissennata e ottusa concezione militare che guidava le scelte di Cadorna (ben illustrata in Un anno sull’altopiano, e dall’episodio di Il buono, il brutto e il cattivo che ne è stato tratto). Nello specifico, Cadorna riteneva che ogni reggimento dovesse corrispondere a uno spicchio di territorio, e rifiutò (come richiestogli da altri ufficiali a fronte della stanchezza di alcuni reparti) di far ruotare i contingenti. I generali tedeschi (che sul fronte orientale avevano imparato a sostituire i manuali con una conduzione empirica della guerra) se ne erano accorti, e si erano accorti che c’era un reparto che non aveva, in due anni, mai partecipato a un combattimento, ed era quindi impreparato e privo di esperienza: e lì attaccarono con truppe che avevano combattuto per tre anni sul fronte orientale, quindi veterani di fatto. Inoltre: sul fronte italiano, i reparti erano stremati da una dissennata offensiva (infruttuosa) condotta in agosto sull’Isonzo e costata, fra morti, feriti, dispersi e prigionieri almeno 160.000 perdite, che non furono reintegrate (mentre l’esercito austro-ungarico ricevete i rinforzi tedeschi). Dopo questa offensiva, Cadorna lasciò l’esercito schierato in posizione non di difesa ma di attacco, dal momento che i manuali gli insegnavano che in montagna in autunno-inverno non si fanno offensive importanti, allo scopo di essere pronto in primavera a riprendere l’offensiva. I generali tedeschi, però, dei manuali se ne fregarono, e applicarono in pieno autunno una strategia usata dai russi contro gli austro-ungarici: non attaccare la chiave del monte (che in autunno è impraticabile), ma passarci sotto. I russi, per inciso, erano nostri alleati: ma Cadorna non riteneva di aver bisogno di imparare dalle strategie militari altrui, secondo uno stile tipico dello stato maggiore piemontese, mentre i generali tedeschi misero a frutto l’insegnamento del “nemico”, e lo replicarono a Caporetto.
    Poi bisognerebbe ricordare che gli “imboscati” italiani furono gli stessi che tre giorni dopo resero possibile la tenuta del Piave rallentando l’avanzata degli austro-tedeschi sul tagliamento – ovvero, pur in assenza di linee di comando gerarchiche, sostituite con iniziative spontanee, dopo essere arrivati al Piave tornarono indietro, riconquistarono in Tagliamento e fecero saltare i ponti, costringendo l’esercito avverso a una settimana di sosta per ricostruire i ponti: ma questa è un’altra storia.
    La morale di questo pippone è che è facile credere alla fola degli imboscati: basta non sapere una cippa di storia.

    • Quando Pansa parla di “imboscati” utilizza lo stesso linguaggio della propaganda del 1917, e occulta episodi come l’ammutinamento della brigata “Catanzaro” – e successiva sua decimazione -, occulta le esecuzioni sommarie di soldati accusati di codardia, e occulta il fatto che il governo italiano (unico in Europa) proibì l’invio di aiuti ai soldati italiani prigionieri degli austriaci, causando la morte di 100.000 di loro su un totale di 600.000 (si vedano gli studi di Giovanna Proccci).

    • Che poi questa fola degli imboscati non è nemmeno originale, Pansa rimastica un’abitudine consolidata da oltre un secolo.. Già durante la comune di Parigi i governativi accusavano la guardia nazionale (divenuta in pratica l’esercito della comune), di essere stata con la renitenza agli ordini dei propri uomini la causa della sconfitta nella guerra contro i prussiani che l’anno precedente avevano assediato Parigi. Quanto fossero ridicole quelle accuse di vigliaccheria lo dimostrò l’eroica anche se perdente difesa della comune stessa, eppure anche saggi di molto successivi la riportano come vera, travisando per i propri fini episodi di incapacità che direi normali per reparti di volontari che si trovavano alla prima battaglia della propria vita.

