La sfida di XM24 contro il Nulla / Seconda puntata (di 2)

L’assemblea del 15 novembre nella «Cattedrale» della Caserma Sani.

L’assemblea del 15 novembre nella «Cattedrale» della Caserma Sani, sotto lo sguardo benedicente di quella che è stata subito battezzata come «Madonna Trans»

di Wolf Bukowski * – La prima puntata è qui.

Jacques Pantaleón, da pochi mesi papa Urbano IV, il 23 dicembre del 1261 apponeva il suo sigillo alla bolla Sol ille verus. Poco dopo, una copia del documento veniva consegnata a un messo e questi lasciava il Palazzo dei Papi, attraversava al trotto le strade della provvisoria sede pontificia di Viterbo.

Oggi su quel centro medievale spira un alito di gentrificazione, fatto di offerta gastronomica pervasiva, di retorica del «bello» e della candidatura a diventare parte del patrimonio Unesco. All’epoca, tutto ciò era non solo lontano, ma inimmaginabile. Tanto per il papa, quanto per il messo, che veloce si allontanava e puntava verso nord.

In pochi giorni, l’attesa notizia del riconoscimento dell’ordine religioso-militare della beata Maria Vergine Gloriosa giungeva a destinazione. In questa seconda città – vi fosse arrivato oggi – il cavaliere avrebbe trovato non un alito come a Viterbo, ma una tempesta di gentrificazione, fatta di nauseante sovraofferta gastronomica, crescita insostenibile dei valori immobiliari, Grandi Eventi e Opere e, di nuovo, la nefasta candidatura a diventare patrimonio Unesco. «Unescocide», lo chiama Marco d’Eramo sulla New Left Review: omicidio urbano per mezzo dell’inserimento nelle liste Unesco.

È, la città d’arrivo, Bologna; e la sede dell’Ordo Militiae beatae Mariae Virginis Gloriosae si raccoglieva attorno alla chiesa di «S. Mariae de Caxaraltola».

Siamo in Bolognina est, e precisamente nell’area «liberata» da XM24 757 anni e 11 mesi dopo, cioè il 15 novembre 2019: il terreno dell’ordine comprendeva infatti tanto l’attuale caserma Sani quanto gli ex stabilimenti metalmeccanici Casaralta.

L’ordine religioso-militare era composto tanto di fratres conventuales, che facevano voto di castità e di comunità di beni, quanto di fratres coniugati, che potevano risiedere al proprio domicilio e le cui mogli erano ammesse all’ordine. Nonostante la presenza dei conventuali, l’ordine fu da subito percepito come prevalentemente laico: «Nobilissimo ordin secolare», lo aveva chiamato Guittone d’Arezzo. Nobilissimo, appunto: come scrive Marina Gazzini, l’ordine aveva «fisionomia prettamente aristocratica», e «vi era ammessa la sola élite della società comunale». Nei decenni successivi,

«il reclutamento della milizia fu ancor meglio circoscritto: nel 1314, in occasione di un’altra riunione dei fratres milites a Bologna, le condizioni personali necessarie per l’ammissione furono ritenute le seguenti: “prudentia, nobilitas, substantia, virtus, fama, vita, aetas”».

I milites potevano portare armi per combattere i movimenti ereticali; potevano inoltre intervenire «pro sedandis tumultibus civitatum», ma in questo caso solo con armi da difesa e bastoni privi di parti in ferro. Il nomignolo con cui vengono da subito indicati, quello di frati gaudenti, non deve condurci nei territori della commedia sexy degli anni Settanta, rendendoci un po’ più simpatici i membri di quest’aristocratica confraternita. Inizialmente infatti l’aggettivo faceva riferimento al «gaudio spirituale, alla gioia derivante dalla visione di Dio»; poi, a causa della sua polisemia, «si prestò […] a essere frainteso nell’accezione prosastica di ‘coloro che godono’, dei beni terreni e dei benefici spirituali, un’antitesi dunque con la filosofia pauperistica dei mendicanti, ed assunse una connotazione denigratoria».

C’è una continuità, dunque, tra quegli avidi e ricchi fratres e l’avida Cassa Depositi e Prestiti, attuale proprietaria dell’area, che gode di molti beni terreni e ampi benefici.

1. Dalla chiesa allo stato

Attorno alla metà dell’ottocento Casaralta aveva assunto importanza militare perché si trovava in direzione del confine con il regno Lombardo-Veneto, ed era così diventata Forte Galliera. Dopo l’annessione del Veneto al regno d’Italia l’area era rimasta del Ministero della Guerra, che vi aveva impiantato lo «Stabilimento Militare di Casaralta in Bologna per la preparazione di scatolette di carne in conserva e di boccette di brodo concentrato per uso del Regio Esercito».

L’ufficiale che aveva diretto i grandi lavori di trasformazione dell’area negli anni 1896-1905 era il marchese Giuseppe d’Havet. Durante la prima guerra mondiale il nobile d’Havet avrebbe preso parte alla direzione di un altro macello, quello di operai e contadini sul fronte trentino, guadagnandosi il grado di Generale di Corpo d’Armata.

Il marchese Giuseppe d’Havet, le mani dietro la schiena, osserva «il grande macello» dello stabilimento di Casaralta.

