Perché è necessario e urgente liberarsi di Google – e come cominciare a farlo

[Riprendiamo il discorso aperto con L’amore è fortissimo, il corpo no: quello sul capitalismo delle grandi piattaforme, sui comportamenti indotti dagli algoritmi dei social media, sull’estrazione di big data dalle nostre vite e sulla sorveglianza pervasiva che ne deriva.
Farlo è quantomai appropriato, nei giorni dell’emergenza Covid19.
Tra i poteri e soggetti economici che stanno approfittando dell’epidemia – o meglio, delle misure di «distanziamento sociale» e nuovo disciplinamento del corpo sociale – ci sono soprattutto le multinazionali del Big Tech. Ne approfittano per rafforzare la loro presa sulla società, il loro monopolio di fatto su molte attività oggi imprescindibili. Ne approfittano per intensificare processi di privatizzazione della sfera pubblica.
Una privatizzazione soffice, implicita e non percepita perché non è rapida e “molare”, non c’è uno scontro pubblico tra istanze (privatizzazione sì vs. privatizzazione no); è invece graduale e “molecolare”, avviene grazie all’infittirsi di reticoli fatti di piccole pratiche e automatismi quotidiani.
Google, di cui ci occupiamo nel post a seguire, ha offerto al nostro ministero dell’istruzione (MIUR), come a quelli di altri paesi, la «soluzione alla chiusura delle scuole»: il colosso di Mountain View fornisce ai docenti mail con spazio illimitato e piattaforme per l’istruzione telematica (G Suite for Education). Già prima di quest’annuncio, diverse scuole stavano spingendo i docenti a farsi la casella Gmail e l’account su Hangouts Meet e/o Google Classroom. Di più: svariati insegnanti, esasperati dall’incertezza e dall’impossibilità di fare lezioni, per non lasciare allo sbando i loro scolari e studenti hanno fatto ricorso a questi strumenti di propria iniziativa, per avviare la didattica a distanza.
Se da un lato ammiriamo l’intento e – come si dice oggi – la resilienza di quest* insegnanti, dall’altro constatiamo che manca la consapevolezza su cosa facciano davvero quegli strumenti, del cui funzionamento non vediamo che l’idiomatica punta dell’iceberg.
In pratica, la scuola pubblica privatizza il rapporto stesso docente-studente, incentivando entrambi a usare piattaforme private e lesive della privacy, che immagazzineranno nuovi dati per poi venderli a vari soggetti, i quali li useranno a scopi non solo commerciali ma anche politici, in tutte le accezioni possibili del termine. E in tutto questo, Google/Alphabet passerà pure come benefattrice: l’azienda che ha «salvato la scuola».
Google trova in quest’emergenza – che peraltro contribuisce ad alimentare in vari modi – l’opportunità di innervarsi in sempre più gangli della vita associata, rendendosi indispensabile anche se le alternative ci sono. Ci sono eccome, e sarebbero pure facili da usare.
Chiunque non ritenga la parola «democrazia» un semplice involucro contenente solo retorica, una volta ben informat* su cosa sia Google e su come faccia profitti, non può trarne che una conclusione: Google è una minaccia per la democrazia.
L’emergenza – non l’epidemia in sé, ma l’emergenza come metodo di governo basato sull’epidemia – ci sta facendo arretrare su così tanti terreni che non si sa da dove cominciare a denunciarne le conseguenze, a spiegare chi e come sta cogliendo la palla al balzo.
Alla fine, un punto d’inizio vale l’altro. Da genitori, cominciamo dalla scuola, dalla didattica a distanza e, in particolare, da Google.
Già prima del virus avevamo chiesto al giapster Ca_Gi di scrivere un pezzo per Giap sul fenomeno del degoogling, che a fine 2019 si stava diffondendo rapidamente. Con l’emergenza coronavirus la strada si è fatta più in salita, ma a maggior ragione va percorsa.
Buona lettura. WM]

di Ca_Gi.*

1. A day in your life (Google lo sa)

Ti svegli dopo un sonno di sei ore. Hai dormito male, sonno leggero e agitato. Google lo sa: lo ha rilevato dall’accelerometro e dal microfono nel tuo smartphone.
Dall’analisi della rete a cui sei connessa sa pure che non eri a casa tua, ma in un appartamento dall’altra parte della città e, dal registro dei tuoi spostamenti, sa pure che da circa un mese ti ci rechi almeno un paio di volte a settimana.

Google sa chi vive in quella casa, perché il GPS del suo smartphone indica giornalmente la sua presenza lì. Conosce bene quella persona, come conosce te. Sa che non fa parte della tua cerchia di amici ristretti, perché il suo numero non è nelle loro rubriche e molto raramente si trova negli stessi posti che loro frequentano. Sa che vi siete registrati a vicenda in rubrica qualche mese fa, ma solo negli ultimi tre avete iniziato a chiamarvi spesso.

Ieri sera avete visto un film sulla Chromecast. Ovviamente Google sa qual era il film e poiché i dati GPS indicavano che eravate entrambi in casa e non vi siete mossi, deduce che probabilmente eravate in salotto.
Sa pure che all’altra persona il film non doveva interessare molto, perché mentre lo stavate guardando non faceva che giocare con un videogame sul suo smartphone Android.

Grazie al DNS Google sa che, appena alzata, come ogni mattina, hai controllato le news sul solito sito. Android e Chrome glielo confermano.
Dall’archivio delle tue abitudini di lettura degli ultimi anni, Google sa che le notizie relative alle occupazioni abitative sono di tuo interesse, ma che leggi in dettaglio solo quelle che parlano di sgomberi. Dall’analisi dei testi delle tue email sa che ne parli anche con amici e conoscenti e che manifesti crescente preoccupazione per le dichiarazioni di un certo assessore. Dall’analisi dei movimenti del tuo dito sullo schermo sa quali titoli di notizie hanno attirato la tua attenzione anche se poi non li hai letti, e ritiene che se in questi titoli fossero state presenti determinate parole la probabilità che tu li aprissi sarebbe stata maggiore.

Alle otto hai percorso un certo tragitto in città. Google lo sa, sempre grazie al GPS e per via del distacco dal wi-fi dell’appartamento.
Dall’analisi di percorso e velocità Google deduce che lo spostamento sia avvenuto in bicicletta. Sa che poi sei entrata in un certo bar, probabilmente a fare colazione, dato che ti sei trattenuta mezz’ora, e che lì ti sei connessa al Wifi sbagliando il captcha tre volte, deducendone che forse sei ancora un po’ addormentata, poiché di solito li becchi al primo colpo.

Google rileva che poi ti sei agganciata alla rete della biblioteca e hai cercato un certo oggetto che ritiene ti debba interessare molto, poiché la ricerca ti ha portato a girar diversi siti, finendo per trovarlo su quello di un certo negozio online dove l’hai acquistato fornendo la tua solita carta di credito. Ritiene statisticamente probabile che possa trattarsi di un regalo per una delle tue migliori amiche, quella che compirà gli anni tra un paio di settimane e che a sua volta acquista spesso oggetti dallo stile simile.

Poi scrivi un testo su un’app che hai scaricato dal Play Store e anche se non è un’app di Google, l’azienda ha accesso alla tastiera di Android e quindi è comunque in grado di comprendere cosa hai digitato, incluse le parti cancellate. Il testo contiene passaggi in inglese e dalla velocità con cui le hai digitate capisce che è una lingua che pensi di padroneggiare bene, anche se in realtà nota che ripeti sempre gli stessi errori di grammatica.

A quel punto ricevi una chiamata da una persona che nella tua rubrica è registrata come «Mamma», e parlate per cinque minuti. Google rileva una certa ansia nella tua voce e ciò gli conferma quel che aveva già presunto: c’è tensione tra te e tua madre.
Lo aveva dedotto da diversi fattori, tra cui il gran numero di volte che non rispondi alle sue chiamate anche se sei a casa, e dal fatto che durante le feste sei lontana da lei e non la chiami.

Più tardi ti scatti un selfie con alcuni amici e dai metadati della foto Google può sapere dove e quando è stata scattata. Analizzando l’immagine può identificare le persone ritratte così come il tipo d’abbigliamento, dal quale può dedurre gusti e marche, dato utile per confermare cose che già sa sul tuo e loro livello economico.

Arriva la sera e fai una corsa nel parco ascoltando musica e indossando un braccialetto elettronico che registra le tue attività come il tipo di andatura, il battito cardiaco ecc. Non ci hai mai fatto caso, ma sia l’app per la musica in streaming sia quella del braccialetto avvisavano da qualche parte che i dati sarebbero stati condivisi con «terze parti», ossia partner commerciali. Ciò che non potevi sapere è che tra questi vi è pure Google, che quindi conosce anche i tuoi dati fisiologici, le tue abitudini sportive, oltre ovviamente ai tuoi gusti musicali.

Google sa anche che sei una persona romantica e riflessiva, perché traspare da ciò che cerchi online nei momenti liberi; sa che fai letture impegnate, e che hai un debole per i panda.

Non possiamo affermare con certezza quali rilevazioni Google faccia costantemente, quali una tantum a scopo “sperimentale” e quali invece siano rilevazioni che tecnicamente potrebbe fare ma in realtà non esegue. Non possiamo dirlo, perché quel che accade nei server di Google lo può sapere solo Google, e perché i suoi strumenti sono spesso chiusi e non permettono una verifica trasparente.

Quali che siano le rilevazioni effettivamente fatte, sappiamo che Google ci osserva attraverso innumerevoli canali, e registra le nostre attività. La mole  dati a cui Google ha accesso gli permette di ricostruire la vita delle persone in modi che nemmeno un social network potente e pervasivo come Facebook può sognare.

2. Siamo un terreno di conquista commerciale

Quando si parla di Big Tech, ossia delle principali multinazionali tecnologiche, la prima constatazione è che mai, nella storia, poche aziende commerciali private di dimensioni tanto colossali erano riuscite a diventare parte inestricabile della vita di miliardi di persone, e in modo così diffuso e capillare.

Lo scenario, già problematico, di poche grandi aziende che detengono il potere su tecnologie ritenute ormai indispensabili risulta ancor più inquietante invertendo i fattori della constatazione: mai prima d’ora ogni minimo dettaglio della vita di miliardi di persone era stato portato a un tale livello di mercificazione, fino ad annoverarlo fra i terreni di conquista di poche colossali aziende private.

Parliamo dunque di big data, ossia dell’estrazione di informazioni dettagliate dalle nostre attività, dalle nostre vite, a fini – non solo – commerciali.

Quello dei big data è un circuito che si autoalimenta per allargare costantemente i propri margini. C’è uno scambio impari tra noi persone/utenti e le aziende che grazie ai dati che forniamo sviluppano tecniche e strumenti atti a legarci maggiormente ad esse, per estrarci ancor più informazioni.

Ciò avviene attraverso soluzioni tecniche e psicologiche note e meno note, scelte di design applicate a software che sfruttano la gamification per indurci a interagire maggiormente o attraverso l’imposizione di standard de facto cui risulta assai difficile sfuggire. La ricerca di gratificazione data dai like o l’impossibilità di rinunciare a Whatsapp, per esempio.

Qui possiamo osservare il circuito che si autoalimenta: abbracciare acriticamente servizi e strumenti imposti dall’industria tecnologica si rivela sempre più una scelta obbligata, poiché più questi vengono adottati, meno spazio vien dato alle alternative libere: i documenti di testo sono quasi sempre realizzati in Word; per condividere i file di lavoro nella maggioranza dei casi la scelta cade quasi sempre su Google Drive, Dropbox e poco altro; per conoscere le attività di un’associazione è necessario stare su Facebook; se si vuol creare un account email la scelta dei provider è indirizzata verso un ristretto numero di colossi (Google su tutti), e così via.

Con l’«Internet of things» (d’ora in poi IoT), ossia col sempre maggior numero di oggetti costantemente connessi, non si farà che estendere i campi d’estrazione: automobili elettriche che comunicano costantemente una miriade di dati, lampadine di cui l’azienda saprà se sono accese o spente, asciugacapelli, televisori, frigoriferi, biciclette, attrezzi da cucina, orologi da polso ecc. È facile prospettare lo sviluppo di innumerevoli tecnologie IoT da parte di aziende anche medio-piccole che verranno poi assorbite dai grandi colossi, e non è fantascienza immaginare un futuro prossimo in cui sarà difficile, se non impossibile, procurarsi oggetti che non trasmettano informazioni alle Big Tech.

