Max Headroom-19. Il sogno del «distanziamento sociale» permanente nella propaganda post-coronavirus

di Wolf Bukowski *

Con una postilla di Wu Ming sull’indossare la mascherina all’aperto.

INDICE
1. Un’idea paradossale
2. «La cosa più noiosa è già accaduta»
3. «Normalità» è un campo di battaglia
4. Pro tempore?
5. «Dobbiamo abituarci»
6. Procedere per sfoltimento di pubblico
7. Perché il capitalismo ci vorrebbe senza corpo, se guadagna anche sul nostro corpo?
8. Lo stato digitale
9. Di chi è la colpa? Tua!
10. Residuo organico
§. Postilla

Edison Carter è il reporter di punta della rete televisiva Network23. Almeno fino a quando non gli viene la pessima idea di indagare sugli effetti letali degli spot messi in onda dalla sua stessa emittente. Il crudele CEO della rete decide allora di eliminarlo, sguinzagliandoli dietro due sgherri. Nel corso dell’inseguimento la moto di Carter si impenna, e il reporter sbatte la testa contro una sbarra che segnala l’altezza massima per i veicoli in transito. A quel punto il corpo agonizzante di Carter viene consegnato al genietto amorale che sviluppa il software di Network23, che ne scansiona il viso e – in modo un po’ grezzo – le sinapsi in modo da poterlo mandare in onda, in simulacro elettronico, nonostante fosse (quasi) morto:

«il suo cervello […] è solo un banalissimo computer, una lunga serie di comuni interruttori […]. Io sono in grado di generare di nuovo quest’uomo sul mio computer, così lui potrà continuare il suo programma e nessuno lo scoprirà […]. Per ora sto immagazzinando solo i dati per creare una testa, ci vogliono troppi dati per creare tutto il corpo, che comunque non ci serve».

Poi le cose prendono un’altra piega, Carter ribalta la prognosi infausta e si rimette in piedi, prova le sue accuse al Network e ci accompagna a un happy end nel segno del realismo capitalista: il più umano tra gli squali in cravatta del consiglio d’amministrazione della rete prende il potere.

Parallelamente a questo sviluppo narrativo, il personaggio televisivo creato a partire dalla testa di Carter rimane attivo, e si dimostra perfetto come presentatore di videoclip musicali. Poiché nei primi inceppati momenti di funzionamento ripeteva l’ultima cosa letta da Carter prima dell’incidente, quell’altezza massima scritto sulla sbarra, viene battezzato Max Headroom. Questo, per sommi capi, il plot del film del 1985 che forniva il background al presentatore finto-digitale che di lì a poco avrebbe debuttato nella tv britannica.

In Italia Max è comparso in programmi televisivi nella seconda metà degli anni Ottanta, tra un videoclip e l’altro, nonché come protagonista di quello di Paranoimia degli Art of Noise. Quando mi capitava di vederlo – ero ragazzo, avrei dovuto essere precisamente il suo target – non lo sopportavo. Ciò che mi sfuggiva era che probabilmente Max era stato concepito proprio per risultarmi insopportabile. In una conversazione del 2015 i suoi creatori ricordano infatti di aver lavorato su varie ipotesi di cosa mandare in onda tra uno e l’altro di quegli «incredibili videoclip» e di avere scelto, infine, l’idea più paradossale. Dice Rocky Morton:

«Qual è la cosa più noiosa che potevo fare solo per infastidire tutti? La cosa più noiosa che mi è venuta in mente, del tutto controcorrente per la generazione MTV… era una testa parlante: un uomo bianco di classe media in abito scuro, che parlava loro in modo noioso».

2. «La cosa più noiosa» è già accaduta

In questi giorni molte teste parlanti ci hanno ripetuto che dobbiamo ritenerci fortunati di poter vivere un’esistenza online quale simulacro di socialità durante il lockdown. In realtà, come nota incidentalmente Ginevra Bompiani, le serie TV, il telelavoro, i webinar, le videochiamate… ne sono state la precondizione: senza di essi «non sarebbero mai riusciti a tenerci rinchiusi». Un lockdown di tale portata è divenuto pensabile dai governi perché quegli strumenti digitali erano già disponibili. E non, al contrario, quegli strumenti hanno semplicemente reso più sopportabile illockdown. Scomodando Gramsci,

«Non è la semina regolare del frumento che ha fatto cessare il nomadismo, ma viceversa, le condizioni emergenti contro il nomadismo hanno spinto alle semine regolari ecc.» (Q 7 § 35)

e parafrasandolo (con una certa dose di arbitrio, ovviamente):

Non è il lockdown che ha smaterializzato i rapporti umani, ma viceversa, sono le preesistenti condizioni di smaterializzazione (dettate dalle esigenze ideologiche e di profitto) che hanno reso possibile il lockdown.

Se questa ipotesi è vera, ne deriva che non esistono più caratteristiche intrinseche alla collettività che ne impediscano la chiusura in casa per lunghi periodi emergenziali; e dunque la politica futura, di fronte a un’emergenza, si interrogherà sistematicamente sul se dichiarare un lockdown o meno. Quanto detto vale sia su un piano di tenuta sociale che su quello economico. È vero che le condizioni di vita di milioni di persone usciranno letteralmente devastate dal lockdown, ma c’è da tenere presente che ci sono, al contrario, settori economici che ne saranno darwinianamente rafforzati, e quei settori sono tra quelli che, senza neppure alzarsi in punta di piedi, anzi flettendosi un poco, sussurrano istruzioni alle orecchie di ministri e politici. Telecomunicazioni, logistica, intelligenza artificiale, GDO, «sicurezza» cioè guerra. Sono settori che in questa fase hanno goduto – ognuno in proporzioni differenti – sia del confinamento di milioni di persone sia delle ampie eccezioni al confinamento previste per lavoratori addetti alle più diverse mansioni.

Se dunque non esistono più caratteristiche intrinseche alla collettività che ne impediscano la frammentazione domiciliare per lunghi periodi d’emergenza, e se il lockdown ha influenti vincitori, significa che il confine tra «eccezione» e «normalità» si è già spostato definitivamente. L’«eccezione» resta tale, ma è un pochino più normale. La «normalità» non sarà certo quella dei giorni di confinamento ma nondimeno incorporerà, d’ora in poi, anche la possibilità di un reiterato #iorestoacasa.

3. «Normalità» è un campo di battaglia

Ne La danza delle mozzarelle (2015) avevo registrato l'(ab)uso del concetto di «normalità» nella politica contemporanea a partire dal suo contrario, ovvero l’Elogio della follia di Erasmo da Rotterdam quale livre de chevet del Cavaliere, prefato e pubblicato da sé stesso (Silvio Berlusconi Editore) nel 1992. Per non parlare poi della categoria di foolishness utilizzata da Steve Jobs nella costruzione del feticcio della merce digitale Apple.

«Non usate questo cervello!» (Frankenstein Junior di Mel Brooks, 1974).

Dall’altra parte un pedante D’Alema riusciva persino a intitolare Un paese normale il suo libro del 1995, e quella «normalità», ça va sans dire, era la piena adesione del partito ex comunista alla dottrina neoliberale. A movimentare il quadro, anni dopo, aveva pensato il duo involontariamente comico Matteo & Oscar alla Leopolda del 2013:

Renzi: «Farinetti ha detto che lui crede in me perché io sono matto […].»

Farinetti: «Sì è vero, ti considero matto. [Un] matto simpatico, [un] matto proattivo, […] il matto opportuno in un momento in cui serve un matto, per cambiare le robe e farle ritornare normali… Perché il grande tema sapete qual è? Essere matti per ritornare alla normalità. Sembra un paradosso ma la grande scommessa dei prossimi mesi, dei prossimi anni è questa».

Dunque non da oggi la definizione di «normalità» è un campo di battaglia. Dire che la «normalità» del capitalismo ci fa schifo è sacrosanto, ma considerare l’evento virale e le sue conseguenze sociali – mediate politicamente – l’«anormalità» che consentirebbe il balzo di tigre della critica radicale è un’intenzione nobile ma zeppa di idealismo. Anche perché prima, appunto, va riportato il concetto di «normalità» ai suoi contraddittori elementi costitutivi.

Paskedda Zau, protagonista dei moti iniziati il 26 aprile del 1868, reinterpretata in chiave manga nel 2019 a Nuoro.

I rivoltosi e le rivoltose che nella Sardegna del 1868, colpita dalle privatizzazioni delle terre, si battevano per tornare a su connottu, cioè «il conosciuto» e quindi il «normale», erano forse dei reazionari? Al contrario: la loro lotta esprimeva le ragioni dell’umano contro quelle del capitale e delle istituzioni coloniali italiane. C’è quindi una «normalità» da combattere e una da salvare, e il discrimine è nella scelta di campo (di classe) che si opera. Da sempre è così, ed così è anche oggi. Torno a citare un passaggio di Marco Bascetta che è già stato richiamato, per la sua nitidezza, su queste pagine:

«Qualcuno valuta con speranza l’impossibile ritorno alla “normalità”, poiché questa era contrassegnata da ingiustizie, diseguaglianze, sfruttamento. Ma […] “normalità” ha anche un altro irrinunciabile significato[…:] la natura sociale, relazionale, affettiva, corporea, sensibile, dell’animale umano. La sua propensione ad attraversare situazioni e ambienti sempre diversi e a sperimentarvi tutti i suoi cinque sensi. […] Che la dimensione telematica possa riassorbire e restituire tutto questo, o anche solo surrogarlo pro tempore è più che una cattiva utopia, una triste illusione.»

4. Pro tempore?

Se lo spettro, e l’ipotesi concreta, del lockdown attraverserà il nostro futuro, dobbiamo farci da subito una domanda essenziale: quali delle sue caratteristiche sono occasionali e quali permanenti? Il confine tra «normalità» ed «eccezione» si è spostato come detto, ma dove si trova adesso?

Attorno a questo tema un ampio schieramento di soggetti sembra desiderare, o semplicemente ritenere ineluttabile, che il veleno del «distanziamento sociale» debba essere assunto per sempre. Questo schieramento è composito, opera per approssimazioni successive, frasi buttate lì con nonchalanche e tecnica del patchwork, ma infine converge nell’affermare che «nulla sarà come prima», e ogni volta che lo dice produce uno slittamento dal pro tempore al definitivo. Alcuni esempi chiariranno, spero, ciò che voglio dire.

Il primo esempio si trova nelle vostre caselle mail, se siete lavoratori o lavoratrici. I messaggi che lo illustrano provengono da superiori, dirigenti, capetti e capette eccetera. Queste mail contengono l’annuncio della sperimentazione di qualche nuovo «servizio online» ai clienti, e la frase chiave è quella che suona più o meno così: «questo servizio ci consente di far fronte al meglio all’emergenza e di sperimentare modalità innovative di relazione con il cliente da sviluppare in futuro». Et voilà, non viene neppure nascosto. Se al capitale – e alle istituzioni pubbliche che operano in modo manageriale e privatistico – piacerà spingere sul pedale della smaterializzazione delle esistenze lavorative, potrà farlo più di prima senza timore di opposizioni, ché il veleno è stato inoculato mentre i lavoratori erano costretti in casa, grati del fatto di avere, nonostante tutto, uno stipendio.

5. «Dobbiamo abituarci»

Il secondo esempio è più sofisticato, e ha a che fare con la costruzione dell’ideologia di un’esistenza digitale. Se ne incarica, nel caso che presento, il filosofo Davide Assael nella puntata del 18 aprile di Uomini e Profeti (Radio 3), nel corso della quale ci informa che è tempo di

«superare un pregiudizio […]: che la relazione vis-à-vis sia una relazione più autentica in quanto ci mette a contatto con un corpo e un volto, come se il corpo nella relazione vis-à-vis fosse inteso come dato di natura, che si offre sic et sempliciter alla nostra esperienza. Ma non è affatto così! Niente di più ingenuo! Il corpo è sempre una costruzione culturale e lo capiamo benissimo, perché noi attribuiamo certi significati a una postura, a un’espressione del volto, a uno sguardo, ma è chiaro che questi significati sono dei costrutti sociali: la stessa espressione può avere un significato in un paese e un altro significato dall’altra una parte del mondo!»

Si tratta di una forma mentis assai promettente per questi tempi, che permette l’uso regressivo di concetti che hanno avuto una funzione liberatoria.

Il fatto che la partita sul corpo sia una partita culturale ha consentito infatti di affermare che le oppressioni del corpo e dell’orientamento sessuale basate sulla normatività bianca e patriarcale sono oppressioni culturali e quindi non naturali. Detto in altri termini: riconoscere il corpo come costrutto culturale permette di dire che l’umano non è rappresentato interamente dagli uomini su cui è modellato Max Headroom (maschi bianchi occidentali eterosessuali e ben vestiti), ma è un campo infinitamente più ampio, variegato e felicemente attraversabile.

Qui, invece, si usa lo stesso ragionamento ma per fare apologia della liquefazione dei corpi nella dimensione digitale. Dimensione che però non mette affatto al riparo dal riprodursi delle ben conosciute gerarchie di razza, genere, classe, orientamento sessuale…Una conoscenza anche solo superficiale dei processi reali con cui la digitalizzazione intrappola corpi e destini delle persone consente di capire come ciò avvenga: nell’accesso ai procedimenti burocratici online, nell’apprendimento, nella sovraesposizione di alcune categorie e nella invisibilizzazione di altre, nella qualità e nel prezzo dei percorsi e prodotti digitali disponibili, eccetera.

Ma soprattutto emerge, qui e là nell’intervista, l’uso reiterato dell’espressione «dobbiamo abituarci», ed è con questa espressione che viene operato il completo ribaltamento della tesi apparentemente sostenuta. Il corpo è costrutto culturale, dice Assael, e proprio in virtù di questo «dobbiamo abituarci» al fatto che sia digitalmente fungibile; ma è l’istanza del «dobbiamo abituarci» che, a sua volta, non viene presentata come costrutto culturale diventando così, implicitamente, un dato di natura. Ne deriva così che tutto è cultura tranne, guarda caso, quello che più precisamente determina ciò che siamo autorizzati a fare proprio del nostro corpo!

Voglio qui evitare ogni possibile fraintendimento: il problema di questo approccio – quello di Assael è solo un esempio tra mille, ovviamente – è che il suo raggio di azione non sembra essere quello della presente condizione di confinamento o delle fasi immediatamente successive, fino a conclusione della virulenza pandemica, alla produzione di un vaccino efficace, ecc. No: non si dice, infatti: «dobbiamo stringere i denti», «dobbiamo avere pazienza», «adda passa’ ‘a nuttata» – cosa che potrebbe essere ragionevole e condivisibile –, ma si utilizza invece il «dobbiamo abituarci» o il «nulla sarà come prima». Lo si fa con abbondanza e, nei casi dei datori di lavoro, con voluttà.

6. Procedere per sfoltimento di pubblico

Come dice con grande naturalezza, come dandolo per scontato, l’architetto cinefilo Giorgio Scianca, la fruizione delle sale cinematografiche cambierà per via di

«tutte queste nuove regole che ci dovranno essere nell’immediato ma che poi diventeranno anche, forse, un nuovo modo di vivere l’esperienza cinematografica».

Le sale cinematografiche a norma di distanziamento devono essere anche «belle», continua l’architetto, rivelando così di pensare che le norme di distanziamento fisico saranno durature almeno quanto una ristrutturazione o nuova costruzione edilizia. E quindi, di nuovo, il messaggio che passa, al di là delle intenzioni dei singoli parlanti, non è quello di sopportare ancora un po’, ma quello di avvezzarci al distanziamento eterno e ad accettarne le norme come ineluttabili, nonostante la devastazione sociale che porteranno.

Se i cinema, infatti, avranno la metà o un terzo dei posti, quanti di essi resteranno aperti, e quanto costerà il biglietto? La risposta è semplice: solo le multisala di catena sopravviveranno, e i biglietti dovranno coprire i mancati profitti delle poltroncine mancanti. Come nota Giovanni Semi in un’intervista a Zero:

«La soluzione classista che si fa strada per il settore culturale è emblematica: non potendo garantire assembramenti si procede per sfoltimento di pubblico; non potendo sbigliettare per mille persone, lo si fa per 100 facendo pagare quel biglietto molto di più, mentre altri gli si garantisce la diretta streaming a basso prezzo; l’aristocrazia che torna a prendere possesso dei teatri e della cultura e il popolo che se lo guarda in streaming nella smart city. […] Ci sarà, quindi, una selezione molto violenta.»

Certo, a fronte della devastazione di interi settori economici, e cioè dei soggetti più deboli che vi lavorano, se ne apriranno di nuovi. Ma, proprio perché saranno settori in gran parte parte digitalizzati, essi concentreranno la ricchezza con la voracità con cui un buco nero concentra la materia. Si pensi, per restare alla produzione culturale, alle piattaforme dell’intrattenimento.

7. Perché il capitalismo ci vorrebbe senza corpo, se guadagna anche sul nostro corpo?

Ipotizzo qui per comodità un’obiezione omnibus, così da rispondere da subito ad alcune questioni: «stai dicendo che il capitale ci vorrebbe confinare dietro a uno schermo, ma se Confindustria non fa altro che spingere per riaprire le attività economiche il prima possibile, manifestando anche un certo cinismo?»

Una prima risposta è quella già contenuta in quanto già detto: ci sono player che usciranno vincenti dal lockdown e dalle fasi successive (fase 2, fase 3… fase ∞).
Inoltre: Confindustria non è il capitalismo, e dopo l’uscita di Fiat/Fca non rappresenta neppure del tutto il capitalismo italiano, che nel frattempo non è neppure più italiano… Quindi insomma il potere di Confindustria, come si è visto in queste settimane, è piuttosto ridimensionato: è in grado di ottenere generose dazioni dal governo, ma forse non di orientarne fino in fondo le scelte.

Ma soprattutto: il capitalismo è un complesso di rapporti sociali, attraversati da tendenze generali ma anche da tensioni complementari e in competizione tra loro. Vi sarà quindi sempre un capitalismo che guadagna coi corpi: lo sfruttamento dei rider, per fare un esempio vistosissimo, non è mai cessato, e questi lavoratori oltre a dover pedalare sono stati pure colpevolizzati dai volontari della delazione e dai giornali di destra.

Si tenga poi presente che il rider è già ora un’interfaccia biologica tra ciò che avviene digitalmente sullo smartphone del vorace cliente, il terminale presso la cucina e il server della piattaforma che estrae gran parte del profitto dal complesso di queste operazioni. Il corpo del rider è quindi già un corpo attraversato dal digitale.

Infine: la necessità di avere lavoratori presenti al lavoro non è affatto in contraddizione con quella di confinarne altri al telelavoro domestico; anzi questo trattamento divide lungo nuove linee il mondo del lavoro, e si aggiunge alle divisioni già presenti (tra autoctoni e immigrati, dipendenti e finte partite Iva, stabilizzati e precari…). Si potrà usare così, more solito, questa nuova frattura come modalità per generalizzare riduzioni di salario.

Per esempio: chi sta a casa non consuma benzina o abbonamenti dei mezzi pubblici per andare al lavoro, e quindi in contratti di nuovo tipo si potrà immaginare un salario proporzionalmente ridotto; poi si lascia sedimentare un poco la situazione e di seguito si dirà a chi lavora in presenza: «ehi tu, il tuo stipendio è spudoratamente altorispetto a quello di chi sta a casa, cominciamo a tagliare su questa e quella indennità».

A quel punto l’informazione e la politica «scopriranno» che chi sta a casa deve pagarsi da solo riscaldamento e tirate dello sciacquone, si solleverà un po’ di polvere dicendo che è un’ingiustizia, ma dopo qualche giro di valzer le aziende cominceranno ad addebitare a chi sta in fabbrica una quota dei costi dell’acqua, del gas e della pulizia del cesso. E questo per «equità», naturalmente!