  34. Girolamo, personalmente non capisco la necessità della storiografia italiana (e – così a occhio – mi sembra anche tua) di ammettere che Caporetto fu un atto di diserzione di massa, di rifiuto di continuare una guerra che aveva già portato al massacro milioni di persone, di rifiuto di sacrificarsi per l’ennesima volta alle strategie suicide di Cadorna. Perchè questa difficoltà? Perchè è così importante dire che i soldati italiani combatterono con onore, opposero resistenza, si comportarono eroicamente ma furono travolti dalle soverchianti forze austriache e tedesche? Trovo molto più dignitoso (anche per rispetto all’intelligenza stessa dei soldati) ammettere che in quel momento ci fu finalmente l’occasione di far finire la guerra e tornare a casa e che centinaia di migliaia di soldati italiani la colsero al volo. Non c’è nulla di vigliacco o di vergognoso nel volere salvare la propria vita, nel defezionare e nel disertare, anzi a mio avviso è la dimostrazione che i soldati sono stati meno pecore di quanto furono in altre occasioni.
    Allo stesso modo – secondo me – va sottolineato che la guerra non finì sul fronte occidentale e su quello italiano con formidabili vittorie alleate, ma furono l’esercito tedesco e austriaco ad esaurirsi e sgretolarsi, con centinaia di migliaia di soldati che semplicemente smisero di eseguire gli ordini e tornarono casa. Quando gli italiani sfondarono e linee nemiche le trovarono in molti casi semplicemente vuote: mi pare che questa diserzione di massa dei soldati sia un gesto decisamente più dignitoso di qualsiasi abbedienza ad ordini dettati da stati maggiori criminali per continuare a difendere gli interessi di una classe politica ed economica che aveva interesse a continuare la guerra.

  35. Dimenticavo: a quanto ne so la linea del Piave fu tenuta più che dall’iniziativa spontanea dei soldati che si stavano ritirando, dallo schieramento di intere divisioni di carabinieri pronti a sparare su chi avesse continuato a ritirarsi

    • Quando l’esercito italiano sfondò a Vittorio Veneto, l’esercito austro-ungarico semplicemente si dissolse. Ai soldati dell’ex impero non passo neanche per la testa di attestarsi su una qualche linea difensiva: ogni reparto cercò, lunga o breve, la via di casa (e qui ci vorrebbe un grande narratore per raccontare quell’anabasi nella quale furono innalzate bandiere rosse e proclamate estemporanee repubbliche). Se questo fosse stato il sentire dei soldati italiani nel 1917, la ritirata non si sarebbe attestata sul Piave, ma avrebe oltrepassato il Po: è una constatazione che mette insieme ricerca storiografica, testimonianze di chi (nonni miei e altrui) su quel fronte si è trovato, e buon senso. Nella settimana di tregua di fatto regalata all’esercito italiano dalla battaglia del Tagliamento, i reparti non si sgretolarono, non furono fucilati gli ufficiali, i soldati non scelsero di tornare a casa, men che meno di proclamare una repubblica rossa (come fecero i soldati boemi a Bolzano) nell’Emilia: sarebbe una buona ucronia, ma è un dato che invece si attrezzarono per la difesa del Piave.
      Sul Piave: la prima ragione della resistenza sul Piave è che l’unica cosa sensata che Cadorna fece fu di attrezzare il Piave per un’eventuale difesa. Il che sarebbe banale, diventa sorprendente per un imbecille convinto di arrivare in tre settimane a Vienna e Budapest: ma tant’è, fatto sta che fece fortificare il Piave già nel 1915. Poi, certo, c’erano i carabinieri a sparare alle spalle dei soldati in ritirata: ma quest’infamia era in ogni esercito, ogni trincea, quale che fosse la bandiera che sventolava, aveva dei fucilieri alle spalle, e le decimazioni dei sopravvissuti in caso di sconfitta. Più importante del ruolo (ripeto: infame) dei carabinieri, ci fu la promessa di terra in caso di resistenza vittoriosa: per un esercito di contadini in una nazione di contadini, finalmente c’era una ragione per combattere. Come poi andò, sulla terra ai contadini, lo sappiamo.
      Concordo sul fatto che la diserzione di massa avrebbe avuto maggiore dignità, ma non possiamo ricostruire la storia con i desiderata: ci sono studi importanti, sulle nevrosi di guerra (da quelli di Freud e dei suoi allievi fino a Leed) che attestano come la guerra fosse penetrata nell’animo dei soldati (tant’è vero che non ne uscì neanche a guerra finita); e la propaganda interventista e militarista non si limitò alla superficie delle coscienze, ma pervase (purtroppo: ma così è) una parte importante dei soldati italiani. Anzi: alla luce di quello che sarà poi il ventennio fascista, credo che l’unica vera, solida forma di fascistizzazione delle coscienze, a livello di massa, sia stata quella – pre-fascista, per la cronologia – dell’interventismo e del culto della guerra. Il fascismo, insomma, si è trovato già pronto un soggetto fascistizzato: la guerra ha costituito un dispositivo di soggettivazione/assoggettamento bne più potente di quello messo poi all’opera dal regime.

