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L'ANOMALIA DEL MONDO
appunti sparsi di ritorno da Cuba

di Wu Ming 4, luglio 2004

Mentre mi allontano dal Malecón, in direzione della città vecchia, tra i capannelli di gente che si attarda al margine della manifestazione, sento qualcuno che mi grida: - Ehi, Italia! Silbio Berlusconi...ah ah ah!
Non so se ridere o imbarazzarmi. Essere sfanculato in questo modo per le strade di un paese che a rigor di logica europea è considerata una dittatura, e proprio alla fine di un comizio di Castro, la dice lunga sulla considerazione politica di cui gli italiani godono all'estero.
Mi spingo verso il dedalo più antico, cercando di sfuggire al sole implacabile. E' il giugno più caldo degli ultimi anni, e a maggio non sono nemmeno arrivate le piogge. Il vento che soffia dal mare sembra uscire da un gigantesco phon sparato in faccia a La Habana. Per questo la marcha contra el bloqueo è stata organizzata la mattina presto, proprio davanti alla Sessione di Interessi Nordamericani, il grande palazzo di cemento sul Malecòn, che ogni giorno dispensa o rifiuta i visti d'ingresso negli Stati Uniti. Data l'estemporaneità dell'appuntamento, deciso con un anticipo minimo, sono stati mobilitati soltanto quattro quartieri cittadini: due o trecentomila persone, a occhio e croce, che hanno riempito il lungomare e che adesso rifluiscono in buon ordine verso i pullman in attesa.
Da quarantacinque anni gli americani si chiedono come sia possibile che il regime castrista riesca a godere di questo incredibile appoggio popolare. Da quarantacinque anni gli americani potrebbero darsi una risposta semplice: il motivo sono loro stessi. L'orgoglio rivoluzionario cubano, che ha una biografia lunga almeno un secolo e mezzo, è sopravvissuto ai ribaltoni della storia forgiandosi nello sforzo improbo di resistere all'assedio economico della più grande potenza del mondo, continuando a sostenere un modello socialista a poche miglia dalla culla del capitalismo mondiale. L'insofferenza dei cubani non è politica, come vorrebbero i vicini yanquis, tutt'al più è sociale, esistenziale. E questo non fa eccezione rispetto a tutti i paesi poveri del mondo, con la differenza che qui il welfare esiste e resiste. Sono i paradossi che mandano avanti quest'isola, che la frammentano e allo stesso tempo la tengono insieme, impedendole di sbriciolarsi.

In piedi sugli scogli del porticciolo di Cojìmar, guardo gli amici cubani pescare con il filo di nylon. Le luci del grande quartiere popolare di Alamar si stagliano sulla notte che ricopre il mare, facendo quasi apparire belli quei caseggiati fatiscenti. Il suono di una discoteca all'aperto rimbomba lontano. Ne è passato di tempo da quando Hemingway veniva a pescare qui. Adesso non ci vengono neppure più le troupe televisive che volevano intervistare il vecchissimo Gregorio Fuentes, lo skipper della barca di "Papà" Ernest, morto qualche tempo fa all'età di 104 anni.
A Felix e ad Augustín non frega niente di Hemigway, e del busto in bronzo che campeggia alle loro spalle, omaggio dei marinai di Cojìmar allo straniero innamorato della loro isola.
- Il problema della nostra vita è l'assenza di prospettive - dice Augustín.
- Io voglio viaggiare, vedere il mondo - aggiunge Felix, che è più giovane - non voglio vivere e morire sotto lo stesso cielo. Noi siamo chiusi qui dentro, sempre all'erta, non possiamo mai abbassare la guardia, rilassarci un attimo. Adesso che quel nazista di Bush fa il matto in giro per il mondo, siamo ancora più imprigionati di prima.
Gli dico che forse se il 4 novembre Kerry vince le elezioni negli Stati Uniti, qualcosa potrebbe cambiare, il blocco potrebbe allentarsi.
Felix alza le spalle: - Forse.

