La «merenda alla mortadella» unge di razzismo e islamofobia le pagine dei giornali

La prima pagina di Libero del 16 giugno 2017. L’incipit dell’articolo evoca subito lo spauracchio razzista della «sottomissione», che in questo caso sarebbe «alimentare». La notizia, come sempre in questi casi, era falsa, ma dimostrarne la falsità non basta. Il debunking non basta. Bisogna individuare e denunciare le cause sociali di queste leggende metropolitane. A proposito: da notare anche, in questa pagina, come Libero parla dell’incendio alla Grenfell Tower di Londra. Da manuale: una strage di proletari causata da una «riqualificazione urbana» intrisa di odio di classe (perché l’ideologia del «decoro» non è altro che odio per i poveri e i deboli) diventa, con l’invenzione di un capro espiatorio, colpa di un negro. Ancora una volta, si usa la razza per nascondere la classe. Libero lo fa come vediamo; i giornali più “rispettabili” lo fanno in modo appena meno sguaiato (ma nemmeno sempre).

[Il ruolo della stampa locale e nazionale nella costruzione del nemico pubblico dell’italianità suina è ampiamente documentato ne La santa crociata del porco di Wolf Bukowski (appena uscito per le edizioni Alegre nella collana Quinto Tipo diretta da Wu Ming 1). Il libro documenta anche l’inadeguatezza e la sciatteria con cui si affrontano le diverse esigenze alimentari. Inadeguatezza e sciatteria manifestatesi di recente, per l’ennesima volta, nella vicenda di Pontedera.

Ma non è solo questione di come le notizie vengon riportate. Il più delle volte, basta grattare la superficie e si trovano i problemi veri: i tagli alla spesa pubblica, la dipendenza dagli sponsor privati e tutti gli altri bocconi avvelenati del liberismo.

Per questo la critica non può essere ridotta al semplice debunking delle fake news razziste, ma deve mostrare ogni volta come si sia arrivati fin lì, socialmente ed economicamente. Perché lo «scontro di civiltà», anche nella sua variante alimentare, non è che l’incubo partorito da una società che non riconosce lo scontro di classe. Ecco perché vi proponiamo un estratto dal terzo capitolo del libro di Wolf, intitolato «Le ricette dello chef a cinque stelle», dove si racconta di un’altra vicenda, accaduta a Rovereto.]

La Nazione, 15 giugno: «un grande classico della merenda toscana negato ai giovanissimi».

Rovereto, frazione di Marco, lunedì 4 gennaio 2016. Al centro di accoglienza sono alloggiati centosettantaquattro richiedenti asilo. Più della metà abita in prefabbricati e può cucinare. Gli altri alloggiano in tende (gennaio 2016, Rovereto: minima -6,2; massima 13,4 secondo Meteotrentino) e ricevono i pasti dalla mensa. A cena il cuoco

«si era dimenticato di preparare l’identico numero di porzioni di pollo, uova e formaggio. Una dimenticanza pagata cara. Tanto che una decina di profughi – pare di origine pakistana – rimasta orfana del pollo ha scatenato una baraonda. I responsabili del centro di protezione civile […] hanno cercato di spiegare loro che si trattava di un errore di valutazione, una banale deficienza contabile. Ma non c’è stato verso. Il gruppetto di profughi ha cominciato a protestare, a fare un baccano sempre più insopportabile. Finché i responsabili […] hanno chiesto l’intervento delle forze dell’ordine. In pochi minuti è intervenuta una volante del commissariato di polizia, una aliquota [squadra] dei carabinieri e una pattuglia della polizia locale di Rovereto. A questo punto la decina di profughi ha capito che era meglio darsi una calmata. Rassicurati sul prossimo menù, l’ondata di malcontento è rientrata.» (6 gennaio sul quotidiano Trentino, allora parte del gruppo L’Espresso-Repubblica).

Il «baccano insopportabile», la «baraonda», altro non sono che un sit-in davanti alla direzione del campo. Direzione che si dimostra incapace di gestire in proprio una così risibile conflittualità, ma che è assai rapida nel far convergere sul posto una quantità di divise che manco una rapina a mano armata. […] La Lega Nord […] subito imbraccia lo spadone di Alberto da Giussano: «è una vergogna. Con queste persone bisogna usare le maniere forti» (Trentino, 7 gennaio 2016); gli altri partiti vanno a ruota.