      • credo che più che guardare all’esercito italiano la spiegazione della linea del Piave sia banalmente imputabile all’esercito austro-ungarico: l’offensiva andò ben al di là delle più rosee prospettive. Le linee di rifornimento si allungarono a dismisura e le condizioni delle strade, per non parlare del sistema ferroviario, non consentirono un’avanzata maggiore.

        Quando l’esercito austro-ungarico riuscì a ricreare un minimo di sistema logistico funzionante il momento si era perso e bastavano pochissime truppe per tenere la linea. E sulla superiorità strategica e tattica della difesa sull’attacco nella prima guerra mondiale sapete già.

      • Beh, non dimentichiamoci però che si trattava di una guerra *mondiale*. Sul Piave fu determinante l’intervento delle divisioni francesi e inglesi, e nel campo austriaco il trasferimento delle divisioni tedesche sul fronte francese dopo lo sfondamento. In Italia tendiamo a pensare alla I guerra mondiale come a una faccenda tra italiani e austriaci.

        • Per esempio tutto il mito della battaglia di Vittorio Veneto andrebbe smontato. Quando nell’estate del ’18 i francesi chiesero a Diaz di attaccare sul Piave per alleggerire la pressione a nord, Diaz rifiutò. L’attacco arrivò solo alla fine di ottobre, quando tedeschi e austriaci stavano già trattando la resa con Wilson, e si stava concretizzando il peggior incubo per chi in Italia aveva voluto la guerra: l’irrilevanza. Gli alleati avrebbero appoggiato la nascita di uno stato Jugoslavo sulla base dei 14 punti, e il sogno italiano di espandersi nell’Adriatico orientale e poi nei Balcani sarebbe andato in merda. Così Orlando impose a Diaz di attaccare. La “resurrezione” di Vittorio Veneto fu quindi piuttosto un inutile ulteriore bagno di sangue cercato e perseguito per motivi di prestigio e per non compromettere del tutto le rivendicazioni territoriali italiane nelle trattative di pace.

  36. Tuco, te la riporto come voce perché non sono mai riuscito a verificarla (magari qualche giapster ha una fonte storica da indicare?), ma: da parte austriaca si sostiene che il testo tedesco dell’armistizio firmato alla vigilia della battaglia di Vittorio Veneto fosse difforme da quello italiano. Che, cioè, gli austro-ungarici ritenessero, testo alla mano, di essere già in armistizio, mentre il testo italiano posponeva di qualche giorno la fine concordata delle ostilità. Resta che l’attacco su Vittorio Veneto avvenne quando la guerra era di fatto finita, contro un esercito che ormai pensava solo a come tornarsene a casa – anzi, alle diverse case.

    • Nel libro di Mark Thompson si parla di discrepanze nell’armistizio firmato dopo lo sfondamento di Vittorio Veneto, il 3 novembre, ma con entrata in vigore dal 4 novembre. Thompson attribuisce questa discrepanza all’insipienza dell’elite politica asburgica. Effettivamente i militari austriaci erano convinti di essere gia’ in stato di armistizio, mentre gli italiani, approfittando delle 24 ore di “grazia”, li facevano prigionieri e avanzavano il più velocemente possibile verso est per creare una serie di fatti compiuti. Arrivarono quasi a Lubiana, dove furono fermati dai Serbi (di cui erano alleati). Nei giorni successivi la voracità e l’arroganza dell’Italia irritarono non poco gli alleati inglesi e francesi, oltre che ovviamente gli jugoslavi.