Fantapolitica? No, ho soltanto riprodotto su situazioni ipotetiche la dinamica che investe il mondo del lavoro da trent’anni a questa parte, fatta di equità-al-ribasso, situazioni lose-lose per i lavoratori e concorrenza calata dall’alto.

Beppe Sala paladino-della-salute, in nome del «distanziamento sociale», si batte oggi per l’ampliamento degli orari dei negozi, in perfetta continuità con Beppe Sala apologeta-del-consumo, che si batteva ieri… per la stessa identica cosa.

Nondimeno resto convinto che tra queste tensioni contraddittorie del capitalismo quella prevalente è quella che spinge verso il telelavoro, e non è difficile dimostrare perché. Qualcuno pensa forse che il lavoro agile sarà per sempre, come per molti è in questi giorni, il semplice stare a casa con il proprio stipendio intero ad aspettare per otto ore che compaia sullo schermo qualcosa che si possa fare online, trovandosi così spesso con un carico di lavoro ridotto? Qualcuno pensa dunque che lo smart, cioè il furbo, dello smart working sia il lavoratore? Se sì, sbaglia di grosso.

La smobilitazione del lavoro in presenza che si perseguirà nel post-epidemia – fase 2, fase 3, fase ∞… – prelude a una trasformazione epocale dei rapporti contrattuali, che passeranno in modo generalizzato da quelli basati sulle ore di presenza – che consentono una certa dose di autodifesa dei lavoratori nei confronti dei carichi eccessivi – a quelli basati sul risultato, ovviamente deciso e prezzato in modo unilaterale dal datore di lavoro. Lo smart working è per sua natura lavoro a progetto, e il lavoro a progetto è trionfo del capitale contro i lavoratori. Un’amica, da un paese dove il lockdown è meno duro ma la devastazione dei rapporti di lavoro più avanzata, mi ha scritto:

«A differenza che in Italia qui non c’è un clima poliziesco, tutti bene o male escono a fare passeggiate e per ora non ho sentito di nessuno che ha preso multe. Il problema è il lavoro, non ci sono più confini e ci fanno fare i turni per lavorare anche nel fine settimana. Senza avercelo chiesto: è stato imposto».

Inoltre, non è neppure il caso di spiegare perché e come, la frantumazione fisica dei luoghi di lavoro genera impossibilità dell’azione sindacale, oltre ad aprire mercati digitali infiniti per la socialità perché il luogo di lavoro è – nonostante tutto  – anche un luogo di socialità. Da ognuno di questi mercati digitali, nuovi o implementati (app di dating ma anche app per amicizie e app per prendere caffè virtuali alla macchinetta), il capitalismo digitale sempre più concentrato e quindi coordinato potrà estrarre dati per profilazione, eccetera.

8. Lo stato digitale

Lo stato, per parte sua, ha almeno due motivazioni decisive per spingere verso la smaterializzazione dei rapporti di lavoro e sociali. La prima è l’assoluta subalternità della classe dirigente alle istanze del capitalismo digitale. Nel mondo della scuola questo fenomeno è particolarmente vistoso. Come racconta qui la Rete Bessa:

«Vado sul sito del ministero dell’istruzione e […] clicco […:] sono elencate tre piattaforme. Google, Microsoft, Amazon. Tre enti privati tra i più potenti al mondo schiaffati in bella mostra.»

Su Jacobin Lorenzo Mari ricostruisce il dibattito statunitense sulla penetrazione della Silicon Valley nell’istruzione e sul suo orientarla alla creazione di «lavoratori competenti» piuttosto che a «soggetti conoscenti», che è poi obiettivo assai prossimo a quello perseguito dalla UE con la sua «didattica per competenze». E ancora: la PA continua a dotarsi di software proprietari, consolidando rapporti di «scambio» tra basso costo del servizio e la predazione dei dati degli utenti (che essendo utenti o lavoratori di PA non possono neppure sottrarsi). La scelta di Vittorio Colao, ex manager di Vodafone, a capo della task force che ha di fatto rimpiazzato il parlamento italiano, conferma la centralità della relazione tra stato e aziende di TLC e digitale.

Ma c’è una seconda macroscopica motivazione per cui lo stato spinge verso una società il più possibile smaterializzata. La digitalizzazione è controllo, e lo è fin dalle sue origini. Negli anni novanta, proprio mentre la rete internet sembrava promettere di dispiegare nella società un potenziale liberatorio, il dipartimento di polizia di New York, sindaco Rudy Giuliani, intrecciava la brutalità fisica della Tolleranza Zero all’introduzione massiccia del digitale. Nella war room del NYPD, settimana dopo settimana, Bill Bratton incontrava i commissari di distretto e li strigliava o lodava in base ai dati di Compstat, il software in cui veniva inserito e rielaborato ciò che era stato fatto ai corpi (arresti, perquisizioni, controlli…), rendendo così il razzismo e il classismo di quel modello di ordine pubblico assai più efficace. Fin dai primi anni della sua applicazione sistematica, dunque, il digitale è legato (anche) a una cattura del corpo. Da subito in senso proprio, poliziesco; e di seguito anche antropologico, come possiamo osservare nella costruzione di schemi comportamentali e persino di posture fisiche determinate dall’uso dei device.

Ogni mediazione tecnologica nei rapporti umani è quindi gradita allo stato almeno quanto è gradita alle aziende del digitale, e la probabile volontarietà della app Immuni è solo uno scampato pericolo momentaneo: la stessa idea ampiamente circolata che potesse diventare obbligatoria – con tanto di «braccialetto» elettronico ipotizzato per non possiede uno smart – fa sì che al prossimo giro un governo potrà effettivamente renderla tale; e di seguito lo slittamento lambirà ineluttabilmente il territorio dell’uso poliziesco dell’app sanitaria. D’altra parte: se si usa la polizia per combattere una pandemia, perché non usare una pandemia per combattere il crimine (compreso, sia chiaro, il dissenso politico criminalizzato)?

9. Di chi è la colpa? Tua!

«Il bug dell’app è concettuale, non tecnico», dice il collettivo Ippolita in un’intervista raccolta da Leonardo Filippi:

«perché si ritiene che la prevenzione sanitaria possa essere garantita da una applicazione su un telefono cellulare? La app sarà soprattutto l’ennesimo “diario” da riempire di informazioni, in questo caso riguardanti la “percezione” che si ha della propria salute. Siamo ancora nell’illusione che attraverso il racconto di sé, la tecnologia possa prendersi cura di noi […]. La prevenzione non si fa con gli algoritmi, ma con la diffusione di pratiche anti-infettive condivise in un network fisico di luoghi e persone.»

La «diffusione di pratiche anti-infettive condivise», ovvero una responsabilità che ci si assume nei confronti di sé e degli altri, modulata in base al contesto e fatta di prassi concrete, si trova agli antipodi del tipo di «responsabilità individuale» che viene costantemente evocata dall’inizio di questa crisi, fondata invece sul rispetto «responsabile» di norme spesso prive di ogni ratio, come  – ne parlano ancora una volta i Wu Ming nella postilla qui sotto – l’obbligo di mascherina all’aperto o il divieto di sport individuale).

Quello che emerge è un doppio legame schizofrenico per cui la persona non viene messa in grado di esercitare la propria responsabilità, ma allo stesso tempo viene costantemente richiamata alla «responsabilità» nell’ottemperare a regole pensate con scopi teatrali (vedi postilla). Questa enfasi sulla parte fittizia della responsabilità individuale (sulla parte insomma che prevede una responsabilità senza scelte) è particolarmente perniciosa.

Riavvolgiamo infatti un momento il nastro: se ce lo ricordiamo, il ricorso al lockdown è stato motivato con l’insufficienza dei posti in terapia intensiva. Abbiamo visto fin qui impegni precisi, vergati a penna e sottoscritti su un modulo di autocertificazione irrevocabile firmato Conte & C., a proposito di un adeguamento strutturale (non propagandistico o emergenziale) di quel numero di posti in terapia intensiva e del personale sanitario addetto? No, però abbiamo avuto appelli alla nostra responsabilità e tante evocazioni di possibili ulteriori lockdown, al punto che il sospetto viene: non è che il lockdown, il «nulla sarà come prima» e la responsabilizzazione individuale dei governati possano fungere ancora una volta come deresponsabilizzazione dei governanti?

Così funziona infatti da decenni: se i trasporti pubblici sono inadeguati, si dice, non è colpa della classe politica che li ha sottofinanziati ma di «quelli che viaggiano senza biglietto»; se i braccianti sono sfruttati a cottimo non è colpa dei giganti della filiera ma di chi compra, a causa del suo reddito modesto, il barattolo di pelati più economico; se i cestini straripano di rifiuti non è colpa delle aziende privatizzate che ne pospongono lo svuotamento ma di chi non è stato abbastanza virtuoso da tenersi in tasca il cestino appiccicoso del gelato.

In altre parole: qual è la priorità, quella di adeguare la sanità al – peraltro già noto da tempo – rischio di pandemia o quella di abituarci a reiterati lockdown gettando al contempo la croce sui comportamenti individuali?

10. Residuo organico

Scrive Elisa Melonari su Jacobin:

«Arrivati a questo punto ci si chiede “quanto durerà ancora?”, “fino a quando dovremo evitare il contatto?”, “per quanto ancora si dovrà rimanere isolati e lasciarci consolare da saluti, abbracci e baci virtuali?”, “per quanto ancora potremmo riuscire a non incontrarci, riunirci, cooperare e parlare vis a vis?” e “se non ci ammaleremo, come usciremo da questa vicenda?”. La risposta temporale continua a non essere del tutto sicura.»

Probabilmente la paura, l’isolamento e il confinamento di queste settimane ci lasceranno in eredità problemi accresciuti di alcolismo (qui alcuni dati britannici) e tabagismo (non ho trovato dati, ma visto che «comprare le sigarette» è uno dei pochi validi motivi per uscire…). Si producono inoltre effetti paradossali: da un lato il posticipo di un gran numero di prestazioni mediche per altre patologie (che ovviamente avrà conseguenze), dall’altro la preoccupazione di molti nel recarsi nei luoghi di cura. Questa seconda tendenza ha raggiunto dimensioni misurabili, che si esprimono nel corposo e «misterioso» calo degli infarti registrato da più parti, costituito in realtà da infarti i cui sintomi vengono «volutamente ignorati» per evitare di andare in ospedale, «rischiando così di aggravare la propria situazione».

Per interrompere una spirale di solitudine e malessere, una spirale da cui peraltro il vero punto della pandemia – ovvero l’inadeguatezza del nostro sistema sanitario a farvi fronte – viene trascurato, abbiamo bisogno di tracciare un percorso che punti con certezza all’«incontrarci, riunirci, cooperare e parlare» di persona, con la prossimità dei corpi, anche se non è ancora possibile segnare una data sul calendario. Non possiamo e non dobbiamo stare ad ascoltare passivamente quelli che vorrebbero far penetrare irreversibilmente nel quotidiano la digitalizzazione spinta, le videoriunioni in cui si cerca conferma della propria esistenza controllando compulsivamente la propria immagine sullo schermo, il «distanziamento sociale» reso eterno e le sue disastrose conseguenze sociali.

Corpi. Manifestazione per XM24, Bologna 29 giugno 2019. Foto di Gianluca Rizzello tratta da Zic – Zero in condotta.

Noi siamo corpi, e benché il nostro rapporto con il corpo sia un costrutto culturale stratificatosi lungo i secoli uno dei due poli di quel rapporto rimane, irriducibilmente, ancorato a un corpo. Come peraltro ci ricorda il ritorno del rimosso della nostra cultura: la morte, «sora nostra morte corporale». Ben lontani dalle sirene dell’immortalità, che cantano un corpo proiettato oltre la sua finitezza, tenendoci alla larga anche dal patetismo inane dei flash mob dai balconi, che immaginano un corpo sociale privo della sua dimensione… corporale, dobbiamo costruire un riscatto per quel residuo organico che ci costituisce. Che certamente non ci identifica del tutto, ma senza il quale non siamo, e senza il quale non possiamo immaginare né costruire, come individui e come collettività, una vita piena.

* Wolf Bukowski scrive su Giap, Jacobin Italia e Internazionale. È autore per Alegre di La danza delle mozzarelle: Slow Food, Eataly Coop e la loro narrazione (2015), La santa crociata del porco (2017) e La buona educazione degli oppressi: piccola storia del decoro (2019). Durante quest’emergenza coronavirus ha già scritto per Giap l’articolo in due puntate La viralità del decoro. Controllo e autocontrollo sociale ai tempi del Covid-19.

L’Eternauta, di Héctor Oesterheld e Francisco Solano López.

Postilla – di Wu Ming

«Abbiamo detto no all’attività motoria in generale non perché rappresenti il primo fattore di contagio ma perché volevamo dare il senso che il regime di restrizioni […] doveva essere molto severo e stringente.»

Davide Baruffi.

Così Davide Baruffi, sottosegretario alla presidenza della regione Emilia-Romagna, in una dichiarazione del 22/04/2020. A riprova di quanto cerchiamo di dire da due mesi: molti provvedimenti erano «teatro politico» e poco più.

Baruffi lo ammette candidamente: vietare corse e passeggiate non aveva motivazioni razionali legate al contagio, ma finalità di disciplinamento, a prescindere dalla pericolosità o innocuità dell’attività vietata.

Il 27 aprile, mentre genitori, esponenti della chiesa cattolica, insigni giuristi non certo “sovversivi” e in generale cittadine e cittadini criticavano l’impostazione autoritaria e «Fabbrica, patria, famiglia» dell’ultimo Dpcm (il primo della sedicente «fase 2»), il presidente della regione Emilia-Romagna Stefano Bonaccini criticava il decreto per altre ragioni, una delle quali ci è parsa rivelatrice: Bonaccini vorrebbe l’obbligo di mascherina anche all’aria aperta e si è detto deluso perché Conte non l’ha introdotto.

Repetita iuvant: la mascherina è necessaria se si è a contatto con contagiati o in situazioni di assembramento, ed è consigliata in negozi e altri spazi chiusi dove ci si ritrovi tra estranei. All’aria aperta, invece, se si mantengono le distanze, nella grande maggioranza delle circostanze non serve a nulla. Portarla mentre si cammina all’aperto lontani da chiunque non ha senso. Indossarla mentre si fa attività fisica è addirittura pericoloso.

Il numero di persone che usano la mascherina all’aria aperta è rapidamente aumentato dopo un bombardamento di articoli e servizi tv in cui si descriveva il virus come una minaccia genericamente «là fuori», si demonizzava l’aria aperta e si criminalizzava chi usciva di casa «senza motivo». Negli ultimi giorni, almeno a Bologna, il numero sembrava di nuovo calato, ed ecco che Bonaccini se ne esce con quelle frasi.

L’edizione Urania di The Purple Cloud, ultravisionario romanzo di Matthew P. Shiel (1865-1947).

Nonostante i media abbiano fatto di tutto per inculcare questa credenza, il virus non è genericamente «là fuori nell’aria». Non è la neve del fumetto L’Eternauta e nemmeno la nuvola velenosa del romanzo La nube purpurea. Se il virus fosse genericamente «nell’aria», non si dovrebbe nemmeno stare alla finestra e men che meno al balcone – dove invece ci esortavano a stare per flash mob, cantate collettive e sventolar di bandiere – e dovremmo tenere gli infissi sbarrati 24 ore su 24. Per non morire, dovremmo smettere di vivere.

«Ma», obietterà qualcuno, «io ho letto che il virus viaggia sulle polveri sottili. Quindi, sì, è nell’aria!»

Non è proprio così. Su alcuni campioni di PM10 raccolti a Bergamo si sarebbe «ragionevolmente dimostrata» la presenza non del virus attivo, ma di tracce del suo RNA. Residui privi di carica infettante, trovati in almeno 12 dei 34 campioni, in 8 delle 22 giornate prese in esame.

Questi risultati, che sono parzialissimi e devono passare al vaglio della comunità scientifica, sono ben lungi dal provare che il particolato sia vettore di contagio. Lo dice anche il team della Società di Medicina Ambientale che ha condotto le ricerche.

Una delle finalità dichiarate è usare la presenza di RNA virale nel particolato come «indicatore per rilevare precocemente la ricomparsa del Coronavirus e adottare adeguate misure preventive prima dell’inizio di una nuova epidemia», nonché «per verificar[e] la diffusione [del virus] negli ambienti indoor come ospedali, uffici e locali aperti al pubblico». Con motivazioni simili si stanno analizzando le acque reflue.

Il preprint da cui è nata la notizia si chiude così:

«Al momento, non si possono trarre conclusioni sul rapporto tra presenza del virus nel PM e andamento dell’epidemia di Covid-19. Altre questioni da affrontare in modo specifico sono le concentrazioni di PM eventualmente richieste per un potenziale “effetto boost” sul contagio nelle aree dove l’impatto del covid-19 è più pesante, o anche la possibilità teorica di un’immunizzazione conseguente all’esposizione in dosi minime a basse quantità di PM».

Sui media tutte queste specificazioni e cautele passano in secondo piano o scompaiono, oscurate da titoli come: «È ufficiale, il coronavirus viaggia nel particolato atmosferico!». Il lettore medio non può che pensare al virus attivo, e ricavarne l’impressione che per contagiarsi basti tout court respirare, che stare all’aperto sia pericoloso.

Pericoloso può esserlo senz’altro, nei centri urbani, ma più che per il virus, per il particolato stesso. Molti che oggi sono terrorizzati dal virus non si sono mai preoccupati granché delle polveri sottili, eppure queste ultime causano tumori, malattie respiratorie, disturbi neurologici, e solo in Italia uccidono circa 60.000 persone all’anno.

L’idea che il virus attivo possa viaggiare nell’aria è stata definita «implausibile» in un documento della Rete Italiana Ambiente e Salute firmato da diversi epidemiologi:

«Pur riconoscendo al PM la capacità di veicolare particelle biologiche (batteri, spore, pollini, virus, funghi, alghe, frammenti vegetali), appare implausibile che i Coronavirus possano mantenere intatte le loro caratteristiche morfologiche e le loro proprietà infettive anche dopo una permanenza più o meno prolungata nell’ambiente outdoor. Temperatura, essiccamento e UV danneggiano infatti l’involucro del virus e quindi la sua capacità di infettare.»

Di questo virus non sappiamo ancora tutto. Ma di quel che già sappiamo, nulla può fare da pezza d’appoggio per l’obbligo generalizzato di mascherina.

Ancora una volta si invocano o introducono obblighi e divieti non per ragioni epidemiologiche, non basandosi su evidenze scientifiche, ma per questioni di spettacolo sociale e controllo dei comportamenti delle persone. Bisogna far vedere che si soffre; bisogna ostentare la “penitenza” che gli italiani starebbero scontando; dovremmo «dare il senso di» un distanziamento che è qui per rimanere, «abituarci» all’idea di non avere più contatti ravvicinati.

Come fa notare Wolf nell’articolo qui sopra, un conto è parlare del distanziamento come di una necessità temporanea che tocca sopportare in attesa che la pandemia finisca; tutt’altra faccenda è dare per scontato che il distanziamento – con tanto di mascherina – sarà la condizione permanente del nostro vivere.

Certi improbabili “futurologi” descrivono, con inconfondibili brividi di piacere, una società che a noi, detta come va detta, fa schifo. Non ci rassegneremo ad alcun discorso, obbligo o divieto che ne favorisca l’accettazione.