Chi finge di volersi smarcare si agita malamente nella melma, e sprofonda nella propria inadeguatezza. Per il Pd di Rovereto è «grave […] che poche teste calde abbiano messo in scena una protesta sbagliata»; il centrista Partito Autonomista Trentino Tirolese crede di cavarsela facendo una lezioncina: «l’accoglienza è giusta ma la riconoscenza lo è ancora di più» (Trentino, 8 gennaio); il verde Pozzer si tuffa a capofitto nel pantano e ne riemerge convinto di essere in pieno Ancien Régime:

«Non si aiuta chi non apprezza […] con i miei soldi privati posso anche tollerare di non ricevere riconoscenza: questo può essere amore cristiano. Ma con i soldi pubblici deve esserci un ritorno di riconoscenza perché i soldi sono di tutti e vanno spesi con cognizione di causa. E chi li riceve, anche in forma di accoglienza, deve essere riconoscente. (Trentino, 10 gennaio).»

Ma su tutti brilla Filippo Degasperi, consigliere provinciale del M5S che, il giorno 6, digita su Facebook:

«La soluzione per me è semplice: da domani maiale a colazione pranzo e cena. Chi non lo gradisce può tornare da dove è venuto».

Una provincia intera discute di un fatto trascurabile, giornali nazionali pubblicano con gran scandalo il menu quotidiano riservato agli ospiti del centro (come se una mensa potesse fare a meno di una programmazione dei pasti), Degasperi si ritaglia il suo spazio mediatico e, subito dopo aver chiamato alla santa crociata del porco, rivendica a sé il ruolo di martire della laicità:

«devo […] constatare come si preferisca discutere di un’espressione, provocatoria quanto si vuole, piuttosto che affrontare la sostanza. […] La chiave di volta del discorso è alla fine riconducibile a uno dei valori fondanti della cultura occidentale, la laicità dello Stato […].» (Degasperi sul Corriere del Trentino, 10 gennaio 2016).

Sul nulla di un sit-in si scatena la canea antislamica, su una bolla di sapone si edifica «un’alterità nemica» come dice lo storico Massimo Campanini al Corriere del Trentino del 10 gennaio:

«l’opinione pubblica, opportunamente manipolata e guidata, ha dichiarato guerra all’Islam, ai musulmani e quindi agli immigrati […] trovando in qualsiasi piccolo avvenimento […] il motivo per farne una grande bolla di sapone in cui si continua a descrivere l’Islam come assassino e violento, i musulmani come [provocatori perché] rifiutano il cibo»

e, in un loop che si autoalimenta, quel rifiutare il cibo viene considerato in sé violento, e questo a sua volta proverebbe la violenza connaturata all’islam. Il paralogismo razzista ha poi un effetto collaterale gradito a tutti i reazionari: se si abituano i cittadini a pensare le proteste pacifiche come violente, sarà più difficile che quegli stessi cittadini si lascino coinvolgere da manifestazioni, sit-in e simili. E se si urla ben bene allo scandalo per il sit-in dei pachistani – inaccettabile! insensato! ci vuole fermezza! sarà più semplice invocare il pugno duro contro il corteo dei licenziati, degli sfrattati e così via.

Pare quasi strano da dire, a questo punto, ma il sit-in è una manifestazione che espone alla violenza e rende impossibile praticarla. In caso di reazione poliziesca non si può neppure tentare una rapida fuga. Negli Stati Uniti i movimenti per i diritti civili ne hanno fatto una forma elettiva di protesta fin dagli anni Trenta, e anche il Pakistan attuale ha una grande familiarità con il sit-in. […] Se il sit-in è una forma di protesta che non usa la violenza, lo sciopero della fame – come quello nella stazione ungherese [raccontato nel capitolo precedente de La santa crociata del porco, N.d.R.] – è pratica addirittura nonviolenta. Eppure, in entrambi i casi, le reazioni contro i migranti che le mettono in campo sono verbalmente violente. In entrambi i casi, poi, scompaiono le richieste dei protagonisti […]. Qualcuno si è preoccupato di chiedere ai pakistani del campo di Marco il preciso perché del sit-in? No. Eppure bastava farlo.

La santa crociata del porcoQuando inizio a interessarmi anch’io a questa storia, invece, non è più possibile. Chiedo aiuto ad amici trentini, e di passaggio in passaggio arrivo a Razi e Soheila Mohebi, registi afgani che si sono interessati, in altre occasioni, del centro di accoglienza di Marco. Neppure loro riescono ad aiutarmi: «I ragazzi sono in continuo spostamento e per questo è difficile ritrovarli», mi scrivono. Non trovo neanche uno degli operatori presenti al centro in quel periodo; però, con le poche tessere del puzzle che ho in mano, provo egualmente a immaginare il disegno completo.