  37. Sulla fine della grande guerra può essere interessante il libro di Fritz Weber “Tappe della disfatta”, che racconta la grande guerra con gli occhi di un ufficiale austriaco che combatte dal 1915 al 1918 sul fronte italiano. Il libro non dice nulla sui retroscena dell’armistizio ma è interessante alla fine quando mostra il crollo dell’impero visto con gli occhi di chi era sul Piave “dall’altra parte” e si ritrova ad essere soldato di uno stato che smette di esistere.
    Sulle narrazioni vittimistiche italiane invece mi è venuto in mente un autore che secondo me è la matrice di buona parte delle “narrazioni tossiche” diffuse nella cultura italiana, e non a caso anche Gramsci lo identificò come esempio di letteratura repressiva: Padre Bresciani, una discutibile “gloria” trentina. Tempo fa scaricai da google books e lessi alcuni dei suoi romanzi papalini e anti-risorgimentali, soprattutto la trilogia che dedica alle vicende italiane del periodo 1846-1849, a quella che per lui è una terribile rivoluzione: “l’ebreo di Verona”, “La repubblica romana” , “Lionello o le sette segrete”.
    In Bresciani troviamo secondo me la matrice di tutti i Pansa. Secondo lui la causa delle guerre d’indipendenza e delle sommosse è da ricercarsi nell’azione diabolica delle “società segrete”, il cui unico scopo è la distruzione della Chiesa cattolica. Egli descrive il popolo come un quieto asinello ben contento di girare la macina cui è legato in cambio di una stalla e un po’ di biada. Invece i “cospiratori” sono “belve feroci” che solo la repressione violenta può tenere a bada. Nelle sue opere Bresciani arriva a proporre la chiusura delle università, covo di sovversivi, e vagheggiare come società ideale una comunità patriarcale di piccoli proprietari.
    Quando poi descrive i garibaldini sembra veramente di leggere Pansa quando descrive altri garibaldini di un secolo dopo (anche se a dire il vero Bresciani, erudito gesuita, scriveva assai meglio di Pansa). Anche le rappresaglie austriache sono descritte come inevitabile portato delle azioni sconsiderate degli insorti italiani, descritti come una massa di vili lazzaroni sobillati dalle società segrete.
    Tenete conto che i romanzi di Bresciani vennero pubblicati a puntate dopo il 1850 sulle pagine di “Civiltà cattolica”, la rivista dei gesuiti che era allora il foglio più diffuso in Italia. Senza dubbio gli italiani del suo tempo avevano più modo di leggere Bresciani che non Mazzini o Cavour e mi viene da pensare che sia purtroppo lui il vero padre di buona parte della mentalità nazionale. Anche perché l’impronta di Bresciani, o meglio dell’orizzonte valoriale che egli rappresenta, sul mondo cattolico mi pare duratura, se penso a quanto dice o scrive il giovane De Gasperi che agli inizi del ‘900 si scaglia contro chi ha fatto costruire a Trento un busto dedicato ad uno scienziato evoluzionista ed elogia il sindaco antisemita di Vienna Lueger.