Questo è il primo problema: più strumenti e piattaforme commerciali utilizziamo, più ci precludiamo un’indipendenza da essi.

Tra le maggiori aziende che ruotano attorno a questa massiccia estrazione di dati, quella più imponente è sicuramente Google. Non è certo l’unica azienda-vampiro, e molte delle osservazioni presenti in quest’articolo potrebbero essere applicate anche ad altre, le più note delle quali sono parte dell’acronimo GAFAM: Google, Apple, Facebook, Amazon e Microsoft. Tuttavia, se ognuna di queste aziende si è evoluta a partire da settori specifici non necessariamente incentrati sull’estrazione dati, Google nasce fin dal principio come puro recettore di informazioni, ed è quella che nel tempo ha ampliato le proprie capacità estrattive nei modi più diffusi e capillari.


3. “Sappiamo” ma non sappiamo

Che «Google ci guarda» è un sentire comune, ma a ben vedere si tratta di una mera conoscenza latente: sappiamo che certi banner pubblicitari appaiono solo dopo che abbiamo fatto determinate ricerche, e ci viene costantemente ricordato che i cookie per accedere a diversi siti sono usati per profilarci, ma al di fuori di questi pochi esempi e del concetto generale, ci sfuggono la varietà e il funzionamento dei meccanismi con cui avviene l’ estrazione di dati.

Questo è il secondo problema: in una società sempre più dipendente da tecnologie informatiche, la scarsa conoscenza del funzionamento di tali strumenti ci pone più o meno nella posizione di analfabeti che devono muoversi in un mondo sempre più basato sulla lingua scritta.

A differenza dell’alfabetizzazione, però, l’informatizzazione può avvenire a livelli molto più diversificati, e lo dimostra il fatto che sia possibile esser al tempo stesso utenti smaliziati che si muovono agilmente tra mail, fogli elettronici, sistemi di chat, impostazioni dello smartphone e applicazioni di ogni tipo, ma non esser in grado di scrivere una sola riga di codice e non aver la minima idea di come facciano questi strumenti a funzionare.

Il fatto è che essere utenti che sanno utilizzare gli strumenti non basta, perché la mancanza di comprensione del loro funzionamento profondo ci relega nella condizione passiva di semplici utilizzatori finali, privi delle conoscenze necessarie a sviluppare un approccio critico per non farci sopraffare.

Periodicamente appaiono notizie su fughe di dati personali, applicazioni malevole, problemi legati alla privacy e preoccupanti episodi di censura e abuso di potere da parte delle Big Tech. Eppure, nonostante tutti questi segnali concordino nel prospettare scenari preoccupanti, l’adozione di strumenti alternativi non è ancora diventata un fenomeno diffuso. Questo a causa delle due problematiche qui esposte: da un lato la posizione di dominio dei prodotti delle Big Tech e dall’altro il fatto che l’insufficiente conoscenza di tali strumenti impedisce di comprendere davvero i pericoli che quel dominio comporta.

Tuttavia, il dominio delle Big Tech non è affatto ineluttabile, ma non sarà possibile limitare le derive oppressive delle tecnologie informatiche senza uno sforzo di apprendimento il più collettivo possibile su come queste funzionano.

Non si può certo pretendere che si diventi tutti programmatori, e nemmeno che si abbandonino in modo drastico e immediato strumenti e piattaforme conosciute a favore di strumenti liberi con cui non si ha (ancora) dimestichezza, ma è comunque necessario correre al più presto ai ripari e avviare subito un processo di apprendimento ed adozione di tecnologie libere.

4. Come è potuto succedere

È utile riassumere brevemente come si sia arrivati alla situazione attuale. Negli anni Novanta l’arrivo di Internet e del web fu accolto da un vento di cyber-utopismo trasversale e generalizzato, spesso tanto entusiasta da convincersi che l’estendersi della rete avrebbe portato automaticamente a un’informatizzazione spontanea delle masse, e conseguentemente a forme di democratizzazione planetaria per via tecnologica. Tale entusiasmo nasceva dall’incontro tra le visioni utopistiche e anarchiche diffuse tra informatici, hacker e attivisti e l’ingenua curiosità della maggioranza delle persone verso tecnologie dal sapore vagamente fantascientifico.

Negli stessi anni la contrapposizione tra Microsoft e i sistemi operativi liberi GNU/Linux già conteneva tutti i conflitti futuri tra grandi aziende e software libero: grazie ad accordi commerciali stretti da Microsoft coi maggiori produttori di computer mondiali, quando si acquistava un nuovo PC, come sistema operativo vi si trovava preinstallato Windows (e come ben sappiamo, questa situazione si è protratta fino ad oggi). Fu così che la potenza di fuoco dell’azienda di Redmond minò in modo drammatico l’adozione di sistemi operativi GNU/Linux per uso personale. Oggi Windows è di fatto lo standard principale per i computer domestici.

A cavallo del 2000, l’entusiasmo per le nuove tecnologie portò alla nascita di esperienze come quella di Indymedia, ma pure all’esplosione della bolla speculativa delle dot-com, che fece fallire innumerevoli imprese digitali. Se gli anni Novanta erano stati caratterizzati da un alto tasso di sperimentazione che riguardava sistemi operativi, piattaforme online di comunicazione, formati digitali e siti di diverso tipo capaci di nascere e morire in tempi rapidissimi, gli anni Zero portarono a maturazione l’esperienza precedente con la nascita di un gran numero di strumenti e piattaforme commerciali la cui fortuna continua ancor oggi.

Giusto per far qualche esempio noto, oltre a riconfermare le realtà già esistenti più solide**, come Amazon (1994) e Google (1998), gli anni Zero videro la nascita di iTunes (2001), Wikipedia (2001), Skype (2003), Facebook (2004), Gmail (2004), Yelp (2004), YouTube (2005), Google Maps (2005), Twitter (2006), Google Docs (2006), Spotify (2006), lo Smartphone (2007 – primo iPhone), DropBox (2007), Chrome (2008), AirBnB (2008), Zalando (2008) WhatsApp (2009), Uber (2009), Pinterest (2009), Instagram (2010), Tablet (2010 – primo iPad).

Grazie alla sempre maggiore diffusione di Internet e al continuo aumento di servizi online, in quegli anni l’accesso al web iniziò a diventare esperienza quotidiana anche al di fuori dell’ambito lavorativo per molte persone che non provenivano dal mondo dell’informatica o dell’hacking.

Se gli ambienti hacktivisti prospettavano un futuro di utenti con un approccio all’informatica critico e attivo, le nuove piattaforme commerciali compresero che il vero affare era l’estrazione di informazioni dagli utenti, e che ciò poteva essere ottenuto fornendo strumenti gratuiti e subito funzionanti, che richiedessero pochissimo impegno per capire come usarli. La maggior parte degli utenti, dunque, si approcciò al web in quegli anni trovando la disponibilità di applicazioni e piattaforme gratuite realizzate con grandi capitali, ampiamente pubblicizzate, esteticamente piacevoli e molto facili da usare. Se negli anni ’90 era considerato normale dover pagare per servizi come l’email, ora un’intera generazione di utenti veniva educata ad abbracciare strumenti e servizi gratuiti, e a ritenere inevitabile il dover dare in cambio l’accesso ai propri dati.

Il software libero realizzato da una galassia eterogenea di realtà prive di grandi capitali, che richiedeva uno sforzo di comprensione maggiore e in alcuni casi era a pagamento, risultava decisamente meno attraente.

Il risultato è che col tempo, a parte poche meritevoli eccezioni ascrivibili al mondo dell’hacking vero e proprio, anche gli ambienti inizialmente più critici e attenti hanno finito con l’adottare gli stessi strumenti commerciali che avrebbero dovuto avversare. Ci siamo dunque trovati con realtà anticapitaliste che comunicano le proprie iniziative su Facebook, si scambiano le email con Gmail, comunicano con Whatsapp e si scambiano documenti con Google Drive.

In modo altrettanto preoccupante, diversi enti pubblici hanno affidato le proprie comunicazioni (anche interne!) agli strumenti delle Big Tech. Oltre a consolidare queste preoccupanti situazioni di monopolio privato ed a contribuire alla diffusione del data mining nelle nostre vite, l’adozione acritica di questi mezzi ha contribuito a consolidare la falsa idea che questo modello  – grande azienda di capitali che fornisce strumenti centralizzati su scala globale – sia l’unico possibile.

5. Software libero

Uno degli aspetti frustranti di quest’abbandonarsi in massa alle tecnologie traccianti è che le alternative non mancano affatto. Non solo non si è mai smesso di realizzare software libero ma anzi, quest’ultimo copre una grande percentuale del software prodotto su scala mondiale.

Non è certo possibile condensare in poche righe la natura, filosofia e storia del software libero, del movimento internazionale che lo supporta e men che meno esporne le diverse sfaccettature, ma giusto per illustrarne i tratti essenziali basterà dire che si tratta di programmi il cui codice-sorgente è aperto e distribuito liberamente. Questo permette a chiunque ne abbia la capacità di verificarne il funzionamento, collaborare a migliorarlo, modificarlo e crearne versioni alternative.

Si tratta di una differenza notevole rispetto al software commerciale, che invece è chiuso, intoccabile e protetto da copyright. Volendo fare un paragone automobilistico, il software libero è come un’automobile di cui si può aprire il cofano, vedere il motore, ripararlo, modificarlo o addirittura assemblarne uno nuovo, mentre il software chiuso è come un’automobile il cui cofano è sigillato e si può solo tentar di dedurre come funzioni esattamente, senza averne mai la certezza.

Se il software commerciale è sempre controllato dall’azienda che lo produce, il software libero è realizzato e mantenuto da un ventaglio di realtà che spaziano dal singolo programmatore che lavora in autonomia all’azienda etica che mette a disposizione gratuita il software che ha creato guadagnando invece dalla vendita di servizi o tramite donazioni, fino a intere community dedite allo sviluppo collettivo di un intero sistema operativo.

La filosofia stessa con cui viene realizzato il software libero stimola costanti revisioni da parte di intere comunità globali e fa sì che questo sia spesso molto più efficiente di quello commerciale, tanto che anche molti strumenti commerciali che utilizziamo quotidianamente contengono, sotto i propri cofani, ampie porzioni di software libero.

Se da un lato le aziende commerciali hanno imposto il proprio dominio tramite una potenza di fuoco difficile da contrastare, dall’altro lato è pur vero che si sono imposte anche grazie ad un certo tipo d’attenzione all’utente medio, in termini di semplicità e immediatezza di utilizzo, che il mondo del software libero non sempre è stato in grado di fornire.

Si tratta tuttavia, anche in questo caso, di una classica situazione ricorsiva: la minor adozione di strumenti liberi da parte della maggioranza degli utenti è al tempo stesso causa e conseguenza del loro insufficiente adattamento alle esigenze del grande pubblico.

Un esempio su tutti può essere il caso di Jabber/XMPP, tecnologia di chat che esiste dal 1999. Non ha nulla da invidiare ai vari Whatsapp, iChat e simili, ma non è mai stata in grado di imporsi. Molto probabilmente una maggior adozione iniziale avrebbe contribuito non poco a consolidarne la diffusione e spronare un maggior numero di persone ad attivarsi per levigarne alcune caratteristiche che ancor oggi ne rallentano la diffusione.

Va però tenuto conto che alla base di certe caratteristiche che possono rendere meno immediato l’utilizzo del software libero vi sono spesso ragioni tecnico-etiche che devono essere mantenute tali. Prendiamo ancora l’esempio di Jabber/XMPP: per usare Whatsapp, Viber o Telegram bastano pochi click sullo smartphone e questi, dopo aver preso possesso del nostro numero di telefono e di quello di tutti i nostri contatti, funzionano immediatamente. Al contrario Jabber/XMPP richiede la creazione di un account e poi i contatti vanno inseriti manualmente. Se nel primo caso regaliamo i dati di tutti i nostri conoscenti e tutti i nostri dialoghi in cambio di uno strumento subito funzionante, nell’altro abbiamo uno strumento che richiede sì alcuni settaggi iniziali, ma in cambio non invade la privacy di nessuno.