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94 commenti su “Max Headroom-19. Il sogno del «distanziamento sociale» permanente nella propaganda post-coronavirus

  1. La narrazione del “non sarà mai più come prima” è una delle modalità con cui, strumentalizzando l’emergenza, si cerca di mutare le coordinate delle interazioni sociali (atomismo sociale, consumo delivery, messa al bando della comunità) e del modello di lavoro (lo smart-working, che non è altro molte volte che un ritorno al cottimo oltre che uno strumento molto efficace di controllo sul lavoratore). Facendo un piccolo esempio e venendo alle nostre latitudini di comprensione, la stessa Unibo e penso anche altri atenei, sta sfruttando questa emergenza per imporre a studenti e corpo docenti una conversione all’università telematica (un abominio se consideriamo lo spirito di comunità che dovrebbe animare il mondo universitario) partorendo veri e propri paradossi, come l’ipotesi di Erasmus online (che penso e spero non verrà preso in considerazione). Inutile dire come la modalità telematica dell’insegnamento e dell’istruzione a tutti i livelli, dalla primaria allo studio specialistico, siano un peggioramento della situazione (e dal punto di vista pedagogico un non-sense): in ambito accademico mi viene detto che i pochi che si oppongono (professori perlopiù “anziani” e poco restii a tale cambiamento digitale) vengono silenziati (penso alla voce dell’inascoltato Benozzo o a qualche altro caso di cui vera e propria censura di cui sono a diretta conoscenza) o rottamati con una prospettiva di pensionamento, per far posto alla nuova classe di professori “filo-digitali”.

  2. A proposito di fantascienza e di totalitarismo sanitario/medicale/salutista, mi è tornato alla mente un romanzo del 1978: Caduceus Wild di W. Moore.

    Copio/incollo da qui: https://www.fantasticfiction.com/m/ward-moore/caduceus-wild.htm

    “Medarchy. It finally happened. The medical establishment has taken over the civilized world. Orwell’s Big Brother is a doctor, and there is a prescription for everyone. . . usually thanatization or “modification.” The all-powerful high court of Medics will decide. The primitive operations and drugs of an earlier culture have been replaced by more sophisticated methods and controls. The population at large, described as Patients, willingly observe the codes of behavior set by the ruling Medics. It is a strange and cold world, still evolving from the devastation of ancient bacteria aerosols. All that is visible, from architecture to transportation, has been newly created by the Medical technologists. The minds and bodies of the citizens are on “hold.” Nothing must encroach on the Public Health. Every facet of life has been measured and made safe. But there are a few escapees, dissidents, deviants. The “Abnormals.” This is the story of three of them. . .”

  3. Proprio oggi, intorno ai temi affrontati da Wolf in questo pezzo e dalla Rete Bessa nel post sulla DAD, esce per Nottetempo, gratis, un e-book di Federico Bertoni, professore del dipartimento di Filologia Classica e Italianistica dell’Università di Bologna.
    «Insegnare (e vivere) ai tempi del virus».
    Riporto qui un breve passaggio, sull’articolazione tra insegnamento in presenza vs a distanza, che rima perefttamente con quanto scritto qui sopra:
    «Nell’università neoliberale gli studenti non sono cittadini che reclamano il diritto al sapere ma clienti da soddisfare, consumatori di beni e servizi, acquirenti di un prodotto che dovranno vendere a loro volta nel mercato globale. E qui la parola magica è blended. […]
    Blended non designa un tipo di whisky ma un regime misto tra didattica in presenza e didattica a distanza che promette di essere il business del futuro. […]
    Fase 1, l’emergenza: Le università attivano a tempo di record la didattica a distanza, la cui unica alternativa sarebbe il blocco completo;
    Fase 2, la crisi: Dal prossimo anno accademico, virus permettendo, molti atenei adottano una modalità blended per compensare l’inevitabile calo delle immatricolazioni, soprattutto dei fuori sede:
    Fase 3, il business: Il sistema va a regime e si trasforma nel business perfetto: docenti “riproducibili” a piacere; investitori e provider di servizi informatici che si fregano le mani; studenti che pagano le tasse ma che non gravano fisicamente su aule, strutture e costi di gestione.
    Poi un bel giorno arriverà la fase 4, quella in cui raccoglieremo i cocci. Se uno degli obiettivi dichiarati dell’università dell’eccellenza è dare voti, stilare classifiche, distinguere atenei di serie A e di serie B (e dunque studenti di serie A e di serie B), la modalità blended realizzerà un’automatica selezione di classe: da un lato lezioni in presenza riservate a studenti privilegiati (cioè non lavoratori, di buona famiglia, capaci di sostenere un affitto fuori sede), e dall’altro corsi online destinati a studenti confinati dietro uno schermo e nei più remoti angoli d’Italia .

  4. Annedoto significativo: ieri, durante un’assemblea sindacale in videocall con un centinaio di soci-lavoratori di una cooperativa, il socio-dirigente si è bellamente infiltrato per ascoltare tutto ciò che i singoli lavoratori e i sindacalisti dicevano. Non ci vuole niente: basta aggiungere un indirizzo non riconoscibile alla lunga lista che riceve l’invito in chiamata, ed entrare a videocamera spenta. Per avere occhi e orecchie in mezzo ai lavoratori, il padronato non ha più bisogno di infiltrati e ruffiani visibili e individuabili in carne e ossa; può direttamente usare i propri occhi e orecchie.

  5. Finalmente su questo blog leggo post dove trovo espresse in maniera analitica e con riferimenti bibliografici preziosi, diverse questioni che mi frullano nella testa ma che trovo difficili da mettere nero su bianco. Oltre a questa frustrazione, “frequentando” twitter percepisco un’insofferenza sempre più diffusa nei confronti di chi solleva dubbi e perplessità sulle misure adottate dal governo, anche da persone insospettabili, ossia o cosiddetti compagni o comunque persone con cui pensavo di condividere le mie convinzioni politiche. So che su Giap si è discusso anche di questo. Venendo al bel post di Wolf, convengo su tutto ciò che ha scritto. Temo anche io che diversi attori, in particolare quelli del “capitalismo della sorveglianza” https://www.rsi.ch/play/radio/attualita-culturale/audio/il-surplus-comportamentale-come-base-speculativa-del-nuovo-capitalismo?id=11271843 e https://www.wumingfoundation.com/giap/tag/capitalismo-della-sorveglianza/ )
    sono già in azione per capitalizzare questa pandemia e pare stiano ci stiano riuscendo. Basta vedere l’adesione acritica di politici, medici e altri tecnici all’uso, più o meno coercitivo di una app che dovrebbe essere determinante (?) nell’applicazione della cosiddetta fase 2. Altro punto dolente è che come scrive Wolf, lo smartworking è alla fine un lavoro a cottimo, dove tra l’altro, il confine tra tempo-lavoro e tempo libero è labilissimo. Anche io temo che i datori di lavoro, magari con la complicità di alcune parti sociali, possano introdurre questa forma di lavoro anche nei ccnl di docenti, educatori etc. con buona pace dell’epistemologia, delle enormi problematiche docimologiche, pedagogiche, epistemologiche. L’occasione è ghiotta e non se la faranno sfuggire. Detto questo, in che modo, noi, possiamo opporci a questo andazzo, ovviamente privilegiando forme di lotta collettive?

    • Dipende. Se si pensa al “come” lottare “senza” soffrire non c’è niente da fare. La situazione è gravissima. Il rifiuto collettivo della reclusione e del distanziamento dev’essere più rapido e condiviso possibile, e avvenire a qualsiasi costo, senza eroi autoimmolati sull’altare delle «multe», ma pur sempre con una prima linea disposta a sacrificarsi, anche esponendosi al vituperio del popolo atterrito dagli spettri evocati dal potere. Questo è possibile solo dove l’aggregazione è descritta come più pericolosa, cioè nei grandi agglomerati urbani, se si parte dalla provincia per accentrarsi si viene fermati alla prima curva e torniamo agli eroi suicidi. Non esiste rimedio indolore all’oppressione. Sotto il fascismo sono esistite anche molte resistenze individuali, costavano il carcere, il confino e la fame, e per liberarci sono occorsi vent’anni.

      • Sono d’accordo con quanto scrivi. Ma mi associo alla domanda fatta da SkelligMicheal: come, concretamente, possiamo lottare? Come coordinarci, studiare forme di lotta, di resistenza passiva? Vorrei poter fare la mia parte e magari portare ad unirsi qualche altra persona che so condividere le medesime preoccupazioni.

        Ma come, appunto?

        Allargando il discorso, mi sembra molto centrato ed ottimamente scritto l’articolo di Wolf Bukowski, che sto inviando a tutti i miei contatti. Sto cercando di far aprire gli occhi a quante più persone possibile. Ma un’azione coordinata sarebbe sicuramente più efficace di iniziative sporadiche, anche se animate delle migliori intenzioni.

        Grazie in anticipo a chi saprà dare suggerimenti e contatti.

  6. A margine, la regione FVG dal 27 aprile ha ammesso le attività motorie all’aperto nel proprio territorio comunale “indossando la mascherina o comunque una protezione o copertura di naso e bocca, mantenendo comunque la distanza interpersonale…”. In Toscana addirittura la Regione sta distribuendo gratuitamente mascherine a tutti i residenti attraverso le farmacie ed i supermercati (creando così file di cittadini in cerca di mascherine come fossero un lasciapassare). Quindi, tutti sanno che le mascherine sono inutili, ma se le regioni parlano soltanto di questo, se le rendono obbligatorie o se addirittura le distribuiscono gratuitamente come fossero medicinali salvavita, diventano automaticamente utili ed indispensabili. E poi parlare di mascherine ci consente di avere quotidianamente un’occupazione ed un argomento sociale rispetto ad altri. Per dire: il cittadino fa la fila, la Regione ed i comuni organizzano la distribuzione con i volontari, creando movimento, dimostrandosi indaffarati in qualcosa. Nulla di utile a tracciare i contagi o affrontare i problemi del sistema sanitario, ma almeno – si dicono i presidenti e i sindaci – non stiamo con le mani in mano.

    • Per riallacciarmi a quanto dici, in Toscana con Ordinanza del 6 aprile (http://www301.regione.toscana.it/bancadati/atti/Contenuto.xml?id=5249205&nomeFile=Ordinanza_del_Presidente_n.26_del_06-04-2020) è stato introdotto l’obbligo di indossare la mascherina monouso anche “in spazi aperti, pubblici o aperti al pubblico, quando, in presenza di più persone, è obbligatorio il mantenimento della distanza sociale”.
      Spesso, nei singoli comuni, questa ordinanza (già “fallace” come ampiamente discusso qua su Giap nelle ultime settimane), diviene ancor più pericolosa, trasformandosi nel generico mantra ripetuto da* sindac* “indossate la mascherina ogni volta che uscite di casa”.
      Oltretutto, queste mascherine stanno costando alla Regione Toscana qualcosa come 11 milioni di euro (Ordinanze n.32 e n.42), per ora.

      Ma un notevole “passo avanti” la Toscana lo fa nelle disposizioni per l’utilizzo della mascherina nei luoghi di lavoro. Cito dall’Ordinanza n.38 (http://www301.regione.toscana.it/bancadati/atti/Contenuto.xml?id=5250087&nomeFile=Ordinanza_del_Presidente_n.38_del_18-04-2020): “Quando, anche mediante la riorganizzazione dei processi produttivi, non fosse possibile il mantenimento della distanza di 1,8 metri è necessario introdurre elementi di separazione fra le persone o l’utilizzo di altri dispositivi come mascherine FFP2 senza valvola per gli operatori che lavorano nello stesso ambiente. Qualora le mascherine FFP2 non fossero reperibili *è sufficiente utilizzare contemporaneamente due mascherine chirurgiche*”. Sicuramente è sfuggito qualcosa a me sulle discussioni tecnico-scientifiche delle ultime settimane, ma: la “doppia mascherina” da dove salta fuori? Che fondamento ha dal punto di vista sanitario? (Credo di conoscere la risposta…)

      L'”emergenzialesimo” si sta sempre più imponendo come nuova religione, con la mascherina come simbolo di fede e di salvezza.

  7. Articolo davvero ben fatto, per quanto possa dirne io.
    Questa vicenda è la prova della scaltrezza, flessibilità, spirito di adattamento e intraprendenza del capitalismo. Esso sta cogliendo al volo un’occasione insperata, è stato rapido nel convertirsi, è stato fulmineo nel costruire una narrazione funzionale allo scopo, ha visto subito l’opportunità di crescere laddove noi (noi produttori-consumatori-crepatori) vedevamo solo un pericolo. Uno spettacolo di efficienza, bisogna ammetterlo.
    Mi permetto qualche considerazione sui singoli punti.
    Punto 5. Bukowski sembra ammirare, pur criticandola aspramente, la sottigliezza del ragionamento di Assael. Ma chi ha provato, in questi due mesi, ad avere a che fare con un ufficio fisicamente chiuso e sostituito da un numero di telefono, probabilmente avrà sperimentato cosa ci riserverebbe un futuro di “corpi smaterializzati”. Un muro di gomma; quello della voce preregistrata che ti fa attendere minuti interminabili, quello del funzionario che provvederà, quello dell’impiegato che comunicherò alla direzione centrale, quello che dell’amministrativo che il problema non è nostro, quello dell’altro impiegato che il mio collega non mi ha comunicato nulla, quello dell’operatore che mi dispiace ma deve reinoltrare la pratica telematica, e si potrebbe continuare. Il tutto senza avere nessun volto davanti con cui interagire davvero (checché ne dica Assael), e quel volto è trincerato dietro un anonimato che lo rende arido, gli consente di non assumersi troppe responsabilità, di rimandare sine die, tanto alla prossima telefonata ci sarà qualcun altro a rispondere (e in ogni caso una voce è meno riconoscibile, meno memorizzabile di un volto). La maggior parte dei lavoratori continua a fare il proprio dovere, molti sopperiscono con la dedizione alla mancanza di strutture adatte alla circostanza e molti sono (saranno) costretti ad accettare condizioni penalizzanti, giustificate esattamente con le tecniche descritte da Bukowski, ma il muro rimane, ed è ogni giorno un po’ più alto. La causa? Oggi Covid, domani semplicemente progresso. Covid non è una prova generale, è un’accelerazione.

  8. Che altro aggiungere, non c’è un solo, punto, virgola o carattere che non si possa non condividere della riflessione di WB e di WM. Il vaccino o antidoto che dir si voglia esiste già ed é nelle menti da cui scaturiscono considerazioni come quelle di cui sopra. L’odioso avvertimento che “nulla sarà più come prima” suona come una campana a morto, ma il defunto non è quello che auspicabilmente potrebbe e dovrebbe essere. Non si predice il superamento di un sistema sanitario basato sulla lottizzazione, di una esistenza stritolata da orari di lavoro massacranti, di uno sfruttamento selvaggio del territorio con conseguente depauperamento delle risorse naturali ed aumento del divario sociale ed economico. Si predice uno scenario sociale atomizzato come UNICA risposta a questa ed alle future “ emergenze”. Pensiamo al mondo del lavoro: un sogno che si avvera poter distanziare i lavoratori ( eccetto che in catena di montaggio dove non vi è sicuramente tempo e modo per confrontarsi), niente più mense, niente più aree ove consumare una breve pausa e scambiare due chiacchiere, nessuna assemblea “fisica“. Azzerati gli spazi che si presterebbero al nascere di qualche virgulto polemico o azione comune contro il padrone. Ai professori, esperti, membri del supermegagalattico comitato tecnico scientifico dietro cui si nasconde il Governo consiglierei di abbandonare i toni profetici e se un contributo vuole dare, che sia nel loro limitato ambito di conoscenza e competenza.

  9. Scusate, ma avevo superato il numero di battute.

    Punto 6. Aggiungo che quello che sottolinea Semi avverrà non solo nel settore culturale, ma in tutti: parrucchieri, palestre, trasporti, elettronica, ristorazione, hotellerie, tutti dovranno procedere per “sfoltimento di pubblico” e tutti dovranno recuperare in qualche modo. Legge di mercato. Semplicemente i divari si allargheranno, o meglio, continueranno ad allargarsi, solo con maggiore velocità rispetto a prima.

    Punto 7. Illuminante. Aggiungo che ormai da qualche anno si prepara il terreno allo smart working elogiandone i presunti vantaggi. La pandemia non è altro che un pretesto per accelerare quel processo (perdonate la fissa). Anche qui si manifesta quella capacità di sfruttare ogni occasione, tipica del capitale; e per tutti vale l’esempio terrificante dell’università riportato da Mars9000

    Punto 9. Il discorso non fa una grinza, ma forse non tiene conto proprio delle persone: sono anni che smaniamo per raccontare noi stessi al mondo. Cosa sono i social se non questo? Il punto è che la app che ci chiede di tenere un diario sulle nostre percezioni, una app che ci chiede continuamente “come stiamo”, in definitiva una app che ci da l’illusione che ci sia qualcuno davvero interessato a noi potrebbe pure piacerci…

    • Sul punto 9 e sull’«app che ci da l’illusione che ci sia qualcuno davvero interessato» e che quindi «potrebbe pure piacerci», gli elementi sono due.

      Il primo è legato al mezzo tecnologico: gamification, notifiche pervasive e/o gesti che spingono a cercare la notifica. Ne parla ampiamente Ippolita in diversi testi, e qui su Giap, nella riflessione fatta da WM in occasione dell’uscita da twitter, ci sono passaggi illuminanti. Sul «piacerci» vedi in particolare questo paragrafo e quelli successivi: https://www.wumingfoundation.com/giap/2019/12/lamore-e-fortissimo-il-corpo-no-1-twitter-addio/#2d

      Qui la storia esemplare del pull-to-refresh, che dimostra come quel «piacerci» sia in realtà costruito fino nei dettagli: https://www.wumingfoundation.com/giap/2019/12/lamore-e-fortissimo-il-corpo-no-2-dieci-anni-di-twitter/#5a

      Il secondo elemento, come visto sopra già incorporato nello strumento smart, è l’onda lunga dell’uso neoliberale, consolatorio e fuoriviante del c.d. «storytelling». Raccontami la tua storia di successo, ma anche raccontami «la tua ferita», il tuo disagio. Ti ascoltiamo. Poi non cambia un cazzo, però «ti ascoltiamo». Questo approccio è pervasivo, e te lo trovi tanto in azienda, quando ovviamente sui social, ma persino nella vita associata e «politica». La finta «partecipazione» con cui gli enti decisori cercano di coinvolgere i cittadini nelle loro decisioni (giù prese altrove), non è che una forma sofisticata di induzione allo storytelling. «Raccontami cosa non va in questo progetto bellissimo, ma fallo come ti dico io, trasformalo in qualcosa una storia che non stoni troppo alle mie orecchie». Ovvero, nel caso di «partecipazione» per far digerire le grandi opere, «trasformalo in una domanda agli esperti». Ne abbiamo parlato qui: https://www.internazionale.it/reportage/wolf-bukowski/2016/12/10/passante-bologna-facilitatori

      • L’uso dello storytelling declinato nella forma “dicci cosa ne pensi tu”, penso sia una strategia mutuata dalla figura del “consumatore portatore di conoscenze” tanto decantato dagli esperti di marketing.Come tu hai rilevato, è un dispositivo che è stato traslato in altri ambiti, quello politico incluso. Penso al coinvolgimento della popolazione nell’elaborazione dei piani urbanistici, previsto dalla normativa vigente, dove i cittadini sono invitati a fare osservazioni, a “dire la loro”, sul PUC già bello che confezionato dai professionisti incaricati dall’amministrazione e spesso rispondente ad interessi non sempre in linea con l’utilità collettiva. Insomma, si dà l’impressione al cittadino di avere un’influenza sul decisore politico, maggiore di quella che ha realmente. Direi spesso funziona.

  10. L’ultimo poi smetto…
    Un altro effetto permanente del lockdown sarà probabilmente sulla scuola. Potremo dimenticarci il tempo pieno, le assemblee, le gite d’istruzione, i laboratori. Così come per la sanità, anche per la scuola non si propone nessun adeguamento strutturale. Ci sono 4 mesi di tempo per migliorare l’edilizia scolastica, anche semplicemente per la costruzione di migliaia di moduli prefabbricati, soprattutto per asili e primarie, che non prevedono strutture troppo complesse, eppure non si fa nulla. E quand’anche si costruissero a tempo di record nuove aule per poter formare classi di 5-6 alunni adeguatamente distanziati, ci accorgeremmo che non ci sarebbero i docenti, né il personale ATA. E quando a settembre ci verranno proposte soluzioni cervellotiche come turni, orari ridotti e, in definitiva, il perpetuarsi della DAD, la “colpa” sarà di Covid, e in nome della salvezza da questo mostro alieno accetteremo ancora passivamente (nonostante l’invito rivolto sul thread di Sabbiuno).
    Il nocciolo della questione è che il lockdown, nonostante tutto, è meno oneroso dell’adeguamento strutturale di una intera nazione, di un intero sistema.