  38. concordo assolutamente con il fatto che la guerra sia penetrata profondamente nell’animo dei soldati, che la guerra abbia forgiato una forma mentis che poi si è rivelata nel fascismo o nei Freikorps tedeschi. Ciò su cui non concordo con te (e non sono desiderata storici, sono elementi che ho trovato nel corso di ricerche storiche) è il fatto che l’esercito austroungarico si sfaldò non appena gli italiani attaccarono a Vittorio Veneto: la successione è esattamente opposta. Gli italiani sfondarono a Vittorio Veneto perchè l’esercito austroungarico era collassato e non viceversa (una ventina anni fa trovai nell’archivio di stato di Lubiana – nel ’45 gli jugoslavi portarono diversi cassoni di documenti italiani in slovenia – i bollettini militari in cui le avanguardie italiane comunicavano al comando di avere conquistato postazioni già abbandonate. Purtoppo all’epoca avevo appena iniziato i miei studi e mi occupavo di tutt’altro per cui non fotocopiai nulla). Sul fatto che coloro che si ritiravano da Caporetto non spararono agli ufficiali c’è da discutere:sicuramente ci furono scontri tra soldati e carabinieri e fino al Piave i carabinieri ebbero la peggio. Se non sbaglio (ma vado a memoria),nella “Rivolta dei santi maledetti” di Malaparte si parla sia di carabinieri impiccati sia di soldati che spararono agli ufficiali. Chiaramente la consistenza di questa rivolta non fu analoga a quella russa, ma non va sottovalutata e non fu insignificante; le testimonianze di diari tedeschi (tra gli altri quelli di Rommel), austriaci e anche italiani in cui si descrivono i soldati italiani in rotta a Caporetto che inneggiano alla Germania o all’Austria non sono miei desiderta, ma li puoi trovare ovunque, anche con una semplice ricerca on line. Quanto a tuo nonno non nego assolutamente la veridicità del suo racconto, ma le testimonianze personali sono sempre da prendersi con le pinze, perchè raccontano eventi particolari, circoscritti nel tempo e nello spazio: mio nonno, ad esempio, nel 1918 venne mandato con le truppe austrotedesche sul fronte stiriano a combattere contro gli jugoslavi, a fu un caso più unico che raro tra gli ex soldati austriaci di lingua italiana.
    Senza scendere troppo nei particolari, a mio avviso la storiografia sulla prima guerra mondiale è scritta in buona parte da storici militari, i quali hanno in generale una visione molto legata a concetti quali onore, patria, lealtà, ecc. Lo stesso Keegan, autore del miglior volume sulla grande guerra, non riesce ad esimersi dal dare giudizi di valore sugli ammutinamenti francesi del 1917 e sul valore degli italiani a Caporetto. Secondo me si tratta di un giudizio legato a parametri fondamentalmene inutili per capire ciò che è successo: non me ne importa nulla di quanto furono comunque valorosi gli italiani a Caporetto o quanto vili furono i francesi sullo Chemin des Dames, è importante capire perchè gli ammutinati ed i disertori rifiutarono di combattere e quanto questo rifiuto fu un gesto politico, fu una protesta momentanea o fu semplicemente il tentativo di ritornare alla propria vita d’anteguerra.

    • Sempre Thompson dice che già il 14 ottobre l’ alto comando austriaco aveva ordinato alle armate in Italia di inviare all’interno dell’ Impero, cioè dentro i confini del ’66, tutti gli equipaggiamenti e i materiali non essenziali. In pratica la situazione era questa: a metà ottobre gli austrotedeschi avevano cominciato a trattare la resa con Wilson e avevano cominciato a predisporre la ritirata dal Piave. Quindi come dici tu, il 24 ottobre gli italiani attaccarono un esercito già in fase di smobilitazione. Poi il 3 novembre Italia e Austria concordarono l’armistizio. Da Vienna arrivò l’ordine alle armate di cessare immediatamente le ostilità. L’armistizio però sarebbe entrato in vigore solo il 4. Dal fronte, Weber implorò l’ alto comando di rettificare l’ordine, ma senza successo. E così, come dicevo prima, gli italiani ebbero 24 ore a disposizione per occupare quanto più territorio possibile a est, e per catturare più di 300 mila soldati autro-ungarici.

      • Per tornare in tema, Thompson descrive in modo dettagliato l’atteggiamento di Orlando durante le trattative per la pace a Parigi: arrogante e vittimistico, ça va sans dire.

