Non è «maltempo», è malterritorio. Le colpe del disastro in Emilia-Romagna

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malterritorio romagnolo

La narrazione che imperversa sulle alluvioni in Emilia-Romagna è  tossica e nasconde le responsabilità reali. Responsabilità che non sono del «meteo». E nemmeno, genericamente, del «clima», termine usato da amministratori e giornalisti più o meno come sinonimo di «sfiga».

Le piogge di questi giorni stupiscono, sembrano più eccezionali di quanto non siano, perché arrivano dopo un inverno e un inizio di primavera segnati da una protratta, inquietante siccità. E di per sé non sarebbero affatto «maltempo», concetto fuorviante, deresponsabilizzante e dannoso. Come diceva John Ruskin, «non esiste maltempo, solo diversi tipi di buontempo». A essere mala è la situazione che il tempo trova.

Veniamo da lunghi mesi a becco asciutto: montagne senza neve, torrenti e fiumi tragicamente in secca, vegetazione e fauna in grave sofferenza, contadini disperati, prospettive cupe per l’estate prossima ventura (già quella scorsa è stata durissima)… In teoria, le piogge dovremmo accoglierle con giubilo.

Giubilo moderato, certo: chi conosce la situazione sa che, per vari motivi, queste piogge concentrate in pochi giorni non compenseranno la siccità. Quest’ultima tornerà ad attanagliarci. In Nord Italia – arco alpino e val padana – nel 2022 le precipitazioni sono state inferiori anche del 40% rispetto alle medie del ventennio precedente. Questo è il nuovo clima, ed è qui per restare. Non solo: gran parte dell’acqua venuta giù in questi giorni sarà inutile (ne parliamo tra poco).

Nonostante tutto ciò, a rigore, che finalmente piova è buona cosa. Piace a tutti che quando si apre il rubinetto esca l’acqua, no? Da dove si crede che venga, quell’acqua, se non dal cielo?

Il motivo per cui la pioggia sta avendo conseguenze dannose e a volte letali è presto detto: cade su un suolo asfaltato, cementificato, impermeabilizzato, che non può assorbirne una sola goccia, dunque quest’acqua non solo non rigenera la vita, non solo non ricarica le falde, ma si accumula in superficie e corre via, a grande velocità, travolgendo quel che trova. Spesso esonda da corsi d’acqua i cui argini – e spesso anche i letti – sono stati cementificati, e le cui aste sono state «rettificate». Corsi d’acqua intorno ai quali, dissennatamente, si è costruito e ancora costruito.

Malterritorio Emilia-Romagna

L’Emilia-Romagna è terra di grandi bonifiche, dunque, oltre ai tanti fiumi e torrenti che scendono dalle Alpi e dall’Appennino, ha migliaia e migliaia di chilometri di canali di scolo e di irrigazione. Ha uno degli assetti idrogeologici più artificiali e ingegnerizzati del mondo, dunque – a dispetto di un’autonarrazione vanagloriosa, ben incarnata dal suo guvernadåur Bonaccini – ha un assetto oltremodo fragile.

Con queste premesse, il nostro territorio dovrebbe essere pochissimo cementificato. E invece no: l’Emilia-Romagna è la terza regione più cementificata d’Italia, col suo 9% circa di suolo impermeabilizzato – contro il 7,1% nazionale, percentuale già altissima – ed è la terza per incremento del consumo di suolo nel 2021: oltre 658 ettari in più ricoperti, equivalenti al 10,4% del consumo di suolo nazionale di quell’anno.

Nel 2017 l’amministrazione Bonaccini ha prodotto una legge definita, in perfetta neolingua stile 1984, «contro il consumo di suolo». Una legge farlocca, truffaldina, il cui scopo reale era permettere la cementificazione, come denunciato invano da molti esperti – geografi, urbanisti, architetti, storici del territorio – e associazioni ambientaliste. Si veda il libro collettaneo Consumo di luogo. Regresso neoliberista nel disegno di legge urbanistica dell’Emilia-Romagna (Pendragon, Bologna 2017, disponibile in pdf qui).

Come volevasi dimostrare, anche grazie a questa legge si è continuato a costruire e asfaltare, in preda a un vero e proprio delirio. E dove si è costruito? Lo ha ricordato su Altreconomia Paolo Pileri, docente di Pianificazione territoriale e ambientale al Politecnico di Milano:

«nelle aree protette (più 2,1 ettari nel 2020-2021), nelle aree a pericolosità di frana (più 11,8 ettari nel 2020-2021), nelle aree a pericolosità idraulica dove l’Emilia-Romagna vanta un vero e proprio record essendo la prima Regione d’Italia per cementificazione in aree alluvionali: più 78,6 ettari nelle aree ad elevata pericolosità idraulica; più 501,9 in quelle a media pericolosità che è poi più della metà del consumo di suolo nazionale con quel grado di pericolosità idraulica: pazzesco.»

Ecco cosa sta accadendo dalle nostre parti, soprattutto in Romagna. Non è «maltempo», è malterritorio. Sono mille e mille nodi che vengono al pettine, i nodi di una gestione idiota e predatoria, portata avanti per decenni da una classe dirigente – politica e imprenditoriale – perdutamente innamorata di asfalto e cemento.

Love Story: il PD e il cemento

Parliamo di un amore tossico, ben peggiore di quello mostrato nel film di Caligari. Un amore che non accenna a finire, perché la suddetta classe dirigente ha in serbo per questa regione ancora e ancora asfalto, ancora e ancora cemento.

Quel che attende il territorio bolognese – ma Bologna e il suo passante sono solo l’epicentro, il maremoto di asfalto arriverà fino a Ferrara e alla Romagna – lo abbiamo descritto per filo e per segno qui. E quella è solo la cementificazione su larga scala, con un impatto molare sul territorio. C’è anche una cementificazione molecolare, capillare, fatta di speculazioni e inurbazioni meno visibili, che si insinua ovunque e che non sta raccontando quasi nessuno. A Bologna l’amministrazione Lepore-Clancy persegue una violenta messa a valore delle ultime parti di periferia non ancora consegnate all’edilizia.

Questa è la realtà dei fatti che il PD, complice un’informazione obnubilata e spesso asservita, copre con greenwashing e schleinwashing.

«Lavaggi» che si accompagnano a lavaggi di coscienza per mezzo del più grottesco scaricabarile. Il sindaco PD di Massa Lombarda ha avuto il suo quarto d’ora di celebrità nazionale quando ha dato la colpa dell’inondazione… agli istrici e alle loro tane. Ma se ventiquattr’ore di pioggia bastano a fare morti e dispersi nel territorio ravennate, ci sembra più probabile che le cause siano altre. Come ricorda Pileri,

«la provincia di Ravenna è stata la seconda provincia regionale per consumo di suolo nel 2020-2021 (più 114 ettari, pari al 17,3% del consumo regionale) con un consumo procapite altissimo (2,95 metri quadrati per abitante all’anno); è quarta per suolo impermeabilizzato procapite (488,6 m²/ab).»

Se non sono gli istrici allora è «il clima»

C’è poi la tendenza a fare spallucce dicendo: «è il cambiamento climatico». Come a dire: non è colpa nostra, che possiamo farci?

A parte che invece sì, è colpa “nostra”, o meglio, colpa di chi ha portato e tuttora porta avanti acriticamente questo modello di sviluppo, nonostante dei possibili effetti del surriscaldamento globale si parli da decenni…

A parte questo, va detto con chiarezza che questo uso del clima è diversivo.

Certo, fa parte del cambiamento climatico il fatto che a lunghi periodi di siccità si alternino precipitazioni intense concentrate in pochi giorni, tuttavia…

Tuttavia che a primavera possa piovere a dirotto per diversi giorni di fila lo dicono anche i proverbi. Uno su tutti: «Aprile, o una goccia o un fontanile». Che ciò possa accadere soprattutto dopo un inverno secco, idem: «Hiver doux, printemps sec; hiver rude, printemps pluvieux». E potremmo citarne molti altri, in molte lingue.