D’Havet, come generale, scriveva anche le lettere – le odiose lettere, imbevute di ipocrisie patriottiche – alle famiglie di chi era rimasto schiacciato nel tritacarne bellico. Così annunciava, a chi aveva già perso un altro figlio e fratello, il nuovo lutto:

«Io non posso dimenticare che qui, donde scrivo, nell’intimità di un ritrovo famigliare, or sono alcuni mesi, io ho constatato colla più schietta compiacenza i profondi vincoli d’affetto che legavano il povero Oscar alla sua buona Mamma, alle sue gentili Sorelle. […] Ma la bellezza Eroica della morte, con cui si è chiusa l’esistenza preziosa del Loro diletto Oscar e l’unanime rimpianto che essa ha suscitato siano di profondo conforto al Loro dolore! Ma più che tutto lenisca la loro angoscia la certezza che il caro Estinto rivivrà nel culto riconoscente della Patria.»

2. «Viva la rivoluzione, morte ai signori, noi si farà la festa»

Durante la prima guerra mondiale nel carnificio lavoravano 1500 persone, tra cui centinaia di donne. Nell’aprile del 1917 le operaie del carnificio si erano unite a scioperi e manifestazioni spontanee per l’adeguamento salariale e contro la guerra. Giovanna Procacci descrive così il vento che soffiava in quella primavera:

«Le notizie della rivoluzione [russa] di febbraio giunsero in aprile non solo nelle città, ma anche nelle campagne, diffuse di bocca in bocca. Si parla dappertutto di moto rivoluzionario, riferivano i prefetti; […] “della rivoluzione si parla come della cosa più naturale del mondo” […]. “Dappertutto parlasi di moto rivoluzionario […] che dovrebbe scoppiare a breve scadenza”, avvertiva il prefetto di Torino; in Toscana ragazzi e ragazze gridano “viva la rivoluzione, morte ai signori, noi si farà la festa”. “Si parla di rivoluzione come di un fatto che possa verificarsi da un momento all’altro” (Reggio Emilia).»

Le operaie bolognesi che erano scese in piazza in quell’aprile lo avevano fatto nonostante la timidezza dimostrata dai socialisti e dalla camera del lavoro, e, ancora, nonostante la città di Bologna fosse considerata «zona di guerra». Scrive Carlotta Latini:

«Nella zona di guerra, che si distingueva in zona delle operazioni e zona delle retrovie, ai comandanti militari era riconosciuta una potestà legislativa ex art. 251 c.p.e. Si trattava di una delega permanente del potere legislativo – circoscritta al tempo di guerra – che il parlamento aveva attuato a favore dei comandanti militari e che si esercitava attraverso bandi, ordinanze e regolamenti.»

Bandi, ordinanze e regolamenti: ovvero atti amministrativi, gerarchicamente inferiori alle leggi, che pure plasmavano la vita pubblica in senso repressivo e ne facevano una vita da caserma. Non possiamo fare a meno di pensare, per analogia, alla pretestuosa guerra all’illegalità dichiarata con i decreti sicurezza di Minniti e Salvini. Decreti con cui si incoraggiano i sindaci a defecare ordinanze e regolamenti in testa alla vita cittadina, usando come carta igienica i diritti civili e politici garantiti, in teoria e sempre più solo in teoria, dalla costituzione repubblicana. Così, con ordinanze e regolamenti si impedisce la libera circolazione delle persone (Daspo urbano), si conculca la libertà di riunirsi con divieti a manifestare nei centri cittadini o con prescrizioni impossibili da ottemperare, nonché si opprime la libertà di esprimere il proprio pensiero (per esempio con le multe per le affissioni, persino quelle fatte con il nastro adesivo).

Al termine della guerra, il sindaco socialista Francesco Zanardi immaginava per il carnificio militare un futuro civile, pubblico e cooperativo, per dare occupazione a proletari e proletarie e, allo stesso tempo, calmierare i prezzi dei prodotti alimentari. Diceva all’Avanti!:

«Fino a ieri lo Stabilimento produceva pane e conserve alimentari per l’Esercito. Il nuovo Istituto dovrebbe preparare tutto quanto è necessario alle nostre Cooperative ed ai nostri Enti di Consumo. Così oltre alle conserve di carne fabbricherà conserve di frutta, di pomodori, ecc. […] Lo Stabilimento comprende poi un frigorifero che potrà magnificamente servire per la conservazione di parecchi prodotti agricoli. Vi sono inoltre un Molino ed un Forno e con opportuni macchinari esistono già costruzioni adatte per la fabbricazione di paste alimentari. Oltre questi generi che sono di prima necessità, si potranno fabbricare altri prodotti, liquori, vini, cioccolato, ecc. giacché l’ambiente è adatto ad ulteriori sviluppi d’industrie alimentari».

Dal carnificio alla cucina senza crudeltà: ex caserma, dicembre 2019 (Foto Michele Lapini).

Ma le cose stavano già prendendo un’altra piega. Carnificio e scatolettificio erano ormai diventati un «impianto frigorifero militare» all’avanguardia e si stavano dotando di tecnologie per la conservazione delle carni che sarebbero arrivate fino al «congelamento giornaliero di 800 buoi», come testimonia l’articolo del 1927 che tesse le lodi della «grandiosa opera».