Già, il blocco.
- Hai idea di cosa significa non poter comprare quello che ci serve negli Stati Uniti? - mi chiede un altro amico cubano - Doverlo comprare in Canada o in Giappone? Vuol dire un costo doppio, per il trasporto e tutto il resto. E questo perché? Perché i mafiosi che se ne stanno a Miami sono culo e camicia con Jeff Bush, il governatore della Florida, quello che nel 2001 ha organizzato i brogli elettorali per far vincere le elezioni al fratellino. E' tutta una cricca di politicanti che si appoggiano a vicenda.
Da qui, dalla prospettiva dei quartieri popolari de La Habana, le cose hanno sfaccettature diverse, difficilmente percepibili dall'Europa. La verità è che con Clinton le cose erano diverse. La presidenza democratica aveva dato un contentino alla destra e ai fuoriusciti cubani di Miami, approvando la famigerata legge Helms-Burton, che rincarava il blocco contro Cuba. Ma poi la legge era stata di fatto aggirata, applicata solo parzialmente. La presidenza Clinton aveva stretto un accordo con Castro: 20.000 visti di ingresso negli Stati Uniti ogni anno, con la possibilità per i migranti di rientrare a Cuba in visita famigliare una volta all'anno. Addirittura erano stati garantiti due voli giornalieri, da Los Angeles e da Miami, su La Habana.
Con Bush le cose sono cambiate. Proprio nell'ultimo mese le leggi anti-cubane sono state attuate nella maniera più ferrea, il blocco è tornato ad assomigliare a un'anacronistica cortina di ferro. I visti sono stati ridotti al 10% (2.000 all'anno), e la possibilità di visita ai parenti sull'isola limitata a un viaggio ogni tre anni. Una scelta folle, che ha visto spaccarsi anche il fronte degli espatriati anti-castristi (e questo è un fatto politico nuovo). Ci sono due milioni di cubani solo a Miami, più altre centinaia di migliaia sparsi per gli Stati Uniti. A molti di questi non frega niente delle ragioni di Castro e di Bush, vogliono solo poter andare a trovare la madre malata prima che muoia, portarle delle medicine, abbracciare i parenti. Il risultato quindi è che per la prima volta una presidenza americana è riuscita a inimicarsi una parte dell'emigrazione cubana. I tempi vanno cambiando e forse riserveranno sorprese.

Ascolto le esigenze sacrosante di Felix, come di tanti altri giovani cubani, insofferenti a questo trascinarsi lento e incerto della vita. Immobilità e incertezza del futuro si mescolano. Che succederà quando Fidel morirà? Alzate di spalle, braccia allargate.
Mi ripeto che tutti dovrebbero poter viaggiare. Gli esseri umani dovrebbero essere liberi di spostarsi, migrare, tentare la fortuna altrove, visitare il mondo. Quante volte l'abbiamo scritto o detto nelle manifestazioni che hanno percorso l'Europa negli ultimi anni... La legge stabilisce che i cubani possono uscire dall'isola solo se hanno un "invito" formale da parte di un cittadino straniero che si faccia garante per loro. Oppure per visita a parenti o ricongiungimento famigliare. Poi c'è il limite più grosso, quello materiale: i soldi. Sono ben pochi i cubani che possono permettersi un viaggio all'estero.
Inutile dire che a dispetto delle tante accuse al regime castrista, questo rigido controllo migratorio fa comodo proprio a quei paesi sviluppati che attaccano Cuba per le violazioni della libertà individuale. E' la nostra politica, quella dei paesi ricchi, a chiedere che ci siano limitazioni di spostamento, centellinando le uscite.
Felix riavvolge il filo di nylon dopo aver messo il pesce nel sacchetto insieme agli altri. Tracanna un altro sorso di ron dalla bottiglia e dice: - E' tutta la vita che sono qui, circondato dal mare. Finalmente ho trovato il modo di andare...
Felix non ha nessuna intenzione di dare soldi agli scafisti o di rischiare la vita su una zattera. Quella è roba per matti e disperati, dice. Mi racconta di un ex-galeotto del quartiere, che appena uscito di galera ha pagato una cifra a dei tizi di Key West per farsi venire a prendere, proprio qui (mi indica il punto sugli scogli). Di costui non si hanno più notizie da due anni.
Felix e Augustín ridono: - Quello pensava di andare dritto a Las Vegas... e sarà finito a fare il delinquente da qualche parte. Più o meno quello che faceva qui. Ammesso che sia riuscito ad arrivare.
No, Felix se ne andrà in una maniera migliore, perché lui non vuole finire a fare il barbone alla periferia di una metropoli americana, e gli States, i nemici di sempre, non lo attirano per niente. Questa estate si sposa con la sua fidanzata basca e finalmente potrà venire in Europa. Ma non è la legge cubana a imporgli di mettersi una fede al dito per riuscire a vedere il mondo. La verità è che l'anno scorso, il semplice "invito" formale della sua fidanzata è bastato a fargli ottenere il visto d'uscita da Cuba, ma non quello d'ingresso in Spagna. E' stato il signor Aznar a chiudere le porte in faccia a Felix, non il signor Castro. Così come è George W. Bush a tagliare i visti d'ingresso per i cubani negli USA.