Pochi mesi prima della “protesta del pollo” la Provincia di Trento ha aggiudicato per tre anni il «servizio di somministrazione dei pasti […] presso il Campo di Protezione civile di Marco». Il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa premia la ditta Dussmann Service Srl con sede in Milano. Dalla base d’appalto di 1.712.319 euro, Dussmann scende a 1.302.240 euro […]. Sul sito aziendale si legge:

«Dussmann Service appartiene al Dussmann Group, network internazionale di servizi specialistici per enti pubblici ed aziende. Il gruppo conta circa 65mila dipendenti in diciotto nazioni. Dussmann Service è sinonimo di Integrated Facility Management e di servizi di sanificazione e ristorazione di alto livello.»

Cobas Lavoro Privato e il sindacato anarchico Usi di Milano in un comunicato del 2014 scrivevano di «logiche arroganti di Dussman» e decidevano di «istituire una cassa di resistenza per contrastare le politiche aggressive di Dussman». La Cgil di Modena, nel 2016, denuncia che

«Dussmann Service – appaltatrice dei servizi di pulizia negli ospedali e poliambulatori di Modena e provincia – sta ricorrendo a metodi a dir poco vergognosi, con pressioni e intimidazioni di vario genere sulle lavoratrici. Stanno infatti fioccando in questi giorni le lettere di trasferimento verso cantieri a centinaia di chilometri da Modena […]» (Comunicato del 28 aprile 2016).

A incidere più di tutto, sostiene il sindacato, è «il consistente ribasso d’asta (18%) con cui Dussmann si è aggiudicata l’appalto». Solo il 18!? Quello per i pasti a Marco di Rovereto è, facendo i conti, quasi del 24%. Possibile, quindi, che esista un rapporto tra questa cifra, il servizio offerto e la protesta? O si tratta, al contrario, solo di una manciata di porzioni di pollo? Nessuno si è preoccupato di scoprirlo. Erano tutti troppo intenti a sproloquiare di laicità.

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6 commenti su “La «merenda alla mortadella» unge di razzismo e islamofobia le pagine dei giornali

  1. sembra interessante questo libro di Wolf Bukowski sul maiale come animale totemico di razzisti e devastatori dell’ambiente. Immagino si parli anche dei fascisti francesi di Generation Identitaire (amici di Borghezio) che usano maschere di maiale in chiave antislamica (link: http://www.gettyimages.it/immagine/bloc-identitaire?excludenudity=false&sort=mostpopular&mediatype=photography&phrase=bloc%20identitaire scorrendo le immagini si vedono “manif anti-racaille” con maschere suine in bella mostra), oltre che di tutti i razzisti italiani che da Calderoli in giù hanno usato il maiale come simbolo di odio.

    Mi permetto di segnalare che in Italia qualcuno si era già interessato all’argomento negli ultimi dieci-dodici anni, giungendo a conclusioni che potrebbero essere simili a quelle de La santa Crociata del Porco:
    In questo articolo del 2010 Miguel Martinez parla esplicitamente di ‘maiale come animale totemico’ di una certa italianità:

    http://kelebeklerblog.com/2010/08/31/metti-il-porco-nel-motore/

    qui si parla delle leggi anti halal dei governi liberisti francesi:

    http://kelebeklerblog.com/2012/03/11/macellazione-halal-e-mistificazione-scientista/

    qui una splendida storia che racconta come già nei Balcani del XIX secolo si usassero le teste di porco in chiave antislamica:

    http://kelebeklerblog.com/2006/02/11/limam-e-la-testa-di-maiale/

    in questo articolo del 2009 si parla di Pigman, fumetto americano in cui un maiale super eroe uccide musulmani in modo cruento:

    http://kelebeklerblog.com/2009/01/09/pigman-il-peggio-damerica/

    • La tentazione di parlare di *tutto*, parlando di maiale, è forte. Così come quella di usare il maiale per parlare di tutto. Ho tentato di sfuggirle entrambe.
      Naturalmente sì, si parla dell’uso che razzisti e fascisti fanno del maiale (ed è la prima parte del libro); si parla dell’uso che il capitalismo fa delle prescrizioni alimentari religiose (la seconda) e infine del maiale in carne e ossa (soprattutto carne), ovvero della macellazione industriale.
      Con abbondanti divagazioni, certo, ma davvero niente in confronto ai link che posti ;-)
      Grazie
      w

      • “La tentazione di parlare di *tutto*, parlando di maiale, è forte.”

        certo, del maiale non si butta via niente! XD

        questo vostro articolo che stiamo commentando è interessante per varie ragioni, non solo perché affronta il tema del maiale, della mortadella come vero e proprio crocifisso da esibire contro il diavolo islamico, ma anche perché mostra uno degli innumerevoli quotidiani “fatti mitologici” che riempiono le cronache dei giornali.
        Alegre ha pubblicato Tabloid Inferno di Selene Pascarella quindi non devo certo dirlo a voi, ma gli ‘eventi’ di questo genere creano opinione e sono la spina dorsale del sistema informativo globale.
        La donna abbandonata all’altare, il bambino transessuale, la madre assassina, l’immigrato che si arrabbia se non gli danno il pollo, il calciatore in vacanza, ogni giorno sono queste le cose che riempiono lo spazio dell’informazione per le masse.
        Una falsa notizia diventa una caso nazionale di cui si parla per settimane, le false notizie in tempo di guerra continuano a popolare gli incubi delle persone.