Ad ogni modo, il mondo del software libero non è mai stato a guardare ed ha costantemente maturato e migliorato la propria attenzione verso l’utenza media. Mastodon è uno degli esempi di software libero che, mirando ad equilibrare le proprie caratteristiche complesse e un utilizzo il più possibile semplificato, riesce ad attrarre numeri importanti.

6. I mille tentacoli di Google

Di solito chi utilizza un certo strumento vuole solamente che sia facile e pratico nel fare ciò che deve. Questo atteggiamento può certo bastare nel caso di strumenti che per loro natura sono finiti in sé stessi, come un martello, una bici o una macchina da scrivere, ma non è più sufficiente quando si ha a che fare con strumenti informatici, perché questi ultimi, sotto la loro parte visibile, possono comportarsi in modi che non approviamo e che contribuiscono a ingabbiarci sempre più.

Nel caso di Google, ad esempio, le informazioni che inseriamo attivamente nei suoi strumenti sono la parte visibile di ciò che stiamo consegnando: i testi che digitiamo: una parola cercata sul motore di ricerca, il contenuto di un’email, gli appuntamenti inseriti sul calendario, una città cercata su Google Earth, ma anche i pdf caricati su Google Drive, le foto ed i tracciati GPS… Sono dati che grossomodo chiunque si rende conto di consegnare all’azienda.

Ma è la parte invisibile quella più consistente, composta da miriadi di informazioni personali che Google carpisce anche quando non ci rendiamo nemmeno conto che stiamo inviando dati, anzi, anche quando non ci rendiamo nemmeno conto che stiamo usando Google.

Per esempio: quando si naviga su un qualunque sito internet è molto probabile che questo contenga componenti che trasmettono informazioni a Google. Un’estensione per il browser Firefox chiamato Cloud Firewall permette di bloccare questi elementi. È particolarmente istruttivo navigare sui siti che si frequentano regolarmente ma con Cloud Firewall impostato per bloccare tutti gli elementi traccianti o anche solo quelli di Google: da alcuni siti scompaiono i banner pubblicitari, in altri non appaiono più i commenti, oppure possono scomparire i video e le immagini, o non ci sono più i soliti font né gli sfondi; diversi pulsanti scompaiono o smettono di funzionare; certe pagine non sono nemmeno più navigabili, perché basate completamente sui servizi delle Big Tech. Basta un pomeriggio di navigazione con Cloud Firewall attivato per rendersi immediatamente conto di quanta parte di Internet sia materialmente in mano a queste poche aziende.

Ma non finisce qui: Google mette a disposizione di programmatori, web designer e professionisti vari una lunga serie di servizi tecnici  – un elenco è disponibile su Wikipedia – a cui solitamente non si presta molta attenzione e con cui abbiamo a che fare quotidianamente, come i captcha (verifica in due passaggi per entrare in un sito web), il login con l’account di Google, oppure Google Analytics. Sono tutti strumenti (tentacoli) con cui Google estende le proprie capacità di estrazione dati. Chi usa Android molto probabilmente sincronizza i propri contatti tramite Google e quindi gli consegna tutta la propria rubrica. Ci sono app di notizie che si appoggiano su Google News e dunque gli forniscono informazioni sugli argomenti che ci interessano ecc. Alcuni di questi strumenti, addirittura, possono essere essenziali al funzionamento stesso di Internet, come il Google Public DNS sul quale vale la pena spendere qualche parola.

7. Il Google public DNS

Ogni sito internet è identificato da un proprio codice univoco chiamato indirizzo IP che funziona più o meno come un numero di telefono: inserisci il codice IP nel browser e questo si connette alla pagina desiderata. Per esempio, questo post si trova su Giap, il cui indirizzo IP è 136.243.238.37. Se si inserisce tale indirizzo nella barra del proprio browser, premendo invio si aprirà proprio Giap.

Gli indirizzi IP però sono scomodi da ricordare: «Ho letto un gran bell’articolo su 136.243.238.37» non suona granché bene… Per questo fin dai primordi del web è stata sviluppata una rete di server chiamati DNS, Domain Name System, ognuno dei quali contiene una sorta di rubrica indirizzi pubblica che collega gli indirizzi IP a nomi più semplici da memorizzare, i nomi di dominio, ossia gli URL a cui siamo abituati che iniziano con www e finiscono con punto qualcosa. È grazie al DNS che possiamo usare www.wumingfoundation.com al posto di una scomoda sequenza di numeri.

Qui arriva la parte che ci interessa: quando digitiamo un URL o clicchiamo un link il nostro device non fa altro che interrogare uno o più server DNS chiedendo loro l’indirizzo IP corrispondente e permettendo la connessione. È evidente che chi gestisce un server DNS saprà sempre che un dato computer o smartphone ha cercato un certo sito, e ciò indifferentemente dal computer o modello di telefono usato, dal sistema operativo, browser e motore di ricerca. Ebbene, il servizio DNS più grande e usato al mondo e che facilmente troviamo impostato di default nei nostri device appartiene proprio a Google.

Google dichiara di cancellare parte dei dati di navigazione di cui viene a conoscenza entro 48 ore, ma che un’altra parte la conserva a tempo indefinito. In sostanza siamo di fronte a un’azienda che oltre a possedere un quasi-monopolio sulle ricerche online detiene pure il controllo di grandissima parte dei dati sulla navigazione anche di chi non usa il suo motore di ricerca.

Ebbene, ci vuol poco a cambiare il server DNS che il nostro device interroga di default.

8. Fonti differenti ma analisi unica

Ricerche online, traffico DNS, movimenti del mouse, posizioni GPS, reti a cui ci si connette, rubriche telefoniche, tasti digitati sulla tastiera: sono informazioni di natura diversissima, e prese singolarmente possono avere un’importanza relativa, ma tutti insieme e in mano ad un’unica azienda possono essere incrociati fra loro ed è a questo punto che divengono estremamente importanti (per l’azienda) e pericolosi (per noi).

Per esempio, durante una banale navigazione in Internet le diverse fonti a cui Google attinge permettono di ricostruire ogni minimo dettaglio della nostra navigazione: possiamo fare una ricerca su Google (1) che ci rimanda a un sito che contiene componenti di Google (2), banner pubblicitari di Google (3) e un video di YouTube (4). Per accedere al sito potremmo doverci loggare con l’account di Google (5) e passare per il suo captcha (6). All’interno poi troveremo un link ad un secondo sito e cliccandoci useremo il DNS di Google (7). Tutto questo potrebbe esser stato fatto con Chrome (8) da un cellulare Android (9) della linea Pixel (10), prodotta dallo stesso Google. Più sono gli strumenti di Google che utilizziamo e più dettagliata sarà la sua conoscenza delle nostre attività.

È inevitabile che alcune attività online vengano tracciate dai fornitori di servizi; ecco perché oltre alla comprensione degli strumenti e all’utilizzo delle alternative libere, anche recidere i diversi tentacoli è di importanza fondamentale, poiché l’accumulazione centralizzata di una grande mole di dati non permette solamente di ricostruire reti di contatti, abitudini e spostamenti ma, come si è già accennato, può spingersi ancor più a fondo permettendo una schedatura sociale, economica, psicologica e politica di ogni soggetto.

Qui si apre un campo di discussione vastissimo in cui l’analisi dei dati va a toccare aspetti tecnici, semantici, psicologici, comportamentali, sociali e in cui strumenti e formule vengono continuamente sperimentati, scartati, modificati ed affinati. Le modalità e i criteri con cui questi dati vengono analizzati non sono di pubblico dominio e al massimo possiamo presumerli o dedurli.

Chi presta attenzione alle notizie tecnologiche sa bene che negli anni Google ha continuamente sviluppato – e acquistato aziende che producono –strumenti di vario genere utili ad acquisire più informazioni o analizzarle con maggior dettaglio, e che tra il personale di Google vi sono psicologi, sociologi, esperti di statistica e di altri campi grazie ai quali vengono sviluppati algoritmi di analisi sempre più raffinati, capaci di dedurre statisticamente tendenze sopite e debolezze psicologiche di ogni singolo utente arrivando a stilarne un ritratto completo e dedurne la forma mentis. E non solo la nostra: anche quelle di chi fa parte della nostra rete sociale.

Ciò significa che liberarsi dagli strumenti di Google non è sufficiente se viene fatto da un singolo utente, senza coinvolgere anche gli altri componenti delle nostre cerchie sociali: Google saprebbe comunque chi ti ha inserito in rubrica e chi ti chiama dal proprio telefono Android, saprebbe il tuo compleanno perché altri lo hanno inserito nei loro calendari e saprebbe quando la tua solita compagnia si trova tutta assieme nel vostro locale preferito grazie ai loro GPS ecc.

Google potrebbe anche condurre esperimenti mirati, come far funzionare appositamente male l’assistente vocale in determinati momenti solo per misurare l’ansia e nervosismo che questo genera in noi, analizzando la nostra voce, oppure esponendo gli abitanti di regioni diverse a versioni differenti di una stessa notizia per studiarne le reazioni. Le tecnologie dell’informazione in mano a società di capitali, dunque, non si limitano a trasformare il mondo in una rete di sorveglianza a cielo aperto, ma trasformano ogni persona in una cavia per esperimenti psicologici e sociali e rendono amici, parenti e vicini delatori involontari, fonti di informazioni su di noi.

9. Il problema non sono necessariamente i dati, ma chi li detiene e ciò che vuol farne

Google guadagna dalla vendita dei nostri dati. O meglio: vende aggregazioni e analisi dei nostri dati. Quali siano i dati che vende dipende da scelte commerciali e, almeno in teoria, da limiti legali. In teoria, non può vendere dati sensibili capaci di ricondurre gli acquirenti alla singola persona, ma quali siano esattamente questi limiti è argomento tecnico-giuridico assai complesso: ad esempio, vendere anonimi tracciati GPS di percorsi fatti al mattino in bicicletta da attiviste napoletane di sinistra tra i 25 e 30 anni con un debole per i panda, potrebbe essere perfettamente legale.

Che siano venduti o no, tuttavia, questi dati sono comunque informazioni presenti nei database di un’azienda privata che in futuro potrebbe analizzarli con nuovi strumenti, venderli legalmente, farseli rubare o essere obbligata a comunicarli a governi e agenzie di intelligence. Già ci sono segnali in questo senso: il governo degli Stati Uniti ha tentato di imporre ad Apple di fornirgli gli strumenti per poter accedere a qualunque iPhone, generando l’assurda situazione in cui una multinazionale si è atteggiata a paladina “buona” della privacy.

La cessione di questi dati e analisi ad aziende private o enti di sorveglianza può portare a scenari che non è esagerato definire distopici. Solitamente, chi difende questo stato delle cose o minimizza il problema se ne esce con la massima fascistoide secondo cui «chi non ha nulla da nascondere non dovrebbe preoccuparsi», non facendo altro che deviare il discorso dal punto della questione: il problema non è necessariamente il contenuto dei dati di per sé, ma chi li detiene e ciò che vuol farne!

La consegna di tutti i nostri dati permette di redigere profilazioni che per quanto raffinate esse siano, non escludono mai i bias di chi li realizza. In sostanza, chi ritiene di «non aver nulla da nascondere» non fa che affidare il giudizio sulla propria intimità a  multinazionali e poteri governativi, che ovviamente la giudicheranno coi propri parametri culturali e in base ai loro interessi.

Tu che leggi sei una persona “irreprensibile”? Poco importa: gli scenari che potresti incontrare in un futuro caratterizzato da un uso ancor più massiccio dei big data sono comunque tremendi. Le scuole migliori (privatizzate) potrebbero rifiutare l’iscrizione dei tuoi figli perché in base alle analisi preventive effettuate tramite big data non rientrano nei loro standard; enti di polizia potrebbero metterti in una lista di “attenzionati” perché  classificano come pericoloso chiunque legga un determinato sito nonostante contenga contenuti legittimi; la tua compagnia di assicurazioni potrebbero aumentarti la polizza in base ai dati fisiologici ottenuti dai tuoi attrezzi sportivi; aziende potrebbero negarti l’assunzione perché nella tua rete di contatti vi sono sindacalisti a loro non graditi, e così via.