  39. ops,
    leggo ora la tirata d’orecchi di wu ming 1 ;-)
    rientro nei ranghi (giusto per restare in tema…)

  40. Permettetemi una battuta di alleggerimento.

    Nel discorso del 31 gennaio 2015 a Puerta del Sol, discorso centrato su sogno e storia (per inciso, storia come piazza dove il popolo spagnolo riprende coscienza e dignità, non certo il soggiorno graziosamente arredato dove il nostro familistico Telemaco si strugge indeciso tra assomigliare al padre o ucciderlo, possibilmente senza sgualcire il centro tavola), Pablo Iglesias, Segretario Generale di Podemos dice (qui testo e video http://www.ilcorsaro.info/in-piazza-3/podemos-in-piazza-il-discorso-di-pablo-iglesias-alla-marcha-del-cambio.html):

    “Appoggiamo i nostri fratelli [greci], però nessuno ha compiuto il loro dovere al posto loro e nessuno compirà al posto nostro il dovere degli Spagnoli. A noi cittadini spagnoli tocca ora essere protagonisti della nostra storia.”

    Insomma mi pare chiaro che Iglesias abbia seguito con attenzione questa discussione, traendone le prime devittimizzanti conclusioni di carattere politico.

    Peccato che da noi nessuno faccia altrettanto. Eppure ce lo chiederebbe l’Europa.

  41. parlando con alcuni amici, è venuto fuori un parallelo tra questo post, soprattutto la parte “Rimuovere tutte le premesse tranne una”, e il film Novecento di Bertolucci. Io ho visto Novecento quando avevo 17-18 anni (fine anni ’90), quindi spero di ricordare bene: una delle scene iniziali del film è quella dei contadini che bloccano il fattore fascista (di cui non ricordo il nome) e la moglie Regina mentre tentano di scappare, infilzando il fattore con il forcone e poi lo uccidono nel cimitero, mentre Regina piange e chiede un pò di pietà. Poi il film prosegue raccontando la storia dall’inizio (il giorno dalla morte di Verdi e della nascita dei due protagonisti) e la scena iniziale viene riproposta alla fine del film (seguendo la cronologia temporale), dopo che sono è stato mostrato quello che ha fatto il fattore prima e sotto il fascismo e alla fine si capisce che il cimitero dove viene ucciso è quello cei morti per mano del fattore.
    Io all’epoca sapevo poco delle lotte partigiane, non avendo fonti dirette che me la potessero raccontare, quello che sapevo veniva dai libri di scuola o da giornali/tv. Ricordo che in quegli anni si iniziava a parlare di riabilitazione dei repubblichini (il discorso di Violante) e dei “crimini” dei partigiani.
    Mi ricordo perfettamente che quando vidi la scena iniziale pensai “qua fa vedere l’eccesso dei partigiani, la guerra è finita e questi si lasciano andare ad azioni non necessarie di violenza” o qualcosa del genere. Poi alla fine del film, provai un intenso senso di vergogna per questo pensiero iniziale.
    Io credo che in quella scena iniziale sia un riassunto del post dei WuMing: la storia inizia dove fa comodo, si fanno vedere i cattivi contadini che uccidono a guerra finita il fascista che stava cercando di scappare. Se il film finisse là, potrebbe essere un adattamento ad un libro di Pansa.

  42. riporto testuale un inciso di Maurizio Molinari apparso su La Stampa di oggi, pag. 8, in un articolo sull’esecuzione dell’aviatore giordano da parte dell’IS, che credo sia pertinente alla discussione sul vittimismo.

    “Trattare un pilota da guerra come un animale – o un infedele – da arrostire è un messaggio nel linguaggio delle tribù del deserto, che evoca quanto Omar el-Muktar, leader della guerriglia libica anti italiana, faceva ai carabinieri negli Anni Trenta, usando le loro schiene per cuocere il té ai propri uomini”.

    In un solo colpo (di spugna) Molinari riesce a cancellare i crimini in Libia, assurgendo i carabinieri al ruolo di martiri innocenti, e a puntualizzare che quanto accaduto è per noi un triste déjà vu.

    • Cioè Molinari riprende *pari pari* la propaganda fascista contro Omar Al-Mukhtar?! Riporta senza alcun filtro le accuse contenute nell’arringa del processo-farsa?

      • Tra l’altro, scazza anche la data. “Negli anni Trenta” Mukhtar era già morto: fu catturato, “processato” e impiccato nel ’31 nel campo di concentramento di Soluch, davanti a ventimila deportati, compresi bambini, costretti a vedere la scena.
        Il presunto episodio dei carabinieri, per il quale abbiamo solo la versione dell’invasore, sarebbe avvenuto nel 1926.