Di lunghe piogge e nubifragi a primavera troviamo innumerevoli testimonianze in tutta la cultura europea. Uno dei più grandi classici del cinema italiano, Riso amaro, si svolge a primavera – nella stagione della monda del riso, appunto – e mostra un acquazzone di molti giorni, martellante, interminabile.

Se queste piogge hanno impatti sempre più devastanti in sempre meno tempo, è perché il territorio è sempre più deturpato. Ed è contro chi lo deturpa che dobbiamo lottare.

Postilla

Ora non appena le previsioni danno pioggia si chiudono le scuole, come è appena avvenuto anche a Bologna. Un tempo si chiudevano solo in caso di forti nevicate.

Mentre chiudiamo quest’articolo, primo pomeriggio del 17 maggio, giunge notizia che il Comune di Bologna – città dove al momento pioviggina e dove il trasporto pubblico ha continuato a funzionare – ha chiuso anche biblioteche, musei e centri sportivi. Se avete una sensazione di dejà vu è perché, sì, l’abbiamo dejà vu.

Si giustificano queste ordinanze col fatto che quando piove e magari le acque sotterranee straripano – nel corso del XX secolo le amministrazioni bolognesi hanno interrato e costretto in cementizi letti di Procuste tutti i canali e corsi d’acqua che attraversavano la città, compreso il torrente Ravone esondato nei giorni scorsi – il traffico si congestiona all’istante. Traffico prevalentemente privato e automobilistico, il che è al tempo stesso conseguenza e causa retroattiva delle politiche demenziali fatte sul territorio: nuove inurbazioni, sempre più strade, domanda indotta di spostamenti in automobile ecc.

La classe dirigente responsabile di quelle politiche, di fronte ai disastri che esse producono ha come risposta unica e automatica l’Emergenza. E magari, nello specifico, la DAD ogni volta che pioverà.

L’Emergenza – si è ben visto negli anni del Covid – serve a non affrontare le cause dei problemi né ora, perché gli eventi incalzano, né in seguito, perché a pericolo non più immediato si passerà ad altro… fino al prossimo disastro.

A meno di non spezzare questo circolo vizioso.

Aggiornamento 29/05/2023: qui una nostra prima inchiesta sul post-alluvione.

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85 commenti su “Non è «maltempo», è malterritorio. Le colpe del disastro in Emilia-Romagna

  1. Condivido pienamente tutto il ragionamento. Scrivo solo per segnalare che le scuole sono in sospensione dell’attività didattica ma chi ci lavora deve andare ad aprirle comunque anche se studenti e docenti rimangono a casa. Nell’Assurdistan i collaboratori scolastici e gli amministrativi si ritrovano a tenere aperti edifici vuoti, con il consueto spreco di energia, senza che gli studenti possano entrare. Oltre alla negazione del diritto allo studio si ripropone anche qui la distinzione tra lavoratori sacrificabili per motivi inutili (perché i giorni scorsi li abbiamo passati perlopiù a segnalare alla città metropolitana i piani degli edifici in cui pioveva dentro, nel caso della mia scuola con conseguente chiusura e spostamento di classi) e chi deve e può stare a casa. Le scuole sono perlopiù aperte a Bologna (tranne l’Ic13 che è in una zona particolarmente colpita) ma non per studiare.

  2. Ciao a tutti,
    bellissimo articolo, secondo me molto attento a mettere i puntini sulle i, in un periodo in cui si è passati dal negazionismo o quantomeno menefreghismo climatico delle classi dirigenti al washing climatico di qualsiasi responsabilità.
    Con un parallelo rischio di regresso nel negazionismo climatico di chi ora andrà poi a subire le decisioni calate come sempre dall’alto sul proprio portafoglio e le proprie abitudini di vita, decisioni spesso in forte odore di green-profitto.
    Restando sul piano pratico, il consumo di suolo è “il problema”.
    Non conosco la situazione dell’Emilia Romagna, ma in genrale in nord-Italia è drammatica.
    Se non sbaglio in Piemonte e Val d’Aosta si perdono ben oltre 500 ettari all’anno.
    Il problema è non solo “idrogeologico”, anche se quello è l’ambito in cui è più facile misurare e vedere i problemi, ma anche propro di “sostenibilità” terra-terra dello sviluppo.
    Tutti i parcheggi sono terreni sottratti all’agricoltura, o comunque al verde.
    E mentre se tolgo un bosco di neoformazione e ci faccio una vigna o un seminativo la cosa per quanto significativa è tranquillamente reversibile (oltre che compensabile) in modo automatico e naturale al termine della coltivazione, se invece ci faccio uno svincolo il bosco o il seminativo non torneranno mai più tali. A meno di investimenti milionari e interventi di recupero e riqualificazione molto corposi. Che tra l’altro il PNRR di solito non finanzia, essendo più facile andare a mettere piante in terreni già liberi.

  3. Nell’articolo ci siamo concentrati sul suolo impermeabilizzato da asfalto e cemento.

    C’è anche un altro problema: quello del suolo non impermeabilizzato ma comunque deturpato, sottoposto a continui stress per via di malintese politiche di “decoro”, e così reso meno capace, o del tutto incapace, di assorbire l’acqua delle precipitazioni.

    Ci riferiamo al continuo, sistematico, inesorabile sfalcio di prati, parchi, aiuole, aree verdi ufficiali e ufficiose, bordi di strade, cigli di fossi, scarpate, pendii. Non parliamo di fazzolettini di territorio: in tutta la regione, ammontano a migliaia e migliaia di ettari.

    È una fissa “decorosa” non esclusiva dell’Emilia-Romagna ma qui fortissima, nevrotica, su cui si gioca il consenso alle amministrazioni. Non appena i fili d’erba osano alzarsi di un centimetro di troppo, il comune manda pattuglie a bordo di tagliaerba e/o armate di decespugliatori.

    Nessuno pensa a quali conseguenze ambientali e territoriali abbia questa prassi, che è data per scontata, mai messa in questione. Eppure sono conseguenze gravi tanto sugli ecosistemi che quei prati ospitavano (lo sfalcio sistematico uccide moltitudini di insetti impollinatori, con ripercussioni enormi sulla biodiversità nei nostri territori), quanto sul suolo.

    Noncuranti, si è sfalciato anche nei lunghi mesi di devastante siccità che abbiamo vissuto prima durante l’estate 2022 poi durante l’inverno 2023.

    Ora, si dà il caso che l’erba non sfalciata protegga il suolo dal sole battente e dalla canicola, mantenendolo fresco – cosa che aiuta a limitare l’afa tutt’intorno –, aggregato, poroso e dunque in grado di assorbire la futura acqua.

    Un terreno continuamente sfalciato invece è “nudo” e colpito dal sole, si surriscalda, si secca, si indurisce, si crepa dunque perde coesione, e alla prossima pioggia assorbirà poco e niente, “rimbalzando” l’acqua tutt’intorno e a volte disgregandosi e causando smottamenti e frane, come abbiamo visto in questi giorni in molte aree verdi della nostra regione: pendii, cigli di fossi, argini di canali, massicciate e terrapieni di strade e ferrovie.

    • Vero, bravi! Non è un problema pressoché irreversibile come la cementificazione di un’area, ma per quel che riguarda la perdita di capacità di assorbire acqua è esattamente così.
      L’erba alta riduce l’evapotraspirazione del terreno (importante durante estati siccitose) e protegge il suolo dalle alte temperature, riducendo anche nel contempo l’effetto “isola di calore” se stiamo parlando di aree verdi in contesti urbanizzati.
      Invece l’erba troppo bassa o il suolo quasi nudo non proteggono abbastanza dall’aumento di temperatura, il suolo perde acqua, si compatta e diventa temporaneamente impermeabile specie a piogge intense e concentrate, con peggioramento della situazione lungo tutta la rete di drenaggio.
      Ma come dite voi gli amministratori hanno la passione per il decoro e per il tombamento o la pavimentazione dei corsi d’acqua.