Sono scenari potenziali, si, ma che si trovano dietro l’angolo: a dividerci da loro ci sono forse alcune reticenze e barriere legali, ma è in questa direzione che il capitalismo spinge con forza, ed è un futuro che può tentare di realizzarsi in diversi modi: abituando le persone a consegnare volontariamente i propri dati, oppure per vie legali o in altre forme ancora, pertanto ogni segnale che punti in quella direzione va tenuto sott’occhio. In quest’emergenza coronavirus, ne abbiamo notati parecchi.

10. Decentrare, federare, adottare standard aperti

Liberarsi dalle maglie di Google e limitarne lo strapotere è un processo che può essere attuato solo adottando software libero, ma sostituire strumenti su cui non abbiamo il controllo con strumenti trasparenti non basta ad evitare la formazione di nuovi enti accentratori. Questo perché numerosi strumenti si appoggiano a servizi forniti da terzi: allo stato attuale, è irrealistico prospettare uno scenario in cui ogni singola persona/utente gestisce da sé un proprio server casalingo su cui girino chat, email o quant’altro.

Parimenti, lo scenario – non meno irrealistico – in cui diversi servizi globali siano sostituiti da una moltitudine di alternative indipendenti farebbe venir meno diversi dei vantaggi che offrono alcune piattaforme globali.

La soluzione prospettata da diverse piattaforme libere per fornire al tempo stesso i vantaggi delle reti autonome e la comodità delle grandi piattaforme consiste nell’applicazione di due concetti: decentralizzazione e federazione, con cui si intende la creazione di reti interconnesse tra loro («federate») di diversi fornitori di servizio indipendenti («decentralizzati») attraverso una tecnologia di comunicazione comune.

Un esempio di strumento federato e decentralizzato già noto e usato da anni è l’email: gli indirizzi di qualsiasi provider difatti possono dialogare con tutti gli altri indirizzi mail esistenti.

Il concetto di fondo consiste nel dare la priorità non a singoli strumenti alternativi ma a protocolli aperti che possano a loro volta essere utilizzati tramite strumenti liberi, ossia consolidare standard diffusi e utilizzabili da chiunque senza obbligare nessuno a legarsi ad un certo fornitore di servizi specifico

Per fare un paragone: Whatsapp è uno strumento chiuso che può essere usato esclusivamente passando da Whatsapp stesso (se ti togli da Whatsapp perdi tutte le chat Whatsapp); al contrario Mastodon è uno strumento aperto privo di un “centro di comando”, che permette a chiunque di crearsi il proprio server con le regole che preferisce.

Lo stesso concetto può essere applicato in diverse forme: scegliere ad esempio di sostituire Google Drive passando in massa a Dropbox aiuterebbe ben poco. Al contrario si può scegliere uno dei numerosi provider che usano il software libero Nextcloud: anche qui, lo stesso software, ma messo a disposizione da realtà diverse e indipendenti fra loro.

La preferenza per gli standard aperti può essere declinata anche sui singoli file: ognuno, ad esempio, può scegliere l’editor di testi che preferisce ma se ci si impone di usare solo editor che possano lavorare in formato .odt (Opendocument, l’alternativa libera dei file .doc) ecco che ciò porterebbe pure diverse aziende commerciali ad adottare standard aperti.

È dunque possibile passare da una situazione che vede un servizio di Google impostosi come riferimento unico globale, tipo Google Maps, ad una situazione con applicazioni diversissime e indipendenti che hanno come riferimento comune le ricche mappe di OpenStreetMap.

Si tenga anche conto che in alcuni casi ciò può richiedere un acquisto o una donazione, perché realizzare e mantenere certi servizi può avere un certo costo.

11. Propaganda invisibile e mirata

Il banner “targetizzato” che appare dopo che abbiamo fatto una certa ricerca, per quanto fastidiosissimo, è solo la forma più grossolana e visibile di utilizzo dei nostri dati a scopo propagandistico-commerciale.

Le cose diventano molto più ambigue quando la propaganda si manifesta in modi meno espliciti. Già adesso, per intenderci, Google cambia da utente a utente l’ordine dei risultati che mostra sul suo motore di ricerca, ma è nei possibili sviluppi futuri delle tecnologie che coinvolgono le intelligenze artificiali (IA) che il quadro si fa più inquietante. I testi scritti automaticamente dalle IA. si stanno facendo sempre più indistinguibili da quelli realizzati da esseri umani ed è dunque possibile prospettare che dei crawler – programmi automatizzati che scrutano i contenuti presenti in rete – collegati ai database di Google e a IA specializzate in scrittura, potranno di fatto essere utilizzati come giornalisti-robot capaci di generare in tempi rapidissimi articoli di news altamente targetizzati, coi quali sarebbe possibile propagandare una stessa informazione in modi differenziati, per far passare un medesimo concetto a persone di orientamenti totalmente opposti, differenziando gli articoli in forme adatte ad essere maggiormente accettate da ciascun singolo utente.

Se il concetto da far passare fosse che «il soggetto politico X è inaffidabile», a una stessa ricerca le persone già ostili a tale soggetto potrebbero vedere notizie che rafforzano la loro avversione, mentre alle persone simpatizzanti le stesse notizie potrebbero essere mostrate in forme più ambigue e sfumate, in modo da scavalcare le difese e generare comunque sospetti e dubbi.

La colonizzazione dei quotidiani da parte delle aziende di data mining potrebbe avvenire in forme non dissimili da quelle già applicate dalla gig economy in altri settori: così come AirBnB non “possiede” gli appartamenti che affitta, Google potrebbe non possedere mai i quotidiani, ma legandoli irrimediabilmente a sé attraverso i propri servizi e detenendo il potere sulle piattaforme utilizzati, controllarli di fatto. Attualmente Google avvantaggia i siti di news che adottano un suo formato di pubblicazione chiamato AMP, legando così a sé queste testate, spingendoci a preferirle rispetto ad altre. Se cerchi una notizia su Google vengono mostrate prima le testate che usano AMP, mentre articoli forse più completi e documentati vengono relegati alla pagina 3, che raramente viene aperta.

Nel caso di Cambridge Analytica, che ha riguardato la Brexit e le presidenziali statunitensi del 2016, è stato osservato che il massiccio uso di news dal taglio personalizzato e distribuite nei feed personali di Facebook può aver influenzato l’opinione pubblica in maniera rilevante ma non controllabile, mostrando contenuti di propaganda mirata di cui non è stato possibile tenere traccia, dato che scomparivano poco dopo esser stati letti (Facebook non registra la cronologia di quali annunci vengono mostrati ad un utente). In quel caso si è trattato perlopiù di post a pagamento che gli utenti più sgamati avrebbero potuto identificare per ciò che erano, ma cosa succederà quando non sarà più possibile comprendere se una data notizia è targetizzata su di me o no?

Oggi la cosa viene ancora svolta con un alto tasso di intervento umano, tramite persone che si occupano materialmente di scrivere materiale di propaganda in seguito trasmesso da bot o pubblicato come annuncio a pagamento ma non è così distante il futuro in cui potremmo interagire con bot indistinguibili da utenti reali, con tanto di voce e immagine video generata artificialmente, che dialogheranno con noi esponendoci le loro “opinioni” utilizzando sottigliezze discorsive e psicologiche tagliate apposta per far breccia nella nostra psiche, grazie al fatto che, a nostra insaputa, ci conoscono perfettamente.

Propaganda commerciale e propaganda politica si rivelano di fatto indistinguibili e ciò non è un mero accidente causato dalla tecnologia: si tratta della naturale evoluzione delle logiche capitalistiche, che vedono nell’estrazione di valore dalle attività umane la premessa per manifestarsi appieno nella loro evoluzione successiva, ossia il capitalismo della sorveglianza.

12. Capitalismo della sorveglianza

Il capitalismo della sorveglianza è già realtà. Semplicemente, le forme in cui si realizza  non si sono ancora espresse al massimo. E se le sue manifestazioni materiali più evidenti sono quelle legate all’IoT, è soprattutto agli aspetti sociali derivanti dalla loro implementazione che bisogna prestare attenzione, e soprattutto alla domanda di sicurezza che oggi viene costantemente alimentata (c’è sempre un’emergenza utile alla bisogna).

Basta solo ipotizzare che le reti di telecamere già esistenti nelle nostre città vengano implementate – come sta avvenendo in altre parti del mondo – con tecnologie di riconoscimento facciale a loro volta connesse con profilazioni ottenute da fonti come Google, per rendersi conto del potenziale livello di controllo a cui andiamo incontro.

Tutto ciò può già essere osservato in Cina, dove le tecnologie per la sorveglianza sono utilizzate in maniera massiccia: a Shanghai, megaschermi collegati a sistemi di riconoscimento facciale posti nei pressi di passaggi pedonali, mostrano il documento d’identità di chi attraversa con il rosso. Una forma moderna di gogna pubblica.

Le stesse tecnologie vengono impiegate in banche, aeroporti, alberghi e bagni pubblici. Se ne vedono le applicazioni più estreme nello Xinjiang, dove tra sistemi di riconoscimento facciale, scansioni biometriche e sistemi di sorveglianza a terra ed aerea (coi droni) la regione abitata dalla minoranza uigura è diventata un vero e proprio carcere a cielo aperto in cui i movimenti di ogni persona sono monitorati, registrati e analizzati.

La domanda di sicurezza di cui sopra, che da tempo plasma la vita nelle nostre città, tra richieste di installazione di videocamere ovunque, militari impegnati nell’operazione «Strade sicure», controlli di vicinato, droni che sorvolano le manifestazioni, sistemi di riconoscimento veicolare e accessi monitorati mostra tendenze che potrebbero evolversi in scenari non dissimili da quello appena descritto per lo Xinjiang. L’esempio più recente cui abbiamo assistito è stato quello dei lockdown imposti per il Covid-19, di dubbia utilità per lo scopo esplicito (contenere la diffusione del virus) ma utili a quello implicito, ossia far avanzare di qualche passo l’accettazione di controlli autoritari e sospensione delle libertà.

Non si tratta di scenari unilateralmente calati dall’alto: sono accolti e addirittura auspicati da una fetta della popolazione intrisa di ideologia securitaria o, più spesso, auspicati parzialmente, senza rendersi conto dello scenario nel suo complesso.

Ciò avviene nella presunzione che un monitoraggio costante di ogni attività umana e sociale serva a renderci non solo più sicuri ma pure più efficienti, in una continua ricerca di «ottimizzazione» tramite sorveglianza e punizione.

Basta pensare al livello di controllo che diverse aziende applicano sui propri dipendenti, sempre più spesso obbligati a registrare ogni loro minima attività, a strisciare il badge all’entrata e all’uscita del gabinetto perché qualcuno possa stilare statistiche sui tempi della nostra pisciata media ecc.

Ecco, in soldoni, la peggior deriva a cui stiamo andando incontro: un futuro che è già qui, in cui raccolta di dati, profilazione, monitoraggio e sorveglianza senza limite sono legati a doppio filo con l’ideologia legalitario-securitaria diffusa nella società social-mediatizzata.

13. Degooglizziamo le nostre vite

È in riferimento a tutto questo che risulta interessante, utile e preziosa la campagna di degooglizzazione, che invita a non consegnare più a Google nessun momento delle nostre vite. Si tratta di una campagna informale portata avanti in modo spontaneo, singolarmente o in gruppo, da un gran numero di hacktivist in tutto il mondo.

Rispetto ad altri processi simili e altrettanto importanti ma più semplici da avviare – come l’adozione di piattaforme alternative a Facebook, Instagram, Twitter e Whatsapp – la rimozione di Google, per via della vastità e varietà di campi informatici che tocca, è una pratica da svolgersi in più fasi, toccando ogni volta con mano e imparando tutti gli aspetti tecnici che è necessario conoscere.

La degooglizzazione, in sostanza, aiuta ad allenarsi per portare avanti l’impegno, sempre più necessario, a sviluppare una maggior consapevolezza informatica.

Una fonte consigliabile è Framasoft, associazione francese nata per diffondere l’adozione di software libero. Da alcuni anni Framasoft porta avanti un progetto di degooglizzazione offrendo molti strumenti alternativi e suggerimenti utili.

Leggi: Cosa puoi fare nel 2020 insieme a Framasoft.