  2. […] che in questi anni abbiamo visto paventare la sostituzione del simbolo patrio per eccellenza, la porchetta, con gli insipidi e riprovevoli falafel: già le prime righe dell’articolo lo sgonfiavano, […]

  3. Alcune considerazioni di “Eat the rich” ( https://reteeattherich.noblogs.org/ ) a partire dalla presentazione de La santa crociata… a XM24 (Bologna) il 26/6:

    « … Ci sono modi molto diversi di parlare di cibo: si può fare come vuole la retorica del capitale green, utilizzandolo come specchio per allodole, oppure si può entrare nelle contraddizioni che stanno dentro al mondo dell’alimentazione e usarlo come grimaldello per attaccare il mondo che ci circonda. Conosciamo Wolf sin da i primi mesi dell’esperienza di mensa autogestita di Eat the Rich e condividiamo con lui questa seconda modalità di analisi,questa scelta di campo che è scelta di un posto fuori dalla tavola, anzi sotto – per rovesciarla. Il suo nuovo libro “La santa crociata del porco” è un libro veramente interessante perchè letteralmente entra dentro le culture alimentari e le loro retoriche, analizza le linee di esclusione che tracciano. Nell’Europa dei confini e della paura xenofoba il maiale viene eretto a simbolo della difesa dei “valori cristiano-occidentali”, questo libro mostra la stupidità e la perfidia di tale operazione attraverso un racconto che, senza la pretesa di una ricostruzione storiografica completa, restituisce l’evoluzione della narrazione occidentale sul tema e parallelamente quella delle critiche (talvolta sterili o funzionali) sviluppatesi già molti secoli fa. Analizzare razzismo e xenofobia a partire dalla tavola e dal racconto della tavola è un modo sicuramente efficace per decostruire l’immagine di neutralità/laicità che i difensori del salame nostrano sbandierano o che, ancora peggio, è penetrata nel nostro immaginario al punto da non renderci conto del peso e degli effetti di alcune allusioni, indicazioni, battute. Pensando alla nostra esperienza ci vengono in mente alcuni momenti particolari in cui, proprio a partire da una tavola abbiamo provato a sovvertire sistemi di potere razzisti e costruire comunità meticce. Uno di questi è stato sicuramente quello della lotta no border sugli scogli di ventimiglia di cui tanto abbiamo già parlato e che soprattutto vive ancora oggi e sentiamo dei ripetuti attacchi polizieschi e di cacce all’uomo (in un mondo dominato da allevamenti, la caccia – che purtroppo continua ad esistere- arriva ad avere come obiettivo l’essere umano). Altri ricordi rimandano invece al corso di cucina meticcia sviluppatosi nelle case un tempo occupate, dove imparammo a riconoscerci complici nelle tavole costruite dalle lotte per la casa e a confrontarci con tradizioni e culture alimentari geograficamente e storicamente da noi lontane. … Abbiamo bisogno di parlare di cibo, di riappropriarci della teoria e della pratica intorno al cibo, per strapparlo a chi lo utilizza per “difendere valori e tradizioni” e assumerlo come spazio per attaccare l’esistente.»

    Il testo completo è qui: https://www.facebook.com/notes/eat-the-rich/alcune-parole-di-e-su-ieri/1949935115225061/

  4. Luther Blisset è la stampa, sino le dichiarazioni soprariportaye. Il resto è un eterno processo del lunedì

    “Per questo la critica non può essere ridotta al semplice debunking delle fake newsrazziste, ma deve mostrare ogni volta come si sia arrivati fin lì, socialmente ed economicamente.”

    con il tennico, il moviolone, l’ospite/personaggio, il libro a tema. Sbaglio probabilmente, ma penso che debunking, ricostruzione ecc. rimangano tutte azioni all’interno della gabbia dorata costituita proprio da false notizie, eecc.. Il porco non è una notizia fake. È il nulla, il niente di nuovo sotto il sole. Uscire da quell’orizzonte e costruirne uno nuovo, dove il porco ritrovi la sua posizione naturale (nella fattoria degli animali, nelle mense, dove cazzo gli pare) e non è più strumento nè di mistificazione, nè di una contro demistificazione.Di cosa vogliamo parlare, non di cosa ci tocca parlare.