  43. Riguardo agli “imboscati” della grande guerra e al vittimismo nazionale guardate cosa si trova su “Storia in rete” (che è entrata ai primi posti nella mia personale classifica dei siti dell’orrore) http://www.storiainrete.com/9913/storia-militare/il-centenario-anti-italiano-cosi-la-cultura-sputa-sulla-grande-guerra/
    Roba da Casa Pound.

    • Beh, Storia in rete è il sito di Mastrangelo, uno dei bei soggetti presi in esame qui.

      • Giusto! ecco dove avevo già sentito storia in rete!
        Non per fare il solito trentino austriacante ma credo che nella narrazione vittimista italiana la demonizzazione della duplice monarchia abbia un ruolo centrale. Credo ben pochi sappiano che l’impero contro cui combatté Garibaldi non è proprio lo stesso cui l’Italia dichiarò guerra nel 1915. Dal 1867 al 1914 i popoli della duplice monarchia vissero in uno stato senza dubbio ricco di contraddizioni e problemi, ma almeno per la metà austriaca si trattò di uno stato che cercò di risolvere i contenziosi tra le diverse “nazionalità” senza sterminare, deportare o “snazionalizzare” a forza nessuno per decisione dell’autorità centrale; insomma rispetto a chi è venuto dopo grasso che cola. Ricordo un testo di Claus Gatterer “Italiani maledetti, maledetti austriaci. L’inimicizia ereditaria” in cui si evocava il sogno nutrito da molti socialisti austroungarici, Otto Bauer in primis ma anche i socialisti triestini, di una pacifica evoluzione dell’impero verso un modello federale e pienamente democratico. Ne “I sonnambuli” anche Clark arriva alla conclusione che è ingiustificato definire “più avanzato” il modello dello stato-nazione rispetto a quello austroungarico.

        • Proprio su questo, consigliatissimo «Irredentismo adriatico» di Angelo Vivante (prima edizione 1912, più volte ristampato negli ultimi decenni). Il triestino Vivante fu il più grande teorico austromarxista italofono. Il libro è ancora oggi una bomba.

  44. Esatto.
    Ciò che mi ha più stupito è la gratuità del riferimento: non vedo altro legame, tra le due situazioni, che quello artificioso creato dalla trita retorica razzista del “beduini eravate e beduini rimanete”, a prescindere da contesto storico e geografico.
    È vero che “La Busiarda” non è il tempio del giornalismo, ma il richiamo allo specifico episodio mi lascia perplesso.

  45. […] In tutta Europa risuonano i ritmi dei tamburi ed echeggiano i corni di guerra. Ancora una volta a riattivarsi è il frame, verrebbe da dire abusato, ma non lo è, dello Scontro di Civiltà. E fateci caso: ogni volta si riparte da capo. […]

  46. […] «Giap», «Terrorismo, migranti, foibe, marò, fascismo…  appunti sul vittimismo italiano» . (http://www.wumingfoundation.com/giap/?p=18453#comments […]

    • Grazie di aver segnalato il nostro post! mi stavo appunto domandando cosa avesse fatto schizzare verso l’alto le visualizzazioni del nostro scalcinato blog. Ringrazio ancora tutti quanti. Come anticipato su “Avanguardie della storia” ho messo solo il materiale più “didattico”, speriamo di aver prodotto qualcosa di utile e soprattutto che possa servire agli insegnanti che vorranno fare qualcosa di non retorico per il giorno del ricordo.
      Ho preso nota di tutti i testi, link e documentari nominati nel corso della discussione e da buon impiegatuccio ho fatto una bibliografia/sitografia/filmografia di quanto nominato, direi che può essere utile e vorrei metterla a disposizione di tutti (son circa 5 pagine in word), che faccio mando una mail all’indirizzo di Giap?