Conclusione

Siamo già in ritardo e bisogna recuperare il tempo perduto. Si tratta di un percorso a volte scomodo – «la degooglizzazione non è un pranzo di gala», ha scritto Wu Ming su Bida tempo fa – ma la cui necessità è sempre più impellente.

L’impegno dev’essere il più attivo, diffuso e collettivo possibile: esistono decine di hacklab e migliaia di persone capaci di aiutare in questo percorso, che ha perlomeno il vantaggio di poter essere effettuato a scaglioni:
■ sostituire il motore di ricerca di Google con DuckDuckGo e SearX è operazione che si fa in un attimo;
■ sostituire Google Maps con OsmAnd o Pocket Earth pure;
■ stessa cosa per passare da Chrome a Firefox;
■ per aprire una nuova casella email con Autistici o Tutanota è gradita una donazione, nel primo caso, o richiesto un piccolo pagamento, nel secondo;
per cose più complesse, come passare da Windows a una distribuzione GNU/Linux o altro, ci vuole un po di più tempo, via via fino a cose più complesse come sostituire il sistema operativo del cellulare.

Seguire le news tecnologiche e i forum di informatica dovrebbe diventare un’attività costante. Inevitabilmente ci saranno scazzi, si sbatterà il muso sul bisogno di cambiare abitudini, imparare l’uso di strumenti nuovi, aver a che fare con le diverse opinioni degli “smanettoni” su quale sia lo strumento alternativo migliore, ma il punto è tirarsi su le maniche e cominciare a lavorarci.

Subito.

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* Ca_Gi collabora a vari progetti della Wu Ming Foundation, tra i quali il gruppo di lavoro Nicoletta Bourbaki. Ha un blog dove pubblica tutorial tecnologici e controinchieste su vari temi, e un account sull’istanza Bida di Mastodon. Da mesi lavora indefessamente al proprio degoogling. Diamogli una mano, degooglizzandoci anche noi.

ALTRE LETTURE

■ Il 7 febbraio scorso Bruce Hahne, ingegnere e manager presso Google, si è dimesso dall’azienda con una dettagliata lettera aperta e l’avvio di una campagna rivolta tanto agli altri lavoratori di Alphabet quanto all’utenza. L’accusa, documentata, è di complicità nel disastro climatico e nel business della guerra. Per capirci, il precedente storico che cita è il ruolo che ebbe l’IBM nello sterminio nazista. Parla anche delle ritorsioni contro dipendenti gay e transgender, licenziat* per il loro attivismo dentro l’azienda.

** Si noti che la maggior parte delle aziende nate negli anni ’90 inizieranno a diventare economicamente rilevanti solo dopo diversi anni dalla fondazione, a riprova dell’impegno economico-finanziario di chi, in anticipo sui tempi, aveva intuito la necessità di conquistare posizioni dominanti in questo settore. Il caso più noto è quello di Amazon che, sopravvissuta alla bolla delle dot-com, operò in perdita fino al 2001.

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164 commenti su “Perché è necessario e urgente liberarsi di Google – e come cominciare a farlo

  1. Pecunia non olet: perché l’etica “hacker” e “open” non é anche “free”?

    • No, per carità, no. Non di nuovo la querelle anni ’90 su «free as in free beer or free as in free speech?». Questo è un post sul degoogling.

    • Ti riporto due pezzi del libro di Jaron Lanier.(1)FREGATURE in conflitto Negli anni precedenti alla nascita di Google, la prima grande FREGATURA-company, gli informatici hippie erano feroci sostenitori dell’idea di rendere libere e gratuite le informazioni e la tecnologia, ma non era il loro unico ideale. Gli informatici adoravano gli... → [Continua a leggere]
  2. Segnalo anche https://ethical.net/ e il subreddit https://www.reddit.com/r/degoogle/ che sono stati utilissimi nel mio de-googlingInoltre segnalo anche il progetto pi-hole https://pi-hole.net/ per utenti un po’ più avvezzi allo smanettamento, che è un semplice programma che si può far girare su un piccolo computer come un RaspberryPi Zero W, che consente molto... → [Continua a leggere]
  3. Ma quindi si può cambiare il sistema operativo sul cellulare?

  4. Vorrei ricordare anche che Google ha sviluppato un nuovo protocollo chiamato DOH (DNS Over Https), con lo scopo dichiarato di evitare il monitoraggio degli utenti e, in particolare, fare in modo che terze parti non possano più “mettere il naso” sui siti visitati dagli utenti. In realtà in questo modo... → [Continua a leggere]
    • DoH non è una creazione di Google, evitiamo la disinformazione per piacere (specie quando sono talking point dei repubblicani al soldo di AT&T e Comcast). Google qui semmai appare essere al traino di Mozilla. https://support.mozilla.org/it/kb/informazioni-dns-over-httpsDel resto Google già può approfittare dei DNS tradizionali e di molto altro, non è chiaro... → [Continua a leggere]
      • Hai ragione scusa, da quanto ho capito google è intervenuta solo nei test. Credo sia comunque importante per loro gestire anche questo, ma onestamente le mie conoscenze si fermano qui.

  5. È un pezzo molto importante, da far girare, che collega percorsi personali e collettivi di presa di coscienza sugli strumenti digitali che usiamo ogni giorno. Ammetto di essere uno di quelli che negli anni ha abbassato la guardia, prima forse per curiosità – nei primi anni 2000 tutto era nuovo... → [Continua a leggere]
    • Nei commenti mi presenta come Roberto ma sono /anche/ kappazeta (che magari in molti mi ri-conoscono meglio così).

    • Il punto che tocchi è proprio il nocciolo del discorso: come organizzarsi per diffondere maggiormente conoscenze informatiche, aumentare la capacità critica ad esso e diffondere l’utilizzo degli strumenti liberi? Personalmente ritengo che sia necessario mettere in campo tutti i mezzi possibili. Molte informazioni sui software open sono in lingua straniera:... → [Continua a leggere]
      • La conoscenza informatica, come dici tu giustamente, serve ad aumentare la capacità critica. Ma non basta per “degooglizzarsi”. (degoogling inteso nel senso più esteso del termine, perchè è tutto un cazzo se io me degooglo e poi uso whatsapp). L’esperienza degli hacklab (parlo degli ultimi 20 anni, di quello che... → [Continua a leggere]
        • Però qui nessuno ha mai detto che «installando xyz ci liberiamo dalle catene del capitale», né che il problema è solo Google, tant’è che le “puntate precedenti” erano dedicate ad altre corporation che formano GAFAM (e non solo, perchè Twitter in quell’acronimo non c’è ma l’abbiamo sviscerato lo stesso).A noi... → [Continua a leggere]
          • Probabilmente mi sono spiegato di merda, perchè il mio punto era proprio portare il problema fuori dalla cerchia dei nerd, fuori dall’installarsi xyz che è un privilegio di “quelli che smanettano” e dalla dinamica in cui questi ultimi, depositari di un sapere elitario, debbano fungere da avanguardia tecnologica per l’insegnante... → [Continua a leggere]
          • A proposito di fornire strumenti per iniziare processi, non avevo neanche finito di leggere l’articolo ed ecco arrivare in chat (rigorosamente Whatsapp) della classe di mia figlia (elementari Bologna) le linee guida per continuare le lezioni a distanza, e indovinate un pò la piattaforma scelta? Esatto. Forte della lettura ancora... → [Continua a leggere]
            • Grazie a te, sei stato grande!

            • Sì, in questo momento ovviamente l’emergenza viene utilizzata per impedire un dibattito di questo tipo (nel senso che gli appelli cadono nel vuoto, come il tuo), ma c’è anche una dinamica più profonda. Dalle mie impressioni (sono insegnante alle medie), che sono e rimangono impressioni, di fronte alla richiesta della... → [Continua a leggere]
              • Si in effetti anche la mia impressione è stata questa, di impossibilità e timore di aprire una questione e di tutte le difficoltà che ne nascerebbero. Ho avuto un altro lungo colloquio telefonico con questa maestra che ha detto di essere individualmente interessata ad altri metodi e piattaforme ma che... → [Continua a leggere]
                • Piccola aggiunta scusate. Non so se è campato in aria, ma quello che vorrei proporre alla scuola a questo punto, se proprio ormai si sono venduti a Google, sarebbe il diritto di avere garantita una alternativa libera, di veder garantito il diritto a non accettare che un soggetto privato (e... → [Continua a leggere]
                • Scusate ancora il link sopra non corrisponde più alla lettera che citavo, ma ad un’altra circolare. La lettera è sparita

            • Piccolo aggiornamento sulla questione Gsuite a scuola perché è davvero significativo nelle reazioni suscitate. Dopo aver trovato il muro delle maestre impotenti (ma anche non troppo volenti) nell’usare alternative a Google, abbiamo pensato con qualche altro genitore di andare a suonare al piano superiore, cioè di scrivere una lettera alla... → [Continua a leggere]
        • Fino a qualche anno fa solo hacker e smanettoni comprendevano i possibili sviluppi negativi del potere delle big tech e certi messaggi proprio non passavano, mentre oggi tale pericolo è sentito certamente in maniera più ampia e quindi c’è più gente disposta ad ascoltare. Però è necessario che questo processo... → [Continua a leggere]
          • Esatto. Non serve il dettaglio, serve uno sguardo di insieme su cosa è know-how diffuso (il come si fa) e quale è il modello economico reale dell’internet che usi tutti i giorni (il come funziona). L’esempio di jitsi che indichi è perfetto a questo scopo; solo in italia ci stanno... → [Continua a leggere]
            • Al momento l’infrastruttura che supporta Jitsi non è certo in grado di reggere al peso dell’intero mondo scolastico, questo è chiaro. Ma se questo vale per Jitsi il discorso è diverso per LibreOffice ed i files .odt o l’uso di app per mappe mentali o altri strumenti ancora.Certo che servirà... → [Continua a leggere]
              • Non stai parlando dell'”infrastruttura che supporta jitsi” (che in realtà non esiste di per sè, essendo jitsi un’insieme di tecnologie oss), ma di alcuni soggetti che stanno pagando qualcosa per te, e lo fanno finchè ne hanno possibilità o convenienza. Ho preso il primo server della lista, meet.jit.si: la banda... → [Continua a leggere]
                • Quello che scrivi è in linea di massima condivisibile ed è anche comprensibile l’urgenza con cui lo scrivi, visto il ritardo accumulato. È vero, occorrerebbe anche una discussione/indagine, qui o magari altrove, riguardo ai modelli economici che rendono sostenibili le soluzioni free/open. Avrebbe anche quella una funzione divulgativa. Però quei... → [Continua a leggere]
            • Credo che Ca_Gi abbia ragione quando dice che il punto è “come organizzarsi per”:1) “diffondere maggiormente conoscenze informatiche”; 2) “aumentare la capacità critica”; 3) “diffondere l’utilizzo degli strumenti liberi”.A me sembra che queste tre intenzioni siano già realizzate, ma restano isolate in comunità di specialisti. Non so se è un... → [Continua a leggere]
          • Salve Ca_Gi,hai visto questa “Miniguida alla Protezione dei Dati Personali”, disponibile su miniguide.minifox.fr ? E’ una brochure (in pdf è un A4 fronte/retro), pensata per un pubblico vasto (semplice, breve, referenziata), dall’introduzione al problema ad alcune soluzioni. Sicuramente può essere migliorata, ma il formato mi sembra adatto allo scopo.Se hai... → [Continua a leggere]
            • Che dire? Sei riuscito a riassumere tante cose in solo quattro pagine: bravo! Forse l’unico passaggio che penso potrebbe risultare poco chiaro é quello sui metadati (“dati di contesto” non dice molto a chi è neofita.

              • grazie!

                per “metadati” suggerisci un altra definizione?

                ci sono altre cose importati che secondo te mancano? quali?