3. Scatolette per un massacro

Il cinegiornale dell’Istituto Luce dell’11 dicembre 1935 è dedicato alla «produzione di scatolette di carne e di brodo, nello stabilimento militare di Casaralta, per il rifornimento alimentare dell’esercito». Dura tre minuti, e se si riesce a sopportare la marcetta di sottofondo è di grande interesse. Anche perché mostra quanto sia posticcio il mito del cibo di una volta, locale e genuino. Quella che si vede è infatti carne che viene dalle Americhe, trasformata e conservata in uno stabilimento ad altissima automazione. Ma i fotogrammi su cui è importante soffermarsi sono quelli finali, insistiti, che mostrano il cartello inchiodato alla cassa in legno che contiene le scatolette in spedizione:

«Al Comando Base A.O. – Stazione Marittima – Napoli»

A.O. sta per Africa Orientale: dopo Napoli, la destinazione finale è certamente quella. Quindi l’aggressione italiana all’Etiopia, iniziata da due mesi quando nelle sale si proiettava il cinegiornale, si era nutrita di carne inscatolata a Casaralta; gli avieri che, una settimana dopo, avrebbero iniziato a sganciare bombe all’iprite si corroboravano col brodo bovino di Casaralta. Scrivono Wu Ming 1 e Roberto Santachiara in Point Lenana:

«Solo sul fronte nord, dal 22 dicembre 1935 al 29 marzo 1936 l’aviazione italiana rovescia sull’esercito etiopico 972 bombe C-500.T, per un totale di 272 tonnellate di iprite. […] Dal 10 al 19 febbraio, durante la battaglia dell’Amba Aradam, l’artiglieria italiana spara 1367 proiettili caricati ad arsine. Al termine della battaglia l’aviazione insegue, mitraglia e bombarda col vescicante le colonne di nemici in ritirata. […] Raccontando di questo giorno, il generale Colombini scriverà: “Vidi scene raccapriccianti: la pelle degli etiopici si scioglieva, si rompeva, si sfogliava e veniva via lasciando la piaga aperta. Così era per i guerrieri dell’esercito nemico come per le donne e i bambini (fortunatamente pochi) che vivevano in quei luoghi.”»

Nell’ottobre del 1944 gli impianti militari di Casaralta finivano sotto i bombardamenti angloamericani che colpivano Bologna. Nel dopoguerra l’ex carnificio, che da qui in poi indicheremo come Caserma Sani (da Giacomo, militare e deputato morto nel 1912), perde importanza; neppure tutti i danneggiamenti delle bombe vengono risanati, e viene progressivamente dismesso dall’esercito, fino alla chiusura ufficiale nel 2003.

I progetti per l’area che si susseguono rispecchiano il clima culturale circostante. Negli entusiastici e sviluppisti anni Sessanta il comune di Bologna vi aveva ipotizzato megastrutture (un palazzo per uffici finanziari e un teatro); negli Ottanta, quando l’ambientalismo era senso comune e non era ancora stato degradato a green, prevedeva di farne un parco pubblico.

Ex caserma Sani, dicembre 2019 (foto Michele Lapini).

4. La città neoliberale come chiesa

In questo nuovo millennio il capitalismo riassume in sé anche le istanze di dominio precedenti, quali sono la chiesa e lo stato. La chiesa cede il passo al capitalismo fattosi religione, diventato culto senza tregua e senza pietà che determina ogni ambito della nostra vita e della città. Compresa la porzione di territorio di cui ci stiamo occupando, la cui mancata messa a reddito suona ormai come una bestemmia (e infatti osserveremo una decisa accelerazione sull’area Sani a partire dagli anni Zero).

In questo capitalismo fattosi religione trovano spazio anche il «gaudio spirituale» e la «gioia derivante dalla visione di Dio», proprio come fu per i frati gaudenti di Casaralta. Con la differenza che qui per dio si intende il capitale, e per visione i riti del consumo, quando non direttamente la vision del city branding.

La riproduzione di testi di canzoni pop in forma di luminarie stradali riassume questa prassi di governo spirituale. Essa avviene per Natale, festa del consumo ma con un retrogusto religioso; produce hype, che è un succedaneo del gaudio, e questo hype consiste in «milioni di condivisioni sui social e fotografie». Il tema della luce, poi ci rispedisce diritti alla bolla papale Sol ille verus, con cui Urbano quell’antivigilia di Natale del 1261 aveva approvato il nuovo ordine installatosi a Casaralta:

«Il periodo iniziale [della bolla] rimanda al prologo del Vangelo di Giovanni, di cui riprende alcune significative immagini: il sole vero, fonte di luce incorruttibile, che illumina (“illustrat”) i cuori dei fedeli “in hac ima et caliginosa valle” […].» (Paolo Borsa, La nuova poesia di Guido Guinizelli, 2007)

Le luminarie – fonte di luce incorruttibile, e dunque certamente anche green – si risolvono infine, una volta smontate, in aste di beneficenza. Così la virtù teologale della carità è sistemata; per esempio finanziando il reparto oncologico del più importante ospedale cittadino.

Se qui avete pensato – anche solo per un momento! – che curare il cancro, malattia centrale nell’epidemiologia del presente, dovrebbe essere compito assolto pienamente, dalla a alla zeta e senza omissione alcuna, dallo stato per mezzo della tassazione, ebbene siete già in odore d’eresia, e i fratres milites potrebbero avventarvisi contro. E non coi bastoni privi di ferro usati per sedare i tumulti cittadini, ma con mazze chiodate a difesa dell’ortodossia. Il solo e unico Credo neoliberale recita infatti: lo stato non ha soldi, le tasse devono sempre calare, soprattutto per i ricchi, perché che male c’è a essere ricchi? Se si è ricchi infatti si può fare un po’ di beneficenza, e ce n’è molto bisogno perché lo stato non ha soldi, le tasse devono calare, e così via, ricorsivamente.