      • Grazie come sempre del vostro intervento che dice tutto; ormai la narrazione dell’Evento è più angosciante dell’Evento stesso.
        Mi pare però che in questi giorni, diversamente da quanto accadde in tempi di emergenza sanitaria fra discorso pubblico dominante e sparutissime voci critiche, si sia trovato più spazio per smontare la retorica della regione illuminata ingiustamente colpita che si rimbocca le maniche e riparte, si veda anche solo il manifesto.

        Aggiungo, sul notissimo flagello dello sfalcio: nel parco di San Michele in Bosco, a due passi dal centro di Bologna e in discreta pendenza, al momento miracolosamente fuori dai radar del decoro comunale e delle rotte turistiche, dunque con erba alta e alberi arbusti e sottobosco, non si è verificata una sola frana ed è stato pienamente percorribile anche nei giorni di pioggia “eccezionale”.

  4. Ho letto l’articolo. Sarebbe da capire quanto, in vista delle sciagure climatiche che ci attendono nei prossimi anni, si possa concretamente fare per evitare situazioni come questa.
    Ma, come mi è stato fatto notare, c’è un “errore”. Non so se involontario o intenzionale (o se c’entra con lo stile invettivo del pezzo).
    Nelle piogge di questi giorni, c’entra anche il maltempo oltre che il malgoverno.
    Sostanzialmente è piovuto in alcune zone più in pochi giorni che in mesi e mesi. In alcuni punti quasi 30 cm di acqua, e questo sì è proprio la definizione di maltempo. Quindi non “sembrano” eccezionali queste piogge. Lo sono.

    • “Maltempo” è un’espressione antropocentrica, per quanto a noi possano arrecare danni diretti e specifici le precipitazioni sono indispensabili, vituperarle è sciocco, perché ne beneficiamo a livello sistemico ed ecosistemico nonostante tutto e comunque vada sul momento.

      Nel post non c’è scritto tout court che le ultime piogge non sono eccezionali ma che per vari fattori ci sembrano più eccezionali di quanto non siano.
      Da un lato sono parte del nuovo clima che, come detto, è qui per restare; dall’altro un territorio non devastato da asfalto, cemento e pessime pratiche reggerebbe molto meglio l’impatto di precipitazioni anche prolungate e molto intense, che a primavera non sono comunque una novità assoluta, e che diventano “bombe d’acqua” soprattutto perché prima sono esplose bombe d’asfalto.

      Parlare in modo assoluto e decontestualizzato di quanto queste piogge siano “eccezionali” non fa capire nulla e favorisce i giochetti di chi non vuole riconoscere le proprie responsabilità. Per molti (quasi tutti) i versi, la loro “eccezionalità” l’ha determinata il nostro modello di sviluppo, che ha cambiato il clima e ha manomesso gravemente il territorio rendendolo indifeso di fronte a tale cambiamento.

      Che fare? Beh, intanto sarebbe buono fermare la nuova immensa colata d’asfalto che sta per abbattersi sulla regione.

      • Giusto il discorso delle responsabilità. Ma, ipso facto, c’è anche il “maltempo”, là dove si intende per comune senso quello di cui si diceva, ossia la caduta di una quantità d’acqua assolutamente eccezionale e sovrabbondante rispetto al periodo o alla zona. Non è questione di vituperare le piogge, né di “Piove Governo Ladro”. Ripeto: sono piogge più eccezionali di quanto ci si attenda, non è che paiono più eccezionali del solito. A meno che voi non diate nell’articolo alla parola eccezionale un’accezione vostra. Le piogge di questi giorni che si sono abbattute sulla Romagna sono una novità. Almeno negli ultimi 30 anni, e forse anche per il periodo precedente.
        So che avete pubblicato questo articolo perché mainstream si parla solo di maltempo e di cause “naturali”, e così non è.
        Ma lasciare intendere che questo fattore sia secondario nella tragedia di questi giorni, getta un po’ d’ombra anche sul punto fondamentale (e corretto) dell’articolo, e cioè che a prescindere dalle piogge eccezionali o meno si sia fatto un disastro (e non solo in Emilia e non solo il PD) idrogeologico.

        Sul che fare, beh sì. Chiaro. E’ il come.

        • Il punto per noi resta che in un territorio meno impermeabilizzato e rovinato queste piogge non sarebbero state così devastanti.

          “Eccezionale” significa che fa eccezione, che non è normale, che avviene una tantum, fuori dal quadro delle aspettative. Ma che lo sconvolgimento del clima causato dal capitalismo avrebbe innescato un’alternanza tra lunghe fasi di siccità e momenti di nubifragio si dice da un pezzo, sono anni che si parla ex post di “bombe d’acqua senza precedenti”. Dire che queste piogge sono in assoluto eccezionali è come dire che è eccezionale l’ennesima “estate più calda di sempre”.

          Non sono eccezioni, è la tendenza che sta imponendo il nuovo normale, che però nei suoi effetti è “eccezionale”, nel senso volgare di “enorme”, “smisurato”, perché si è reso il territorio incredibilmente vulnerabile.

          Detto questo, va ribadito che nubifragi a primavera ce n’erano già col clima di prima. Ricordarlo serve a far partire i ragionamenti da 1 invece che da 0 spaccato. Perché un territorio che vive da secoli regolando un complesso rapporto tra terra e acqua e il più delle volte sapeva gestire anche i nubifragi ora va in pezzi ogni volta che piove? Davvero pensiamo sia solo una questione di quantità d’acqua piovuta?

          Su come si ferma una colata d’asfalto: per prima cosa, deve diffondersi il più possibile la consapevolezza che va fermata.

          Purtroppo, anche il frame del “maltempo” ritarda questa presa di coscienza.

  5. Il sotteso alla narrazione tossica è: “pioverà sempre di più, imparate a nuotare”. Il mix di aumento dell’effetto serra, cementificazione, inquinamento, incuria, incapacità, affarismo, menefreghismo, insomma il modello di sviluppo di cui si parla nel pezzo, è dato come ineluttabile, come l’inevitabile prezzo del progresso (voi stessi dite che questo clima è qui per rimanere, facciamocene una ragione). Nelle parole di chi ha perso tutto c’è rassegnazione o, al contrario, voglia di rimboccarsi le maniche per ricostruire tutto com’era prima, ma non c’è rabbia. E questo è, a mio parere, l’effetto più devastante di quel modello: l’avere ormai inculcato nelle nostre menti l’accettazione passiva. Così è se vi pare; e ci pare, tanto che la prima preoccupazione è imparare a nuotare.
    Alle vostre considerazioni, che condivido parola per parola, aggiungerei però che la critica al sistema non deve giustificare una specie di autoderesponsabilizzazione, alla quale tendiamo ad indulgere ogni volta che individuiamo, a ragione, la responsabilità principale nella malapolitica e nel modello di sviluppo predatorio tipico del capitale.

    • C’è però un’enorme differenza tra quel che intendiamo noi – insieme ai movimenti per la giustizia climatica – quando diciamo che la nuova realtà è qui per restare, e quel che intendono i politicanti e opinionisti che in queste ore usano il «clima che cambia» come scappatoia.

      Nei loro discorsi autoassolutori «il clima» significa la sfiga, la fatalità, shit happens, chi poteva prevedere ecc. «Il clima» diventa un salvacondotto per continuare esattamente come prima, con le stesse politiche ecocide e climadevastanti, magari accusando di «negazionismo climatico» chi da sempre quelle politiche le combatte e dice che il disastro degli ultimi giorni ha precise responsabilità.

      Noi, invece, quando diciamo che il nuovo clima è qui per restare intendiamo che in questo quadro e su questi temi si gioca il conflitto. La nuova realtà non torna indietro ma non è nemmeno già assestata. Alcuni processi sono già irreversibili, ma si può e si deve lottare per rallentarli, evitare le peggiori conseguenze possibili, contrastare l’ingiustizia climatica ecc. È possibile che dalle lotte in questo nuovo quadro, se condotte con la necessaria lucidità e chiarezza su dove stanno le linee di frattura e su quali contraddizioni aggredire, venga fuori qualcosa di buono e di ancora impensato.