    • Rispondo qui perché questo commento in particolare mi sento di condividerlo in pieno e riflette le mie preoccupazioni più “immediate”, ma condivido assolutamente l’articolo e le tante riflessioni fatte sopra e sotto.

      Sono d’accordo sul fatto che sia la tecnologia ad aver “consentito” il lockdown e non viceversa.
      Come già detto altrove, è la fine della rana bollita a fuoco lento, che si crogiola nel tepore prima di finire cotta.
      A tal proposito, c’è un articolo oggi sulla Stampa (ma ce ne saranno di simili anche altrove) titolato “Domande e risposte: dai like al contapassi, quali informazioni abbiamo già ceduto”. E’ a pagamento e non l’ho letto, quindi posso solo immaginare il contenuto che magari va in tutt’altra direzione, ma personalmente l’effetto e il senso che ricevo io dal titolo è all’incirca:
      hai già dato un sacco di informazioni per cose che ti interessavano per lo svago e lo sport, adesso fai storie per una app che tutela la salute di tutti?

      E quindi, ecco un altro passo nell’acqua tiepida, un altro mezzo grado di temperatura, chessarà mai dare ste informazioni per il bene di tutti?

      In un altro commento, forse al post del 25 aprile, qualcuno citava la formula No Trax messa lì da Burioni.

      Ecco, a me la possibilità che qualcuno dall’alto, per i suoi interessi di parte e per il “non disturbare il manovratore”, si atteggi a bullo della scuola e bolli TE che dissenti come “sfigato” e le tue argomentazioni come “capricci” senza nemmeno starti a sentire e con il plauso di tutti gli altri tuoi pari che senza mai discutere ciò che viene dall’alto si adeguano al discorso dominante preoccupa moltissimo.

      E’ per questo che, come tendo a ripetere, mi è più facile simpatizzare (o pensare di cercare aiuto) con un complottista (magari stralunato, se va bene) che non con il “compagno di classe perfettino” che senza entrare nel merito si adegua subito alla narrazione dominante venuta dall’alto.

      (qua ci starebbe un’altra citazione da Harry Potter e l’Ordine della Fenice ma evito e mi accontento delle fantastiche metafore che ho già prodotto)

  11. Uno spunto che mi viene in mente è quello relativo al progressivo ingresso del lavoro nello spazio privato.
    La cosa peggiore e plausibile che penso, più che alle ipotesi di ribassi contrattuali o alcune derive che mi sembrano leggermente calcate, è relativa alla lenta particolazione del lavoro nello spazio privato; l’assottigliarsi del limite tra dimensione personale e dimensione lavorativa fino al suo disfarsi e a rendere ancora più dipendente ogni persona dal suo profilo di lavoro.
    Chiunque di noi a casa “lavora”, magari approfondisce per interesse e passione o cerca di ultimare qualcosa di iniziato in ufficio o sul luogo fisico di lavoro, percependolo in maniera invasiva; l’applicazione del “lavorare” in casa mi sembra un’alterazione molto più profonda, che va a portare i processi di alienazione direttamente a domicilio. La personalità si spalma sempre più sui profili social, si appiattisce nella dimensionalità del web; a vederla così, la prospettiva di “tornare” al nickname e piattaforme come questo blog diventa un modo molto più efficace di resistere, lasciando a chi legge dei “punti di indeterminazione” sulla personalità di chi viene letto; una tridimensionalità che, nella rete di social che si compenetrano come quella attuale, non esiste in virtù dell’esigenza di attenersi a una specie di “codice non scritto” nella fruizione e nell’utilizzo di ognuno.

  12. Bellissimo articolo, intelligente ed informato, sui rischi di una governamentalità fuori da ogni controllo umano.
    Tre i punti focali che ho enucleato: una tendenza storica, le conseguenze del confinamento coatto e la sua scriteriata gestione, fosche previsioni sul nostro futuro di monadi informatizzate. Sui primi due non dico nulla, dirò qualcosa sul terzo.
    A lode dell’Autore confesso che ho avuto un momento di straniamento cognitivo, sperimentando le prime fasi del modello Kubler-Ross,
    Il senso di angoscia è grande come, se posso associare ciò che sta in alto a ciò che sta in basso, l’effetto in me prodotto dal pessimo video Gaia della Casaleggio&Associati.
    Un libro che mi ha ugualmente angosciato, e non mi è piaciuto, è Homo Deus di Yuval Harari (ottimo invece il suo Sapiens, per lo meno come vetrina della “Californian Ideology”).
    L’articolo-punto 3, il video ed il libro insistono sulla futurologia, cioè la previsione del futuro facendo affidamento non sulla sfera di cristallo ma sulla proiezione di tendenze tecnologiche, sociali, economiche, culturali ecc. scientificamente analizzate.
    Ora la futurologia non è scienza ma opinione. Troppe sono le variabili ed eventi imprevisti, l’effetto di questo articolo ad esempio, possono modificare la più fondata delle previsioni.
    La Tecnologia mi sembra la variabile centrale per ogni discorso libertario, ma finchè verranno utilizzate le categorie di autori ammuffiti come Heil-degger, al posto di autori fecondi come Gunther Anders, rimarremo impaniati in categorie inutilizzabili e anzi perniciose.
    Ma indagare sulla tecnologia è impresa ardua e pericolosa, c’è da perdere la testa, come pare accaduto al povero Nick Land e all’oscuro Mencius.
    Un grazie sentito a Wolf Bukowsky e al collettivo WuMing.

  13. L’analisi è interessante, perchè atttira l’attenzione su meccanismi che il Capitale può cercare di sfruttare in una fase, il lockdown, in apparenza poco propizia. Mi sembra però forzato lo stabilire un rapporto causa-effetto fra la disponibilità degli strumenti informatici e la possibilità di istituire il lockdown. La “quarantena” è stata inventata all’epoca dei Dogi – ben prima delle app! – anche se è ancor oggi la principale difesa da epidemie sconosciute. Infatti, pur con sfumature dovute alle locali condizioni sociali e sanitarie, non c’è Paese che non vi abbia fatto ricorso per contrastare il COVID. La tecnologia mi sembra che venga piuttosto usata in funzione propagandistica: quello che ha reso socialmente accettabile il lockdown non sono state le possibilità di lavoro e svago offerte da Internet a chi #restaacasa, ma il consenso costruito con la diffusione di numeri e notizie dall’effetto (naturalmente o artatamente) terroristico e la pubblicità dati agli analoghi provvedimenti presi quasi dappertutto. Anche lo sfruttamento delle mutate condizioni ambientali e sociali mi sembra più un effetto della naturale capacità del Capitale di adattarsi e autoriprodursi, piuttosto che di un disegno deliberato. Infatti, così come si possono individuare in questa situazione dei pericolosi catalizzatori dell’accumulazione capitalistica, si possono anche trovare elementi che potrebbero essere sfruttati in senso opposto: la possibilità di organizzare con più autonomia la propria vita da parte di chi lavora da remoto e per obiettivi, la riscoperta dei negozi di vicinato in una fase in cui la GDO è irraggiungibile o sovraffollata, la rivalutazione di forme di “autarchia” a livello statale (per l’esigenza di produrre localmente beni indispensabili come mascherine o respiratori) o individuale (l’autoproduzione dei prodotti da forno, gli orti da balcone, il taglio dei capelli…) che possono essere viste come forme di resistenza alla globalizzazione finanziaria.

    • Starei attento a non cadere nella trappola delle similitudini e dei falsi omonimi: nonostante si sia fatto un uso esteso e improprio del termine «quarantena» per definire quel che si sta facendo, la “strategia” dello #stareincasa sine die su scala nazionale e senza fare distinguo tra i territori non può essere ritenuta uguale, per dinamiche e conseguenze, alla messa in quarantena di un dato rione o di un villaggio in epoche precapitalistiche.

      Sono diversissimi il contesto e la scala, il modo di produzione e l’organizzazione del lavoro, il grado di sviluppo tecnologico, la composizione sociale e degli aggregati domestici (o famiglie, se si preferisce quel termine), e sono specifiche di oggi le contraddizioni che questa fase acuisce e le conseguenze che tutto ciò avrà.

      Tutto ciò di cui parla questo post all’epoca dei Dogi non esisteva né poteva darsi, a cominciare da telelavoro, app, social media. Quel che dice Wolf è che l’attuale “strategia” e narrazione sullo #stareincasa è riuscita a imporsi perché preceduta da decenni di quello che Alvin Toffler (a proposito di futurologi) battezzò già nel 1980 «cocooning», imbozzolamento, vale a dire un crescente ripiegamento domestico degli individui dovuto alla disponibilità di tecnologie ricreative – e oggi di socializzazione a distanza – fruibili a casa.

      Ovvio che il discorso sulle tecnologie non possa esaurirsi parlando di cocooning, ma nemmeno si può fingere che il cocooning non abbia avuto una funzione importante nell’imporre lo #stareincasa, visto che la comunicazione anche istituzionale ha puntato principalmente su quello: stai in casa ché tanto hai la tv, hai Internet, guardati i film in streaming, fai l’aperitivo su Zoom con le tue amiche, lavora “smart”, metti i bimbi davanti a un videogioco, non chiederti se riapriranno le scuole ché tanto c’è la didattica a distanza (per chi ha i mezzi e gli spazi adatti, gli altri si arrangino), e soprattutto (su questo hai detto anche tu nel tuo commento): sparati la nostra propaganda, drogati di informazione di pessima qualità, sucati ogni giorno la conferenza col body count, odia insieme a noi i runner e gli altri “furbetti”…

      Le tecnologie digitali sono state usate anche per contestare la narrazione dominante, criticare la “strategia” adottata, le sue incoerenze e incongruenze, sono state usate per smontare le bufale, non staremmo nemmeno discutendo qui se non fosse così. Ma il loro utilizzo predominante è stato in chiave di ulteriore cocooning: hanno avuto una funzione calmierante, “pompiera”, consolatoria, anche narcotica, per un po’ hanno aiutato a occultare le contraddizioni. Senza tutto questo, mezza popolazione italiana non avrebbe accettato di stare relegata in casa, genitori non avrebbero accettato di recludere senza scadenza i propri bambini.

      Un termine che confonde è anche «lockdown», l’uso dello stesso termine per le strategie adottate da diversi paesi occulta le differenze a volte molto rilevanti (non solo «sfumature») tra i diversi “pacchetti” di provvedimenti e aiuta i media a far credere che il “modello Italia” sia stato “imitato” da tutti e sia l’unico praticabile, quando invece, come giustamente dice Canella, sotto l’aspetto sanitario e sociale è un disastro che nessuno può desiderare di replicare. Su questo abbiamo scritto tanto e non sto a ripetermi. Ribadisco solo che in pochissimi altri posti il mero uscire di casa è stato criminalizzato con l’intensità di cui abbiamo avuto esperienza in Italia.

      L’ultimo appunto lo faccio sul fatto che questa fase sia «in apparenza poco propizia» a un suo sfruttamento da parte del capitalismo. Almeno dal nostro punto di vista, gli è molto propizia anche a una prima occhiata. A certi suoi settori, naturalmente, non a tutti. La «distruzione creatrice» presuppone che qualcuno venga distrutto e da quella distruzione qualcun altro guadagni. Lo diciamo da prima che ci fosse il lockdown, e il modo in cui si articolano le risposte alla pandemia da parte di multinazionali, big tech, settori avanzati del padronato mi sembra lasci pochi dubbi al riguardo. No, certo, non è un disegno «deliberato», nel senso che non c’è il Complotto, il capitale non ha predisposto – tantomeno «ingegnerizzato», come dicono i complottisti – la pandemia. Ma l’emergenza viene gestita in un quadro di compatibilità capitalistiche, in modo capitalistico, con risposte dall’alto tutte capitalistiche, ed è dunque normale che anche questa fase abbia una sua funzionalità sistemica.

    • Ha quasi risposto a tutto WM1, ma aggiungo una precisazione. Non c’era moralismo da parte mia nel dire: senza quegli strumenti *già* disponibili un lockdown di tale portata, durata e diffusione non sarebbe stato pensabile né pensato. La ritengo una semplice constatazione (ovviamente discutibile).

      Mica solo per i passatempi davanti allo schermo, mica solo per Pornhub e Netflix e l’imbozzolamento. Se il rapporti mediati dalla rete in senso lato non fossero già stati consolidati, difficilmente i supermercati avrebbero potuto essere piuttosto forniti, le utenze funzionare, grossomodo una società intera (più società nazionali, pur con le differenze di modelli di «chiusura») non collassare. Pensa solo alla fase precedente della globalizzazione (mica vado molto indietro): già se gli ordini ai fornitori fossero dovuti passare dai fax sarebbe stato un casino, perché pochissimi avevano il fax in casa, e quindi gli impiegati di soquante filiere dovevano andare in ufficio anche solo per usare il fax; mentre una mail la guardi dal telefonino, e ci fai quasi tutto.

      Ripeto: non era moralismo né altro, ma la constatazione che a questo livello di digitalizzazione delle esistenze il lockdown prolungato è possibile; a un livello precedente la classe politica avrebbe trovato altre soluzioni o *non* soluzioni.

      • Non ci sono dubbi che gli strumenti tecnologici di lavoro e svago hanno reso praticabile e accettabile un lockdown altrimenti moooolto più difficile da far accettare e rispettare. Alle prime immagini di Wuhan deserta, avevo pensato: “meno male che è successo in Cina, che in qualunque altra parte del mondo sarebbe impossibile far stare tutti a casa”. E invece è stato possibile, anche _grazie_ alla tecnologia. Questo fa capire che, oltre ai pericoli ben messi in evidenza da te, questa inimmaginabile situazione ha svelato pure delle potenzialità utili per quando saremo “tornati alla normalità”. Il Capitale è bravissimo a sfruttare le crisi, ma non ne avrebbe bisogno, che già normalmente se la passa piuttosto bene; invece siamo proprio noi, ormai quasi rassegnati all’inevitabilità del Sistema, che dobbiamo *approfittare* delle crisi per mettere in atto qualche piccola insperata “rivoluzione”.

  14. Mi sono iscritto solo per ringraziarvi degli sbatti che vi fate nel tentativo di fungere da collante-pesante in questa melassa sfilacciata e appiattente che ci viene imposta passo passo. Grazie a Wolf per le numerose chiavi di lettura trasversali su temi che altrimenti ci sfuggirebbero, a maggior ragione in questa situazione che induce fortemente (perlomeno chi studia, chi ha un generico ‘da fare’) a richiudersi nei suoi pensieri, e di conseguenza a sentirsi solo. La questione linguistica, l’archetipo d’ogni costruzione culturale (e d’ogni sua manomissione), è oggetto dell’ultimo aggiornamento della rubrica di Agamben su quodlibet, che scrive: “[..] L’umanità sta entrando in una fase della sua storia in cui la verità viene ridotta a un momento nel movimento del falso. Vero è quel discorso falso che deve essere tenuto per vero anche quando la sua non verità viene dimostrata. Ma in questo modo è il linguaggio stesso come luogo della manifestazione della verità che viene confiscato agli esseri umani.” A ventuno anni mi interrogo -e sbatto con costanza la testa contro muri duri- sul perché certe forzature tanto evidenti (la passerella dei numeri rossi e verdi, la retorica tanto altisonante quanto appunto retorica e vuota di significato) siano accettate con questa facilità ed anzi supportate: qualche consiglio di lettura formativo realistico e se si può un pochino speranzoso ne avete? Ma non avanzo nessuna pretesa, anche ragionare in spazi come questi è già un lusso per pochi, di questi tempi. Un saluto, Emanuele

    • Ciao Emanuele, mi sono preso un po’ di tempo per rispondere perché le questioni che poni sono intricate. Diffido un poco dalla formulazione che usa Agamben: «stiamo entrando in una fase», oppure «quello che sta accadendo – sul piano della verità – è qualcosa di nuovo» (sono citazioni a memoria, la fonte però è qui: https://www.quodlibet.it/giorgio-agamben-sul-vero-e-sul-falso), e questo *nuovo* consisterebbe nel fatto che «nella verità o nella falsità del discorso che viene passivamente accettato ne va del nostro stesso modo di vivere, della nostra intera, quotidiana esistenza».

      In verità (sic!) non vedo nulla di nuovo, da sempre il tema della verità del discorso è un terreno di contesa. Per stare al nostro recentissimo passato, ai tempi della caduta dell’ultimo governo Berlusconi, il fido banchiere Monti veniva fatto passare per… parresiasta, perché aveva detto «la verità e tutta la verità» sui conti pubblici italiani. Ovviamente era una sciocchezza sonora, perché il punto non era la «verità» ragioneristica su quei conti, ma che conseguenze era opportuno trarre da quei dati contabili. Di quel falso parresiasta scrisse Girolamo De Michele – che abbiamo il piacere di leggere spesso anche qui – in un articolo per me indimenticabile: https://www.carmillaonline.com/2012/02/14/dalla-parte-di-penelope-la-gre/

      Accadde allora ciò che accade oggi, seppure nel modo meno vistoso con cui procedono i fatti economici (meno vistoso di un lockdown e dei dati di mortalità intendo, che hanno una loro *immediatezza*): da quella finta verità e parresia discesero conseguenze su tutta la nostra esistenza, e anche – a voler fare i conti degli ospedali chiusi e depotenziati da allora, sulla base delle ricette del «parresiasta» Monti – forse hanno avuto anche riflessi su questa contingenza epidemica.

      Anche su quel piano dunque nulla di nuovo, come su altri. Purtroppo, ma forse anche per fortuna (vuol dire che abbiamo già gli strumenti teorici per affrontarli). Per i consigli di lettura, rimando ai testi citati nell’articolo di Girolamo, compresa la bellissima poesia di Ghiannis Ritsos.

      Grazie a te per l’attenzione.

      • Il pezzo di Di Michele è straordinario, grazie per averlo ricordato. Fa abbastanza impressione come basti sostituire la parola “numero di contagi” o magari “curva esponenziale” alla parola “spread” della citazione di Caminiti, per avere una descrizione abbastanza fedele di quanto sta avvenendo adesso.

        «L’introduzione di termini tecnici, a volte paradossale, a volte grottesca, come quella dello spread, nel linguaggio giornalistico prima e nella chiacchiera pubblica dopo, non ha modificato questa realtà, anzi l’ha resa ancora più impermeabile, più distante. Lo spread non comunica nulla, se non un dato che sembra oggettivo e bizzarro come il tempo: accanto alle informazioni meteo, le televisioni e i quotidiani vanno introducendo le informazioni spread […] La continua reiterazione dei movimenti dello spread ha finito per uccidere qualsiasi narrazione possibile. Forse, è proprio questo il punto: l’informazione, ossessiva, espropria la narrazione. Siamo inzeppati di analisi, grafici, ragionamenti, statistiche e sequenze, ma piuttosto di facilitarci nel comunicare qualcosa, una qualsiasi esperienza, questa mole di dati diventa disumana, un paesaggio di macerie, una voragine. Non ci sono eroi, nello spread, non ci sono codardi, non ci sono passioni, amori, tradimenti. Lo spread non potrà mai essere un personaggio. E senza personaggi non ci sono storie».

        Splendido anche il resto del pezzo.