                • Proporrei:Oltre ai dati visibili, viene raccolta anche una gran quantità di dati solitamente invisibili agli utenti (“metadati”). Questi non sono il messaggio che abbiamo inviato o le foto, ma informazioni che comunichiamo anche senza rendercene conto.(Se ti va contattami su Mastodon che continuiamo lì, così non deviamo il thread sull’editing... → [Continua a leggere]
              • Questo formato ha anche lo scopo di poter essere distribuito a basso costo in luoghi trasversali (es. nei bar).Nella versione online pensavo di collegare alle diverse parole chiave presentate degli approfondimenti, in modo che dall’infarinatura iniziale si possa passare a conoscenze via via maggiori.Se hai voglia di dare una mano... → [Continua a leggere]
    • “Credo infatti che la svolta grossa e di massa sia stato l’arrivo degli smartphone sul mercato”. Sì, ma non dimentichiamo che la responsabilità è solo parzialmente del popolo bue (in cui comprendo anche me stesso, eh! ho resistito fino al 2014 ma poi anch’io ho ingollato Android).Come racconta persino Stiglitz... → [Continua a leggere]
    • A proposito di far girare: vivendo in Francia, le persone che conosco che potrebbero essere più recettive a questo articolo sono francesi e hanno il cattivo gusto di non parlare italiano (nonostante la quantità di italiani in Francia :-)). Se l’autore me ne dà il permesso, posso tradurlo (non so... → [Continua a leggere]
      • A me sta bene: più la discussione s’allarga meglio è!

      • Ciao @herato. Anche io sono in Francia, e la questione della traduzione dei post di Giap mi sta a cuore, faccio parte del collettivo Frayage ‘colpevole’ delle traduzioni di alcuni dei post. Tutt* ovviamente sono benvenut* nel collettivo :-)Pero’, per quanto riguarda questo post, non so se lo sforzo di... → [Continua a leggere]
        • In Francia il discorso sul -degooglisons Internet- è certamente più avanzato che qui da noi ed anzi, di certo varrebbe la pena tradurre in italiano alcuni testi e articoli diffusi oltralpe. Riguardo alla traduzione di questo post, se si ritiene che aggiunga o esponga l’argomento in modi che possano risultare... → [Continua a leggere]
  6. Grazie, articolo molto utile. Mi è capitato spesso di rimandare a https://cagizero.wordpress.com/ per informazioni accessibili in italiano sull’argomento. Ci sarebbe molto da fare anche solo traducendo i materiali di Framasoft e altri ed espandendo opere come https://it.wikibooks.org/wiki/Software_libero_a_scuola che in questi giorni ha ricevuto notevole attenzione.Mi piace la parte iniziale in... → [Continua a leggere]
    • Si, vero, consigliare strumenti non liberi o non del tutto liberi non è il massimo. Il fatto è che proporre una degooglization immediata, totale e di massa è abbastanza irrealistico e quindi, visto il panorama attuale, in diversi casi può essere necessario aver a che fare anche con realtà commerciali... → [Continua a leggere]
      • Personalmente non sono contrario ai servizi commerciali, anzi sono contento se qualcuno fa un po’ di soldi vendendo software libero. https://www.gnu.org/philosophy/selling.htmlPer la posta non ci sono gran soluzioni perché Gmail manda nello spam la posta dei concorrenti (con varie scuse anche giuste) col simpatico effetto collaterale di spingere sempre più... → [Continua a leggere]
        • Concordo con Ca Gi sulla necessità di diffondere la conoscenza degli strumenti digitali (è fondamentale, non solo per le generazioni più giovani) e, in parallelo, di stimolare un approccio critico che porti all’abbandono dei grandi monopolisti; concordo anche con quanto scrivono Wu Ming 1, glida e altri sul «degoogling come... → [Continua a leggere]
          • Evidenzio questo tuo passaggio che a mio avviso è centrale riguardo l’intero discorso, quello in cui ricordi di esser prima passato da Gmail a Protonmail per poi passare ad Autistici e Disroot:“senza quella prima mossa forse non ci sarei mai arrivato.”Il primo stem non era forse l’optimum ma ha permesso... → [Continua a leggere]
  7. Free beer é software del 2004..faccio notare … Free speech ritorniamo al capitalismo linguistico, si?

  8. La storia su IBM e l’ olocausto, quando ci sono gli archivi di Pacelli open e in digitalizzazione quelli del vicariato in Argentina , piuttosto che tutti sto tecnicismi fatti di add- ons e pacchetti dati e cattedrali infrastrutturali ! Scusate la curiositå bavosetta di un vecio umarel della storiografia... → [Continua a leggere]
  9. Grazie! Post necessario che aspettavo da un po’ (fate salire l’hype con gli annunci!) ringrazio Ca_Gi anche per le dritte che dà su Mastodon, grazie al quale sto imparando qualcosa pure io, da vecchia utente microsoft che non è mai riuscita a passare definitivamente a Linux ma che ciclicamente ci... → [Continua a leggere]
  10. Mi sento tremendamente in colpa. Sono uno di quelli che se tuffato a bomba nel mondo Google. Mi fa impazzire la convergenza di tutti quanti dispositivi situazioni eccetera. Adesso per esempio sono in procinto di usare Google suite educational per la scuola. Voglio trovare un’alternativa. Ma non è semplice. Soprattutto... → [Continua a leggere]
    • Ciao, per prima cosa non è il caso di sentirsi in colpa, nessuno è “senza peccato”, il mondo Google ha talmente pervaso le vite di tutti noi che è pressoché impossibile non ritrovarsi a usare un suo prodotto.Per quanto riguarda G Suite for Education, a quanto mi consta non c’è... → [Continua a leggere]
      • Sto vedendo alternativa a classroom e ho trovato easyclass. Ora vado a vedere framasoft

    • L’ho già linkato in un altro commento, ma lo riporto anche qui perchè è attinente: questo è un ottimo punto di riferimento sulle alternative alla suite Google per la scuola: https:://it.m.wikibooks.org/wiki/Software_libero_a_scuola

  11. Volevo segnalare due cose:1) se premo sul link di “Framasort” chi mi dice che Google non possa usare questa informazione per targettizzarmi come individuo particolarmente attento alla privacy che legge sto sito con questo orientamento politico e quindi, estendendo questo ragionamento a migliaia/milioni di persone nel mondo, mettere a punto... → [Continua a leggere]
    • Ubriachezza a parte :-))), faccio notare che nell’articolo di Ca_Gi si dice che Google traccia singoli, sì, ma per tracciare reti sociali. Si chiamano «big data», non «little data», e si chiamano così perché sono grandissimi agglomerati di dati su comportamenti collettivi. Servono a riconoscere comportamenti collettivi per poi indirizzare... → [Continua a leggere]
  12. Rispetto a questa montagna di questioni, la gestione dell’emergenza nella scuola può davvero rappresentare un’accelerazione inquietante. È vero quanto dite in introduzione: diversi docenti stanno usando Drive per condividere materiali con studenti. Ma anche il meccanismo per cui il ministero suggerisce e le dirigenze recepiscono immediatamente è dato un... → [Continua a leggere]
    • La questione scuola trovo che sia una delle più inquietanti di tutta la faccenda. Sia dal punto di vista deglx insegnantx che deglx studentx.Non so se è già stato segnalato nei commenti al doppio post “l’amore è fortissimo…” perché non li ho ancora letti tutti, ma volevo segnalare questa notizia... → [Continua a leggere]
      • Grazie a entrambi, aggiunte e segnalazioni preziosissime!

      • Anche Whatsapp può essere usato, da contratto, solo dal compimento del sedicesimo anno d’età. Oltre a genitori che mettono lo smartphone con Whatsapp in mano ai figli già alle elementari, di fatto in questo momento gran parte dei contatti tra insegnanti e studenti di tutte le età passano proprio da... → [Continua a leggere]
    • «[C]hi anche non sta usando G Suite, DEVE farsi un account perché la partecipazione ad un organo collegiale è richiesta da contratto». `E scritto a contratto che bisogna usare G Suite e accettare tutti i suoi termini di servizio in accordo alle leggi californiane?Se davvero si hanno dubbi: la possibilità... → [Continua a leggere]
  13. A proposito suggerisco la “Miniguida alla Protezione dei Dati Personali”
    https://miniguide.minifox.fr

    Vi trovate anche una versione pdf per la stampa(brochure A4 frote/retro), distribuibile in giro.

    E’ un work in progress e sono aperto a collaborazioni!

  14. Le polizie di alcuni paesi si appoggiano a Google per fare «geofencing» [geo-recinzioni digitali] e tracciare i dispositivi di chiunque si trovi all’interno del perimetro. In questo modo, capita che vengano collegate a un reato persone che, semplicemente, si trovavano nei pressi. La polizia si fissa su un utente e... → [Continua a leggere]
    • Per chi passa di qui per caso: coi vostri dati si può fare anche geotargeting/geofencing politico. WM1 mi ha fatto tornare in mente questo articolo della Tactical Tech di Berlino. Per chi è interessatx, ci sono altri articoli in basso: basta cliccare le barre dalle diverse sfumature. Oppure c’è il... → [Continua a leggere]
    • Sull’utilizzo della pandemia da #coronaVirus da parte di Google ho incrociato questa notizia: Trump Says Google Is Building a Coronavirus Screening Website, But Details Are Unclear, il link https://www.thestreet.com/investing/google-building-website-for-coronavirus-testing

  15. Domanda tecnica, spero di non andare OT. Nel caso mi sposto volentieri a parlarne in altri luoghi.Non esistono ROM alternative per il mio telefono. Al momento mi comporto in questo modo e vorrei capire quanto è efficace come approccio: – non ho un google account sempre connesso, la maggior parte... → [Continua a leggere]
    • Guarda, sembra pari pari la descrizione del mio telefono :-D Più che una questione di “efficacia” (come si diceva, basta che tua madre o tuo fratello ti chiami e in qualche modo sei tracciato da Google), io ne faccio una questione di sperimentazione, di riduzione graduale della mia impronta informatica,... → [Continua a leggere]
      • Ah, io ho sostituito anche la galleria, ne uso una che ho scaricato da F-Droid.

        • Guarda, sembra pari pari la descrizione del mio telefono :-D:)Io però vorrei capire se o quanto è efficace, altrimenti in questo modo ci prendiamo solo gli svantaggi dell’essere fuori dal mondo google e poi siamo tracciati lo stesso in modo massiccio. Sulle chiamate entranti, beh ci possiamo far poco. :)Mi... → [Continua a leggere]
          • Sicuramente facendo così si riduce la propria scia di dati, e questo da obiettivo individuale deve diventare obiettivo sociale e pratica diffusa. Io poi non sono mai stato su Facebook, al momento non sono su nessun social a parte Bida, non sto usando prodotti google, insomma la mia “impronta informatica”... → [Continua a leggere]
          • Ciao,dei messaggi e le chiamate che effettui, sicuramente buona parte sono dirette a un numero modesto di persone (solitamente familiari e amici stretti e qualche collaboratore di lavoro). Un modo per ridurre (alla grande) l’ingerenza di google & co. è convincere quelle persone a usare, al posto delle chiamate normali... → [Continua a leggere]
          • Guardando non solo al degoogling ma anche al contrasto più generale al data mining, le tue attenzioni, pur essendo effettivamente, almeno in prima battuta, lontane dall’essere incisive, sono tutt’altro che inutili. Se scarichi le applicazioni da F-Droid, stai favorendo lo sviluppo di software libero. Se devi sbatterti a creare un... → [Continua a leggere]
            • …per non dire che quando installi un software non libero/open source, non sai se quello in realtà non ti stia anche infettando il telefono con qualcosa che non se ne va al momento della disinstallazione….

          • «Mi viene in mente di migliorare l’approccio per esempio creando un nuovo google account ogni volta che ho bisogno del playstore».In realtà non c’è bisogno, tramite l’app store Aurora puoi/potete accedere a tutte le app del play store per aggiornare le esistenti e installarne di nuove senza avere un account... → [Continua a leggere]
  16. Articolo perfetto, complimenti a @CA_GI per essere riuscito a esporre concetti tutt’altro che semplici in termini comprensibili anche ai non addetti ai lavori: degne di nota anche le riflessioni dei docenti (di informatica e non) che stanno intervenendo, sulle cui spalle grava la responsabilità di dover diffondere la cultura del... → [Continua a leggere]
  17. Ottimo articolo, grazie!Non sono molto d’accordo, tuttavia, con il paragrafo in cui si imputa il grande successo di Microsoft alla sua distribuzione capillare, in combutta con i produttori. Per installare Windows, si infilava il CD e si premeva “acconsento” fino allo sfinimento. Ancora nei primi anni dieci, per installare... → [Continua a leggere]
    • Sono d’accordo con le tue considerazioni. L’articolo è interessante ma un po’ velleitario. Per molti aspetti potrebbe essere stato scritto dieci o vent’anni fa. In realtà la prospettiva dell’open source è sostanzialmente fallita sia perché per la pervasività di windows che ha superato indenne anche i suoi fallimenti sia per... → [Continua a leggere]
      • Vent’anni fa non esistevano i social network, non esisteva il modello di business dei big data, non esistevano il capitalismo delle piattaforme e la gig economy e l’Internet of Things e rispetto a oggi in rete eravamo quattro gatti. Google era solo un motore di ricerca. Quindi, scusami, ma dire... → [Continua a leggere]
        • Mi stupisce l’arroganza della tua risposta. Io sono solo uno che usa il pc, non sono cero esperto, diciamo un utente medio che si è liberato da windows. Ho solo presentato la mia esperienza.