Il rito delle luminarie si conclude con una cena per ricchi che prelude a un’asta in cui i ricchi comprano le scritte luminose che esporranno nelle loro ricche case – potendosi per di più sentire anche buoni. Il principale officiante di questo rito, nel capitolo bolognese, è ovviamente l’assessore Matteo Lepore.

Matteo Lepore narra la parabola del buon ricco.

Non meno entusiasta di Lepore, nel testimoniare la prodigalità di chi ha già troppo, è Il Resto del Carlino:

«La prima offerta (telefonica) è arrivata direttamente dal Dubai: 10mila euro per la frase “Caro amico ti scrivo” […]. Particolarmente agguerrita la competizione per aggiudicarsi le frasi più famose, come “E si farà l’amore”, per la quale sono stati offerti 17mila euro e “Caro amico ti scrivo” all’asta per 14mila euro. Superstar dell’asta […] è stata la scrittaCiao Lucio”, aggiudicata dall’imprenditrice Manuela Dradi per 28mila euro.»

Il Corriere di Bologna intervista Manuela Dradi in persona, che rivela:

«quel “Ciao Lucio” è carico di significato […], è un ciao che non è un addio, come dire sei sempre con noi, nella tua città, con la stima di tante persone, e grazie perché ci hai fatto fare questa bellissima cosa per il reparto di oncologia».

Il natale successivo – quello del 2019 – il lotto di luminarie comprato all’asta dall’imprenditore Claudio Sabatini comparirà a Casalecchio di Reno, col testo di Caro amico ti scrivo ormai mutilo di parti, un po’ come quando si canticchia una canzone senza saperla tutta. Ma le luci non si limiteranno a risplendere a Casalecchio, ci fa sapere il Corriere di Bologna:

«la vita di queste opere potrebbe essere ancora più spettacolare e legata a un progetto che da tempo ha in mente di realizzare Sabatini: una multisala teatrale in città. “Le luci saranno all’ingresso dell’edificio, a salutare gli spettatori. Ho già avuto alcuni incontri a Palazzo d’Accursio […], ho illustrato il progetto, presentato lo studio di architettura, dato conto dell’investitore pronto a mettere 20 milioni di euro per realizzare su terreno privato un teatro con tre sale, da 250, da 800 e da 3.600 posti”».

Ops, e come sarà oggi questo terreno? Magari verde? Magari il teatro sarà una bella colata di cemento? E poi, guarda un po’ cosa ci viene da pensare, non è che si troverà in Bolognina o in zona Fiera? Chissà. «Mi ha accennato qualcosa, vedremo», conferma Lepore.

Sempre sia lodato il capitale privato!

5. La città neoliberale come caserma

Altra caratteristica del capitalismo di questo inizio di ventunesimo secolo è il suo pieno controllo sullo stato; uno stato che – nella sua versione neoliberale e securitaria – fa della vita cittadina una vita da caserma. La prassi amministrativa d’oggi consiste quindi nel miscelare sapientemente i due elementi: chiesa e caserma.

Se Lepore consola le anime, è il suo collega di partito e di giunta Alberto Aitini a comandare la guarnigione. Il suo nome viene evocato come quello del giovane mito, dell’eroe sgravato di ogni legame con un passato di mollezze, in discorsi su Facebook tra senili ex-comunisti che di fronte a problemi urbani, che chiamano «degrado», invocano «una repressione decisa, che non dia tregua» e si danno ragione tra loro (se vi interessa sapere cosa li avesse fatti sbroccare lo trovate spiegato nell’ultimo commento tra quelli archiviati).

Evocando Aitini e le sue politiche essi si sentono esonerati dalla necessità di riconoscere la violenza strutturale di una società oscenamente diseguale; si scoprono di destra, e pure di destra estrema, pur continuando a sedere, e a dirsi, comodamente a sinistra.

L’eroe dal canto suo, diversamente dall’anziano fandom, non ha bisogno di conquistarsi il diritto a essere beceramente giustizialista: l’hanno disegnato già così. Per Aitini infatti la società, roba complessa, piena di miserie ed esigenze, pare non esistere proprio. Ci sono gli individui, e gli individui si dividono in buoni e cattivi.

I buoni non sporcano i muri e rispettano le regole, felici di vivere sotto il costante occhio delle telecamere (sono buoni, cosa hanno da nascondere?), e i più coraggiosi e nobili dei buoni sono quelli che indossano la divisa. Dall’altra parte ci sono caos, sporco e la barbarie dei cattivi. Per i cattivi c’è la punizione, e che sia esemplare. Nella caserma non c’è spazio per le sfumature, bisogna solo eseguire gli ordini. Aitini è lì per questo.

Collage di post Facebook di Alberto Aitini dell’autunno 2019. Clicca per ingrandire.

6. Speculare contro di te usando i tuoi soldi

Dalla città-caserma è tempo di tornare alla Caserma Sani, dove gli anni zero segnano l’inizio di una frenesia privatizzatrice. Nel 2007 la finanziaria sancisce il passaggio di centinaia di immobili dal ministero della Difesa all’agenzia del demanio allo scopo di venderli o valorizzarli; nel 2008 il comune firma un’intesa con l’agenzia e nel 2010 iniziano le vendite. O meglio: le svendite, come quella con cui il 28 dicembre 2013 Cassa Depositi e Prestiti (Cdp) si aggiudica le ex caserme Sani, Mazzini e Masini a 50 milioni di euro.