  6. Guardo pochissima televisione,ma quella poco che vedo mi fa imbestialire per la dimostrata insipienza di politici che, non sapendo o volendo risolvere i problemi, danno la colpa a coloro i quali hanno preventivamente segnalato i problemi stessi.Mi riferisco al ministro Pichetto che,insieme ad altri(e chi se non l’arma di distrazione di massa Salvini) ha incolpato gli ambientalisti del disastro odierno.I poveretti di spirito non sanno di ripetere vecchie litanie che già il drammaturgo Ibsen nel 1882 denunciava nella sua opera teatrale”Il nemico del popolo”dove viene rappresentato un medico che denuncia l’inquinamento delle acque di una stazione termale.Il poveretto crede di essere elogiato,ma per non affrontare i costi del risanamento i responsabili preferiscono continuare sulla stessa strada e licenziare e screditare il medico.
    Giungendo più vicino a noi,e su un piano di realtà,vi è la vicenda della giornalista Merlin che,colpevole di aver denunciato i pericoli insiti nella costruzione della diga del Vaiont,viene accusata di”diffusione di notizie false e tendenziose atte a turbare l’opinone pubblica”e processata.Quando poi succede il disastro sul posto giungono i giornalisti”autorevoli”(Montanelli,Bocca,Buzzati)ignari degli antefatti e si mettono a strillare di non speculare sui morti nel cercare le reponsabilità(“Sulla pelle viva” Tina Merlin).

  7. Da quando l’articolo qui sopra ha cominciato a circolare in modo massiccio, sui social eruttano la loro rabbia i difensori di Bonaccini, del PD e del buon nome dell’Emilia-Romagna in genere.

    È molto forte nella pseudosinistra neoliberale di queste parti un’ideologia “suprematista” emiliano-romagnola. Il consenso all’autonomia differenziata si nutre di quest’immaginario: noi siamo i più fighi di tutti, i più intelligenti, i meglio governati ecc.

    In queste ore la loro argomentazione, che apparirebbe ben magra consolazione a chiunque altro ma a loro no, è che “altrove queste piogge avrebbero fatto ancora più morti”.

    Non si rendono conto che non è una questione di campanile, ma di devastazione del territorio. In un altrove meno cementificato probabilmente ci sarebbero stati meno morti. In un altrove altrettanto cementificato probabilmente no.

    Non se ne rendono conto, o fingono di non rendersene conto, e infatti sono indistinguibili da Salvini e dall’altro ministro carneade quando parlano di “sicurezza del territorio” intendendo altro cemento e altro asfalto, altre grandi opere, che peggiorerebbero ancora la situazione.

    Ma l’aspetto che ci coinvolge direttamente è il pretesto con cui cercano di smontare il nostro articolo: poiché abbiamo detto che dare la colpa genericamente “al clima” occulta le responsabilità di chi ha devastato il territorio, ci accusano di “negazionismo climatico”. A riprova di quel che diciamo da tempo, cioè che il concetto di “negazionismo”, da anni stiracchiato in ogni direzione, non ha più alcun valore euristico, alcuna spendibilità in un discorso serio.

    Stiamo parlando di fan e cortigiani di Bonaccini, rappresentante politico degli interessi economici più ecocidi e climalteranti che si possano immaginare. Uno che tutela l’economia reale più inquinante, venera i combustibili fossili e in particolare i rigassificatori, secerne asfalto e cemento da ogni poro, pensa che la siccità in montagna comporti come problema principale non la mancanza d’acqua ma l’impossibilità di sciare e così ha ordinato «cannoni sparaneve hi-tech» per sparare la neve «anche d’estate». Ciascuno di quei cannoni consuma (sperpera) sessanta litri d’acqua al secondo.

    Noi, che da sempre avversiamo pubblicamente tutto questo facendo inchiesta e organizzando iniziative, e ci opponiamo al Passante di Bologna e opere connesse che tra le altre cose aumenterebbero le emissioni di CO2 in modo vertiginoso, saremmo i “negazionisti climatici”. Loro, che invece usano «il clima» solo per deresponsabilizzare chi ha preso una decisione demenziale dopo l’altra e continuerà a prenderle, sarebbero invece quelli «consapevoli».

    Naturalmente si distingue in questo anche una certa sinistra fru fru e grinuoscer, secondo cui avremmo contrapposto la lotta al cambiamento climatico e quella alla cementificazione. Detto da gente che non fa né l’una né l’altra, o meglio: agita astrattamente il tema climatico mentre cala le braghe sulle grandi opere, come ha fatto a Bologna Coalizione Civica. Noi invece diciamo da anni che per occuparsi in modo concreto ed efficace del tema climatico bisogna intanto fermare l’aggressione al territorio. Perché se questa continua, hai voglia a parlare di «transizione energetica», rimane una postura intellettuale e, politicamente parlando, roba da calende greche

    Poi ci sono quelli del relata refero non confessato, nel senso che hanno letto solo queste interpretazioni di comodo, magari dell’articolo hanno letto le prime tre righe e i sottotitoli, e ripropongono il solito cliché: «Da Wu Ming proprio non me l’aspettavo»

    Ribadiamo che noi scriviamo per chi legge. E per fortuna la maggioranza delle persone arrivate qui sembra aver letto. Non scriviamo nemmeno “a misura di social”: non lavoriamo sull’immediato e le reazioni di panza ma sulla sedimentazione di un discorso e il proseguimento di un percorso.

    • Forse siamo entrati in un loop temporale come in quell’episodio di Star Trek – The Next Generation. Sembra di essere tornati ai primi mesi dell’emergenza pandemica, quando imperversavano gli utili idioti dell’esponenziale, quelli per cui nessun sistema sanitario avrebbe potuto reggere alla crescita (vitualmente infinita…) dei contagi.

      Non che fosse falso in assoluto, per carità. Ma nel contesto della mobilitazione totale contro il virus, ricordiamo, da lì alla rimozione della sanità dal dibattito pubblico, in quanto argomento tout court negazionista, il passo fu breve. Proprio nel momento in cui sarebbe stato fondamentale invece tenere insieme tutti i discorsi, perché le conseguenze delle politiche scellerate degli ultimi decenni non erano mai state tanto evidenti.

      Dopo quasi tre anni, anche a questa gente deve andare il nostro ringraziamento se “nessun sistema sanitario” è quello con cui siamo rimasti.

      Adesso è la volta dell’eccezionalità dei fenomeni atmosferici, ma lo schema pare lo stesso. E il nemico stavolta è chi cerca di non far distogliere l’attenzione dalla gestione del territorio. Perché forse non è chiaro che la risposta a questi eventi eccezionali sarà ancora una volta un’accelerazione dei processi in atto, sostenuta dalla retorica della ripresa (e resilienza…). E con una spruzzata di verde finto, tipo il muschio spray che si usava per il presepe quando ero piccolo.

      Ora, io non ho nessuna difficoltà a dire che 250 mm di pioggia in 24 ore, in Romagna, sono eccezionali. Chi poteva mai aspettarseli? Nessuno. Infatti non se li aspettava neanche il mio professore di geologia ambientale, quando, nel 1996, se ho fatto bene i conti, ci spiegava determinate cose. Cose da non fare. Cose che invece sono state fatte. Le cose di cui parla anche l’articolo.

      Non c’era bisogno di aspettarsi che prima o poi sarebbero caduti 250 mm di pioggia in 24 ore, per fare altre scelte. Evidentemente l’eccezionalità non coincide con l’imponderabilità. Evidentemente stiamo andando nella direzione sbagliata da diversi decenni, ignorando pure tutti gli avvertimenti.

      • Esattamente. Noi dicevamo che il sistema sanitario lombardo era crollato subito, con immediate ripercussioni su quello “nazionale” (in realtà aziendalizzato su base regionale), perché devastato da anni di tagli, di privatizzazioni, di smantellamento della medicina territoriale, e dicevamo che andava subito messa in agenda la lotta per invertire quella rotta.

        Chi aveva già sviluppato la visione “virocentrica” – cioè che bisognava parlare solo ed esclusivamente di quant’era pericoloso il virus, il virus, il virus – rispondeva che anche un sistema sanitario pubblico, universale ed efficiente sarebbe stato messo in crisi dalla pandemia.