Mentre discutiamo sulla spiaggia di Mégano, la mia compagna mi fa notare che il governo dovrebbe concedere ai cubani dei permessi semestrali d'uscita, per la ricerca del lavoro all'estero, rinnovabili a un anno. La stessa proposta che una parte della sinistra italiana avanza per i migranti che arrivano nel nostro paese. Ennesima dimostrazione che i problemi di Cuba sono i "nostri" problemi, cioè quelli del mondo, al punto che ci vengono in mente soluzioni simili per entrambi i contesti. L'anomalia cubana è un punto particolare e privilegiato da cui osservare la globalizzazione. Su quest'isola si respira una sensazione strana: quella di trovarsi in un'estrema periferia dimenticata dall'impero e dalla storia e allo stesso tempo nell'occhio del ciclone, nel cuore delle contraddizioni, a due passi dal colosso americano.
Infatti è facile, su quest'isola, prendere fischi per fiaschi, pensare che tutti i problemi si concentrino qui e siano legati al regime sopravvissuto al crollo del socialismo reale. E' facile cadere in semplificazioni e pescare granchi scambiandoli per marlin, come se la libertà di circolazione non fosse una questione cruciale anche da noi, o negli Stati Uniti, come se Schengen e l'unità politica dell'Europa non avessero creato un grande solco tra "noi" e "loro", tra chi può muoversi liberamente per il continente e per il mondo, e chi deve farlo subendo restrizioni d'ogni sorta o provando ad aggirarle clandestinamente.

Fischi per fiaschi, dicevo.
Un turista italiano che ha voglia di parlare inveisce a denti stretti contro il poliziotto che passeggia tra gli ombrelloni. Quel poveraccio che cammina sotto la canicola con gli scarponi e il berretto diventa il simbolo del controllo poliziesco castrista.
- Bastardo... - mugugna il dentista di Milano che fa l’esperto di Cuba. Il meneghino si bulla della propria esperienza e della propria signora dalla pelle rassodata. Fuma un mozzicone di sigaro e si pettina i pochi capelli rimasti. Poi dice di intendersi di malattie cutanee e, specifica, veneree, dando di gomito. Non una cattiva persona. Uno stolto che ignora che il corpo di polizia dei cosiddetti "baschi grigi" è stato formato con il compito specifico di vigilare sui turisti. Quando vado a fare il bagno, lo sbirro si mette mesto mesto sotto l’ombrellone accanto al mio e aspetta che risalga dal bagnasciuga per riprendere la sua passeggiata solitaria. Una volta sola si avvicina per raccomandarmi di stare attento ai miei oggetti personali. L' "esperto" scambia per una rigida sentinella della dittatura chi gli sorveglia il portafoglio, le ciabatte e gli occhiali da sole dai mariuoli da spiaggia. Probabilmente se fosse stato derubato avrebbe accusato di pigrizia e inefficienza la polizia cubana.

Dall'ultima volta che sono stato qui, quattro anni fa, le leggi contro chi "cavalca" i turisti (donna o uomo che sia) sono state inasprite. Oggi si finisce dentro già al secondo avvertimento della polizia. Il carcere femminile delle jineteras ha un nome ironico: Villa Delicia. In realtà pare non sia un carcere duro, le donne scontano spesso la pena svolgendo lavori socialmente utili, ad esempio facendo le spazzine; le pene rimangono comunque sproporzionatamente lunghe.
Ai libertari come me le limitazioni non piacciono, le galere men che meno, ma quello che suona paradossale è che Bush negli ultimi tempi accusi Cuba di favorire il turismo sessuale al fine di spillare denaro ai figaioli stranieri.
Forse sarebbe il caso di chiedersi da dove vengono le legioni di tombeurs de femmes. Canada, Italia, Olanda, Spagna, Francia, Germania, ecc. Il ricco, democratico e civile Occidente viene qui a farsi una chiavata nella povertà e nella rivoluzione altrui, distribuendo dollari e magari portandosi a casa le ragazze più belle. Niente di disdicevole, sia chiaro, questo non è certo il posto né il tempo in cui mettersi a fare i moralisti, anzi, meglio un’invasione di chiavaioli che una di marines, e i profilattici sono senz’altro preferibili alle bombe. Ma sia chiaro che pur sempre di invasione si tratta. Ci si aggira intorno ai due milioni di turisti all’anno, che portano dollari freschi e irrinunciabili. Il modo repressivo scelto dal regime di difendere l’isola senza rinunciare al turismo, è il tentativo di mantenere le entrate impedendo che Cuba torni a essere il gigantesco bordello per stranieri che era prima della Rivoluzione. Tutto ciò potrà sembrare ipocrita, anche odioso, ma quelli che sono pronti a criticare non sono poi disposti a mettersi qualche problema in più, pensando a quello che rischia l'accompagnatrice occasionale della sera.