  15. Da quando questo pandemonio è iniziato sono tre i riferimenti socio-culturali che affiorano insistentemente dal mio subconscio:
    Il primo è (ovviamente) “Blade Runner”, che ritrovo nel discorso su come questa neo-normalità ci farà mandare giù più facilmente le differenze di classe (leggi “diverso potere d’acquisto”), presentandole come (anch’esse) naturali;
    Il secondo é “WALL•E”, film d’animazione in cui gli umani sono ridotti a esseri ipertrofici (ma anche atrofici), che non si muovono più autonomamente e sono sempre più isolati (leggi “innocui”);
    Il terzo sono i Samosely, i disobbedienti di Chernobyl che hanno rifiutato l’evacuazione e rilocazione permanenti, e che per questo si sono condannati a vivere in una bolla spazio-temporale cristallizzata, ferma al giorno dell’incidente.

    • E il nickname crimsoniano è dovuto a qualche assonanza di canzoni dei KC col presente? Neurotica? 21st Century Schizoid Man?

  16. Ringrazio Wolf per l’articolo e Wu Ming per questo spazio che continua a essere un punto di riferimento. Già da un anno sto facendo difficoltà a relazionarmi con app e smartphone, a causa della situazione che stiamo vivendo ho dovuto scaricare zoom per poter partecipare a riunioni che, se inizialmente mi hanno dato un minimo di conforto, ora non sopporto più. Nelle ultime settimane ne ho boicottate quattro. Non tollero più la logica del distanziamento sociale che sta dietro a questa pratica, visto che ci si potrebbe incontrare dal vivo. Qua in Austria non è stato mai vietato andare nei parchi o andare a correre e tra l’altro in questi giorni s’è aperta una polemica con il Ministero della salute che ha dichiarato non è mai stata vietata la possibilità di incontrare amici e familiari. Si è trattato di un fraintendimento: eine missverständliche Formulierung… Epperò le persone ormai hanno paura e quindi preferiscono aprire zoom e “incontrare” amic* parenti e compagn* tramite schermo. Cosa che ho trovato agghiacciante nel momento stesso in cui ho percepito che questa pratica stava già attecchendo. Nel momento in cui ho chiesto perché non potevamo incontrarci in un parco a distanza di sicurezza e fare una riunione mi hanno (per ora) detto che non si può. Ma non è scritto da nessuna parte che “non si può”. Ovviamente questa è solo una parte del problema, resta tutto il resto che è analizzato nell’articolo. Che trovo di un inumano ai limiti della sopportazione

  17. Triste e assurdo quanto necessario ricordare il pensiero di W. Reich: il fascismo non è nato così, tanto per nascere, è sbocciato dalle menti del popolo che da anni lo meditavano e desideravano. Così adesso, dopo decenni di terrorismo, mediatico e strumentale, abbiamo trovato di fronte ai noi la risposta all’odio, la paura ,etc etc. basti solo immaginare a quale sarà il pensiero del leghista medio a vedersi di fronte un membro di una minoranza etnica, coperta di mascherina, chiedergli un soldo in un vicolo stretto. E chissà cosa accadrà quando questo avrà, nella ovvia disperazione che ci attende, magari un coltello (o una mascherina usata!). Lo Stato come intende sensibilizzare contro tale pericolo? o vi marcerà sopra, non adesso magari, ma nel vicino futuro? E’ qui che si può menzionare un altro autore, P. Clastres che con il suo Società Contro lo Stato dimostra come che chi è in potere non sempre è colui che maggiormente deve bramare ulteriore potere. Conte, devo ammettere, pensavo fino a mesi fa che fosse un esempio perfetto di un politico messo dove non si sente comodo, ma sa agire. Purtroppo però, Conte in questa crisi si è piuttosto fatto dire per filo e per segno cosa fare, e nemmeno adesso si è fermato a dire: aspettate, abbiamo sbagliato qualcosa, parliamone. No. Ed è in questo errore, che ne i migliori ne i peggiori italiani mai gli perdoneranno, che figure più carismatiche, ma incredibilmente più pericolose, possono prendere potere. Chiudo con la domanda: in che periodo storico ci troviamo, siamo partigiani che discutono e lottano per la liberazione, o Gramsci giovane che ammonisce il popolo poco prima di essere imprigionato?

  18. A dimostrazione che l’accelerazione di tendenza di cui parla Wolf è già in atto, oggi Vodafone ha deciso di dismettere un piano del palazzo milanese in cui ha sede il suo call centre. Prima del lockdown, l’azienda era sempre stata restia a passare massiciamente al telelavoro da casa, per timore del calo di produttività tra le mura domestiche. Ma in questi due mesi si è accorta che il timore era infondato, e quindi ha deciso di alleggerire i costi della sede, mantenendo una bella fetta del personale a lavorare da casa.

  19. Purtroppo no, ovvero sono inconsciamente crimsoniana. La frase ha un bel suono e diverse implicazioni semantiche: può essere un’esortazione, una richiesta cortese, un’ingiunzione o una condanna. Mi sembra superfluo aggiungere che l’attesa e il suo tradimento sono la cifra culturale di quella che, con un grande slancio di ottimismo e sforzo di immaginazione, chiamiamo “epoca moderna”.
    Avrei detto tutto quello che dovevo dire ma vedo che non basta quindi sono mio malgrado costretta a tergiversare o se preferite allungare il brodo, nell’attesa di poter fare un altro tentativo (matte kudasai, appunto).

  20. Adoro leggere Wolf perché mi porta spesso al di fuori della mia zona di confort.

    Mi riferisco in particolare al passaggio:
    “La smobilitazione del lavoro in presenza che si perseguirà nel post-epidemia – fase 2, fase 3, fase ∞… – prelude a una trasformazione epocale dei rapporti contrattuali, che passeranno in modo generalizzato da quelli basati sulle ore di presenza – che consentono una certa dose di autodifesa dei lavoratori nei confronti dei carichi eccessivi – a quelli basati sul risultato, ovviamente deciso e prezzato in modo unilaterale dal datore di lavoro. Lo smart working è per sua natura lavoro a progetto, e il lavoro a progetto è trionfo del capitale contro i lavoratori. “

    Nelle mia testa, cominciare a ragionare per obiettivi, invece che per tempo passato in ufficio, sarebbe la soluzione per rendere trasparente agli utenti l’efficacia dei servizi pubblici e per promuovere la meritocrazia nel privato.

    So bene che esistono lavoratori più deboli di altri, ma questo lo sa anche il datore di lavoro: già adesso si sa a chi chiedere di più e a chi chiedere di meno.

    Nondimeno, il servizio pubblico che attualmente ha come kpi il budget per me è un abominio. Sono tantissimi gli obiettivi misurabili che si potrebbero introdurre, ad esempio nella sanità per restare in tema, per monitorare la qualità del servizio pubblico. E quindi secondo me sarebbe un bene introdurre il concetto di obiettivo, misurabile e trasparente.

    In merito allo smart working…beh, in realtà credo di poter dire che non si è fatto smart working in questo periodo, bensì telelavoro: chi ha avuto la fortuna/obbligo/necessità di lavorare da casa (insegnanti compresi) hanno semplicemente traslato la loro attività dalle 8 (circa) alle 17 a casa invece che in ufficio. Ancora una volta si sono usati termini sbagliati.

    grazie

    • Grazie. Però in un punto anche tu mi fai uscire dalla zona di comfort :-), perché mi sembri nominare la «meritocrazia» in senso positivo! Secondo me dovremmo liberarci di questo spettro una volta per tutti, non cercare di risemantizzarla in alcun modo, né di immaginare una «meritocrazia» *vera* e ragionevole contro i «meritocrati» duri e puri ecc ecc.

      Messe nelle condizioni giuste di solito le persone producono qualcosa che abbia un senso. Poi ci sarà qualcuno più bravo e veloce e qualcuno meno, ma nessuna differenza nei risultati sarà mai una zavorra comparabile alla piramide di ossessivo controllo gerarchico che c’è adesso (supercapi che controllano capi che controllano mezzicapi che controllano capetti), e alla superfetazione della verifica degli «obiettivi»; che produce poi il fatto che si lavora più per la «verifica» (i numeretti a fine anno, per capirci) che per l’obiettivo vero e proprio del servizio che quella persona è lì per fornire.

      Adieu, «meritocrazia»!

      • Sulla fallacia e perniciosità della meritocrazia ci sono persino studi. Cito questo interessante articolo https://aeon.co/ideas/a-belief-in-meritocracy-is-not-only-false-its-bad-for-you . Per inciso la meritocrazia dovrebbe essere ribattezzata “c*locrazia”. L’applicazione del “merito” serve solo per negare a chi “sta sui maroni” oppure non è del cerchio magico e dare a chi appartiene all’insieme reciproco.

        Cito da quell’articolo una frase che mi sembra riassuntiva: “In addition to being false, a growing body of research in psychology and neuroscience suggests that believing in meritocracy makes people more selfish, less self-critical and even more prone to acting in discriminatory ways. Meritocracy is not only wrong; it’s bad.”

      • Anche se non riesco a non pensare che possa esistere teoricamente una meritocrazia “buona”, posso testimoniare che, in uno dei miei ambiti di lavoro (ricerca scientifica), un concetto di meritocrazia semplicistico, miope, supinamente accettato a livello internazionale, ha prodotto e continua a produrre danni spaventosi.
        La qualità della ricerca valutata in base al numero di pubblicazioni, citazioni, e sull’impact factor delle riviste, ha portato a una qualità e importanza inferiore dei lavori, alla parcellizzazione delle conoscenze e alla perdita di competenze in branche fondamentali.
        Chi riesce a emergere in queste condizioni spesso non è il più preparato, più appassionato alla propria materia, più attento e critico nella raccolta, analisi e interpretazione dei dati, ma chi pubblica al fine di pubblicare, scegliendo un argomento “di moda” (se no non si viene citati), allineandosi al pensiero dominante e intessendo relazioni diplomatiche (si cercano collaborazioni non tanto per unire competenze diverse e confrontarsi, ma per farsi amici e pubblicare tutti di più: io metto il tuo nome nel mio lavoro, tu metti il mio nel tuo).
        Tutti o quasi vedono le falle di questo sistema, ma non si vede via d’uscita, perché chi non si adegua viene automaticamente estromesso.

  21. https://archive.is/sVICE
    Mi scuso in anticipo se posso sembrare irriverente nell’ apporre questo link che rimanda ad una discussione “terra terra” rispetto ai contenuti decisamente più elevati della profonda riflessione sotto cui commentiamo. Trovo però l’argomento incidentalmente pertinente in relazione al riferimento di WB al fatto che siamo corpi e da questa dimensione non si possa prescindere. Ovvero non si può pensare che gli strumenti tecnologici possano essere davvero un valido sostituito del terreno “fisico” e come tali essere considerati non più marginali ma stabili sostituti dell’esperienza fisica.
    Il vice ministro della Salute sentenzia che non è detto che il sesso sia un mezzo di trasmissione ma la vicinanza lo è…mi è tornato in mente il film “HER”. Mi chiedo se prima di rilasciare tali dichiarazioni si consultino con il loro gatto. Ma forse no, il gatto sarebbe suggerimenti più saggi.

    • Tutt’altro che «terra terra», il punto è centrale. Il portato sessuofobico di gran parte dei discorsi e frame narrativi di cui parlo nel post è spaventoso. Ma è una strada ripida per chi la voglia percorrere, e infatti Conte ha fatto presto dietrofront rispetto al fatto che dopo il 4 maggio si potevano vedere solo i «parenti», sdoganando i «fidanzati» (ma sono considerati tali prima o solo dopo la presentazione ufficiale alle famiglie, l’autorizzazione genitoriale e il ballo?). Poi via via, quando l’affanno cresceva, arriviamo alla concessione sugli «amici». Forse eh, perché come sappiamo se a un De Luca o Bonaccini non garba può stravolgere tutto.

      Il sesso, di cui si parla poco, è il non-detto di tutto ciò. Con l’aggravante che qualche milione di persone giovani sono, nello stesso tempo:
      -e in un’età in cui si fa sesso più che in altre (non è così per tutti/e ma per diversi/e è così)
      -e in un’età in cui si fa sesso con NON conviventi
      -e in un’età in cui non c’è molto da temere da questo virus.

      Abbiamo un problema su questo, Huston? A giudicare dallo slittamente del discorso governativo, in pochi giorni, si direbbe di sì.

    • “HER” (Spike Jonze, 2012) è un ottimo film in cui gli umani (poveracci) sono visti e raccontati dal punto di vista degli OS.
      Si potrebbe citare anche il meno pretenzioso “Demolition Man” (Marco Brambilla, 1993) in cui il tenente Lenina Huxley (Sandra Bullock) va nel panico al solo pensiero di un contatto fisico con l’oggetto delle sue attenzioni romantiche – il sergente John Spartan AKA “Demolition Man” (Sylvester Stallone). Come si intuisce dal nome del personaggio femminile, il film è un omaggio e una rilettura un po’ abbozzata di “Brave New World”.

    • Sul tema è esemplare nel suo essere paradossale e contemporaneamente verace, il purtroppo ormai noto sindaco di Messina, l’altro De Luca, che l’altro giorno dopo l’annuncio di Conte nella sua quotidiana conferenza stampa/diretta fb ha ordinato niente sesso, fino al 31 ottobre! Cito da un articolo che ho trovato online, ma su fb si trova pure il video ovviamente:

      “E poi il passaggio sulla ‘fantomatica’ astinenza secondo Cateno De Luca: “Se vi becco a gruppi di due tre persone e vi trovo lì abbracciati romanticamente: Multa. Per ora la pesca romantica non è consentita. Non sono consentiti baci e non sono consentiti abbracci. Non è consentito fare altro. Per ora da questo punto di vista dobbiamo essere astinenza al cubo. Guai a chi viola l’ordine dell’astinenza. Ci siamo capiti? Perfetto. Quindi anche da questo punto di vista si va a pescare da soli. E anche a casa attenti. Bisogna stare distanti di almeno un metro anche a letto. Visto che il mio sosia (il premier Giuseppe Conte, ndr) non ha avuto il coraggio di dirvelo ve lo dico io.

      Fino al 31 ottobre astinenza”.

  22. Sulla postilla di WM sull’inutilità della mascherina in spazi aperti, a leggere questo sorgono dubbi sulla piena efficacia anche nei luoghi chiusi.
    https://archive.is/sRP8B
    Il punto è che molti dispositivi sono assolutamente carenti dei requisiti necessari a garantire protezione. E così si perdono di vista comportamenti meno scenici ma improntati alla prudenza ed al buon senso come non accalcarsi sopra gli estranei ed osservare una buona igiene delle mani.
    Invece noto che le persone, una volta indossata la museruola, si sentono quasi invincibili e guardano come alieni coloro che evitano di prestarsi a questa messa in scena.

  23. Sul fatto che questa crisi costituisca una grande occasione di ripensare e ristrutturare il funzionamento della società, credo non ci siano dubbi. Non so, forse sarò prevenuto e parecchio pessimista, ma fin dall’entrata in vigore del decreto del 10 marzo ho pensato ad una sorta di transizione, ad un rimescolamento delle carte negli equilibri del potere economico globale (e non a caso, si iniziava a ventilare su diversi giornali l’ipotesi di un “nuovo modello economico”).

    In molti obiettano che dal mantenimento delle attuali misure il capitalismo in generale non riuscirebbe più a trarre profitto, ed è innegabile che il blocco di interi settori dell’economia costituisca in questo momento un danno abnorme. Ma nella realtà non esiste un “capitalismo generale”: esistono singoli attori capitalisti, ciascuno coi propri interessi particolari che spesso si sovrappongono manifestandosi come interessi di classe. L’impossibilità di mantenere ad libitum le attuali misure è innegabile solo se diamo per scontato che il potere e l’economia continuino a funzionare senza sconvolgimenti radicali negli attuali assetti che reggono il sistema economico. Non è impossibile immaginare un periodo di transizione in cui nascono nuovi poteri e se ne rafforzano alcuni già esistenti, come sta già accadendo per Google, Amazon, Microsoft, diversi servizi online di vendita e spedizione, piattaforme digitali per la consegna di cibo a domicilio, imponendosi come attori (non solo economici) cruciali e un perdurare di questa situazione darebbe loro un potere molto più grande di quello che già hanno.
    Inoltre, come osservato dallo storico francese Jérôme Baschet, compagno vicino agli zapatisti, che un paio di settimane fa ha scritto una lucidissima riflessione su Lundi Matin, tradotta qui in italiano), vale la pena di fare notare come “le misure connesse alla lotta contro la pandemia non siano affatto presentate come un ostacolo al funzionamento dell’economia, ma come una condizione per il suo completo ristabilimento”.

    • (scusate, continuo il commento precedente, è la prima e ultima volta che uso questo escamotage)

      Questo, abbinato all’affermazione capillare e generalizzata di nuovi strumenti estrattivi basati sulla tecnologia del controllo e della sorveglianza, alla robotizzazione sempre più spinta della produzione materiale e alla cristallizzazione di nuove abitudini sociali (già ampiamente in atto) creerebbe le condizioni per un sistema economico perfettamente funzionante ed operante per la propria riproduzione anche in uno scenario di lockdown indeterminato (e potrebbe essercene bisogno, visto il rischio sempre più elevato che si ripetano pandemie gravi come e più di questa). Sarebbe un sistema in cui la paura della pandemia continuerebbe ad essere agitata minacciosamente per molto tempo, e non senza fondamento giacché il sistema economico crea continuamente le condizioni per la sua nascita, propagazione e articolazione a vari livelli.

      Mi ricordo che all’inizio perché si accettasse di riflettere su queste cose si dovevano mettere le mani avanti ed affermare che si trattava di “esperimenti mentali”, che erano esagerazioni formulate appositamente per controbilanciare la narrazione tecnicista e totalitaria dell’epidemia, che si trattava solo di immaginare cosa succederebbe se si portasse alle estreme conseguenze la logica adottata nell’affrontare la pandemia, e così via. Oggi credo che non ci sia neanche più bisogno di scusarsi per l’esuberanza: l’evoluzione di certe dinamiche è sotto gli occhi di tutti.

      Per informazione, sulla questione dello smart-working e della sua progressiva implementazione prima, durante e dopo la pandemia, segnalo un’analisi di Giorgio Moroni che anticipava già più di un mese fa queste tendenze.

    • Dici molto bene: “In molti obiettano che dal mantenimento delle attuali misure il capitalismo in generale non riuscirebbe più a trarre profitto, ed è innegabile che il blocco di interi settori dell’economia costituisca in questo momento un danno abnorme. Ma nella realtà non esiste un “capitalismo generale”: esistono singoli attori capitalisti, ciascuno coi propri interessi particolari che spesso si sovrappongono manifestandosi come interessi di classe.”
      Questo è fondamentale e non sarà un caso se nei post e nei commenti su Giap l’ho letto diverse volte. Ma basterebbe leggere Marx per rendersi conto di questa evidente verità. Cito da “Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte” che ho da poco (ri)letto: “(…) per il volgare egoismo per cui il borghese ordinario è sempre disposto a sacrificare l’interesse generale della sua classe a questo o a quel motivo privato”. La classe capitalista come unica forza che sostiene i suoi membri è semplicemente irrealistica e bisogna tenerlo sempre a mente.