        Può darsi, non abbiamo il controfattuale, però a noi risultava ovvio che un conto è crollare nel giro di pochi giorni com’è accaduto, un altro conto è reggere l’urto per alcune settimane, con più tempo e più margine per organizzarsi in altri modi, e più risorse a disposizione.

        A un certo punto (molto presto) chi parlava della necessità di una sanità pubblica e della situazione già compromessa che il virus aveva trovato, è stato trattato da… “negazionista del virus”. Il virocentrismo ha ristretto il focus e la visuale.

        E così la sanità pubblica e le responsabilità di chi l’aveva devastata sono uscite da ogni discorso, per non rientrarci più, sostituite dall’Emergenza e dal feticismo dei “Provvedimenti” e di quelle che Sciascia avrebbe chiamato «operazioni di parata», cioè tanto appariscenti quanto inutili allo scopo dichiarato. Operazioni non solo di dubbia utilità sotto l’aspetto epidemiologico, ma diversive rispetto alle responsabilità politiche e alle cause sistemiche della situazione: coprifuoco, droni nei boschi, elicotteri sulle spiagge, decaloghi su chi potevi portare al pranzo di Natale ecc. L’elenco è lungo.

        L’esito è stato che tagli e privatizzazione della sanità continuano, e che la pandemia è stata l’occasione di una grande ristrutturazione capitalistica basata su “resilienza” e “ripartenza”, con le stesse logiche di prima all’ipercubo.

        Adesso, appunto, succede la stessa cosa.

        Noi diciamo che un territorio gravemente indebolito da decenni di cementificazione, impermeabilizzazione, sete di profitto, scelte brevimiranti, ignoranza idrogeologica, quando è sottoposto a intense precipitazioni va in pezzi, e danni e lutti sono peggiori e più numerosi di quanto accadrebbe in un territorio non deturpato.

        Ci si risponde che con piogge così anche un territorio meglio gestito avrebbe subito danni e ci sarebbero stati morti.

        Può darsi, ma a noi sembra ovvio che un conto è un territorio che va in pezzi all’istante e vomita acqua e fango in vaste aree, un altro conto è un territorio che regge l’urto in più punti e più a lungo. Più aree vengono risparmiate, c’è più tempo di organizzarsi, ci sono più risorse da utilizzare ecc.

        Se chi dice questo viene accusato di «negazionismo del clima», se prevarranno gli “utili idioti dell’eccezionale” come durante la pandemia prevalsero gli “utili idioti dell’esponenziale”, è evidente che di decementificazione del territorio, rinaturalizzazione di argini e corsi d’acqua, stop al consumo di suolo non si parlerà più, tutto sarà fatto in Emergenza, abbonderanno le «operazioni di parata» (tipo chiudere le scuole quando ha già smesso di piovere) e la risposta al disastro avverrà con le stesse logiche di prima portate all’estremo: commissariamento, grandi opere, ulteriore artificializzazione del suolo ecc.

      • Pandemia, alluvione e altro, sembrano legati da un ideale filo rosso. Oggi, al salone del libro di Torino, la ministra Roccella è stata interrotta da una contestazione. Stizzita se n’è andata senza parlare. Le cateratte si sono aperte, e subito una contestazione si è trasformata in un atto antidemocratico. Primi ministri che postulano l’inaccettabilità del dissenso, deputate che gridano alla vergogna preannunciando rulli di tamburi quando il direttore (reo di non aver impiccato le contestatrici seduta stante) lascerà il suo posto alla guida della manifestazione, presidenti di senati che trovano “estremamente grave” l’episodio, ministri delle culture che parlano di “intolleranza violenta” e, per quel che conta, Pierluigi Battisti che parlano di “regressione culturale”. La cosa si è “risolta” con 29 denunce. L’accusa? Violenza privata.
        Cosa c’entra questo con la pandemia e l’inondazione in ER? C’entra, perché ci mostra come in questa “nazione” contestare la classe dirigente stia diventando reato di lesa maestà, e da questo punto di vista Bonaccini o Roccella pari sono. E dalla pandemia ad oggi anche le tattiche sono le stesse: eludere e contrattaccare con argomenti capziosi ma suggestivi, ideali per fare presa su gente distratta o stanca. E a proposito di “chi poteva mai aspettarseli 250 mm di pioggia in 24 ore” con cui alcuni oggi si difendono, poteva mai aspettarsi la ministra che, uscendosene con frasi tipo: “purtroppo in Italia si può abortire” poteva essere contestata?

    • A proposito di tronfio suprematismo emiliano-romagnolo, nelle ultime 24 ore è diventato virale un breve elzeviro, un’apologia del sistema-Emilia che comincia così:

      «L’Emilia-Romagna è quel pezzo di terra voluto da Dio per costruire la Ferrari».

      E può sembrare scherzoso, volutamente iperbolico, ma conosciamo i nostri polli: non è così. Ci credono davvero.

      A seguire, infatti, ci si vanta in maniera spropositata di più o meno tutto quello che ha distrutto il territorio, esattamente l’economia reale e l’approccio devastante da “crescita infinita”, il culto del “fare” purché si faccia che andiamo denunciando da anni: viva l’automotive, viva gli allevamenti intensivi, viva l’agroindustria più impattante, finché non si arriva a questo capolavoro, con tanto di stereotipizzazione etnica:

      «[Gli emiliano-romagnoli] sono come i giapponesi, non si fermano, non si stancano, e se devono fare una cosa, a loro piace farla bene e bella, ed utile a tutti…»

      Certo, come la voragine FICO, il cemento ovunque, la psoriasi di centri commerciali e poli logistici, le migliaia di rotatorie, la riviera devastata dalla speculazione, le dune sbancate per farci il Jova Beach Party, i rigassificatori, le porcilaie da tremila maiali le cui deiezioni rendono una cittadina di diecimila abitanti inquinante quanto una città di trecentomila, sempre più impianti sciistici anche se non c’è più neve, trafori che distruggono falde e fanno scomparire in un giorno cento corsi d’acqua in Appennino, e sono solo le prime cose che vengono in mente.

      Il finale è questo:

      «Ci saranno pietre da raccogliere dopo un terremoto? Loro alla fine faranno cattedrali.»

      C’è un’alluvione? Loro faranno ancora autostrade, svincoli, bretelle, rotatorie, parcheggi, centri commerciali, hub della logistica, dighe che distruggeranno gli ecosistemi fluviali ecc.

      Di quest’arroganza, di questo suprematismo regionale gli emiliano-romagnoli moriranno, se non se ne sbarazzano.

    • E ovviamente Bonaccini, che non si fa scappare un cliché che sia uno, ha dichiarato: «Questo è il momento degli aiuti, non delle critiche».

      Il «momento delle critiche» non verrà mai, se non ce lo prendiamo noi, e riusciremo a prendercelo solo respingendo al mittente queste cazzate, queste false dicotomie. Quelli come Bonaccini vogliono che ci intruppiamo in aiuti acritici, dentro una dinamica che assolva lui e i suoi predecessori da ogni responsabilità. Questa non sarebbe solidarietà ma carità. Invece si può e si deve aiutare senza spegnere il cervello. È il momento degli aiuti e delle critiche.

  8. Intanto cominciano ad arrivare le ricette.
    Una letta ieri propone come soluzione il bacino di laminazione. Per chi non lo sapesse, si tratta di una vasta area di terreno nella quale, tramite opere di presa, si convoglierebbero le ondate di piena. In pratica, un’area che verrebbe temporaneamente allagata in occasione di eventi estremi, in assenza dei quali verrebbe lasciata incolta o adibita a coltivazioni. Sembra che i bacini di laminazione abbiano salvato intere zone del Veneto in occasione di Vaia nel 2018.
    La soluzione, di per sé, non sembra campata in aria (ammesso di avere lo spazio per realizzarla, visto che in pianura padana molte aree limitrofe ai fiumi sono già edificate). Però la questione è che invece di lavorare per sottrazione si continua a pensare per aggiunte. È come se un medico, invece di prescrivere un certo regime alimentare all’ipercolesterolemico, gli dicesse di continuare a mangiare sempre di più e nel contempo gli aumentasse progressivamente le dosi giornaliere di statine. Quanto potrebbe durare?