L'aitante finanziere romano che ho incontrato in spiaggia si lamenta dello stato di polizia, perché ieri sera la signora che gli affitta la stanza ha chiesto i documenti alla ragazza che si stava portando a letto. In effetti un affittacamere che non lo facesse rischierebbe la perdita della licenza e multe salatissime se poi si scoprisse che le accompagnatrici che vengono in casa sua sono prostitute o persone già segnalate alla polizia. Insomma potrebbe passare per manutengolo. Gli dico: - Scusa, ma guarda che in Italia funziona alla stessa maniera. Se ti porti un ospite in albergo, deve mostrare i documenti, e immagino che i motivi siano più o meno gli stessi.
Mentre osservo la sua espressione cogitabonda penso che a volte siamo talmente abituati a parlare male di Cuba che ci dimentichiamo di parlare male dell'Italia.
Qualche giorno dopo, una guida turistica cubana mi dice che nel suo paese la libertà di informazione è scarsa, vige un monopolio informativo che non lascia trapelare tutta la verità, e poi sorride aggiungendo: - Del resto anche voi in Italia con Berlusconi non è che siete messi tanto meglio.
Ecco, appunto.

Castro non ha più molto tempo a disposizione: 79 primavere e qualcuno pronuncia anche la parola "cancro". Comunque sia, il termine della vita politica del Lider Maximo non può essere troppo lontano e su cosa succederà dopo nessuno osa pronunciarsi. Già adesso il suo è più che altro un ruolo simbolico, e lui stesso in un'intervista recente si lamenta che i suoi vice non gli dicono tutta la verità sullo stato delle cose a Cuba. Eppure sul piano dialettico il vecchio leone non sembra perdere colpi, pur nelle difficoltà economiche e politiche in cui si barcamena dal crollo dell'Urss in poi. La cosa che mi sorprende di più, viaggiando per le strade dell’isola è scoprire attraverso i giganteschi cartelloni esposti dallo stato, lo slittamento retorico e simbolico su tematiche no global. A fianco degli ever green, come "SIEMPRE REBELDES", "SOCIALISMO O MUERTE", e delle effigi del Che, sono spuntati nuovi slogan, che rispecchiano il tentativo del regime cubano di approcciare il movimento neo-globale. "OTRO MUNDO ES POSIBLE"; "CUBA DEMONSTRARA’ QUE OTRO MUNDO ES POSIBLE"; la parola "SOLIDARIDAD" che manda in frantumi “NEOLIBERISMO”; e quello più divertente "ALCA/PONE LA MAFIA AL SERVICIO DEL IMPERIO".

Ma non è tutto qui. Si espongono moltissimi slogan che inneggiano al risparmio energetico e al risparmio dell’acqua. L'arte del riciclaggio e dell’arrangiarsi a Cuba fa accademia in ogni quartiere, basti pensare che i cubani riescono a far camminare ancora le Buick, le Chevrolet e le Plymouth dei primi anni cinquanta. Non c'è un angolo di strada in cui un gruppetto di persone non sia intento ad aggiustare qualcosa. Che questo sia dovuto alla scarsità è fuor di dubbio, e che l’intento del regime sia quello di spingere alla parsimonia per ridurre i costi, lo è altrettanto; che però tutto ciò debba essere visto necessariamente come qualcosa di negativo è opinabile.
Anche questo me lo fa capire Felix, in una seconda notte di pesca. Gli spiego che il problema dei paesi ricchi è opposto a quello di Cuba: noi consumiamo troppo e siamo costretti a consumare troppo per far marciare l'economia. Da noi le auto non si riparano all’infinito, si rottamano dopo qualche anno con gli incentivi di stato. Da noi le cose fuori moda, i modelli superati, gli oggetti di ieri, vengono buttati o sostituiti. Cerco di spiegargli che il nostro modello di sviluppo ha qualcosa di perverso e di autodistruttivo.
Lui ride e mi dice: - Sai cosa dovresti fare? Quando torni in Italia scrivi ai pezzi grossi, ai politici, e digli di contattare il nostro Comandante. Lui è il più grande reciclatore del mondo. Qua non buttiamo via niente. I vostri computer vecchi spediteceli a noi che li mettiamo nelle scuole! Dateci anche le auto e il resto, che qui serve di tutto!
In effetti questo già succede. Quando ho visitato l’Isola della Gioventù, nel '98, ci ho trovato gli autobus rossi con il tetto giallo su cui circolavo a Bologna da bambino, negli anni Settanta. Dono della Regione Emilia-Romagna. I camion della nettezza urbana de La Habana, invece, vengono dai Paesi Baschi. E via dicendo. Cuba è una gigantesca officina a cielo aperto, in cui si riciclano gli scarti ancora funzionali del primo mondo. O forse mi piace immaginarla così.