  24. Sul telelavoro si è già detto molto. Come ogni innovazione tecnologica che ha a che fare con l’interazione e la comunicazione (TV, internet) può essere una occasione o una maledizione, e in questo concordo con Monsieur en rouge. Quello che i lavoratori possono fare è anticipare il capitale, una volta tanto, e organizzarsi per tempo. Non lasciare che si formino e si sedimentino gruppi senza tutele, e piantare sin da subito paletti rigidi. Questo è il lavoro del sindacato, che tuttavia non ha brillato per attivismo in questi tre mesi (ha fatto capolino i giorni degli scioperi per i DPI e l’obbligo di lavorare, ma poi è sostanzialmente scomparso). Qui il discorso si allargherebbe, investendo la capacità delle organizzazioni sindacali di ampliare il loro orizzonte, ma rischieremmo di andare OT.
    Per quanto riguarda la meritocrazia, penso che tutti ricordiamo i mantra renziani. Dietro alla parola (più o meno risemantizzata) può nascondersi di tutto. Per cui è giusto vederci una “piramide di ossessivo controllo gerarchico”, ma ci vedrei anche da un lato una legittimazione (direi quasi una istituzionalizzazione) delle disparità, per cui si ottiene il risultato migliore esclusivamente perché si è più intelligenti e più volenterosi, senza considerare che ci possono essere condizioni di partenza e opportunità diverse, dall’altro la preparazione del terreno alle misure di allentamento dello stato sociale, per cui si può dire a chi rimane indietro che la colpa è esclusivamente sua, della sua ignavia, del suo parassitismo (mi vengono in mente i chav di cui si parlava in un altro thread), per cui che non pretenda troppo. Dietro la meritocrazia si possono nascondere le discriminazioni sul lavoro, i numeri chiusi universitari, le diverse opportunità di carriera per uomini e donne, e chi più ne ha più ne metta.
    PS IL video di Gipi linkato da WB è eloquente più di mille discorsi. Da vedere.

  25. Se mi chiedessero di salvare un libro solo (visto che siamo all’inimmaginabile mi vado attrezzando per ogni evenienza) sarebbe, credo, Fontamara. Perché la domanda è sempre la stessa: Che fare? Questo ulteriore, perché sì, è bene ricordare che il giro di vite ‘provocato’ dalla crisi COVID è solo il più recente di un processo di smantellamento delle conquiste salariali e formative ottenute dal corpo collettivizzato delle occupazioni di fabbrica del ’69. La somministrazione di dosi di piacere da fruire individualmente, con basso sforzo, sostenibili anche con scarse remunerazioni ci aveva divisi già prima di questa pandemia. I grandi player economici usciranno rafforzati da questo spettacolare – non c’è che dire – esercizio di demarcazione di vie precise al consumo anche laddove una minima leva decisionale potremmo attivarla individualmente, ma non lo facciamo: l’impennata degli acquisti su Amazon ne è la prova. Non è semplice cercare di allargare le intelligenti riflessioni di questo blog anche ai protagonisti di quell’aumento percentuale eppure è lì che dobbiamo far leva, proprio come secoli fa il volantinaggio all’ingresso delle fabbriche era il punto di partenza per fare informazione e creare consapevolezza. C’è una logica inaccettabile in chi continua ad acquistare online, anche per chi ha reagito con paura alla situazione. Accettiamo la retorica mainstream dell’#iorestoacasa → accettiamo che là fuori imperversi un virus capace di ridisegnare la rosa dei venti → accettiamo che qualcuno possa invece esporsi per depositarci a domicilio i ninnoli tanto attesi → ergo accettiamo che la nostra vita valga più di quella di chi svolge occupazione di corriere. Non è solo il problema di credere pedissequamente al pericolo che ci viene diffuso a reti unificate: è una totale mancanza di empatia. Non siamo solo divisi gli uni dagli altri, siamo dissociati da noi stessi e da lì bisogna ripartire. Serve una contronarrazione che non solo racconti la possibilità di un altro modo di vivere ma anche la sua preferibilità. Forse alla rivoluzione ci vorrebbe un ufficio marketing. Grazie di esserci tutti.

    • «Siamo dissociati da noi stessi», secondo me il punto è questo, ma mi stupirei del contrario. Tutta questa fase è segnata da interdetti al pensiero e al discorso pressoché insormontabili. Non solo i corrieri, ma un sacco di gente «là fuori» ha garantito che chi era chiuso in casa non morisse di fame, nel mainstream questa roba si è manifestata come plauso all’eroismo, ma una riflessione vera su chi come e perché doveva esporsi, e in nome di cosa, non c’è ancora stata. (In nome di cosa è, ovviamente, facile: il ricatto del posto di lavoro).

      C’è stata, da parte dei campioni del balconismo, l’esibizione pubblica di un’estrema sensibilità, ma anche, da parte di tanti che forse però sono gli stessi, il bisogno inderogabile di farsi consegnare un pasto a casa, ché avevano tutti così tanto da fare tra le quattro mura da non potersi scolare due spaghetti.

      Non è colpevolizzando i comportamenti individualmente contraddittori che possiamo trovare una via d’uscita, perché le vie d’uscita sono nelle strutture e norme condivise che ci si dà, ed emergono nel momento stesso in cui c’è uno sforzo collettivo (di parte) di darsele.

  26. Vorrei suggerire all’amico wuming che ha scritto la postilla sull’uso delle mascherine all’aperto che anche le cinture di sicurezza nelle automobili, che lui come noi tutti probabilmente tiene allacciate tutto il tempo che passa al volante o seduto vicino a chi guida, servono (e c’è chi nutre dei dubbi anche su questo) solo in caso di impatto contro qualcosa, sia esso un pedone, un muro, o un altro veicolo. Magari è il caso di liberarci anche di codesti impedimenti. E così forse ho raggiunto il limite minimo di battute per fare un commento..

    • Argomentazione fallata, costruita sulla falsa equivalenza tra un’azione specifica, determinata, come guidare un’auto (a cui corrisponde un dispositivo di protezione ad hoc), e una condizione generica, indeterminata, come l’essere all’aperto.

      Mentre per la prima si riscontra un’alta frequenza di incidenti (172.553 in Italia nel 2018, con 3334 morti e 242.919 feriti), tanto che secondo l’OMS l’incidente stradale è la nona causa di morte al mondo, la seconda è talmente generica che non esistono nemmeno i dati: che utilità potrebbe mai avere un dato come… il numero di morti perché usciti all’aperto? Qual è la probabilità di morire per il semplice fatto di essere (stati) all’aperto?

      Il paragone avrebbe avuto qualche senso se tu avessi preso in esame il guidare l’auto e l’entrare in un negozio, ufficio, ambulatorio: entrambe azioni, situazioni, ambientazioni determinate a cui corrispondono determinate cautele: la cintura di sicurezza nel primo caso e la mascherina nel secondo. E come non porti la cintura di sicurezza sempre, anche fuori dall’auto, così non dovresti portare la mascherina sempre, anche quando non sei a contatto con nessuno.

      Un’equivalenza più corretta sarebbe questa: indossare una mascherina ogni volta che si è all’aperto per paura che nell’aria ci sia il virus è come indossare un casco da cantiere ogni volta che si è all’aperto per paura che da un davanzale cada un vaso di fiori o da un albero si stacchi un ramo. Sono cose che possono accadere, ma la probabilità è talmente bassa che accettiamo l’ipotetico rischio e usciamo di casa senza alcuno specifico dispositivo di protezione.

      Nulla di ciò che sappiamo della modalità di contagio da Covid-19 fa pensare ad alcuna significativa probabilità di ammalarsi per il semplice fatto di essere all’aperto.

  27. A Bologna il Primo Maggio non avrà celebrazioni solo virtuali. Ci saranno azioni in città, e anche noi faremo un’iniziativa, della quale renderemo conto domani stesso, prima del tramonto, dentro un post che stiamo scrivendo sui temi del lavoro e sulla vera «grande sostituzione» avvenuta durante l’emergenza coronavirus.

    Cogliamo l’occasione per scusarci se non riusciamo a rispondere in tempi ragionevoli a tutte le persone che ci scrivono. Il flusso ci sta mettendo a dura prova. Tenete conto che ogni commento lasciato su Giap arriva via email a noi admin del blog: insieme a quelle delle mailing list della WMF e alle mail “ordinarie”, fanno centinaia di mail al giorno, alle quali vanno aggiunti i messaggi dai gruppi redazionali/operativi a cui siamo iscritti su Telegram. È vero che siamo un collettivo, anzi, un «collettivo di collettivi», ma anche così è un bel po’ di lavoro.

    Se ci hai mandato una proposta di articolo e non ti abbiamo ancora risposto, è perché siamo in un “collo di bottiglia”: su Giap pubblichiamo al massimo tre articoli alla settimana, ma ci stanno arrivando in media tre proposte al giorno. Ci vuole pazienza.

    A domani.

  28. “Non è colpevolizzando i comportamenti individualmente contraddittori che possiamo trovare una via d’uscita, perché le vie d’uscita sono nelle strutture e norme condivise che ci si dà”.
    Condivisibile, tuttavia mi sorge un dubbio: non colpevolizzare l’individuo mi fa pensare al famoso tutti colpevoli nessun colpevole. Come è stato accennato anche nell’articolo, in tempi di covid ordinare un bene voluttuario via internet e farselo consegnare dal corriere, significa implicitamente dare più valore alla propria vita che a quella del corriere (questo a prescindere dalle possibilità del corriere di infettarsi, che probabilmente sono poche, ma io che mi tappo in casa convinto che “il virus è nell’aria” non lo so). Sarà anche un atteggiamento umano, ma è una colpa. E lo è dell’individuo. Le norme condivise scaturiscono dal senso civico, dalla percezione del bene comune, dalla capacità di solidarizzare, dalla capacità di mettersi nei panni degli altri. Non averle è una colpa del singolo (a parte per coloro che crescono e vivono in contesti difficili, per i quali acquisirle non è certo impossibile ma è complicato). Ordinare cibo esotico da asporto, o il gadget elettronico per cercare di annoiarsi meno nella reclusione domestica forzata, non è altro che un atto di sfruttamento dell’individuo su un altro individuo. Il datore di lavoro che sfrutta il subordinato lo fa perché glielo consente il sistema, è vero, ma non è obbligato a farlo; lo fa perché la sua forma mentis è il dominio dell’uno sull’uno. La stessa forma mentis, inconscia o meno, di me che compro su amazon, e poi aspetto tranquillo al balcone il corriere che parcheggia il suo furgone davanti casa, e corre al cancello per depositare il pacco, poi corre per tornare al furgone e riparte sgommando perché è in ritardo sui tempi assurdi dettati dall’algoritmo. E questo con e senza covid.

    • Secondo me si sta andando fuori carreggiata: ha davvero poco senso colpevolizzare chi ordina qualcosa da casa se a casa è costrett* a starci e gran parte dei negozi “fisici” sono chiusi. Anche distinguere tra beni “voluttuari” e non è arbitario: per settimane non si sono potuti comprare pennarelli, pastelli, matite colorate. Le cartolerie erano chiuse, nei supermercati quei reparti avevano il nastro bianco e rosso, le tabaccherie – che spesso hanno anche articoli di cancelleria – erano aperte due ore al giorno e c’erano lunghe file di tabagisti. Chi ha bambin* sa cosa questo abbia voluto dire. È chiaro che in simili condizioni tocca ordinarli on line. Non si può dare la colpa all’ultima ruota del carro. La colpevolizzazione è solo una variante della sopravvalutazione del gesto individuale: che questo gesto sia buono e salvi il mondo (consumo “critico”, pratiche virtuose ecc.) o sia cattivo e lo condanni, sempre lì siamo.

      • In particolare sulla questione dei beni voluttuari sono d’accordo, e credo che da una parte ci si sarebbe dovuti incaxxare tutti molto di più e che dall’altra sia stata una scelta deliberata «perché volevamo dare il senso che il regime di restrizioni […] doveva essere molto severo e stringente.»

        Una cosa semplicemente assurda, specie perché i supermercati, ad esempio, quelli sempre aperti e con la coda d gente obbligata ad andare a far la spesa, quei prodotti (cancelleria, pastelli, giocattoli per bambini, ma anche prodotti per il piccolo giardinaggio) li hanno sempre normalmente fra gli scaffali che però dall’oggi al domani sono stati transennati. Che senso aveva dal punto di vista pratico e del contagio? Nessuno!!

        L’unico senso possibile era far penetrare nell’animo di tutti la sensazione e le restrizioni “dell’essere in guerra”, della fila per il pane e le tessere annonarie!

        Solo l’altra settimana in un supermercato fra le altre cose della spesa mia moglie ha comprato 2 giochi da pochi euro per i nostri bimbi in un reparto tecnologia (scaffali aperti e accessibili fra altre cose acquistabili).
        La commessa non ci ha fatto caso e tra gli altri prodotti glieli ha venduti.
        Un paio di giorni dopo mia moglie (sempre la moglie del Tenente Colombo) mi ha chiesto, mentro ero in giro, di andare nello stesso negozio per comprare un terzo gioco identico (negli stessi scaffali di libero accesso fra prodotti vendibili), da regalare al bimbo dei vicini che gioca nel cortile a fianco al nostro.
        Ebbene: gioco in scaffale, commesso diverso alla cassa, non me lo hanno venduto!!!
        “Eh, no, se poi controllano gli scontrini va nei guai lei e anche noi”.

        Qual è la logica epidemiologica? Nessuna.

        Senza contare la porta lasciata aperta da norme indeterminate e illogiche alla discrezionalità di chi controlla di “verificare” ciò che hai comprato, come nel caso di un signore che aveva comprato solo vino ed è stato sanzionato perché “non erano beni di prima necessità”. (notizia uscita sulla stampa locale)

      • «Il problema degli altri è uguale al mio. Sortirne tutti insieme è la politica. Sortirne da soli è l’avarizia». La penso come Don Milani e voglio capire come possiamo riconquistare un insieme, per uscirne insieme. Questo è per me il punto. La domanda è: Che fare? “Ho paura di un virus contagioso e mi isolo in casa ma al tempo stesso moltiplico per altri le modalità di esposizione al contagio da cui io mi proteggo”: il problema non è demonizzare chi per necessità si rivolge all’unica insegna ancora aperta, ma la critica all’individualismo radicato che questa dissociazione esprime.
        Come possiamo ricostruire percorsi di espressione collettiva se l’impedimento, prima ancora dell’isolamento, è il non riuscire più a sentire che il problema degli altri è il nostro?

        • Mi piace il punto di vista espresso in questo commento.

          Purtroppo questo tipo di individualismo è molto diffuso e caratterizza in pieno la nostra società, dove anche fra gente teoricamente di sinistra prendono facilmente piede narrazioni come quella dei “furbetti”, dell’Italia paese di “indisciplinati” (è per quello che in Germania riaprono le scuole) etc.
          Da qui lo schema “Io” (intelligente, rispettoso, smart) VS “gli altri” (mandria di pecoroni senza arte né parte).

          Confesso che è uno schema seducente e che anche io, a volte, mi ci trovo dentro senza neanche farlo apposta, basta solo inquadrare la categoria “Gli altri” in modo personalizzato e lo schema torno comodo.
          Stavo quasi per applicarlo a quelli chiusi in casa che comprano roba on-line per poi disinfetterla e “decontaminarla” compulsivamente sul pianerottolo di casa… :)

          Venendo al “che fare” (ricostruire percorsi di espressione collettiva?) non ne ho idea.
          Vedo in giro, nella mia realtà territoriale (rurale) alcuni esempi virtuosi costituiti da Ecovillaggi dove (almeno dal mio punto di vista esterno) sembra ben chiaro il concetto di Comunità e di bene comune e dove (almeno teoricamente), si cerca di vivere in modo sostenibile e rispettoso dell’ambiente e degli altri essere viventi.

          Il fatto è che non sono prima di tutto modelli replicabili su larga scala e che comunque (non conoscendoli direttamente dall’interno non posso dirlo con certezza) lasciano più di un dubbio sulle gerarchie interne nell’attribuzione di oneri e onori (chi prende la vanga in mano e chi va a fare il rappresentante del prodotto bio?), sull’applicazione dei principi che dovrebbero animarli e sulla democrazia interna.

  29. Così, “per rifrancar lo spirito tra un enigma e l’altro…” (da Repubblica):

    Coronavirus, l’Oms: “Svezia modello per il ritorno alla normalità”

    L’Organizzazione mondiale della Sanità indica il Paese nordico – che ha raggiunto i 20mila contagi – come esempio per la fase 2. E risponde ancora una volta alle accuse Usa: “Abbiamo reagito in tempo”

    Svezia sì, Svezia no. Tutti a parlare del Paese nordico e del suo controverso soft lockdown. L’organizzazione mondiale della Sanità invece non ha dubbi, e durante il consueto briefing sulla pandemia ha spiazzato la comunità internazionale. “La gente pensa che la Svezia non abbia fatto nulla, non potrebbe essere più falso”, ha detto il capo del Programma di emergenze sanitarie, Mike Ryan. E ha continuato: “La Svezia ha messo in atto misure di salute pubblica molto forti. Quello che hanno fatto di diverso è che si sono basati su un rapporto di fiducia con la cittadinanza”.

    Secondo Ryan gli svedesi sono passati direttamente alla fase di convivenza con il virus, la famosa “fase 2” che tutto il mondo si sta preparando a realizzare. “Se dobbiamo arrivare a un nuovo modello di vita di ritorno alla società senza nuovi lockdown, penso che la Svezia possa essere un esempio da seguire”. Insomma, in Svezia “stanno capendo come convivere con il virus in tempo reale, il loro modello è un strategia forte di controllo e una forte fiducia e collaborazione da parte della comunità. Vedremo se sarà un modello di pieno successo o meno”.

    Rispetto al resto del mondo, ben lontano dall’aver impostato un approccio lassista, la Svezia – che ieri ha annunciato di aver raggiunto i 20mila casi di Covid 19 – ha applicato “una forte strategia di sanità pubblica, puntando sulle misure di igiene, di distanziamento, proteggendo le persone nelle residenze assistenziali”. Lo snodo cruciale “è stato il rapporto con la popolazione, che ha avuto una forte volontà di aderire al distanziamento fisico e di auto-regolarsi. In più, il sistema sanitario è sempre rimasto al giusto livello di capacità di risposta all’emergenza”, ha aggiunto Ryan.

  30. Ho visto, dai lanci ANSA, che gli esperti si sono scatenati. Secondo me esiste un utile strumento per rintuzzare, dall’interno, certe pretese. Solo il punto 1 mi interessa sottoporre all’attenzione dei lettori del Blog. Gli altri, cose già dette, sono un riempitivo per superare l’asticella-battute (ottima idea, peraltro)
    1- fondamentale, in epistemologia, è la distinzione tra fatto e valore, “fact–value distinction. “Questa barriera…implica che è impossibile derivare asserzioni etiche da argomenti fattuali” wiki, s.v.
    2-Una cosa e’ sentire gli esperti e poi decidere secondo le normali modalità decisionali di una democrazia, cioè’ insieme alle parti sociali, ai rappresentanti della società civile. L’altra è usare l’esperto come un manganello per tacitare e imporre dall’alto qualunque cosa. Questa mi sembra la prassi del conte di Silvestrini.
    3- chiunque dovrebbe sapere che la scienza non è fatta di verità eterne e indiscutibili, che esistono opinioni differenti, che non è detto che l’opinione dell’esperto X o del gruppo di esperti G sia l’ultima parola sull’argomento. Questo vale nel campo del dogmatismo, non della scienza.
    4- I campi del sapere sono tanti. Affidarsi solo ai virologi senza sentire il parere di altri esperti è aberrante. Lo psicologo dirà che il confinamento forzato è nocivo alla salute psichica. Il sociologo dirà che impedire le relazioni sociali erode un’attività basilare per una democrazia. Il medico dirà che l’attività fisica è ottima per la salute ecc.

    • Mi scuso se mi faccio un po’ di pubblicità, ma ovviamente sono molto d’accordo, tant’è che appunto ho cercato di argomentarlo in qualche modo in questo pezzo: https://jacobinitalia.it/fate-parlare-gli-esperti-chi-si-deve-occupare-di-unepidemia/

      Forse virologi ed epidemiologi dovrebbero sfruttare questa occasione per provare a riflettere sugli incredibile danni che hanno provocato nel permettere l’utilizzo indiscriminato delle loro parziali conclusioni. Dire “non possiamo escludere che” e su una cosa del genere basare un provvedimento doveva essere avversato prima di tutti da loro, che invece si sono tenuti – generalmente parlando – alla larga.
      Per raggiungere i caratteri aggiungo che anche quelli che sono più piaciuti a noi (penso a Burgio e a Crisanti) dovrebbero distinguere meglio i due momenti dell’analisi di quanto sta succedendo e dei suggerimenti per quello che c’è da fare. Molto spesso per me è un mistero trovare il nesso logico tra quanto hanno detto prima e quanto suggeriscono dopo.