Cdp è uno dei più nocivi operatori sul mercato immobiliare, e riassume in sé la relazione incestuosa con le stanze dei poteri pubblici (è all’84% di proprietà del Ministero dell’Economia e delle Finanza) e la morbosa tensione al profitto privato. Il finanziamento delle sue attività deriva per i tre quarti dalla raccolta postale, quindi dai libretti postali e dai buoni a garanzia statale collocati da Poste Spa. Ciò produce uno straordinario paradosso: Cdp promuove in diverse città la «riqualificazione urbana», cioè quella gentrificazione che colpisce i ceti popolari, e lo fa con i soldi dei risparmi di quegli stessi ceti popolari. O, più precisamente, di quella loro sezione che, per reddito un poco più elevato o per generazione, ha potuto mettere da parte qualcosa, scegliendo il risparmio postale per la naturale prudenza che caratterizza chi, di risparmi, ha quelli e solo quelli.

I soldi dei Buoni Postali del Tesoro dei nonni di Alice, poniamo, finanziano grazie a Cdp le operazioni di studentati privati come The Student Hotel, e questi studentati dopano il mercato dell’affitto studentesco. Così Alice, quando a diciannove anni vorrà lasciare il paese per frequentare l’università, sarà ostacolata dai prezzi delle case troppo alti, e questo anche a causa di quegli studentati privati che i suoi nonni hanno contribuito a finanziare tramite Cdp.

Non si tratta di teoria, e neppure di un apologo morale: ci sono 22 milioni di risparmiatori che, fidandosi delle poste e dello stato, si trovano inconsapevolmente intruppati nelle strategie privatistiche e volte al profitto di Cdp. E si tratta di una quantità di denaro, 250 miliardi di euro, che, se Cdp fosse posta sotto stretto controllo sociale come propone Attac, potrebbe essere utilizzata per garantire affitti a un canone equo e modesto, messa in sicurezza del territorio, tutela del patrimonio artistico… E invece.

Dopo la cessione a Cdp un bando internazionale del 2016 seleziona il progetto per il futuro dell’area Sani, e il vincitore è lo studio Dogma. Nella descrizione del progetto fatta da Cdp fa capolino, di nuovo, anche la retorica del cohousing:

«Il masterplan prescelto valorizza gli spazi esterni e recupera gli immobili già esistenti: giardini, cortili, percorsi ciclabili e pedonali circonderanno l’area che ospiterà le nuove costruzioni e i vecchi edifici, convertiti in spazi domestici e di lavoro. Le nuove soluzioni abitative saranno dedicate non solo alle famiglie tradizionali, ma anche ad inquilini temporanei che vogliono sperimentare nuovi modi di vivere insieme.»

Il Piano Operativo Comunale (Poc) del 2016, su cui si basa il masterplan, prevede il 70% a edilizia residenziale privata e il 30% a commerciale (supermercati, parcheggi…) e ricettivo (hotel e simili). La contropartita urbanistica d’interesse pubblico è un po’ di verde, una scuola e la quota di «edilizia residenziale sociale» (10%, ma l’esperienza ci dice che gli affitti Ers sono analoghi a quelli di mercato).

«Scuola» e «verde pubblico» non hanno ovviamente nulla a che vedere con il diritto all’istruzione e con la tutela ambientale. Se infatti il governo locale ritenesse necessarie scuole e verde pubblico farebbe ristrutturare gli edifici necessari per mettervi le scuole e tutelerebbe il verde pubblico che già c’è, compreso quello interno all’area Sani (e che è ben visibile, spietatamente visibile, anche in questo spottone del sindaco Merola).

«Scuola» e «verde pubblico», nella chiesa e caserma neoliberale, sono solo parole intimidatorie nei confronti di chi osa opporsi al cemento; sono le scritte che decorano i manganelli, proprio come un tempo la croce decorava la spada.

Il verde che già c’è, il common già realizzato. Dalla fotoserie «il tesoro sottratto e promesso alla speculazione», qui

7. Com’era verde il mio common

In modo molto sofisticato, nel masterplan si chiamano gli spazi verdi commons. Effettivamente essi sono (o meglio torneranno, una volta colato il cemento) di proprietà pubblica, ma il messaggio che si vuole realmente dare è questo: la Sani, un luogo che era pubblico e che con la fine dell’uso militare potrebbe diventare davvero di tutti, potrà fregiarsi di commons solo nel momento in cui sarà privato nella sua quasi interezza. L’unico modo di godere di un bene comune, insomma, è quello di accettare che intorno sia tutto privato. Il common è un brufolo. Un brufolo pubblico, ma comunque un brufolo.

«Ciascuno dei quattro common ha una proporzione diversa, rispecchiando così il carattere unico di ciascuna parte del comparto. […] Specialmente il percorso di collegamento tra via Ferrarese e via Stalingrado è immaginato come un luogo di passeggio e incontro, in cui le fronde dei grandi platani posti lungo i lati sono capaci di definire un luogo ombreggiato e coperto, una scena fissa capace di accogliere e fare da sfondo alla molteplicità di situazioni che si vengono a definire lungo l’estensione del percorso stesso.»

Questi brani sono tratti dal masterplan Dogma per Cdp. Si noti la rappresentazione delle interazioni umane come «molteplicità di situazioni» che avvengono su uno «sfondo»: si tratta della trasposizione di un rendering grafico in parole. Questa prosa può essere considerata espressione precipua del Nulla che avanza.