Qui ogni tanto manca l'acqua (ma tutti i cubani hanno una cisterna sul tetto della casa che supplisce alle emergenze). Ogni tanto manca la luce, per via dei razionamenti, o di guasti alla rete elettrica. Nessuno impazzisce per questo, nessuno si dispera. Accendono una pila e aspettano che la luce torni. Penso alle nostre città ultra-illuminate e ai black-out che mandano in tilt tutto quanto. Penso alle luci delle banche e dei negozi accese tutta la notte. Penso allo spreco infinito di materiale, acqua potabile, energia elettrica, cellulosa, che contraddistingue i nostri "avanzatissimi" paesi e all’insostenibilità oggettiva di un modello del genere, sospinto dall’idea di uno sviluppo infinito.
Pare che perfino quella vecchia volpe di Castro l'abbia capito e si stia giocando, almeno sul piano retorico, la carta dell'alternativa. Beh, non sarà un'impresa facile, anche perché ai cubani ad esempio manca completamente il senso ecologico e buttano ancora carte e lattine per terra, nelle spiagge, in mare (esattamente come accade in Europa). La TV nazionale ha appena cominciato a passare spot educativi sul rispetto dell’ambiente, ci vorrà tempo perché nasca un senso di responsabilità collettivo.
Tuttavia mi chiedo se non ci sia qualcosa da imparare da quest'isola.
Per esempio salta agli occhi il fatto che probabilmente Cuba è il paese più meticcio del mondo. Bianchi, neri, mulatti, e tutte le sfumature intermedie, riempiono le strade e convivono uno accanto all'altro. Fa ridere pensare ai problemi di casa nostra. Comitati di genitori che lamentano la precedenza concessa ai figli degli emigrati nell'accesso agli asili. I posti sono contati: quattro figli scuri contro uno bianco, vince il più bisognoso e il bimbo italiano resta fuori. A Cuba la soluzione sarebbe semplice: se l'asilo è un diritto, se ne costruisce uno in più e ci si mandano tutti i bambini, bianchi o colorati che siano, secondo le esigenze reali. Eh la fai facile, eh ma i soldi, eh ma qui, eh ma là... Eh un cazzo. Noi siamo i ricchi, loro i poveri. Noi chiudiamo gli asili, loro li costruiscono, noi li facciamo pagare, loro no, come cazzo è possibile?! Poi ci si chiede come ha fatto questo regime a sopravvivere al crollo del socialismo reale... La verità è che da qui, con tutti i problemi e le mancanze che ci sono, sono i paradossi del "nostro" mondo che vengono alla luce.

Anche l’ars retorica di Fidel ha subito contaminazioni no-global e zapatiste. Per raggiunti limiti d'età, "Nonno Fidel" non dispensa più discorsi di cinque o sei ore, si limita a 45 minuti. Non si tratta nemmeno più di veri e propri comizi: nelle ultime manifestazioni ha letto due lettere personali indirizzate a George W. Bush, nelle quali, oltre a mettere al centro la questione ambientale, Castro usa un tono da western crepuscolare, una sfida all’ok corral lanciata da un capo all’altro dello Stretto della Florida. Mio padre - ormai naturalizzato cubano - mi racconta della "marcha" del 14 maggio, una marea che riempiva il Malecón, e della chiusura di Castro, che in molti qui, a distanza di un mese, citano ancora. Alcuni seriamente, altri in tono scherzoso, come se citassero la battuta di un film, appunto.

"(Signor Bush), dato che lei ha deciso che la nostra sorte è segnata, ho il piacere di salutarla come i gladiatori romani che andavano a combattere nel circo: Salve, Cesare, quelli che vanno a morire ti salutano. Mi dispiace solo che non potrò vederla neanche in faccia, perché in questo caso lei sarà a migliaia di chilometri di distanza, e io sarò in prima linea per morire combattendo in difesa della mia patria."