  31. Anticipo che probabilmente il commento non riguarda l’impianto del post, ma solo una piccola parte di esso. Nonostante cio’ e’ una parte che mi interessa personalmente e su cui avevo gia’ riflettuto ripetutamente nelle scorse settimane.

    I costi del telelavoro purtroppo non sono solo le bollette leggermente aumentate. Sto vivendo il confinamento nella mia stanza in una casa condivisa da altre due persone. Lavoro al computer e per il bisogno di quiete non vado nel soggiorno ma rimango in camera. 20 ore al giorno nella stessa stanza. Come posso migliorare la mia situazione senza dimettermi? La sola idea che mi venga in mente e’ cercarmi una casa piu’ spaziosa. Questo e’ il punto. Se condannate al telelavoro, quante persone dovranno aumentare lo spazio a disposizione? E sara’ il datore di lavoro a pagare l’affitto aumentato? Parallelamente, si alzeranno gli affitti? I proprietari di immobili, insperabilmente, guadagneranno ancora di piu’?

  32. Sto lavorando a contratto per l’università di Padova e faccio corsi d’inglese. Oggi ci hanno detto che, se ci saranno ancora soldi per fare i corsi, i nuovi corsi d’inglese a settembre saranno fatte tendenzialmente su Zoom. Senza neanche dire “purtroppo pensiamo che ci sia ancora necessità” che è una cosa che non possono sapere di settembre. Era un caso di “in tanto va bene così quindi continuiamo”, anche perché “è commodo per chi viene da lontano”. Sono rimasta sconvolta. Quello che serve si fa, ma appena possibile dobbiamo uscirne.

    La cosa strana è nessuno ha protestato e alcuni colleghi sembravano pure contenti. Non so se era a causa della pressione, sentita anche da me, di fare la brava professionista che non si lamenta ma va avanti, o se davvero a loro va bene fissare lo schermo con dieci foto di studenti.

  33. Non pretendo di pensare che questo forum sia “avanti”, però qui il problema del telelavoro è emerso, ed emerge con sempre nuovi contributi.
    La maggior parte dei potenziali telelavoratori però, quasi certamente non si rende conto di quali siano i pericoli che ci sono dietro. Crede probabilmente che il telelavoro sia solo liberazione dal traffico snervante, dai mezzi pubblici sovraffollati, dal massacrante pendolarismo; che sia solo il poter lavorare da casa con ritmi autoregolati; che la DAD sia gestibile; che sarà finalmente facile conciliare impegni lavorativi e impegni familiari; che vedersi vis-a-vis o con uno schermo a fare da intermediario sia la stessa cosa.
    Amici insegnanti mi hanno detto che hanno fatto ore e ore di webinar per imparare ad usare zoom, e poi google classroom, google meet, google moduli. Sono stati formati. E quella formazione non può essere un episodio, deve tornare indietro fino all’ultimo centesimo, ecco perché, come dice Derkhan, a Padova si da per scontato che a settembre si riprenderà con queste modalità. Le scuole medie inferiori e superiori non possono passare d’emblée a questi strumenti per ovvie ragioni ma l’università, perdonate un altro francesismo, è fottuta, temo.

  34. Intanto questo

    https://jacobinitalia.it/i-bambini-nellarmadio/

    E poi una considerazione assolutamente scontata sul fatto che proprio Landini abbia chiesto un contratto ad hoc per chi ” lavora da casa”
    Cito Hunter: “C’ erano molte situazioni in cui il quartiere rimaneva unito. Avevamo trovato il modo di far capire che, se volevano fotterci, noi non avremmo fornito la vasellina”
    ” Eppure è stato proprio in quelle circostanze che mi sono reso conto che l’ autodifesa contro i potenti è possibile. Che proprio chi è stato spinto in fondo ha più possibilità di reagire. “

  35. “Andrà tutto bene”: “Arbeit macht frei” (e ci fottiamo anche l’arcobaleno)
    “Niente srarà come prima” (aggrapparsi ferocemente a quel poco che rimane)
    “Non vogliamo tornare alla normalità, perché la normalità è il problema” (sarete accontentati)

    “Non è il lockdown che ha smaterializzato i rapporti umani, ma viceversa, sono le preesistenti condizioni di smaterializzazione (dettate dalle esigenze ideologiche e di profitto) che hanno reso possibile il lockdown.” Mi convince moltissimo. Grazie di tutto e soprattutto di questo paragrafo!

    Esistiamo e resistiamo chiuso version:
    https://youtu.be/mCR0RcfPT2s

    Buon Primo Maggio

  36. Buongiorno. Ringraziandovi (mai abbastanza) per il quotidiano lavoro di analisi e smontaggio che svolgete, un’opera di indubbia utilità sociale, volevo segnalare, se non è già stato fatto, che in Toscana è uscita una nuova ordinanza. In pratica ai fini dell’attività motoria, sia a piedi che in bicicletta, viene abolita la “prossimità all’abitazione” ma permane l’obbligo di rimanere dentro ai confini comunali. La reazione di Conte non si è fatta attendere, dichiarando illegittii i provvedimenti “meno stringenti” rispetto a quelli nazionali. http://archive.is/877Tp.

  37. Segnalo in coda a questo post un mio articolo su Jacobin che parte dal tema dell’isolamento antisociale dei bambini per provare a uscire dall’opposizione strumentale del falso conflitto tra “insegnanti privilegiati” e “genitori parcheggiatori”, due nemici di paglia costruiti ad arte. Bisogna uscire dallo schema della guerra tra poveri e buttare la palla nel campo avverso, dove può fare male. https://jacobinitalia.it/i-bambini-nellarmadio/ (Lo incollo qui ma potrebbe andare come commento a diversi post usciti su Giap, dato che è un argomento che è stato affrontato a lungo qui su Giap).

  38. Nota al paragrafo 4. Ammesso che la fase, sia una fase di transizione, mi sentirei quasi di avanzare una proposta semplice, comprensibile anche ai nostri dirigenti sindacali, molto Costituzionale:

    NON SI TORNA AL LAVORO SE NON SI TORNA IN PIAZZA

    #iorestoacasa

    https://youtu.be/j4olorL5Ikc

    Nota al paragrafo 4 : vedo le considerazioni di Atag, commento 60 a Brodo di DAD e la sua pregnante citazione: «La macchina si adatta alla debolezza dell’uomo, per fare dell’uomo debole una macchina» (Marx, Grundrisse) e mi permetto di rimandare al mio commento, ibidem, n°59

  39. Aggiungo, come ulteriore campo di ricadute della riflessione, che nella disciplina della progettazione urbana sia ormai un pullulare di webinar, call for papers & affini che invitano a proporre soluzioni per il ripensamento degli spazi pubblici in funzione del distanziamento sociale necessario per far fronte etc.. etc…
    Ora, visto che la morfologia urbana non si cambia con la velocità di un dpcm, mi viene da pensare che ci sia un’intenzione esplicita mirata a tramutare un’emergenza contingente in una condizione permanente nella struttura stessa del territorio.

  40. https://archive.is/L6Z4o
    Se Landini auspica un CCNL che disciplini il “lavoro da casa” ovviamente non stupisce che questo individuo arrivi a spacciarlo come un diritto. E addirittura a paragonarlo a conquiste come il sabato libero ed il congedo per maternità. Naturalmente non si parla di lavoro “agile” inteso come possibilità di alternare in base alle proprie esigenze la prestazione da remoto a quella nello spazio fisico approntato dal datore di lavoro. Si tratta piuttosto di una ghiotta occasione per relegare il dipendente in una dimensione dalla quale fará certamente più fatica ad emergere per incanalare in forme comuni ed organizzate eventuali manifestazioni di disagio o contestazione. Oggi, 1 Maggio preferisco soffermarmi a riflettere piuttosto che su questi abomini, sulla lotta dei minatori che nel Settembre del 1904 persero la vita durante i moti di Bugerru e cercare di trarne insegnamento per questi giorni bui per i lavoratori.

  41. Segnalo, all’incrocio preciso di tanti temi toccati in questo e soprattutto in altri post (abuso giornalistico, stato di polizia, sessufobia, divieti arbitrari…), il modo disgustoso con cui Repubblica-Bologna riferisce di una donna multata perché prendeva il sole («in topless» precisa dal titolo il giornale) a Monte Sole, in solitudine, senza poter contagiare né essere contagiata da nulla di virale né batterico, al messimo beccandosi una scottatura perché col vento di questi giorni, si sa, non ci si accorge della forza del sole.

    Dicevo: La Repubblica mette nel sommario un lapidario «sui luoghi della strage nazifascista», procedendo così a creare uno stigma sulla base dell’accostamento volutamente urtante: «topless» VS sobrietà dovuta a un luogo di strage; quando in realtà la donna si trovava semplicmente all’interno del parco di Monte Sole, entità che ha una sua vita, e un certo numero di abitanti, non è un sacrario né un cimitero e non è composto esclusivamente dai borghi e case travolte dalla strage.

    Ma le opposizioni implicite sono ancora di più: Topless VS luogo di strage ma anche VS atteggiamento penitente che bisogna assumere per combattere il virus. Il «regime molto stingente», ormai è chiaro, riguarda anche i lacci dei reggiseni. Repubblica lo suggerisce, Cateno De Luca lo dice chiaramente.

    A imperitura memoria l’articolo è riprodotto qui: http://archive.is/A77c5

    • Temo che il giornale citato si manifesti oggettivamente, al nostro occhio critico ed allenato, come pericoloso concentrato di sadica perversione. In questi giorni mi sono chiesta,in particolare, come possa la schiera dei giornalisti mainstream essersi così omogeneamente amalgamata in maniera scandalosamente servile, tanto da rendere irriconoscibili le singole individualità. Neppure un sussulto di orgoglio personale che consenta di distinguere una firma dall’altra. Il nulla che avanza, ma che era già stato marzialmente intruppato ed irregimentato, per servire meglio il padrone. Scelti a sua immagine e somiglianza. Un processo di omologazione che colpisce trasversalmente la politica parlamentare e il giornalismo mainstream, in un unico corpo compatto e senza contraddizioni che permettano di identificare forme di vita. Sono morti che camminano da spazzare via. Come tutti quegli ” intellettuali ” di ‘sto cazzo che hanno firmato un appello a favore del governo Conte. Forse come diceva Prunetti “servono nuovi intellettuali, in senso gramsciano come espressione della nuova classe lavoratrice, che possano formarsi e prendere la parola per cambiare tutto questo”. Ovviamente non si può che partire dal basso. Qui non c’è più nulla NULLA da salvare. Da molto tempo ormai.

      • Non ho potuto fare a meno di notare che tra le firme di quell’appello c’è quella del personaggio che l’anno scorso aveva promosso una *discussione* su FB di questo tono:

        « … sradicare completamente la mala pianta della criminalitá e del vagabondaggio … Ora ci vuole una repressione decisa, che non dia tregua … i vagabondi, che non confondo con la criminalitá ma non possono essere condomini di uno dei centri piú importanti di Bologna e non solo. Ora basta.»

        Ne parlo al paragrafo 5 qui https://www.wumingfoundation.com/giap/2020/01/la-sfida-di-xm24-contro-il-nulla-2/ , dove trovate anche i link ai post originali (anzi riprodotti fuori FB).

        A questi la libertà di attraversare lo spazio pubblico faceva già schifo prima della pandemia.

        • “Bologna deve ora occuparsi di sradicare completamente la mala pianta della criminalitá e del vagabondaggio da Piazza Verdi”.
          Riempio i puntini sospensivi del virgolettato perché ho un punto di osservazione privilegiato su quella piazza.
          Per qualche tempo, dopo l’inizio dell’emergenza, lo spazio ha continuato ad essere un punto di ritrovo per ragazzi africani e homeless. Verso ora di pranzo, sulle panchine, alcuni consumavano un pasto fornito dalla chiesa vicina.
          Tutti cercavano di mantenere la distanza fisica, molti erano con la mascherina. I ragazzi africani al sole davanti al teatro comunale, gli homeless sulle panchine dall’altra parte della piazza. Più volte al giorno la polizia o i carabinieri intervenivano, con modi più o meno bruschi (come raccontano anche da filo a piombo in un precedente post). Ii “tornatevene a casa” dei primi giorni sono risultati ben presto grotteschi anche alla polizia che si è poi limitata a scacciare le persone (a volte con i gesti tipici e silenziosi con cui si scacciano i piccioni).
          Con il tempo, come qui si è già sottolineato, la condizione delle persone che frequentavano la piazza si è drammaticamente aggravata.
          Dal 21 aprile la piazza è presieduta stabilmente da un impressionante dispositivo poliziesco. Camionette dalla polizia e/o dei carabinieri, volanti, fdo in borghese, arrivano la mattina presto e ripartano a tarda notte.
          Dico “impressionante” perché, ad esempio, 4 camionette della polizia, 5 volanti, 20 poliziotti in cerchio tutti insieme in una piazza vuota fanno un certo effetto. Se non fosse drammatico, sarebbe ridicolo.
          Ad eccezione di stamattina (non c’è nessuno) e di un paio di giorni prima del 25 aprile la situazione è quella descritta.

          La macchia sul vestito buono del centro di Bologna è stata lavata. Il vagabondaggio è stato “sradicato”.
          I ragazzi africani e gli homeless in Piazza Verdi non ci sono più.
          In compenso il Teatro Comunale continua a inondare di musica classica la piazza vuota, come se fosse il set di un buon film distopico.

        • A proposito dei commenti di Wolf e di Nephila: è tutto cominciato con l’ amuchina!!! Già molti anni fa, accanto alle politiche antidegrado, si promuoveva compulsivamente una idea di sanificazione fasulla, quella del disinfettante per le mani che, a ben vedere, da un punto di vista igienico fa schifo quanto la mascherina ed offre una idea solo estetica di pulizia così come per il decoro. Non sono mai riuscita a trovare nel vocabolario italiano un’ espressione tanto inutile, tanto vuota. E come Nephila, ho notato anche io un aumento della pressione poliziesca su tutti coloro che “disturbano” il decoro, per il semplice fatto di esistere. L’altro giorno in strada maggiore, vigili e nettezza urbana, hanno colto l’occasione, con la scusa della sanificazione ( mai vista prima nessuna disinfezione, ma così hanno giustificato il loro intervento) per gettare via tutte le cose di D. Che vive di fronte al museo della musica. Nel suo ” carrello”, tutta la sua vita. Sono intervenute tante donne, che abitano in quartiere, e si è riuscito a salvare l’ indispensabile. Nel frattempo nella mia via stiamo progettando una iniziativa che sia l’ occasione per ripristinare una vaga idea di socialità, per sconfiggere la diffidenza e il sospetto che si vogliono diffondere tra le persone. È questo il momento per ricominciare ristabilire contatti umani. Conto sul fatto che a luglio, anche il più zelante dei bravi cittadini bolognesi, abbandoni la malsana idea di indossare la mascherina all’aperto. E quando mi fermo a parlare con qualcuno cerco di portare l’ attenzione sull’impatto ambientale di questa pratica dell’usa e getta. Sullo spreco di risorse per acquistare mascherine invece di aiutare chi ne ha veramente bisogno. Concetti semplici,basilari, con lo scopo di insinuare piccoli dubbi. Inoltre mi rifiuto di vestire una mascherina se non mi viene fornita dal commerciante. L’acquisto di mascherine è un lusso oltre che un enorme spreco.

    • Bleah… notare il finale compiaciuto con cui il giornalista chiude il pezzo: “ denunciata per oltraggio a pubblico ufficiale”…mancava solo che aggiungesse “ la prossima volta impara”.
      La stampa dominante pullula di articoli conditi da giudizi morali neppure velati, quasi che i cronisti fossero agenti della buon costume usciti da qualche B-movie degli anni settanta. L’attuale pandemia sembra averci catapultato in uno Stato etico ed il virus è diventato il baluardo di una nuova forma di decoro sia esso urbano, comportamentale, lavorativo.

  42. Articolo interessante, e come sempre mi lasciate molto perplesso.
    Per esempio, il fatto che alcune aziende guadagnino da questo stato di cose non si può forse spiegare col fatto che il capitalismo (o, senza astrarre troppo, un “bravo” capitalista) riesce a fare soldi da qualsiasi situazione, invece che col fatto che preferisca il confinamento? E d’altra parte con il blocco degli spostamenti molte grossissime compagnie stanno andando sotto e di molto (l’AD di Lufthansa dice che stanno perdendo un milione di euro all’ora!). E per lo meno Netflix inquina di meno di una compagnia area.
    Simile discorso per la tendenza alla smaterializzazione, che in sé non mi pare per niente negativa. Dipende da come viene gestita, certo, ma la frase che citate («questo servizio ci consente di far fronte al meglio all’emergenza e di sperimentare modalità innovative di relazione con il cliente da sviluppare in futuro») non riesce a preoccuparmi. Uguale per venire pagati a tempo o a risultato: se la paga è degna non mi pare affatto un problema – e se è indegna sarebbe grave anche se fosse oraria.
    Insomma, come già avevo detto riguardo a La danza delle mozzarelle, Bukowski mi sembra tendenzioso: cerca le cattive intenzioni ovunque, e le conferme sono facili da trovare, se è quello che si cerca. (D’altra parte lui potrebbe ribattere che sono io ad essere ingenuo).

    Saluti e grazie per essere stimolanti e fastidiosi abbastanza da farmi scrivere un commento che so benissimo verrà smontato pezzo per pezzo :)

    • 1v4no, quindi siccome qualche capitalista guadagna e qualcuno perde non esiste un ” progetto “, un modo di ridisegnare la vita sociale che si possa rivelare estremamente più funzionale al profitto? Giacché la “smaterializzazione” comporta un un azzeramento di qualunque possibilità di conflitto e giacché i costi della smaterializzazione li paghiamo tutti noi sulla nostra pelle, come perdita di indipendenza ( in particolare per le donne), come aumento del carico di lavoro ( se non si stabilisce una netta separazione fra tempo libero e lavoro), come aumento del carico familiare ( sempre sulle spalle delle donne). Cancellando la possibilità di avere un tempo di vita che non sia in funzione della famiglia e del lavoro. Esiste una retribuzione adeguata per questo e si può svendere la propria esistenza così senza battere ciglio, perché “sembra smart”,rinunciando alla propria vita sociale ? Qui è già molto diffusa la pratica di piccoli “asili” casalinghi, mamme che si organizzano per pagare una baby sitter che guardi i bambini mentre vanno al lavoro, per potere conservare un minimo di autonomia in mancanza di un servizio di supporto. Che in moltissimi casi, appunto, non c’era già prima. Non solo ci viene chiesto di sacrificarci per il profitto ( degli altri) ma anche di inchinarci e leccare il pavimento, mostrando di essere felici per questo.

    • Come desideri :-)

      1) Dov’è che avrei scritto che il capitalismo *preferirebbe* il confinamento?
      Ho scritto: «[…] c’è da tenere presente che ci sono […] settori economici che ne saranno darwinianamente rafforzati […:] Telecomunicazioni, logistica, intelligenza artificiale, GDO […]»
      E ancora ho scritto: «il lockdown ha influenti vincitori». Argomento sviscerato in queste pagine fin dal «Diario Virale» ma anche ben prima del Covid: il capitalismo non è un complotto, e «bravo capitalista» non vuol dire niente. C’è lotta di classe, ma c’è anche competizione feroce all’interno della classe borghese. Qui provavo a indicare vincitori e perdenti, e visto a chi hanno dato la presidenza del parlamento, pardon, della task force, esiste evidentemente più di un filo di comunicazione tra quei settori e il governo. Che ci sia gente (padroni) che andrà a gambe all’aria è chiaro. Saranno bravi, come al solito, a rigirarsi per cadere in piedi e a scaricare tutta la sofferenza verso il basso.