    • Allegoria perfetta, e in realtà calzante all’intero modello di sviluppo e tout court al modo di produzione capitalistico.

    • Casse di laminazione e canali scolmatori sono soluzioni efficaci che devono derivare da un progetto idraulico bello complesso. Servono a proteggere “colli di bottiglia” urbanizzati e possono essere indispensabili. Però bisognerebbe anche capire come mai ci sono questi colli di bottiglia nel reticolo idrografico: colli di bottiglia che non dipendono solo dall’aumento dell’intensità delle precipitazioni ma anche da vere e proprie riduzioni delle sezioni libere create nel corso degli anni alla faccia dei tempi di ritorno.
      Se tu raccogli tutta l’acqua che cade rendendo impermeabili troppe superfici e poi la dirigi e la intubi in canali di cemento invece di lasciare il più possibile a cielo libero e a fondo naturale la rete di drenaggio, significa che ti porti tutta l’acqua e molto in fretta a una data sezione di chiusura, e poi bisogna vedere se il giorno X l’acqua, eccezionale o no, ci passa. Se non ci passa o hai la vasca di laminazione oppure l’acqua in più finisce in strade, piazze, case.
      Il discorso è molto più complesso di così e non è che il fondo naturale sia di per sé la panacea a tutti i mali, ma è per dare un’idea di come il modello di sviluppo crea il problema rendendo poi un certo tipo di soluzioni necessarie.
      L’altro discorso è che è vero che si spende poco per la manutenzione del territorio, ma è anche vero che poi si preferiscono interventi una tantum dalla milionata di euro (che divengono poi indispensabili quando la situazione è ormai compromessa) invece di interventi più puntuali, costanti, ripetuti nel tempo e differenziati nello spazio, con la realizzazione di piccole opere là dove è obiettivamente necessario, che sarebbero decisamente meno impattanti e tutto sommato più efficaci nel prevenire le situazioni.

  9. Vorrei provare a dire due cose sulla questione del “il problema è il clima”, perché in effetti io trovo che il ragionamento sulla “crisi climatica” rischi di portarci in un grande impasse, e quindi mi sento di approfondire la riflessione buonissima che ho letto nell’articolo.

    La narrazione “la causa è la crisi climatica”, secondo me pone il problema politico dell’ambiente, del dissesto idrogeologico e del cemento, sul livello del governo (che sia il Comune la Regione lo Stato o le Nazioni Unite).

    Per chi porta avanti questo ordine discorsivo, la soluzione sarebbe quella di un nuovo piano per il territorio, oppure la somma di interventi tecnici elaborati a tavolino sull’onda di questa specifica tragedia. Di fatto lo stesso spirito “soluzionista”, ma preso “dal basso” invece che “dall’alto”. Però, il problema non è facilmente delimitabile, e lo spirito “soluzionista” quindi non sembra centrare il punto: ci sono moltissimi attori pubblici e privati che hanno cavalcato la logica della cementificazione, la complessità della situazione è perfettamente chiara a chi abita in queste zone, e quindi ogni ricetta che parli lo stesso linguaggio politico dell’amministrazione (anche se di segno cambiato) è riduzionista e velleitaria.

    *

    Adesso ci aspetta una nuova retorica emergenziale, Bonaccini ha già detto che ci vuole un commissario. Una verticalità che irreggimenti gli sforzi. Cosa succederà? Il commissario servirà a organizzare la ricostruzione post-alluvione (in salsa green anche stavolta?), nuove gettate di cemento, nuovi piani logistici che trasformino l’emilia in una grande catena di spostamento… con qualche boschetto se resta tempo per sollazzare l’elettorato della vicesindaca.

    Penso che se la lotta contro l’emergenza climatica non si sbarazza della retorica emergenziale degli amministratori, in modo radicale, resteremo impantanati nel continuo recupero, dentro la logica del governo, di ogni avvenimento eccezionale (anche delle tragedie come questa)

    • Scusate l’aggiunta, ma mi faccio anche un’altra domanda: l’urgenza è quella di proporre un altro sguardo, un altro rapporto alle terre; è possibile che l’emergenza sia l’occasione per una piccola o grande “secessione territoriale”? Non intendo questa specifica emergenza, ma più in generale una qualsiasi situazione emergenziale. Con “secessione” intendo quel fenomeno accaduto in Val di Susa col Tav, cioè tante persone che cominciano a darsi dei mezzi per far fronte alla situazione autonomamente da chi li governa. Il discorso sulla Sovranità Alimentare, può applicarsi alla cura idrogeologica, per esempio?

      Probabilmente nell’immediato la risposta alle mie domande è “no”, però è chiaro che tantissimi aspetti delle emergenze quotidiane li affrontiamo già in modo autonomo, questa cosa si può estendere? Può diventare una strategia?
      Non conosco abbastanza i territori più colpiti, ma per esempio sarei curioso di capire che tipo di rapporto viene a crearsi con la Protezione Civile in questi giorni? Esistono zone dove le soluzioni emergenziali vengono contrattate con chi ci abita(va)? Anche umanamente, che tipo di relazione si crea tra le vittime e chi viene ad aiutarli? La ProCiv è vista come un’estensione dei colpevoli oppure come un attore positivo?

  10. Aggiungo una cosa che continua a non tornarmi, che sul resto è stato ampiamente detto qui sopra. Così magari qualcuno/a me la spiega.

    Si tratta di questo: la TestataUnica ripete: “il governo martedì stazierà 20 milioni per l’emergenza, e 10 ne ha già stanziati”. Io di cifre di soldi, quando son troppi, capisco poco. Ma non posso fare a meno di ricordare che il governo precedente, o quello primo ancora (sono pressoché indistinguibili, potremmo chiamarli semplicemente tutti “Pilota automatico” seguiti da un numero ordinale) ha assegnato 20 milioni ” a testa” alle frazioni (una per regione), impropriamene dette “Borghi” che avevano “vinto” un bando, una sorta di lotteria, per farsi belli e digitali, ovviamente in chiave turistica (il petrolio d’Italia, che si spande e ci ricopre come il pellicano coperto d’idrocarburo della famosa foto).

    Allora delle due l’uno: o 20 milioni son bruscolini e si possono distribuire a una frazioncina presa quasi a caso; oppure sono tantissimi e giustamente vanno a cercare di riparare i danni enormi e alluvionali. Le due cose non possono andare insieme.

    Ah. Un’altra cosa. Nella grandeur emiliana non posso non annoverare l’arrivo di Leonardo a Bologna, il quarto supercalcolatore al mondo, nel silenzio degli entusiasti e delle istituzioni in merito ai suoi consumi; sulle cui cifre non mi pronuncio perché ne capisco ancor meno che di soldi. Epperò che i supercalcolatori consumino più di un pochino lo sappiamo, no? Per poi tacer, che sarebbe discorso troppo lungo, del modello di società che il supercalcolo presuppone e impone. Farà delle gran belle previsioni metereologiche, ci promettono. Anche stavolta però erano già perfette, c’era l’allarme rosso e tutto; il disastro è arrivato, ma ha suonato prima il campanello. Le buone maniere anzitutto.

  11. Come durante la psico-pandemia, trovo qui lo spazio che mi è necessario per uscire dal marciume retorico che imperversa praticamente ovunque nei media e nei cosiddetti “social”. Solo qui le riflessioni si dispiegano in un modo che riconosco e mi fanno respirare.
    La “febbre del fare” celebrata dalla retorica -ora addirittura sarà un fare emergenziale- renderà questa regione ancor più fragile, instabile, al limite di collasso continuo. Ma continueremo a bearci di packaging valley, motor valley, notti rosa, e svincoli autostradali dedicati ai produttori di sigarette elettroniche. Non prevedo perciò nulla di buono nel prossimo futuro che sarà denso di parole e progetti che è facile prevedere risulteranno peggiori di ciò che è stato fatto ( e non fatto ) fin’ora. È proprio questa “febbre del fare” del suprematismo emiliano-rimagnolo che si dovrebbe mettere sul banco dell’accusa.