Decido di andare al secondo appuntamento, il 21 giugno, stessa ora, stesso luogo. Davanti alla Sezione d'Interessi Nordamericani, l'unico edificio diplomatico yankee dell'isola. Ma prima devo capire qualcosa, perché ho la sensazione di avere perso delle puntate, che mi manchino degli elementi. Un anno fa il regime cubano è stato definitivamente scaricato dalla sinistra italiana (fino a quel momento soltanto critica), all’indomani degli arresti degli intellettuali dissidenti, accusati di aver tramato contro il paese. I DS hanno organizzato un convegno sulla libertà d'espressione a Cuba, Rifondazione si è cosparsa il capo di cenere, e via dicendo. Era saltato fuori che i circoli della dissidenza democratica erano infiltratissimi, fin nei vertici, da agenti del controspionaggio di stato, alcuni intellettuali erano stati messi in galera, etc. In Europa si è gridato al crimine d'opinione e si è definito Castro un dittatore stalinista. Si sono presi provvedimenti sanzionatori nei confronti di Cuba. La fronda è stata capeggiata soprattutto dai governi di Spagna e Italia. E infatti qui sono state organizzate manifestazioni di protesta contro i due paesi davanti alle rispettive ambasciate, facendo notare che mentre condannavano la repressione a Cuba, negli stessi giorni, proprio l'Italia e la Spagna davano il loro appoggio militare all'invasione dell'Irak.
Nella migliore delle ipotesi si potrebbe dire che la predica europea era giusta, ma il pulpito non ne era all'altezza.
Nemmeno a me i regimi sono mai stati simpatici, di qualsiasi ispirazione ideologica fossero. Ma almeno qualcuno dei sinistrorsi nostrani si è preso la briga di prendere un aereo, venire qui, e cercare di capire qualcosa di quella brutta storia? Non credo. Erano troppe le cose a cui pensare, c'era la guerra imminente, e non si è minimamente pensato che in fondo si trattava esattamente della stessa guerra, combattuta su fronti diversi.
Siccome non mi piacciono i regimi, ma non mi piacciono nemmeno le condanne sommarie in contumacia, anche se a emetterle è un giudice più "democratico" di Fidel Castro, provo a ricostruire fatti e circostanze, un pezzo alla volta. Ne esce una una storia di intrighi, cialtroni e insolite spie.
Bisogna partire dal 1997. Sul finire dell'estate di quell'anno, alcuni mercenari centroamericani in odore di CIA riescono a entrare a Cuba e piazzare delle bombe carta nelle hall di tre alberghi. L'obiettivo è minare la nascente industria turistica cubana che ha ridato fiato all'economia dopo la crisi degli anni Novanta. Un giovane italiano che da anni frequenta Cuba insieme al padre per lavoro e per piacere, è seduto nella hall dell'Hotel Copacabana al momento dell'esplosione e riceve una scheggia di vetro in gola. Muore dissanguato. Si chiama Fabio Di Celmo.
L'anno successivo Castro spedisce all'FBI un rapporto dettagliato sui progetti terroristici della mafia cubana di Miami ai danni dell'isola. Le fonti informative di Castro sono cinque agenti del controspionaggio infiltrati tra i balseros e stabilitisi in Florida, i quali vengono scoperti e arrestati (tutt'ora sono in carcere negli Stati Uniti).
Nel 1999 scoppia il caso Elian Gonzales, che si protrarrà fino al 2000. Il bambino, portato dalla madre sul gommone di uno scafista, è l'unico superstite del naufragio con cui si è conclusa la traversata. Sulla pelle del piccolo Elian si gioca una partita politica enorme tra una sponda e l'altra del Canale della Florida. Alla fine Castro la spunterà, un tribunale americano riconoscerà il diritto del padre di riavere il figlio con sé sull'isola.
Nel 2001 Bush vince le elezioni con i brogli elettorali in Florida. A settembre gli attacchi terroristici alle Twin Towers e al Pentagono scuotono il mondo. Comincia la guerra santa di Bush contro il Terrore. Cuba finisce nell'elenco degli stati canaglia che appoggiano il terrorismo internazionale.
Gli Stati Uniti invadono l'Afghanistan, poi, nel 2003, l'Irak. A Cuba la preoccupazione cresce.
Proprio il 2003 è l'anno cruciale.
La situazione internazionale è esplosiva. Bush fa paura, ha dichiarato una guerra preventiva che, sostiene, durerà trent'anni. Non sono pochi i paesi del terzo mondo che tremano davanti a una prospettiva del genere. Dopo l'Afghanistan e l'Irak, chi sarà il prossimo?
La CIA non perde tempo: sobilla scioperi e proteste a catena contro il governo di Hugo Chavez che ha nazionalizzato i pozzi di petrolio venezuelani e promosso una riforma agraria.
Intanto già dal settembre 2002 è arrivato a Cuba il nuovo Capo della Sezione di Interessi Nordamericani, James Cason. Il suo curriculum parla di una persona sempre nel posto giusto al momento giusto: Guatemala, Honduras, Salvador, ecc. Una faccia pulita per operazioni sporche condotte da altri? Niente di più probabile. Tra la fine del 2002 e l'inizio del 2003, Cason incontra tutti gli intellettuali e giornalisti dissidenti cubani, sollecitandoli a far sentire la propria voce e garantendo l'appoggio del suo ufficio alle loro attività. Fermiamoci un attimo.
Negli stessi mesi, due voli interni cubani vengono dirottati da desperados armati e pronti a tutto per lasciare l'isola. Una coincidenza? A seguire, il traghetto che fa la spola tra le due sponde della Baia de La Habana viene dirottato da un gruppo di pregiudicati con pistole e coltelli. I turisti in ostaggio riescono a buttarsi in mare e i sequestratori vengono catturati dalla guardia costiera cubana. Processati per direttissima vengono fucilati per pirateria e atti di terrorismo.
Intanto Cason continua il suo tour di iniziative a sostegno della "intellighenzia" dissidente. I dissidenti entrano ed escono a proprio piacimento dalla Sezione di Interessi Nordamericani, e viene allestita per loro una sala stampa dentro l'edificio. Cason offre loro aiuto economico, forniture alimentari, medicinali da regalare per accattivarsi simpatie, preziosi visti d'ingresso negli Stati Uniti, contatti con i gruppi di espatriati legati alla vecchia mafia batistiana. E' abbastanza evidente che l'operazione si delinea come il tentativo di creare un'opposizione "democratica" che si renda visibile e getti le basi per una destabilizzazione del regime.
Arriviamo al marzo del 2003, nei giorni in cui Bush ordina l'invasione dell'Irak. Il 29 marzo, a Miami, gli espatriati anti-castristi organizzano una marcia a favore dell'invasione in Irak, scandendo lo slogan "Oggi in Irak, domani a Cuba!". Sull'isola viene dato lo stato d'allerta ai Comitati di Difesa della Rivoluzione e alla milizia civile.
L'operazione di Cason però è già saltata da qualche giorno, perché gli infiltrati dei servizi segreti cubani sono usciti allo scoperto e hanno denunciato i manini in corso. Svariati dissidenti, attivi da anni, finiscono in galera per aver accettato denaro da una potenza straniera a fini di spionaggio contro lo stato (e non per reato d'opinione, come si è voluto far credere in Europa).