      [continua]

      • [segue]

        2) Riguardo tutto il tuo capoverso che inizia con «Simile discorso per la tendenza alla smaterializzazione»: da decenni (decenni!) l’informatizzazione e la meccanizzazione spinta vengono usate sistematicamente per ridurre i salari e indebolire ogni forma di pressione collettiva o individuale (persino quella degli utenti, pensa te, che non possono neppure andare a far due urli a uno sportello). Non possiamo oggi permetterci di dire «dipende da come viene gestita», perché abbiamo troppa esperienza di come viene gestita. Sarebbe come dire del chirurgo che ha totalizzato dieci morti su dieci appendiciti, «dai facciamogli fare questo intervento a cuore aperto, magari va bene!». Se nella fantasia dei tecnoentusiasti (che a volte si identificano come accelerazionisti) esiste una storia parallela in cui tutto dipende da «come viene gestito», ebbene non è così. Anche questo è già stato oggetto di ampia analisi: gli strumenti incorporano un uso, sono progettati per un uso. Questo uso è frutto dell’ideologia e dei rapporti di classe in cui è stato pensato e progettato. Gli strumenti non sono neutri. Banalizzando: una roba come Facebook non ha un uso positivo possibile; se ce l’avesse sarebbe solo un’agenda, e allora non sarebbe Facebook.

        [continua]

        • [segue]

          3) Che la paga oraria sia come il cottimo vallo a dire a chi ha fatto il cottimo. Ah, non è cottimo, lo chiami «risultato». Cioè è un cottimo complesso e organizzato che il padrone ha chiamato «risultato» o «progetto», stabilendone il valore. Un esempio anche qui: D’Alema (credo: vado a memoria) diceva che il lavoro interinale era una bella cosa, perché avrebbe messo sul libero mercato le altissime professionalità, che avevano solo da guadagnare dalla concorrenza. Poi alla fine nella rete degli interinali (e peggio) ci sono finiti tutti, e soprattutto quelli che non avevano megaprofessionalità da far valere, schiacciati dalla concorrenza tra poveracci. Applicare alla generalità dei lavoratori modelli maturati in contesti assolutamente minoritari, tra campionissimi della propria disciplina professionale, è solo un modo per camuffare i rapporti di forza e la loro brutalità.

          4) Le «cattive intenzioni» sono davanti agli occhi, non si premurano neppure di nasconderle. Io certamente sono tendenzioso (no problem, anzi), ma per non vederle ci vogliono delle belle fette di salame sugli occhi (lo dici pure tu: «le conferme sono facili da trovare»…)

          [Fine]

      • Rispondo ai tuoi punti.

        1) Quindi da questa situazione c’è chi ci guadagna e chi ci perde in ogni fascia sociale. Come al solito, no? Mi pare quindi siano due questioni separate: da una parte gli interessi in conflitto tra diverse classi sociali, dall’altra il confinamento. Il problema a me sembra non tanto che i fornitori di servizi online ci guadagnino, quanto far loro pagare le giuste tasse, possibilmente molto alte, visto che i soldi per la spesa pubblica da qualche parte devono pur venire. (E sì, bisognerebbe anche avere controllo sulla loro gestione dei nostri dati personali. Ma qua si va OT, credo). Ma le tasse (alte, altissime) dovrebbero pagarle tutti i ricchi, non solo chi gestisce servizi online. E, ripeto, a parità di situazione, mi sembra meglio che prosperino settori dell’economia che sono meno dannosi per l’ambiente (ammesso e non concesso che non si tornerà presto come prima).

        2) È nozione comune che, schematizzando, dagli anni ’80 in poi sono aumentati disuguaglianze, porzione di reddito da capitale rispetto a quella da lavoro, e in generale la forza di chi impiega rispetto a chi è impiegato (a seguito di un trentennio post-Seconda Guerra Mondiale in cui le cose andavano nel verso opposto). Sul perché di queste trasformazioni, però, non ho trovato grandi spiegazioni (né le mie scarse nozioni di economia mi permettono di proporre ipotesi). Che il motivo sia la smaterializzazione lo leggo qua per la prima volta. E non è necessariamente vero che a distanza non si possa esercitare nessuna forma di pressione sul potere. Gli stessi WM nei due pezzi sul loro abbandono di Twitter spiegano con dovizia di esempi come siano tante volte stati all’avanguardia nel proporre nuovi metodi di lotta (perdonatemi la leggera ironia), e quelli sono solo i metodi legali.

        4) Quando dico “le conferme sono facili da trovare” intendo che è facile trovare conferma delle proprie ipotesi, se è quello che si cerca. Bisognerebbe cercare falsificazioni delle stesse, invece, per metterle alla prova. Idea non mia, ovviamente (cito liberamente da Karl Popper).

        E sì, non ho (ancora) una risposta al tuo punto 3 :)

        Saluti e buon lavoro.

        • Solo una rapida nota al tuo “contro-punto 2”: è vero che nella nostra miniserie sull’abbandono di Twitter abbiamo fatto un resoconto su come abbiamo cercato di usare quel mezzo, raccontando uno per uno i nostri esperimenti più rilevanti. Ma lo abbiamo fatto nel quadro di un’autocritica complessiva, ammettendo in buona sostanza di avere fallito, di aver perso un sacco di tempo e di avere rischiato di finir male. Siamo rimasti su Twitter svariati anni di troppo, per forza d’inerzia o per addiction, anche quando eravamo ormai in burnout e sbagliavamo una mossa dopo l’altra. Altro che avanguardia… Dunque, non prenderei quella carrellata di “azioni” come campionario di esempi ispiranti.

        • 1) Ciò che ho scritto nell’articolo è che, all’interno della classe imprenditoriale, il lockdown avvantaggiava alcuni settori di business (specificamente digitale e TLC) a danno di altri, e che questo era in relazione con le scelte del governo (non sto a ripetere, è scritto qui sopra). Tu hai interpretato, nel tuo primo commento, che io sostenessi che il confinamento favoriva un generico «capitalismo», e sbagliavi perché non l’avevo affatto scritto. Poi, in quest’ultimo commento sostieni che «c’è chi ci guadagna e chi ci perde … Come al solito, no?» e che quindi «interessi» e «confinamento» sono «due questioni separate».

          Va bene, è il tuo pensiero, ma rispetto a ciò che dico io è un totale non sequitur. E, dunque, il tuo incipit con un «quindi» è totalmente fuorviante. Non stiamo ‫ duellando per un’interpretazione, siamo semplicemente in totale disaccordo sull’analisi.

          2) Dove avrei scritto che il «motivo» delle aumentate diseguaglianze sarebbe la «smaterializzazione»? Ho scritto invece che «l’informatizzazione» viene usata «per ridurre i salari […]» ecc. Cioè che è stata storicamente utilizzata a tale scopo, non che ne sia la causa. Il trapano «incorpora» la volontà di fare un buco nel muro, è progettato per fare un buco nel muro, ma non è causa di per sé del buco nel muro, che è una decisione del… trapanatore. Il mio è un invito a guardare storicamente i processi, e a non illudersi che quegli stessi strumenti possano essere semplicemente ribaltati di segno. Essi vanno, semmai, totalmente riprogettati.

          4) Il punto non è per nulla epistemologico. Di nuovo semplicemente non siamo d’accordo. Ho fatto un elenco di «intenzioni», che a me paiono, più che «cattive», «pericolose» per la qualità e la pienezza della nostra vita. Nel mio piccolo intendo contrastarle. A te non paiono «cattive», o forse non le consideri «intenzioni».

          [vedi sotto un PS]

          • PS: dovresti andarci più cauto sul considerare il digitale di per sé come economia più sostenibile ambientalmente. Oltre agli energivori data center, problema piuttosto noto ormai, la digitalizzazione delle transazioni economiche ha il suo pendant nell’ipertrofia della logistica, nel just-in-time eccetera. Per rimanere però al tema del mio pezzo, nel caso di una futuribile ma non troppo transizione definitiva allo smartworking, ognuno dei prima, metti, 20 lavoratori che erano raccolti sotto lo stesso tetto, dovranno riscaldare (a spese loro) il proprio appartamento raggiungendo i gradi che consentono di sopravvivere per 8 o più ore da passare fermi davanti al PC. Una devastazione, dal punto di vista dell’inquinamento. Questo va ovviamente messo in relazione al fatto che magari non si sposteranno in macchina, inquinando quindi meno, però altrettanto magari alcuni di loro lo avrebbero fatto in treno o a piedi o in bici… Insomma, il tuo implicito sulla «sostenibilità» del digitale va, come minimo, esplicitato e complessificato. Bisogna sempre guardare «cosa c’è dentro».

            Un saluto a te.

  43. Vorrei condividere un barlume di speranza. Scusatemi, ma ormai mi aggrappo a queste cose. Abito in un paesino vicino ai colli e spesso vado a fare brevi passeggiate su per sentieri dietro casa, non so se lecite o meno. Ho sempre incrociato tantissimi altri camminatori, a gruppi o solitari, di tutte le età, quasi tutti portatori di mascherina, a varie altezze del viso o intorno al collo. Ma soprattutto ho incrociato gruppetti di ragazzini (“delle superiori”, per intenderci) accampati qua e là, anche vicino alle ultime case (il paese è piccolo) tutti rigorosamente senza mascherina. Fin che non li ho visti ero convinto che questa generazione, i più giovani, presunta succube di Facebook e Twitter, di influencer e trapper, non solo non sarebbe stata restia a sostituire le relazioni reali con quelle virtuali, ma che anzi lo avrebbe fatto volentieri, automaticamente. E invece eccoli lì, seduti al sole uno addosso all’altro, che sfidano il virus e i droni. Forse non è tutto perduto. Forse la crescente generazione non è così pessima come la si dipinge, o la si vorrebbe, spersonalizzati soldatini di Chiara Ferragni. Forse è meno peggio della nostra. Io lo spero.

    • Di fronte alla criminalizzazione dei giovani nel corso delle crociate per il «decoro» (bevono le birre in piazza, fanno casino, sono «maleducati» in autobus e altre idiozie) mi sono sempre detto: se gli adolescenti e quelli poco oltre l’adolescenza non forzassero le regole della società non saremmo ciò che siamo, come specie umana intendo. Quella forzatura delle regole è essenziale e irrinuncibile, persino quando le regole sono più sensate di quelle di oggi. E anche in questa situazione ragazzi e ragazze devono – e forse già sanno come – andare *oltre*.

      Per esorcizzare questa possibilità i media di regime li hanno raccontati, da subito, come «resilienti», bravissimi e adattabilissimi, perché «nativi digitali» (concetto-bullshit già di per sé). Come se – ‘sti fanfaroni espertoni di radio e tv – non avessero mai visto un film in cui il ragazzo d’oro di mamma e papà sa trasformarsi dietro la porta della cameretta, e scappare dalla finestra metre i genitori vedono il telequiz.

  44. https://archive.is/1BmnN

    Scusate, lo incollo qui perché mi sembra attinente al tema dell’esasperazione del concetto di distanziamento. Deroghe su deroghe per le attivitá produttive ma insormontabili divieti opposti a persone che hanno esigenze legittime e degne di attenzione. Tanta inflessibilità non può trovare il suo fondamento nella tutela della vita di queste persone. Del resto nelle strutture accedono operatori sanitari ed addetti alle pulizie che non vivono blindati in quei luoghi. Quale sarebbe il discrimine tra loro e, ad esempio, una figlia che volesse vedere il proprio padre munita di ogni protezione?

  45. Ieri sera con la mia compagna pensiamo: domani andiamo al parco, ci mettiamo a leggere/studiare all’aria e al sole finalmente. (Lei studentessa, io insegnante disoccupato, da due mesi chiusi quasi sempre in un bilocale di 40m2 con pochissima luce). Poi mi viene in mente una cosa che ho letto di sfuggita: si può correre, passeggiare nel parco…da nessuna parte ho letto che ci si possa sdraiare sull’erba, la cosa più immediata che viene in mente quando si pensa a un parco. “Perché non dovrebbe essere possibile?” Stamattina controlliamo: pagina di FAQ del comune di Bologna: “NON SI PUÒ svolgere attività ludico-ricreative (prendere il sole).” Qual è la ratio? Fra l’altro in una conferenza stampa ieri Merola specifica che i parchi saranno controllati dalla Polizia che non esiterà a irrogare multe. Mi viene in mente immediato, chiarissimo, il ricordo di “W”, di Georges Perec, delle attività sportive promosse purché siano competitive, che man mano diventano più spietate, finché si palesano come lavori forzati fino alla morte in campo di concentramento. Si vieta esplicitamente l’attività ricreativa, cioè il divertimento, la gioia; l’attività sportiva è consentita purché in solitaria: che nessuno pensi di poter tirare un sospiro di sollievo. Eppure le quantità di respiro emesse nell’aria giocando una partita di pallavolo al parco sono le stesse di una persona che corre da sola, e volendo anche la distanza tra persone è la stessa. Ma il gioco no. Prendere il sole no. Potrebbe donare piacere. Potrebbe portare un sorriso. I bambini che giocano INSIEME potrebbero ricordare la gioia di vivere. Invece dobbiamo essere seri, contriti, performanti ma senza sentimenti, anche il dolore è finto, se ci si azzarda a essere sereni ci vengono sbattuti in faccia i morti, ma se poi ci sono dei funerali viene vietato di salutare quegli stessi morti. Questa serietà apatica mi ricorda ancora il nazismo. Si è detto con molte parole qui che siamo in una grande rappresentazione, ma una bugia che viene raccontata tante volte diventa vera, gli attori troppo coinvolti nel loro personaggio a volte non riescono più a lasciarlo. Questa pantomima rischia di trasformarsi in una tragedia grottesca.

    • Quel che sfugge completamente a chi emette questi decreti, proclami e FAQ è un dato ormai ampiamente assunto dall’antropologia medica: la contrizione, la serietà apatica non fanno bene alla salute, mentre la gioia, il divertimento e il sollievo sono concause di guarigione. Questi provvedimenti, questa mestizia per legge, ci fanno ammlare, in senso letterale, fuori da qualunque metafora. Ne parleremo meglio domani, in un articolo che hanno scritto per Giap le antropologhe Stefania Consigliere e Cristina Zavaroni

      • Tutto questo clima si riversa anche nelle parole che accompagnano la mini-riapertura iniziata oggi. Speranza che si dice “preoccupato”, Ricciardi che dice che se va male tra due settimane si richiude (in stile “bambini, se non state bravi in castigo, eh”), termini come “angoscia” che ricorrono su alcune testate. Il senso di colpa buttato sul cittadino, vietato essere non dico felici (impossibile in una simile situazione), ma anche essere sereni dieci dannati minuti. Pur mantenendo la cautela, anche stavolta la strategia comunicativa avrebbe potuto e dovuto essere migliore. Non lo si è voluto, evidentemente, a pensar male. O forse non si è semplicemente in grado e non so cosa sia peggio.

        • Ho fatto le stesse considerazioni. Il metro espressivo utilizzato dai sedicenti tecnici e consiglieri nonché dai titolari dei Dicasteri è improntato sullo spauracchio della punizione di ritorno. Tra l’altro, cosa che trovo insopportabile, questi saccenti usano toni da esseri superiori ed investiti di potere decisionale. Ma non mi risulta abbiano alcuna potestà al di fuori del loro campo di competenza. Che poi, non mi é chiaro perché la loro autorevolezza non possa essere messa in discussione e debba essere accettata supinamente ed acriticamente. Predicare prudenza è lecito, ma atteggiarsi a padroni delle nostre vite e censori dei nostri comportamenti non altrettanto. Il fronte che maggiormente mi preoccupa è proprio quello della manifestazione del dissenso. Con il pretesto del distanziamento e dell’obbligo di uscire dalle tane solo in casi selezionati non si esiterà a reprimere qualunque iniziativa non gradita, sia esso uno sciopero, una protesta, una espressione di dissenso politico. Il tutto sotto un cupo cielo di malinconia e dolore. Anziché infondere positività nelle persone ed invitarle a mantenere pratiche corrette (ma non ossessive ) coltivando nel contempo pensieri positivi attraverso la fruizione delle opportunità che li alimentano ( ad esempio un pic nic sul prato, una camminata sulla spiaggia, una manifestazione culturale all’aria aperta ) si demonizza ogni attività che esuli dal lavoro e dallo stato di necessità.

          • Non posso che essere d’accordo con questo commento e con quelli precedenti. Si tende a demonizzare qualsiasi comportamento che possa apparire ludico, appagante, che possa donare un po’ di svago e serenità. Ci si focalizza solo sui pericoli, si fanno delle deboli concessioni ma le si accompagna con l’ammonimento a non abusarne, a comportarsi bene se no si richiude tutto. Dove naturalmente sarà poi l’agente di polizia a valutare a sua discrezione se il comportamento del cittadino è stato corretto.

            E i nostri governanti hanno già pronto lo scaricabarile: se qualcosa dovesse andare male in questa “Fase 2” (che Fase 2 non è visto che molti divieti sono rimasti in vigore: per adesso siamo sostanzialmente ancora in prigionia, però chi deve andare a lavorare può farlo così il padrone è contento) naturalmente sarà colpa del cittadino che non ha seguito le indicazioni.

            Non del governo che in due mesi non è andato oltre l’imporre divieti ed obblighi uno più fantasioso dell’altro (e in alcuni casi nemmeno motivati) senza mettere a punto uno straccio di strategia d’uscita.

    • https://www.telegraph.co.uk/news/2020/05/03/time-take-seriously-link-vitamin-d-deficiency-serious-covid/

      https://www.medrxiv.org/content/10.1101/2020.04.24.20075838v1

      Livelli bassi di Vitamina D aggrava i sintomi del Covid 19 quindi tenere le persone al buio come scarafaggi prive della luce del sole e’ un’ulteriore scemenza e non crudelta’.

      Se fossero seriamente intenzionati a tutelare la nostra salute non ci avrebbero tenuti rinchiusi e ora consiglierebbero di prendere il sole. Ergo si deduce che della nostra salute se ne fregano allegramente.

      • Un’ulteriore scemenza SE non crudelta’ dovevo scrivere.

        E’ sempre piu’ chiaro che la salute pubblica qui in Italia e’ l’ultima considerazione nel contesto Covid 19 e non solo. La strategia illogica e repressiva qui e’ stata pensata per peggiorare la salute e abbassare le difese immunitarie. Ma perche’? Non puo’ essere una questione di semplice inefficienza, inettitudine ecc. Un “regime piu’ stringente” nelle parole di quel tizio della junta Merola.

        Dico andate a prendere il sole a stare all’aperto piu’ che potete perche’ c’e’ sempre Merola che non vede l’ora di richiudervi in casa!!

  46. […] * Wolf Bukowski scrive su Giap, Jacobin Italia e Internazionale. È autore per Alegre di La danza delle mozzarelle: Slow Food, Eataly Coop e la loro narrazione (2015), La santa crociata del porco (2017) e La buona educazione degli oppressi: piccola storia del decoro (2019). Nel 2020 dell’emergenza Covid ha scritto per Giap l’articolo in due puntate La viralità del decoro. Controllo e autocontrollo sociale ai tempi del Covid-19 e Max Headroom-19. Il sogno del «distanziamento sociale» permanente nella propaganda post-coronaviru…. […]

  47. […] * Wolf Bukowski scrive su Giap, Jacobin Italia e Internazionale. È autore per Alegre di La danza delle mozzarelle: Slow Food, Eataly Coop e la loro narrazione (2015), La santa crociata del porco (2017) e La buona educazione degli oppressi: piccola storia del decoro (2019). Nel 2020 dell’emergenza Covid ha scritto per Giap l’articolo in due puntate La viralità del decoro. Controllo e autocontrollo sociale ai tempi del Covid-19 e Max Headroom-19. Il sogno del «distanziamento sociale» permanente nella propaganda post-coronaviru…. […]