  12. Scusate, vorrei provare a introdurre una riflessione, non dico ottimista che sarebbe oltremodo eccessivo, ma un pochino meno cupa.
    A me sembra di percepire in modo abbastanza diffuso (premetto che sono bolognese e vivo a Bologna città, la mia percezione parte da qui) una sorta di “effetto Chernobyl”, cioè che l’opinione pubblica, l’uomo e la donna della strada, di fronte alla disgrazia improvvisamente vedano con chiarezza le cause strutturali e le responsabilità – anche se poi si è tutti intrappolati in un modello che lascia ben poche alternative alle scelte individuali (sono abbastanza vecchia da essere stata già consapevole e attiva nel 1986 e 87 in occasione prima dell’incidente e poi del referendum sul nucleare italiano). Il modo irritato e arrogante con cui i dirigenti regionali reagiscono e l’alacrità enfatica dei loro tirapiedi tecnico-politici (da queste parti c’è una discreta amalgama nelle funzioni) danno conto di una certa difficoltà da parte loro. Questo tipo di effetto non si è manifestato con la pandemia, o si è manifestato in strati molto più esigui di popolazione, forse perché era un fenomeno sostanzialmente inedito, mentre sul tema dell’ambiente veniamo da decenni quantomeno di buone prediche (e razzolate pessime) che se non altro hanno sedimentato consapevolezza. Per dirne una, la più macroscopica, la contraddizione di spendere in armamenti e risparmiare sulla manutenzione è stridente per chiunque – e l’inopportunità qui ed ora di nuove grandi opere è ben compresa.
    Poi è chiaro che il modello vincente e i suoi corifei hanno dalla loro una potenza di fuoco mediatica capace alla lunga di convincere che gli asini volino, ma quanto meno ci vuole del tempo, e le crepe sono molte e quando ti entra l’acqua in casa tendi ad essere un po’ più malfidato verso i faccioni che parlano dalla tv.
    Ho l’impressione che sia un buon momento per opporsi con ancora più forza (e più fiducia) a grandi opere dannose come il passante

  13. Per farsi un’ idea e due conti in merito al costo di manutenzione che la pubblica amministrazione deve affrontare per la manutenzione delle rete idrologica, rispettivamente con 20 milioni d’ euro a base d’ asta e 17 milioni sono in corso due gare d’appalto europee:https://dati.anticorruzione.it/superset/dettaglio_cig/89950283ED e https://ted.europa.eu/udl?uri=TED:NOTICE:258374-2023:TEXT:IT:HTML&src=0.
    Per quanto riguarda l’ analisi di wuming é molto interessante e originale nell’ approccio alternativo e responsabilizzante del malgoverno della cosa pubblica, in tragica combinazione con gli effetti climatici del capitalismo estrattivo a cui da oltre trent’anni si cercano vanamente alternative sostenibili nell’ ambito di politiche difficilmente esterne a logiche emergenziali.

  14. Nel testo di Paolo Pileri da cui attingete (del quale i link sono fondamentali) c’è un passaggio che merita attenzione, lo ricopio-incollo:
    “E tanto per concludere con le ipocrisie, l’Emilia-Romagna si è costruita una legge urbanistica talmente ingannevole da autoprodursi assoluzioni come quella che si può vedere sul sito della città metropolitana di Bologna [il link è all’interno dell’articolo] dove, come per incanto, dal 2018 fino a oggi i consumi di suolo sono magicamente diventati zero. Ma non perché hanno smesso di consumare (tutt’altro), solo perché hanno manomesso le definizioni urbanistiche al punto tale da riuscire a non conteggiare più le cementificazioni e risultare così tutti virtuosi e contenti per legge, non per virtù.”
    Mentre Bonaccini rivendica la legge regionale 24/2017 e minaccia querele, è già partito il tormentone “fatta la legge trovato l’inganno” (= “i soliti italiani”): e invece l’inganno è già all’interno della legge scritta da Bonaccini e quantomeno avallata e votata da Schlein. Un po’ come la legge Vendola che in Puglia doveva tagliare le emissioni nocive dell’Ilva, e che invece consentiva di barare a norma di legge sulle rilevazioni (una per tutte: sottrarre di sistema il 30% dei valori per “approssimazione d’indeterminatezza”).

  15. Vi lascio la traduzione a braccio di un estratto da un bel libro letto qualche tempo fa’ «Climate Leviathan».

    «[…] la stragrande maggioranza degli abitanti del global North trovano conforto nel credere che le conseguenze peggiori dei cambiamenti climatici (scarsità di risorse alimentari e acqua, sommosse politiche, inondazioni e altri “disastri naturali”) sono distanti sia geograficamente che temporalmente e che quindi non andranno ad influenzare la loro vita.

    Questa reazione, anche se eticamente ingiustificabile, è comunque comprensibile perché le conseguenze negative dei cambiamenti climatici “suonano” a ritmi diversi, non sono mai in sincronia.

    Abbiamo da un lato, in sottofondo, il quasi impercettibile rumoreggiare dell’innalzamento del livello dei mari e il ticchettio al rialzo del costo delle risorse alimentari, punteggiato, dall’altro lato, dall’occasionale martellata di un evento stocastico.»

    Personalmente trovo la questione della “sensibilità” al problema fondamentale, soprattutto in prospettiva generazionale. La vera emergenza in forma latente é come un suono in sottofondo, silenziosa e costante.

  16. Una tra le cose più odiose sentite e lette in questi giorni è la reiterata livorosa rampogna ai ragazzi e alle ragazze dei movimenti ambientalisti, invitati ad andare a spalare la merda per espiare gli “atti di ecovandalismo” e i blocchi alla circolazione stradale, o anche solo le loro critiche al potere. Da La Russa a Mentana, è tutto un coro di vecchi ricchi e potenti contro i giovani “radical chic viziati che vivono nei loft al ventesimo piano”. Anche in questo livore c’è una continuità con la retorica pandemica, che concentrava la sua forza di fuoco soprattutto contro i giovani, accusati di essere perfidi untori che non vogliono rinunciare alla movida, e allo stesso tempo fiacchi hikikomori chiusi in se stessi e incapaci di rapportarsi al mondo.

    • L’odio profondo per giovani e soprattutto adolescenti è uno dei capisaldi dell’odierna ideologia borghese italiana, trattandosi di una borghesia di perenni e ridicoli “finti giovani”, cresciuti col mito di una crescita infinita tutta a loro vantaggio. Fanno finta di niente ma nel loro intimo sanno di essere in realtà vecchi, dunque odiano i giovani veri che incarnano tale dato di fatto; avvertono anche di essere superati dalla realtà che accelera, il mondo da loro depredato sta andando verso il disastro, dunque odiano chi glielo fa notare. Poiché glielo fanno notare soprattutto le persone giovani che in quel disastro dovranno viverci, le due motivazioni convergono e diventano una sola. Un sacco di pseudo-emergenze sono agitate ad hoc per colpevolizzare i giovani: l’emergenza-movida, l’emergenza-rave, l’emergenza-baby gang, l’emergenza-ecoimbrattatori ecc.

    • Per quanto mi riguarda, i giovani-che-lottano-per-il-clima-e-imbrattano-i-quadri sono categoria vaga, ma non così vaga da non poterne individuare un minimo comun denominatore che ne colga almeno il 90%.

      Essi sono effettivamente problematici in più di un modo, e sovente incapaci di analisi buone e condivisibili e prassi efficaci.

      Riassumendo nel modo più stringato possibile: sono digiuni di materialismo, a cui compensano con idealismo ed estetica, forse anche perché abitano un mondo social e infobulimico sempre più fatto di idee, colori e simboli, cosa che peggiora i limiti già insiti nella categoria demografica “studenti universitari”.

      Proprio verso l’idiota mondo “digitale” si rivelano sovente incapaci di critica, essendone sovente supini complici: lo sappiamo, ogni post su Facebook è contenuto concesso, gratis, al più criminale editore; ogni gesto instagrammabile, idem.
      È del resto spesso frustrante dialogarci su questi temi, pare di spiegare l’acqua a un pesce.