Metto un punto e provo a riflettere. Sono radicalmente contrario alla pena di morte. Sono radicalmente contrario a pene detentive sproporzionate e anzi non ho mai creduto all'utilità della galera. Quindi non posso che avversare le scelte che lo stato cubano ha preso in questo frangente. Ma non faccio nemmeno l'anima bella e mi pongo delle domande.
Che esista un'opposizione al governo a Cuba dovrebbe essere legittimo come dovrebbe esserlo in qualunque paese. Quello che invece non mi sembra giustificabile è che tale opposizione cerchi l'appoggio di chi da quarantacinque anni stringe sotto assedio economico l'isola e mantiene stretti contatti al vertice con i boss di Miami. In Italia giustificheremmo una forza politica che tenesse contatti con la mafia albanese dell'UCK o con qualche gruppo bombarolo d'ispirazione islamica? Possibile che questi attivisti dissidenti siano così stupidi?. Evidentemente sì. Ma perché?
Vado a leggere un libro che raccoglie le interviste agli infiltrati del controspionaggio cubano. Provo a fare la tara alla versione di regime e comincio a intuire qualcosa.
Questi gruppi erano attivi da oltre dieci anni. Erano osteggiati dal regime, controllati dal regime, secondo canoni che a noi civili europei evocano spettri orwelliani, ma non erano perseguitati, se è vero che hanno potuto continuare la loro attività informativa (soprattutto raccolta di testimonianze sulle violazioni dei diritti umani e civili) fino a quando si sono messi nelle mani di Mr. Cason. Le descrizioni del milieu dissidente fatte da chi ci ha trascorso molti anni fanno capire che il problema più grave di questa gente sono proprio i loro alleati esterni. Invece di sostenere le menti critiche più lucide, gli americani hanno dato spazio e offerto aiuto proprio ai detrattori più beceri e inaffidabili del regime castrista. Il concetto di "transizione" che gli americani hanno in mente è come al solito totalmente semplicistico, razzista, utilitario. Il risultato è che a fianco di poche persone sincere e serie, si è schierata una sfilza di cialtroni, aspiranti giornalisti, scribacchini falliti, opportunisti qualunque, che hanno intravisto la possibilità di un passaggio in businness class per gli Stati Uniti e l'acquisizione dello status di esuli politici, gettandosi a pesce sull'osso che veniva offerto. In altre parole: degli utili idioti. Non si spiega in altro modo perché della gente che si dice democratica avrebbe dovuto accettare l'appoggio di chi ha sempre trattato l'America Latina come il proprio cortile di casa per farne quello che voleva. Non sarà un caso che in queste organizzazioni militassero poche decine di persone e che all'uomo della strada cubano non freghi praticamente niente della loro sorte. Infine, il dato curioso è che la maggior parte delle menti moderate nei vertici della dissidenza erano...agenti infiltrati, la cui posizione era quella di sviluppare l'attività critica e informativa senza accettare l'abbraccio mortale con gli americani. Insomma, la minoranza moderata all'interno dei gruppi "dissidenti", sostenitrice di una transizione soft, era composta in gran parte da castristi in incognito.
Dicevo che questa è l'isola dei paradossi. Appunto.

Arriviamo nei pressi del palco in taxi, percorrendo una strada laterale. Ci avevano detto che non ci avrebbero neanche lasciato avvicinare, invece ci immergiamo nel mare di gente senza problemi e troviamo una posizione sopraelevata da cui ascoltare il discorso di Fidel. Nonostante l'età, il Comandante in Capo riesce comunque a essere meno retorico dei giovani oratori che lo precedono.
Uno dei tasti su cui Castro batte di più è proprio la libertà di movimento. Lamenta le recenti restrizioni del blocco e il taglio dei visti. Lamenta che i cittadini nordamericani non possano visitare Cuba, pena rappresaglie da parte del loro stesso paese. Anche la chiusura riguarda lo stesso argomento.