Ma la sofisticazione va anche più in là. Uno di quei verdi common avrà sotto di sé un parcheggio, e quindi sarà un toupet di terra ed erba sopra una colata di cemento, con funzione estetica e non ecologica. Inoltre, nonostante le parole di Dogma «il nostro progetto pone il trasporto pubblico e la mobilità dolce davanti all’automobile», i parcheggi interrati saranno ben cinque, più uno seminterrato, assai remunerativi per chi li vende o mette in affitto, e produrranno traffico fuori e attorno all’area Sani, quindi a spese di chi non ha il privilegio di vivere immerso nel green neoliberale.

Il grande parcheggio interrato e il suo toupet d’erba (elaborazione dal masterplan Dogma).

Un altro common sarà il giardino della scuola, che sarà una scuola media. Non è difficile immaginare che esso sarà assolutamente inaccessibile a chiunque sia estraneo all’istituto. Sequestrare preadolescenti e adolescenti dalla società, alimentando con ciò stesso le naturali preoccupazioni genitoriali (proprio mentre si finge di placarle), è parte fondamentale della costruzione della città-caserma. Questo è apparso in tutta la sua evidenza quando nel 2017 Valeria Fedeli, ministra Pd dell’istruzione, di fronte all’ingiunzione della Cassazione a ritirare personalmente i figli a scuola anche alle medie, invece di denunciarne l’insostenibilità sociale e la nocività diseducativa, si era limitata a dire, come riporta Agi,

«”Questa è la legge, e deve essere rispettata. I genitori devono esserne consapevoli”. E se i genitori non possono perché sono impegnati al lavoro? “Ci vadano i nonni” esorta la ministra, “i miei nipoti sono piccoli, e non ci riesco mai, ma è così piacevole per noi nonni farlo”».

In generale, parlare di commons in quello che sarà un comparto privato nuovo di zecca, i cui accessi saranno regolati da mura perimetrali, telecamere, magari security privata e perché no «controllo di vicinato», è quasi beffardo. La fruizione di quegli spazi, per chi non sarà legittimato da motivi di residenza o di consumo, nel concreto sarà come minimo fortemente disincentivata. E non è un caso che la scuola – quello che dovrebbe essere il presidio pubblico – sia posta con un piede dentro e uno fuori, presso l’ingresso all’area di via Ferrarese. Non è invece al contrario difficile immaginare, per l’area Sani pensata da Dogma e Cdp, una tensione verso la gated community.

Tutto questo non è un futuro futuribile: con l’approvazione degli strumenti urbanistici di dettaglio, che potrebbe aver luogo già nel corso del 2020, l’area Sani, avverte il laboratorio di urbanistica LaBurba, «sarà a disposizione del mercato. Frazionata in lotti sarà preda degli speculatori che arricchiranno Cassa depositi e Prestiti (l’85% del ricavato) e poche briciole al Comune».

8. In caserma contro la città-caserma

La «Madonna Trans» (foto Michele Lapini).

Come abbiamo raccontato nella prima parte, dopo lo sgombero del 6 agosto il comune di Bologna si era seduto al tavolo della «trattativa» con XM24. La delegazione istituzionale sembrava avere le mani indaffarate nello sfogliare dossier, indicando col ditino l’uno o l’altro punto dei documenti, ma era tutta una finzione. Con le braccia vere, infatti, stava segando le gambe del tavolo. Al punto che, approssimandosi la scadenza del 15 novembre, questo era rovinosamente crollato a terra.

Una delle braccia utilizzate dall’amministrazione comunale nel corso della «trattativa» con XM24.

Diversamente dal comune, XM24 aveva preso sul serio l’impegno assunto il 6 di agosto. La battaglia contro il Nulla che avanza era diventata un’Odissea per lo spazio; XM24 si era levato in volo ma il comune stava negando ogni pista d’atterraggio. Così, proprio il 15 novembre, ultimo giorno per mantenere la promessa, i compagni e le compagne avevano toccato terra nell’ex caserma Sani. Questo il primo messaggio con cui rompevano il silenzio del Nulla:

«Occupando oggi stiamo costruendo dal basso una realtà possibile, senza prime né ultime, in cui il mercato non definisca cosa è possibile e cosa no, fatta di uguali e libere, senza gerarchie né autorità. Da questa occupazione ripartiamo collettivamente [… e] ci riappropriamo non solo di uno spazio ma della pratica dell’occupazione. Una pratica demonizzata dai decreti sicurezza, scritti apposta per zittire le lotte sociali. […] Oggi una comunità forte e in espansione dimostra di non aver bisogno di riconoscimenti ufficiali: il nostro stesso esistere ed occupare spazio è un atto politico che si legittima di per sé.»

Clicca per aprire il video della conferenza stampa.

Entrando in quello che era un convento, XM24 aveva bestemmiato la religione del profitto. Entrando in una ex caserma, XM24 aveva aperto un varco nelle mura nella città-caserma.

Aitini aveva subito invocato lo sgombero, prendendosela persino con il sentiero di ciottoli e tessuto-non-tessuto che i militanti di XM24 avevano realizzato per evitare che lo scalpiccìo rovinasse il manto erboso di un passaggio verso la ex caserma. Nella finezza argomentativa dell’assessore, nonché nella plasticità della sua espressione, ci era subito parso di riconoscere l’eredità di RoboCop, indimenticato maestro di retorica e politica:

«Abbiamo mandato la polizia locale a controllare, in effetti ci sono delle strutture abusive, in particolare una passerella che sembra sia stata posizionata per favorire l’accesso alla ex caserma Sani occupata dall’XM24. Chiaramente sono strutture abusive che vanno rimosse, lo dovrebbero fare loro, sennò lo faremo noi chiaramente addebitando le spese a chi ha montato queste strutture abusivamente. […] C’è in corso un’occupazione illegale da parte dell’XM24 […] ci aspettiamo che le autorità competenti facciano i dovuti interventi […].»

