Gianni Minà, il Messico, Cuba, Sergio Leone, i Mohawk e noi. Reminiscenze internazionaliste

Gianni MinàLa prima volta che incontrammo Gianni Minà fu a Cuba nella primavera del 2000. Eravamo alla Fiera internazionale del libro dell’Avana. Quell’anno l’Italia era il paese ospite d’onore e diversi scrittori avevano accettato di partecipare. Tra questi, una piccola delegazione di scrittori e scrittrici bolognesi, capitanata da Stefano Tassinari.

Noialtri – forti dell’avere contatti in loco, in primis il padre di Wu Ming 4, che a Cuba viveva (e ci vive tuttora) – ci calammo nell’Avana più popolare, frequentammo più Cojímar che il Vedado o Miramar, in una specie di participant observation tra serate alcoliche e combattimenti clandestini di galli, capitando anche a una specie di Zecchino d’Oro Rosso con i Pionieri del Socialismo che cantavano per Abuelo Fidel. Ogni tanto ricomparivamo agli incontri pubblici, capitammo anche a un rinfresco all’ambasciata italiana.

Un giorno andammo a sentire Minà nella sede dell’UNEAC (Unión Nacional de Escritores y Artistas de Cuba), ma la prima persona che incontrammo al nostro arrivo fu un’altra. Un vecchietto dall’aria simpatica sedeva da solo su una poltroncina. Non ci volle molto a riconoscerlo, la sua faccia era piuttosto iconica, anche se non quanto quella a cui per decenni era rimasta associata. Era Alberto Granado. E quando ti avvicini a un tizio così, non ce la fai a non pensare che lui, proprio lui, ha attraversato l’America Latina in motocicletta insieme a Ernesto Guevara, prima che quest’ultimo diventasse il Che.

Ci avvicinammo e gli chiedemmo se stesse aspettando Gianni Minà. Lui annui con la testa e ci sorrise. Poi in effetti Gianni arrivò. Lo ascoltammo parlare a lungo di Cuba e dell’anomalia cubana con il suo inconfondibile stile.

La seconda volta fu in Messico, l’anno successivo. Uno di noi partecipava alla Marcia della dignità indigena, insieme a un centinaio di italiani e altri europei che scortavano lo stato maggiore dell’EZLN – la Comandancia – in un viaggio di quasi un mese dal Chiapas fino alla capitale. Quel giorno si era scesi al livello del mare e faceva caldissimo, nonostante fosse febbraio. Wu Ming 4 indossava una tuta bianca “d’ordinanza” di cotone, pedule da montagna, marsupio e gavetta in cintura, payacate rosso al collo. Luca Casarini – il frontman della delegazione italiana – vedendolo passare lo indicò alla persona con cui stava parlando. Disse: – Ecco, questa è una tuta bianca.

Il tizio in questione era proprio lui, Gianni Minà, sorriso e baffo inconfondibile. Stretta di mano, qualche parola, poi la tuta bianca schizzò via, fin troppo compresa nella parte.

Fu poi Minà a entrare in contatto con noi, nel 2004 dopo aver letto un reportage di Wu Ming 4 pubblicato sul nostro sito, «Cuba: l’anomalia del mondo». Minà ci chiese di poterlo ripubblicare sulla rivista che dirigeva, Latinoamerica, dove infatti apparve, sul n. 89.

La terza volta che ci incontrammo fu quella buona, perché non fu casuale. Nel 2007 Minà ci chiamò per dirci che voleva assegnarci il Premio Sergio Leone, da lui presieduto. Avevamo da poco pubblicato Manituana, il nostro romanzo che si svolge durante la Rivoluzione americana e la racconta dal punto di vista dei nativi, ovvero di un clan meticcio irochese-irlandese.

A ritirare il premio andammo in due. La manifestazione si teneva a Torella dei Lombardi (AV), paese originario della famiglia Leone. Minà fu splendido, un vero signore. Fummo accolti e trattati con tutti i riguardi. Presentammo il libro nella piazza del paese, davanti a un sacco di gente, e Gianni fu un mattatore perfetto, mai invadente, mai indiscreto, preparatissimo e sempre sul pezzo.

Ci fecero visitare la mostra di costumi dei film di Leone allestita dentro la rocca del paese. In quell’occasione conoscemmo anche la seconda famiglia di Gianni. Conserviamo ancora il pesantissimo leone di pietra con cui ci premiarono, e chi lo muove più…

La sera chiacchierammo a lungo, con lui e con Roberto Girometti, storico direttore della fotografia che insieme a Minà ha realizzato documentari indipendenti. Girometti ci raccontò aneddoti su aneddoti di quando si giravano i western nella Spagna franchista, e le troupes italiane erano tutte di sinistra.

L’ultima volta che ci eravamo sentiti, ormai diversi anni fa, era stato lui a contattarci. Voleva farci vedere il documentario su Cuba che aveva realizzato, Cuba nell’epoca di Obama. Dopo averlo visto su cd, WM4 gli scrisse la sua recensione, da spettatore che le contraddizioni dell’isola un po’ le conosce, vuoi per averla visitata diverse volte, vuoi per avere un padre residente là. Il documentario era bello, conteneva vere e proprie perle – le interviste alla direttrice della scuola di balletto dell’Avana, al giovane ballerino classico figlio di due militari di carriera, agli studenti universitari «sin un centavo», alla giovane soldatessa di Guantanamo… – ma aveva anche una pecca. Era vagamente edulcorato, un po’ troppo apologetico. Non ci riferivamo tanto agli aspetti politici, quanto a quelli sociali. Comprensibile l’esigenza di difendere l’anomalia cubana dagli annosi attacchi proditori, ma mancavano gli aspetti meno edificanti della vita sull’isola, che venivano detti anziché mostrati. E tuttavia la capacità affabulatoria, il mestiere che Minà metteva al servizio del racconto della realtà… Avercene.

Oggi che il giornalismo in Italia sembra in via di estinzione, la morte di Gianni Minà pare davvero la fine simbolica di un’era. Farebbe strano definirlo un gigante nel suo mestiere, nonostante abbia intervistato personaggi che hanno fatto davvero la storia del Novecento, nella politica, nello sport, nello spettacolo. Farebbe strano, perché nell’aspetto e nell’approccio proprio gigante non era. Con quell’aria simpatica, sempre sorridente, la voce inconfondibile… Lui stesso diventato un personaggio, dopo averne raccontati tanti. Esempio di cos’è potuto essere e di cos’è stato il suo mestiere, ovvero di come è stato possibile praticarlo per uno come lui, prima che i tempi cambiassero.

A volte il grado di separazione dalle icone della nostra infanzia, e dai “giganti” con cui hanno camminato, è davvero minimo. E quando hai avuto la fortuna e il privilegio di azzerarlo, quel che puoi fare è scriverlo, ricordarlo, ringraziare la vita e la storia per averlo reso possibile, per averti permesso di esserci.

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