          • No. Hai dato un giudizio infondato e – questo sì – arrogante sul lavoro di sintesi che ha fatto Ca_Gi. La tua esperienza l’hai usata come pezza d’appoggio, oltre ad averla generalizzata al mondo intero del software e alla fase storica. Interventi così sono sfoghi che fanno solo cadere le... → [Continua a leggere]
            • Scusate, ma vi rendete conto che, come in tutte le discussioni che seguono i post su Giap, sostanzialmente cestinate, bollandola come insensata, qualsiasi opinione che non combaci con quella espressa dall’articolo? Lo fate sempre con grande cognizione di causa e senza mai essere volgari, ma il concetto rimane (e, secondo... → [Continua a leggere]
              • Scusa, però questa è una caricatura. Scoraggiamo a tal punto la partecipazione che su Giap molte discussioni hanno centinaia di commenti e nel complesso hanno lasciato commenti oltre 12.000 utenti iscritt*. Lo stesso ayler, dopo lo scambio un po’ secco, sta discutendo normalmente.All’osso, noi cerchiamo di sconsigliare o arginare un... → [Continua a leggere]
                • Vero che i vostri post hanno sempre tantissimi commenti, ma sono tutti d’accordo con voi! È tutto un darsi ragione addosso. Le opinioni contrarie vengono sempre, o quasi, respinte e archiviate, perché fuori tema o per mille altri motivi, sempre molto validi ed espressi con grande dettaglio. Questo atteggiamento rende... → [Continua a leggere]
                  • 1) alle opinioni critiche, purché argomentate, noi rispondiamo, argomentando a nostra volta; altrimenti a cosa serve uno spazio di discussione, se non per discutere? O dobbiamo limitarci a un «Visto, grazie»? Se riteniamo che un commento contenga una fallacia logica, una pseudo-argomentazione, una verità parziale generalizzata indebitamente, lo diciamo. Poi... → [Continua a leggere]
                  • Ultimo punto che mi ero dimenticato e che mi sembra centrale, poi giuro che la smetto: non vi ho mai visti tornare sui vostri passi, ammettere che forse vi siete sbagliati o almeno espressi male. Tenete la posizione e la difendete sempre e comunque, come una trincea. Non so. Capisco... → [Continua a leggere]
                    • Sarebbe difficile stare qui a fare un elenco delle autocritiche che abbiamo fatto in tanti anni di riflessioni pubbliche. Forse due possono bastare a rendere l’idea. La prima è il post in due puntate che abbiamo pubblicato poco tempo fa, sul nostro uso di Twitter. Mi pare che contenga molti... → [Continua a leggere]
                    • Boh, non so se serve ricordargliele, ormai ha in testa la caricatura che si era fatto di noi, chissà se su questo lo vedremo fare autocritica, tornare sui suoi passi ecc.

      • Che la prospettiva dell’open source sia sostanzialmente fallita è un’affermazione totalmente priva di fondamento. Da quando si è diffusa l’idea del software proprietario, non è mai stata così in salute come ora. Ricordiamo che prima il software libero era la norma. È tanto in salute che perfino gli araldi del... → [Continua a leggere]
    • Tuttavia, leggendo gli esempi di magagne su Linux, non posso non notare che in entrambi i casi citi problemi derivanti dal fatto che i produttori di hardware non rilasciano le specifiche dei propri prodotti, nè sviluppano driver linux per gli stessi.Indubbiamente ciò comporta un problema e contribuisce ad una minor... → [Continua a leggere]
    • Scusate ma io sono un po’ stanco di sentire questa cosa che windows è “piu’ comodo” di linux. Più comodo per chi?Mia madre ha iniziato ad usare il pc a 50 anni passati, come primo sysop aveva Slackware, sono passati 10 anni ed ora usa Fedora. Lo configura e lo... → [Continua a leggere]
      • Posso chiederti se hai provato o se hai suggerimenti su come affrontare peer-pressure o imposizioni verticistiche?

        • Ciao, purtroppo non ho strategie da suggerireTi posso però raccontare la mia esperienza. Nel 2014 ho dovuto trasferirmi all’estero per lavoro, la famiglia ha cominiciato a far pressione per avere mezzi di comunicazioni più efficaci di sms ed email. Avevano tutti whatsapp, mi sono rifiutato di usarlo ed ho imposto... → [Continua a leggere]
      • Ma infatti Linux non è affatto “più scomodo di Windows”, anzi! In diverse occasioni ho riscontrato che persone con nessuna competenza informatica si son trovate meglio con delle distro Linux che con Windows.La “scomodità” è solamente percepita a causa della mancanza di competenze: giusto un paio di giorni fa parlavo... → [Continua a leggere]
        • Sono d’accordo.Aggiungo anche che era più facile diffondere queste conoscenze base, quando le persone erano abituate ai pc.Ora tutti hanno uno smartcoso, ma sempre meno persone hanno un pc.Telefonini e tablet sono architetturalmente più chiusi dei pc ed è anche su questo che si fonda il potere di Big Tech... → [Continua a leggere]
          • Sono rimasto un po’ basito proprio oggi, quando per necessità di passaggio da W 7, stavo valutando delle soluzioni: emergendo che ho visto sul sito specializzato nel recupero e nel riutilizzo di computer vecchi o dismessi tramite l’impiego di Software Libero che la Cooperativa e Impresa Sociale, “priva di... → [Continua a leggere]
  18. Scusate, una domanda, anzi due: che ruolo giocano i microprocessori nel “data mining”, ovvero, possiamo considerare hardware e software completamente indipendenti l’unoo dall’altro e neutrali? Inoltre avreste qualche suggerimento riguardo a letture, in rete o non, anche in inglese per tenersi aggiornati su questi temi? Grazie.

  19. …scusate preciso…hardware e software indipendenti l’uno dall’altro e l’hardware come essenzialmente neutrale?

    • L’hardware non è intrinsecamente neutrale, ma l’argomento è vastissimo e meriterebbe a sua volta un post specifico, maggiormente incentrato soprattutto su problemi di sfruttamento, inquinamento e solo in secondo luogo sulla trasparenza dei suoi componenti. A questo proposito val la pena citare il caso di Fairphone, uno smartphone che promette... → [Continua a leggere]
      • Capisco, e condivido: parlando di sfruttamento/inquinamneto si andrebbe off-topic. Aggiungo solo, e spero di non farla troppo tecnica, che parlando di BIG data il volume e la varieta’ dei dati e’, appunto, BIG, enorme e la velocita’ diventa essenziale oltre che rappresentare un vantaggio. Questo presuppone che non molti anzi,... → [Continua a leggere]
  20. L’emergenza attuale ha messo in evidenza un aspetto inquietante, vale a dire come la scuola italiana (la scuola mondiale?) si sia consegnata nelle mani di google che ora la tiene in ostaggio grazie alla sua piattaforma educational. La scuola è da anni terreno di conquista degli operatori privati. I vari... → [Continua a leggere]
    • Concordo in riguardo all’emergenza scuola. Direi inoltre che al momento, causa emergenza virus, pare si stiano by-passando leggi e regolamenti in riguardo all’uso di piattaforme digitali nelle scuole. Ad esempio nella classe di mia nipote, in inghilterra, dalla scorsa settimana i ragazzi stanno ricevendo lezioni online tramite l’uso della piattaforma... → [Continua a leggere]
    • Le piattaforme di Google sono state “impiantate” in moltissime scuole italiane, a pagamento. E difficilmente si tornerà indietro perché qualche volontario di buone intenzioni si metterà ad installare software opensource. L’unica, per come la vedo io, è mettersi a girare scuola per scuola con un team di esperti che spieghi:... → [Continua a leggere]
      • Pare comunque che nelle chat, mailing list e bacheche on line sindacali di insegnanti il post di Ca_Gi stia girando parecchio. Buon segno.

      • Da quel che so la piattaforma google, clone di quella per le imprese, è sempre stata gratuita per le scuole, come segno di “gratitudine” da parte dell’azienda per il sistema scolastico. Il che mi sembra anche peggio.

  21. Personalmente ho trovato molto utile anche un post di Giuseppe Genna, qualche tempo fa sul suo blog dove dice: “si deve andare a referendum sul sistea scolastico” in quanto “…l’educazione e’ ben piu’ di un servizio”. E’ uno dei pezzi che mi ha colpito di piu’ perche’ collega benissimo la... → [Continua a leggere]
  22. Sul forum di linuxiani che seguo si è parlato di come estromettere google da un dispositivo android. È al di sopra delle mie possibilità, ma se a qualcuno interessase
    https://www.linuxminditalia.org/index.php?topic=25311.0

  23. Se posso permettermi vorrei proporre di integrare nella discussione un concetto fondamentale legato all’inesorabile progresso nel campo dell’intelligenza artificiale: la singolarita’ tecnologica (https://www.doppiozero.com/materiali/singolarita-tecnologica) e cioe’ quel momento in cui le macchine diverrano interlocutori diretti e verso i quali l’empatia umana diverra’ “naturale”, isitintiva. Informarsi ed educare il maggior numero di... → [Continua a leggere]
  24. Aggiungo alcune risposte a dubbi ed osservazioni sul post arrivate per mail e chat.Chi ha più competenze tecniche a volte osserva che alcuni passaggi/termini/concetti sono semplificati. Vero: il post è stato scritto per rendere maggiormente noti problemi esistenti e potenziali derivati da strumenti tecnici abbastanza complessi usando una forma comprensibile... → [Continua a leggere]
    • «I Big data non han mai fatto male a nessunx.»Chi dice boiate del genere non sa cosa siano i big data. Che vengono usati anche dall’industria militare, da stati autoritari, da agenzie di spionaggio, vengono usati per rendere più precisi gli attacchi coi droni, per sfruttare di più i lavoratori,... → [Continua a leggere]
      • PS: non mi è stato espressamente espresso con -quei- termini, ho parafrasato.
        Il senso comunque era questo

        • Per la serie “I Big data non han mai fatto male a nessunx”: immagina che un girono ricevi un e-mail dal dipartimento legale di Google che ti informa che la polizia ha richiesto il rilascio di informazioni relative al tuo account e che se non vuoi che i dati vengano... → [Continua a leggere]
  25. […] consentiva una vastissima speculazione finanziaria. Dall’emergenza estraevano valore le grandi piattaforme, come Google che ne approfittava per prendersi sempre più pezzi di scuola pubblica. Dell’emergenza […]

  26. Salve, ho letto solo una parte dell’articolo e concordo con quanto letto, mi premeva scrivere prima di completare la lettura poiché ho notato (e sono sicuro che si tratti solo di una svista) che wumingfoundation.com serve il font Merriweather utilizzando Google: guardando il sorgente di questa pagina, alla riga 29,... → [Continua a leggere]
    • Ciao, grazie di cuore, di quell’elemento ci eravamo dimenticati, tempo fa abbiamo avviato un graduale repulisti (e degoogling) del blog, tuttora in corso, poi però siamo stati travolti da varie cose, ultima delle quali quest’emergenza… La risolviamo al più presto. Avevamo tolto il plugin delle Google Libraries già a dicembre,... → [Continua a leggere]
      • Oh, sì lo immaginavo che fosse una svista. So bene quanto queste cose possano andare per le lunghe: pure io sono in una fase di pulizia, (e pure io devo ancora smettere di utilizzare il CDN di Google per i font!).

        Grazie a voi!