(Signor Bush), lei sicuramente sa che negli Stati Uniti ci sono 44 milioni di cittadini che non dispongono di assicurazione sanitaria, che in due anni 82 milioni di statunitensi hanno dovuto fare a meno in qualche momento di tale assicurazione non potendo pagare il colossale prezzo dei servizi sanitari essenziali. Un calcolo approssimativo indica che per questo motivo negli Stati Uniti molte decine di migliaia di vite vanno perdute, forse trenta o quaranta volte in più dei morti nelle Torri Gemelle. Qualcuno dovrebbe fare i calcoli precisi. Nel breve periodo di cinque anni, Cuba è disposta a salvare la vita a tremila cittadini statunitensi poveri. Oggi è perfettamente possibile prevedere ed evitare un infarto che potrebbe essere mortale, e risolvere malattie che conducono inevitabilmente alla morte. Tremila statunitensi potrebbero venire nel nostro paese con un famigliare che li accompagni e ricevere cure in modo assolutamente gratuito.
Voglio farle una domanda, signor Bush. Si tratta di una questione etica e di principio. Sarebbe disposto a concedere a questi cittadini l'autorizzazione per venire a Cuba in un programma destinato a salvare una vita per ognuno dei morti nell'atroce attacco alle Torri Gemelle? Se loro accettassero i suddetti servizi e decidessero di venire, sarebbero puniti?
Dimostri al mondo che c'è un'alternativa all'arroganza, alla guerra, al genocidio, all'odio, all'egoismo, all'ipocrisia e alla menzogna!
In nome del popolo di Cuba,
Fidel Castro Ruz

Il vecchio leader ha finito. La folla si disperde in mille rivoli. Restano il sole accecante e gli sfottò dei cubani per il lider minimo che tocca in sorte a noi italiani.

Torno a casa senza troppa voglia. Torno al lavoro, al sovraconsumo energetico e alla posta elettronica.
Mentre passo in rassegna le 84 e-mail che si sono accumulate durante l'assenza, penso a Felix e a tutti i giovani cubani come lui.
Forse riuscirà a raggiungere l'Europa. Ha detto di volerla visitare tutta, di voler vedere Madrid, Parigi, Roma. E di voler conoscere il freddo, quello vero, fare a pallate di neve e mangiare finalmente carne rossa, che a Cuba è una rarità.
Gli auguro di cuore di riuscirci e gli ho dato appuntamento per il capodanno del 2005 in Spagna. Gli ho detto di non farsi illusioni, ma non mi sembra che ne abbia troppe. E' solo un giovane come tanti che vuole vedere il mondo e vivere con la sua fidanzata.
Forse a trent'anni riuscirà a evadere dall'anomalia cubana e dal lento ripetersi dei giorni, per trovare il cambiamento, la trasformazione della vita che sogna da sempre, senza smettere di amare la sua isola.
Là fuori ad aspettarlo troverà l'anomalia mondo, che in realtà è la stessa.
L’attenzione mi cade su una e-mail di qualche giorno fa.


N.400/A/2004/671/P/12.214.3.2 Roma,
OGGETTO: Autorizzazione all’uscita e al reingresso nel territorio nazionale ai cittadini stranieri in possesso della ricevuta di presentazione dell’istanza per il rinnovo del permesso di soggiorno.
AI SIGG. QUESTORI DELLA REPUBBLICA LORO SEDI
AI SIGG. DIRIGENTI LE ZONE DI POLIZIA DI FRONTIERA LORO SEDI

Al fine di consentire ai cittadini extracomunitari, che hanno presentato istanza per il rinnovo del permesso di soggiorno presso le Questure competenti e che sono in possesso della relativa ricevuta, di uscire e far reingresso regolare sul territorio nazionale, si autorizzano gli stessi ad allontanarsene, nel periodo che va dal 1° luglio al 30 settembre p.v., alle seguenti condizioni:
a) l’uscita ed il rientro dal territorio nazionale dovrà avvenire attraverso lo stesso valico di frontiera;
b) lo straniero dovrà esibire il passaporto, o documento d’identità equipollente, la ricevuta della presentazione dell’istanza di rinnovo del permesso di soggiorno, copia o originale del permesso di soggiorno scaduto o del quale è stato chiesto l’aggiornamento;
c) il personale preposto a controlli di frontiera provvederà ad a apporre il timbro di uscita oltre che sul passaporto anche sulla predetta ricevuta;
d) il viaggio non dovrà prevedere il transito in altri Paesi Schengen.

Firmato: IL CAPO DELLA POLIZIA

Bienvenidos a Europa Libre.

 

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