RoboCop distrugge strutture abusive.

In attesa che l’assessore Lepore ritrovasse parola e carisma, era stato il sindaco Merola a guidare le preghiere al capitale finanziario affinché continuasse a plasmare a propria immagine e somiglianza la città:

«Ci sarà l’espansione a Nord della Fiera, il tecnopolo, i progetti di Unipol per l’ex Samputensili. Qui nascerà la nuova Bolognina. E l’ex caserma Sani, farà parte di questo disegno… A febbraio ci saranno novità sulla caserma Sani, ve le diremo allora…».

Dalla Procura della Repubblica era invece giunto un esorcismo: non esistono «ragioni genericamente sociali» che giustifichino l’occupazione. Neppure, riporta Repubblica,

«come protesta per un uso diverso dell’immobile: “A nessuno è consentito arrogarsi il diritto di disporre delle proprietà altrui”. E ancora, il diritto di associarsi liberamente “non implica il diritto di occupare immobili altrui, a proprio piacimento, in spregio al diritto di proprietà, anch’esso costituzionalmente garantito”.»

Nessuno si aspettava altro dalla magistratura inquirente; ma è sintomatico del ribaltamento di ruoli nella città-caserma che sia stata la Procura a citare «ragioni genericamente sociali», seppure per negarle, mentre la politica neppure le aveva nominate. Ma, ciò detto, cambia poco: nel momento in cui chiudiamo questo resoconto spira di nuovo il vento gelido della minaccia di sgombero per questo XM24 non più XM24 ma oltre XM24 che si sta agglutinando tra le mura della ex caserma Sani.

Eppure, anche dopo lo sgombero che forse ci sarà, per le migliaia di persone che hanno attraversato quegli spazi, partecipato alle assemblee, alle escursioni nel verde da difendere dal cemento e tra i commons che-già-ci-sono, per le migliaia di persone che hanno annusato – qualcuno e qualcuna per la prima volta – il profumo e la possibilità di vivere in uno spazio e in un momento liberati dal profitto, dall’oppressione, dall’ossessione legalitaria, per tutti e tutte loro il richiamo verso nuove odissee sarà irresistibile.

La passerella di XM24 verso nuove odissee (foto Michele Lapini).

* Wolf Bukowski scrive su Giap, Jacobin Italia e Internazionale. È autore per Alegre di La danza delle mozzarelle: Slow Food, Eataly Coop e la loro narrazione (2015), La santa crociata del porco (2017) e La buona educazione degli oppressi: piccola storia del decoro (2019).

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6 commenti su “La sfida di XM24 contro il Nulla / Seconda puntata (di 2)

  1. […] Aggiornamento: la seconda puntata è qui. […]

  2. Gli architetti dello studio Dogma, quando fanno gli studiosi e non i professionisti, applicano le teorie operaiste alle trasformazioni del territorio e criticano il ruolo subordinato dei progettisti rispetto al mercato. Ora fingono di non sapere che l’appropriazione della produzione abitativa pubblica è parte integrante delle strategie del capitalismo contemporaneo – cosa evidente nel progetto per la caserma Sani.

    • Il commento di Luca qui sopra accenna alla produzione intellettuale di (a quanto ne so) almeno uno dei due titolari dello studio Dogma, Pier Vittorio Aureli. Si veda a titolo di esempio il volume “Il progetto dell’autonomia. Politica e architettura dentro e contro il capitalismo” ( https://www.quodlibet.it/libro/9788874628155 ) dove si assume una posizione politica (quella dichiarata dal titolo) per rivolgerla *contro* i movimenti realmente esistenti su territorio. Cito un breve passaggio, così denso di aberrazioni teoriche da dare le vertigini:

      «[…] l’affinità che nutro per queste esperienze non è né il tentativo di un revival culturale né “storia operativa”. Ho guardato a queste esperienze dall’orlo di un’epoca che le ha viste subire la sconfitta della storia, ovvero la scofitta impartita a esse, non da nuove mode culturali o sociali, ma da qualcosa di più profondo e strutturale, ovvero dal capitalismo che negli ultimi anni ha costretto la sinistra ad abbandonare tutto il suo bagaglio storico e culturale a cominciare dalle sue parole chiave come conflitto, classe e, appunto, capitalismo. Ma proprio nel momento in cui il capitalismo stesso, nella sua tarda forma neoliberista, non sembra più in grado di badare né ai suoi subalterni né tantomeno a stesso in quanto sistema di governo, diventa allora urgente e necessario cercare nuovi modi di pensare e costruire una nuova soggettività politica che non sia vittima né dei facili entusiasmi movimentisti, né del vuoto moralismo dell’austerità post-crisi. La lezione dell’operaismo rimane quella di fondare questo nuovo soggetto nel campo del lavoro, […]. » (pag 140)

      Di questi errori teorici e di lettura storica uno dei più urtanti è quello che descrive un capitalismo incapace di «badare a sé stesso», quando invece sta dimostrando momento dopo momento di essere perfettamente capace di badare a sé stesso, mettendo invece in subordine tutto il resto, persino la possibilità di sopravvivenza umana sul pianeta… E il libro, in questa edizione italiana rivista, è del 2016, quindi poco scusabile.