    • Pardon, giustamente wordpress fa la validazione dell’input nei commenti e rimuove ciò che può sempbrare html Il link nel sorgente della pagina a cui mi riferivo prima è (l’ho spezzettato solo per non farlo rimuovere nuovamente):

      https:// fonts.googleapis.com/css? family=Merriweather: 400,700,300,300italic,400 italic,700italic &subset=latin,latin-ext,cyrillic

  27. Scusate se “riaccendo” i commenti, solo per fare una domanda alla comunita’ di carateere tecnico/etico: volevo cominciare ad usare Mastodon su Firefox + Cloud Firewall che pero’ mi ha bloccato l’accesso perche’ pare che Mastodon sia su Cloudflare. Cercando in giro mi sono imbattuto in questo: https://www.wired.com/story/free-speech-issue-cloudflare/ e mi pare... → [Continua a leggere]
    • su istanza bida.im? Non mi pare, comuque su cloudfare grazie per la segnalazione.

    • Mastodon non “gira su” qualcosa, sono le sue diverse istanze a “girare su” qualcosa. Mastodon è, all’osso, un software che permette di federare tra loro tanti social network (chiamati “istanze”). Ciascuna comunità sceglie su quale server mettere la propria istanza.

  28. […] È un caso di privatizzazione soft, come ben spiegato in questo articolo. […]

  29. Segnaliamo:Scuola e insegnamento a distanza ai tempi dell’emergenzaMarco Meotto su Doppiozero.«Se passasse davvero una resa senza condizioni a questo processo di privatizzazione molecolare della scuola, ciò che da anni, finanziando progetti pilota detti “di eccellenza”, hanno fatto le Fondazioni Bancarie – cioè promuovere una didattica funzionale ad assecondare l’ordine del... → [Continua a leggere]
  30. Ciaoio “lotto” contro questo stato di cose da molto, ma ho purtroppo smesso di fare proselitismo sostanzialmente per sfinimento per abuso (altrui, e a mio carico) del termine “talebano”. Che fatica. Mi bastano le occhiatacce quando dico che non ho Whatsapp o che non posso installare la app XYZ perché... → [Continua a leggere]
  31. Autistici non è un provider per tutti: per iscriversi bisogna compilare una domanda che spieghi il progetto che si vuole portare avanti usando i loro servizi. La “degooglizzazione” non la considerano un progetto valido. Lo so perché ci sono passata e m’hanno fatta sputare sangue prima di darmi un accountCome... → [Continua a leggere]
  32. Cari ragazzi grazie davvero per il post e l’attenzione a certe cose. Sto cercando di pulire l’uso che faccio del web seguendo le dritte uscite fuori dal post e dai commenti. domanda da pivello forse fuori tempo massimo, come regolarsi con i DNS? Quali i più sicuri? Mi sembra non... → [Continua a leggere]
    • da mettere su in proprio un server casalingo, con cui interfacciarsi al web, evitando i DNS commerciali ; al modificare direttamente dal router questi parametri :sul piano di competenze e hardware per gestire i servizi,ad esempio ,per un’ istanza Mastodon, bisogna essere “freak” ?

    • Su Android ho fatto lo switch dal noto Cloudflare, 1,1,1,1: che parebbe avere dei conflitti di interesse, tanto da essere nelle bad company del addon suggerito da Cagi sopra(Cloud Firewall); passando a una sorta di VPN gratuita che promette di proteggere la sicurezza del DomainName system impostato, per cui la... → [Continua a leggere]
  33. Il governo vergognosamente ha messo 0 euro per agevolare con l ‘acquisto di un PC il divario digitale nel lavoro agile.
    Un pacchetto di sigarette a chi invece continua a lavorare fuori casa.
    Pagare per lavorare, art. 1.

  34. Un aspetto da tenere in considerazione è l’accesso alla tecnologia. Se lo smartphone è un vero e proprio infiltrato nelle nostre vite, come spiega bene Ca_Gi, è anche vero che operare un degoogling totale (o almeno “profondo”) non è alla portata di tutti, e non solo per gli aspetti tecnici,... → [Continua a leggere]
    • Capisco, ma si può cominciare dal piccolo: qualsiasi telefono android funziona anche senza un account google e solo con lo store f-droid. Perché non cominciare così?

  35. […] sistema di sorveglianza digitale su tutti i livelli, anche quello didattico. Accadrebbe quello che grandi aziende come Google e Facebook già fanno: in cambio di servizi gratuiti, acquisiscono dati su ciò che acquistiamo, leggiamo, guardiamo per […]

  36. Oggi la newsletter di Casey Newton è dedicata a come le grandi piattaforme stanno cogliendo tutte le opportunità offerte dall’emergenza Covid-19 per rafforzare la propria presa sulla società e superare una fase in cui si era cominciato a criticarne lo strapotere.Will COVID-19 end the Big Tech backlash?È interessante la conclusione:«Detto... → [Continua a leggere]
  37. […] ma corriamo fortissimo, come la DeLorean, lanciati a tutta velocità verso il futuro. Perché, come anche in altri ambiti, il cortocircuito in cui ci troviamo sta accelerando processi già in […]

  38. segnalo questi contributi usciti su ROARS su tematiche collegate.https://www.roars.it/online/vqr-teledidattica-e-open-access-lettera-aperta-a-conte-manfredi-e-azzolina/ Un appello dove si chiede anche di “Promuovere e finanziare lo sviluppo di piattaforme teledidattiche basate su software libero, sullo sviluppo di competenze informatiche locali e sulla custodia attenta dei dati di studenti e docenti.”https://www.roars.it/online/scuola-e-valutazione-ai-tempi-del-covid-tra-fondazione-agnelli-e-invalsi/ Le conclusioni: “Tempi duri, quelli che... → [Continua a leggere]
  39. arrivo tardi a scoprire questa discussione (anzi, tutto il blog…), ma vorrei comunque portare il mio contributo (scusate, è venuto un po’ lungo). A fine 2005, stufo di dover passare da una versione di Win$ all’altra (con necessari ricambi di hardware, data la richiesta di risorse sempre maggiori) e connesso... → [Continua a leggere]
  40. Per legge, “ciascuna istituzione scolastica individua una piattaforma che risponda ai necessari requisiti di sicurezza dei dati a garanzia della privacy, tenendo anche conto delle opportunità di gestione di tale forma di didattica che sono all’interno delle funzionalità del registro elettronico” (“Linee guida per la Didattica digitale integrata”, pag. 4).... → [Continua a leggere]
    • puoi provare questo: https://iorestoacasa.work/index.html E’ open source e supportato anche da CNR e CINECA, lo ho usato alcuni mesi fa con un piccolo gruppo ha funzionato come Meet. Detto questo non ho idea se la gestione della privacy su quella piattaforma sia compatibile con la legislazione attuale, cosa che certamente... → [Continua a leggere]
    • È arrivato il momento anche per me. Mio figlio è iscritto al primo anno della scuola dell’infanzia e ci hanno inviato un modulo da compilare per dare il consenso alla creazione di un account G suite da utilizzare per la didattica integrata, insomma si tengono pronti. Se non diamo il... → [Continua a leggere]
  41. Google era nato come motore di ricerca e a noi questo andava bene, ma ora non è più così dato che controllano tutti i nostri percorsi che facciamo e sanno tutto su quello che osserviamo al fine di analizzare il mercato convertendolo in una infinità di dati dai... → [Continua a leggere]
  42. Caro Alver, la novità più importante rispetto ad inizio pandemia, legalmente, è stata la recente sentenza della CGUE, sentenza Shield,http://curia.europa.eu/juris/document/document.jsf?text=&docid=228677&pageIndex=0&doclang=IT&mode=req&dir=&occ=first&part=1&cid=9764800, del 16 luglio; la questione è un work in progress, i GAFAM&co. hanno i migliori studi legali e possono manipolare agilmente i decision- maker.. in Europa c’ è maggiore sensibilità... → [Continua a leggere]
  43. Da come leggo, tu sei molto più informato di me su questa storia. Io faccio parte di quei principianti che sono partiti da zero con il computer vivendo in 25 anni tutti i passaggi della rete. Attualmente il problema comune nella rete è il lavoro invisibile... → [Continua a leggere]
  44. Praticamente hai toccato onestamente tutti i temi principali, tranne il 5G: su un piano politico di antagonismo a queste dinamiche in cui noi europei perdiamo terreno nel confronto globale, si parla solo ora di una cloud eurocentrica, sicuramente troverai aspetti interessanti; rivedendoti qualche articolo sul blog come quello di sintesi... → [Continua a leggere]
  45. A me sta molto sulle palle il fatto di vedere continuamente in rete in qualunque sito vada le icone per le condivisioni e dei quadri al centro pagina per registrarsi… a quei siti che a me non importa proprio nulla come Facebook, Twitter , Instagram ed... → [Continua a leggere]
  46. Per Ca_Gi* : A riguardo del messaggio che hai scritto di Google, che si dovrebbe abbandonare per tutto quello che fa a danno nostro, nonostante tu l’abbia scritto bene dettagliatamente, come la penso io, cerca di accettare questa mia opinione non come una critica ma solo un... → [Continua a leggere]
  47. Articolo molto bello, propositi altrettanto belli, purtroppo è una crociata che non può vedere vincitore chi è contro google. Big G ha fatto troppa strada, è indispensabile nella vita lavorativa di chiunque ed è indispensabile per lavorare online. Io posso avere tutti i buoni propositi di questo mondo ma non... → [Continua a leggere]
  48. Ho delle domande da porvi, spero possiate darmi una risposta, grazie! :)1. quando uscirà il prossimo articolo sul come de-googolizzarsi il prima possibile, forse servirebbe una “guida” più dettagliata possibile passo dopo passo, perchè non tutti, compreso me, hanno dimestichezza di questi strumenti tecnologici e sarebbe anche interessante, essendo docente... → [Continua a leggere]
    • 2. Cosa vuol dire “importare la casella”, e perchè vuoi farlo?Se intendi dire “importare i messaggi che ho ricevuto su Gmail”, è una domanda da fare per metà al provider Tutanota: “posso importare dei messaggi che ho già da qualche parte?”Mi aspetterei una risposta negativa e non mi pare comunque... → [Continua a leggere]
      • Mi sono sicuramente spiegato male, vista la mia conoscenza basilare sull’argomento. Ho fatto il trasferimento automatico dei messaggi che ricevo su Gmail direttamente al mio nuovo account Tutanota, tramite la funzione interna di Gmail. Ho fatto un’errore?“Per quanto l’avvento di IMAP e in parallelo delle webmail (e in generale del... → [Continua a leggere]
        • > Ho fatto il trasferimento automatico dei messaggi che ricevo su Gmail direttamente al mio nuovo account Tutanota, tramite la funzione interna di Gmail. Ho fatto un’errore?Ah, parlavi del forwarding, scusa, ho capito male io. Pensavo ti interessasse conservare i vecchi messaggi dopo avere detto definitivamente addio a Google.> Non... → [Continua a leggere]
          • Posso chiederti un altro paio di informazione? :) E’ possibile istallare sul mio cellulare Xiaomi Redmi Note 9 Pro un sistema operativo /e/ o un altro sistema open source de-gogolizzato, senza per forza essere un programmatore nerd. Oppure sai consigliarmi cellulari, purtroppo smartphone per via del lavoro e quella merda... → [Continua a leggere]
            • Ciao Marco, mi intrometto e ti rispondo al volo. Sugli smartphone puoi vedere il fairphone, è frutto di un progetto olandese che va proprio nella direzione che chiedevi, quindi materiali riciclati, batteria altri moduli come la fotocamera sostituibili e autonomamente riparabili. Per rispettare una serie di parametri equo solidali e... → [Continua a leggere]
              • Ciao, provate a guardare e.foundation https://e.foundation/wp-content/uploads/2019/11/e-manifesto.pdf Il sistema operativo /e/OS è gratuito e sembra installabile facilmente, se il telefono è tra quelli supportati. E’ compatibile con le app android, in caso di necessità. In alternativa è possibile acquistare un telefono con /e/OS preinstallato, anche su Fairphone. Tempo fa ho considerato... → [Continua a leggere]
                • Li stavo seguendo i tipi di /e/OS anche su telegram. Ho provato ha installare il sistema operativo su un vecchio telefono per vedere com’era ma mi sono arenato, ma non sono un serio smanettone. Il problema è che sono sempre indietro rispetto ai telefoni compatibili. Finchè il sistema operativo (al... → [Continua a leggere]