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Perché è necessario e urgente liberarsi di Google – e come cominciare a farlo

[Riprendiamo il discorso aperto con L’amore è fortissimo, il corpo no: quello sul capitalismo delle grandi piattaforme, sui comportamenti indotti dagli algoritmi dei social media, sull’estrazione di big data dalle nostre vite e sulla sorveglianza pervasiva che ne deriva.
Farlo è quantomai appropriato, nei giorni dell’emergenza Covid19.
Tra i poteri e soggetti economici che stanno approfittando dell’epidemia – o meglio, delle misure di «distanziamento sociale» e nuovo disciplinamento del corpo sociale – ci sono soprattutto le multinazionali del Big Tech. Ne approfittano per rafforzare la loro presa sulla società, il loro monopolio di fatto su molte attività oggi imprescindibili. Ne approfittano per intensificare processi di privatizzazione della sfera pubblica.
Una privatizzazione soffice, implicita e non percepita perché non è rapida e “molare”, non c’è uno scontro pubblico tra istanze (privatizzazione sì vs. privatizzazione no); è invece graduale e “molecolare”, avviene grazie all’infittirsi di reticoli fatti di piccole pratiche e automatismi quotidiani.
Google, di cui ci occupiamo nel post a seguire, ha offerto al nostro ministero dell’istruzione (MIUR), come a quelli di altri paesi, la «soluzione alla chiusura delle scuole»: il colosso di Mountain View fornisce ai docenti mail con spazio illimitato e piattaforme per l’istruzione telematica (G Suite for Education). Già prima di quest’annuncio, diverse scuole stavano spingendo i docenti a farsi la casella Gmail e l’account su Hangouts Meet e/o Google Classroom. Di più: svariati insegnanti, esasperati dall’incertezza e dall’impossibilità di fare lezioni, per non lasciare allo sbando i loro scolari e studenti hanno fatto ricorso a questi strumenti di propria iniziativa, per avviare la didattica a distanza.
Se da un lato ammiriamo l’intento e – come si dice oggi – la resilienza di quest* insegnanti, dall’altro constatiamo che manca la consapevolezza su cosa facciano davvero quegli strumenti, del cui funzionamento non vediamo che l’idiomatica punta dell’iceberg.
In pratica, la scuola pubblica privatizza il rapporto stesso docente-studente, incentivando entrambi a usare piattaforme private e lesive della privacy, che immagazzineranno nuovi dati per poi venderli a vari soggetti, i quali li useranno a scopi non solo commerciali ma anche politici, in tutte le accezioni possibili del termine. E in tutto questo, Google/Alphabet passerà pure come benefattrice: l’azienda che ha «salvato la scuola».
Google trova in quest’emergenza – che peraltro contribuisce ad alimentare in vari modi – l’opportunità di innervarsi in sempre più gangli della vita associata, rendendosi indispensabile anche se le alternative ci sono. Ci sono eccome, e sarebbero pure facili da usare.
Chiunque non ritenga la parola «democrazia» un semplice involucro contenente solo retorica, una volta ben informat* su cosa sia Google e su come faccia profitti, non può trarne che una conclusione: Google è una minaccia per la democrazia.
L’emergenza – non l’epidemia in sé, ma l’emergenza come metodo di governo basato sull’epidemia – ci sta facendo arretrare su così tanti terreni che non si sa da dove cominciare a denunciarne le conseguenze, a spiegare chi e come sta cogliendo la palla al balzo.
Alla fine, un punto d’inizio vale l’altro. Da genitori, cominciamo dalla scuola, dalla didattica a distanza e, in particolare, da Google.
Già prima del virus avevamo chiesto al giapster Ca_Gi di scrivere un pezzo per Giap sul fenomeno del degoogling, che a fine 2019 si stava diffondendo rapidamente. Con l’emergenza coronavirus la strada si è fatta più in salita, ma a maggior ragione va percorsa.
Buona lettura. WM]
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