      Si tratta a mio parere di un chiaro attacco ai movimenti che si battono – diciamolo genericamente – per il «diritto alla cittò» e «all’abitare», che oltretutto dimostra totale indifferenza e/o disconoscimento delle arrembanti forme di valorizzazione capitalistica della città, che la rendono luogo determinante nella produzione di valore come e più della fabbrica stessa; e inoltre, con la seguente formula di critica al «vuoto moralismo dell’austerità post-crisi» si assume de facto la lettura che il comando capitalistico impone della «crisi», visto che la crisi stessa diventa neutra nel discorso, dato di fatto (*così vanno le cose*; *c’è crisi, che ci vuoi fare?*), mentre il «vuoto moralismo» (qualsiasi cosa esso sia) diventa il problema.

      Così, nella prassi legittimata da questo discorso, mentre si aspetta il Godot della fondazione di un «nuovo soggetto nel campo del lavoro» ( https://www.invidio.us/watch?v=kxWlFdlk2kQ ), la speculazione immobiliare fa indisturbata il suo sporco lavoro… Vorremo mica essere *moralisti* o, peggio ancora, *movimentisti entusiasti*?

  3. Stanno sgomberando l’ex-caserma Sani ora. C’è un presidio di solidarietà nel parchetto di via Parri, chi può venga.

  4. Lo sgombero della ex-caserma Sani, a cui si faceva cenno conclusivo nell’articolo qui sopra, ha infine avuto luogo stamattina all’alba.

    Chi ha percorso le strade di Bologna questa mattina presto per raggiungere il presidio di solidarietà, ha incontrato un traffico nervoso e ha respirato – anzi ha cercato di trattenere il respiro – in un’aria pesante, umidissima e con il PM10 oltre il doppio del livello tollerabile ( https://nitter.net/Philo1936/status/1217759402251497472 ).

    Un’aria tossica perfettamente coerente con la scelta della governance pubblicoprivata, Comune + Cdp, di restituire alla speculazione l’ex caserma occupata due mesi fa da XM24. L’autogestione e la (vera) immaginazione della/sulla città vengono sbattute fuori da quelle mura, per far posto a quanto abbiamo descritto nell’articolo: cemento, «green» finto o privatizzato, altri parcheggi, altro traffico, altri alberghi e supermercati; e questo nel quadro di una riscrittura della Bolognina Est e della zona Fiera tutta a misura di grandi investitori immobiliari. Merola e i suoi preparano un’aria ancora più irrespirabile per Bologna, e non solo per via del PM10 (ma anche per via di quello, sì).

    Domani – guardacaso! – è previsto un’incontro tra ministero della difesa e comune per la «cerimonia» della firma sul «Protocollo d’intesa per la razionalizzazione e la valorizzazione di immobili militari sul territorio del Comune di Bologna». Qui XM24 pubblica l’invito alla «cerimonia»: http://www.ecn.org/xm24/2020/01/16/merola-generali-firmano-valorizzazioni-guardacaso/

    Non si tratta ovviamente della Sani ma di altre due ex caserme. Caserme di cui ha parlato Merola già nei giorni scorsi, escludendo ogni operazione speculativa nelle aree, e bollando le preoccupazioni degli interlocutori come frutto di una mancanza di informazione ( «Le persone si preoccupano ma come sempre hanno bisogno di informazione, informazione, informazione» https://www.bolognatoday.it/cronaca/caserme-aree-militari-merola-lavori.html )

    La verità è che gli stessi passaggi hanno interessato tanto la Sani quanto la Masini (dove si trovava Labas) nel corso degli anni zero, quando l’interlocutore del comune era il demanio; e sono proprio «protocolli d’intesa» et similia che hanno predisposto la svendita a Cdp. Quello di domani è quindi un atto preliminare; ma gli atti decisivi – per futuri progetti speculativi – saranno consequenziali a questo preliminare; e sarà questo preliminare che verrà usato retoricamente per giustificarli. E poi, molto più semplicemente, quando Merola e i generali parlano di «valorizzazione» non è difficile intuire cosa intendano.

    Questo ruolo delle forze armate in città chiude così un cerchio: i militari con le loro camionette pattugliano la strada («operazione strade sicure»), anche e soprattutto in Bolognina, e vengono esibiti per alimentare la retorica del degrado e rendere di conseguenza più digeribili le successive speculazione e gentrificazione; mentre i generali e colonnelli, guidati dal ministro renziano della difesa, firmano protocolli che entrano a pieno titolo nel processo di privatizzazione degli spazi pubblici a Bologna, promuovendo così, per altra via, gli stessi processi di gentrificazione legittimati e catalizzati dalla presenza militare sulle strade. L’alta uniforme e la mimetica parlano lingue diverse, insomma, ma servono gli stessi fini.

    A fronte di tutto questo, ci sono le energie generosamente sollevate da questi due mesi di «liberazione» della caserma Sani, in cui a ciò che muoveva inizialmente XM24 – il fallimento della «trattativa» e la necessità di uno spazio sottratto all’oppressione e al profitto – si sono unite le migliaia di persone che hanno visto, odorato, sentito sotto suole e mani una Bologna e una caserma Sani possibile, liberata, orizzontale e piena di promesse. Un «common» che già c’è, appunto, e che sarà difficile togliersi dalla testa.

  5. […] sono stati un affronto intollerabile. Un approfondimento sullo sgombero lo ha già fornito Wolf in questo commento che vale un post. Avevamo già deciso di presentare su Giap lo spettacolo. Il testo di Filo inizia proprio da quella […]