  47. Un altro figlio di esule che rigetta la «memoria a metà» da #giornodelricordo.

  48. […] i meccanismi di legittimazione. Nel dopoguerra l’unico frasario disponibile per riprodurre il paradigma vittimario era quello dell’olocausto, così si iniziò a parlare di «genocidio delle genti giuliane», […]

  49. […] i meccanismi di legittimazione. Nel dopoguerra l’unico frasario disponibile per riprodurre il paradigma vittimario era quello dell’olocausto, così si iniziò a parlare di «genocidio delle genti giuliane», […]

  50. […] i meccanismi di legittimazione. Nel dopoguerra l’unico frasario disponibile per riprodurre il paradigma vittimario era quello dell’olocausto, così si iniziò a parlare di «genocidio delle genti giuliane», […]

  51. Ho letto con molto interesse il post in oggetto, e ho trovato estremamente illuminante la discussione che ne segue, anche dal punto di vista del metodo.
    Ho iniziato a lavorare da poco nel campo delle migrazioni, operando un centro di accoglienza per richiedenti asilo del circuito Sprar. Come potete immaginare, la sola circostanza per la quale “lavori con gli immigrati” mi rende depositario dei commenti di conoscenti/amici/famigliari, spesso oltre il limite della barbarie (do you no quaranta euro al giorno?).
    Nelle argomentazioni che quotidianamente contrappongo all’avanzare delle retoriche italianocentriche e vittimistiche sulla tematica, noto che il profilo “etico” è spesso inefficace ed effimero.
    Al contrario, penso che il metodo utilizzato nel post, e nella discussione – l’indagine storica utilizzata per ricostruire l’ordine del discorso e far emergere l’uso politico della mistificazione – sia decisamente più incisivo.
    Alla luce di ciò, al fine di avere a disposizione efficaci asce di guerra da contrapporre ai ragionamenti xenofobi che mi trovo quotidianamente ad affrontare, vi chiederei se sul tema “colonialismo italiano” (mi interessa, in particolare, per evidenti ragioni, più che altro approfondire il tema delle “avventure” coloniali in Africa) potreste consigliare una bibliografia ragionata per “farsi una cultura”, e avere potenziali strumenti per rimettere la storia al suo posto. Grazie a tutti

  52. […] Infine segnalo questo interessante post sul blog «Giap», «Terrorismo, migranti, foibe, marò, fascismo…  appunti sul vittimismo italiano» . (http://www.wumingfoundation.com/giap/?p=18453#comments ) […]

  53. […] TERRORISMO, MIGRANTI, FOIBE, MARO’… APPUNTI SUL VITTIMISMO ITALIANO – di Wu Ming 1 […]

  54. […] non capiamo il rimosso coloniale e il mito degli “italiani brava gente” che alimenta l’ideologia vittimistica italiana, non capiremo il razzismo di oggi, Salvini ecc. E non capiremo nemmeno perché ogni tanto […]

  55. […] Confondere vittima e carnefice, onde rappresentarsi sempre come vittima, è un habitus mentale tipic…, e non c’è da stupirsene: “ehi, io sono buono, sono gli altri che sono cattivi! Sì, vabbè, per saltare quella fila d’attesa lunghissima ho chiesto aiuto proprio a quell’onorevole che è indagato per aver fatto affari con quel tizio che spacciava la droga, ma è una cosa che fanno tutti. Mica pretenderete che il problema della droga lo risolva io, che dovrei fare, prendermi qualche drogato in casa? Ci deve pensare la polizia! Deve andare ad arrestarli!”. […]

  56. […] Omettere particolari, riporta l’articolo, “permette quindi di costruire una narrativa in cui gli italiani vengono rappresentati come vittime di un’ingiustizia, che viene sfruttata per portare avanti una precisa agenda […]

  57. […] un anno fa pubblicavo, qui su Giap, alcuni appunti sul vittimismo come pietra angolare dell’ideologia italiana. Appunti che fecero molto, molto […]

  58. […] coloniale italiana, nel sentir comune l’italiano si dipinge come colui che subisce solamente. Si tratta di una autonarrazione che ha radici lontane, si presta particolarmente bene alla […]

  59. […] italiana, che ha avuto nel fascismo la sua sintesi più coesa e weaponized, è in gran parte fondata sul vittimismo, ergo nella nostra autorappresentazione non possiamo essere carnefici. Pochi giorni fa lo ha […]