      (A margine, lo stesso sito di HubAut linkato poco sopra parla in più di occasione di “digitale” in un modo che non posso condividere.)

      Vi sono financo coloro che _non_ esprimono un punto di vista nettamente anticapitalista, ma qui sorvoliamo…

      Capiamoci, a me “del clima” interessa poco — almeno, del clima su Saturno.
      Mi interessa del clima sulla Terra, mi interessa nella misura in cui cambia le condizioni materiali dei vertebrati, con cui empatizzo un minimo, e ancora più dei miei simili, e ancora più mi interessa come cambia le condizioni materiali della mia classe.

      (“Graziealcazzo!” “Lo so, ma non è scontato, è un attimo che si passa alla deriva puramente estetica, e infatti…”)

      Come detto qui da principio, “il clima” è solo una variabile dell’equazione e anzi è conseguenza importante ma relativamente indiretta del capitalismo globale (i PFAS non sono clima, ma una falda velenosa non è bella; gli sfratti e il RdC non sono “clima” ma il rischio è sempre quello di dormire al bagnato).

      “Parlare di clima” è instagrammabile, ma temo che abbia il potenziale di aiutare il capitalismo e basta (auto elettriche, a milioni, e miliardi di monopattini per i poveri — naturalmente la tecnologia è ortogonale al problema, che si chiama “crescita infinita” e “spreco”).

      In definitiva, questi movimenti non hanno a mio parere il potenziale per esprimere il necessario attacco diretto e frontale al capitalismo, con scioperi generali, picchetti, un bell’esproprio proletario, questioni rispetto alle quali sembrano invece approcciarsi “dalle foglie alla radice” anziché viceversa.

      • A dire il vero io vedo sempre più giovani e giovanissimi partecipare coi corpi – non coi like o le “storie” o in videoconferenza: coi corpi – a lotte ben concrete su temi climatici, ambientali e territoriali, lotte che aggrediscono contraddizioni primarie, e che spesso loro stessi organizzano, e sempre più spesso sento interventi che vanno «dalla radice alla foglia» e parlano di capitalismo come problema dei problemi. Tutto questo durante manifestazioni (a ottobre contro il passante eravamo tra i ventimila e i trentamila, abbiamo occupato la tangenziale e la maggioranza di chi c’era era under 30), blocchi, contestazioni, campeggi, roba molto tangibile.

        Alcuni dei punti critici che metti in fila sono reali, ma non sono d’accordo con un approccio che li assolutizzi. Ad esempio, l’uso acritico dei social et similia non è esclusivo delle ultime generazioni, anzi, l’uso di FB e Twitter fatto da compagne e compagni boomer, generazione X e millennial è massiccio, addicted e totalmente acritico, con l’aggravante dell’essere ormai “indivanados”, di metterci il corpo molto meno di quanto facciano gli attivisti e le attiviste più giovani.

      • Rispondo da una bolla, quella della piazza occupata di Milano contro gli affitti insostenibili. La nostra piazza è piuttosto varia e cangiante e non potrebbe essere altrimenti perché per tenerla per giorni c’è il costante bisogno di un ricambio delle persone. Una dei punti di riferimento più forti è però sicuramente l’esperienza della gkn. Fin dalle prime assemblee sono saltate fuori parole chiavi come ‘convergenza’, molti tra noi scoprivano di essere stati insieme ai loro eventi a Firenze (o Bologna o ancora chissà dove) e si è detto, chiaro e tondo, che la questione degli affitti non riguardava solo gli studenti, ma anche i lavoratori, i disoccupati, i corpi migranti…
        Nell’incredibile e densa socialità che si è creata, fin da subito ci sono state persone che venivano da FFF. Giovanissime, gente con non più di 21 anni, che aveva già fatto mille e più esperienze, anche parecchio conflittuali, come cercare di bloccare aeroporti per i jet privati.
        La saldatura tra movimenti per il clima (e transfemminismo) e lotta di classe la si è sempre vista come necessaria. Ecco magari non sbandierandola ai quattro venti con questo nome, perché per quelli della mia generazione sono un po’ mancati, mi pare, i “cattivi maestri”. Facendo uno sforzo nel richiamare alla mente il me stesso “pre-radicalizzazione e inizio militanza” mi ricordo che già dire la parola “capitalismo” era un qualcosa di grosso, blasfemo quasi, che causava sicuramente rottura.
        Sull’utilizzo dei social: non so quanto oramai sia acritico. Sempre più se ne capisce l’infausta influenza, quanto causino ansia e quanto i social siano forieri di dinamiche malate. Per dire: nella nostra piazza abbiamo deciso di aprire un instagram solo ieri, dopo più di tre settimane di occupazione, perché prima ci sembrava prematuro e che ci avrebbe messo della fretta addosso. Si è però deciso di usarlo solo come punto di ancoraggio per coinvolgere le persone non già radicalizzate, per non perderle. Zero cura nelle grafiche, meno sbatti possibili: vedremo.
        La prassi è chiaramente imperfetta, ma a molti di noi la teoria non basta più.

  17. La retorica Pandemica è stata uno strumento che ha funzionato benissimo, e quindi è qui per restare come tante altre cose.
    In particolare nella comunicazione, come facevano notare anche altri, ormai non “possono” più esistere diverse “versioni” o letture di un qualsiasi fenomeno: c’è solo la versione “ufficiale”, che è quella che va bene a chi comanda e che viene veicolata con la giusta dose di retorica, emergenzialismo e volemose bbene dagli editorialisti “giusti”. Tutto il resto, tutte le domande birichine, tutti i distinguo, le attribuzioni di responsabilità, le puntualizzazioni sono altro. Sono “negazionismo” tout court se va male o “seghe mentali” da giovinastri oziosi se va bene.
    (e ovviamente non mi riferisco ai negazionimi “veri”!, ma alle critiche serie che però arrivano da chi “non si vuole sentire”).
    Nella critica ai “radical chic in loft”, però, seppure direzionata malamente e in malafede, fatta propria dai comunicatori di cui sopra che, loro sì, vivono nei loft, e pesantemente sbagliata, c’è come sempre, almeno a mio parere, un frammentino di verità.
    E il nucleo di verità qui è il fortissimo scollamento fra mondo rurale e mondo “urbanizzato”.
    Tra chi di campagna e di ambiente ci vive, pur con le inevitabili contraddizioni, e chi, pur con le migliori intenzioni del mondo, certe cose le vive solo per sentito dire o come turista nel tempo libero. E non necessariamente i primi sono con Salvini.
    È importante notarlo, perché mentre sui primi probabilmente impatteranno le conseguenze delle future politiche, forse i secondi sono quelli più a rischio di diventare veicolo di tutte le retoriche pandemerzenziali, e di mettersi a urlare dalla finestra contro chi alza il ditino per criticare le politiche su un piano di realtà e di correttezza.

    • Però le alluvioni di questi giorni colpiscono soprattutto le aree urbanizzate, e le colpiscono soprattutto per il modo criminale in cui sono state urbanizzate. E nelle aree urbanizzate chi subisce le conseguenze della cementificazione, dell’inquinamento, dell’estrattivismo, sono soprattutto quelli che vivono in periferia. Le periferie tra l’altro sono dei luoghi ibridi: tra gli svincoli, i capannoni e i condomini ci sono orti e campi di mais, e magari qualcuno alleva anche le pecore. Non direi quindi che chi vive in città parla per sentito dire. Lo scollamento dalla realtà ce l’ha chi si illude che si possa continuare a oltranza con questo sistema, in campagna come in città.

    • Due cosine sulla “campagna”.

      Primo: nell’Europa del 2023 quale è il nucleo familiare, ufficiale o meno, che può permettersi di vivere ancora “di campagna”. Intendo proprio in termini statistici? Siamo sicuri che esista o si possa ancora parlare dell’ esistenza di un “mondo rurale”, in Italia o nel resto dell’occidente? Alle mie orecchie suona piuttosto pre-industriale come termine di riferimento. Forse ha ancora qualche valenza per certe aree di insediamenti umani nei cosiddetti BRICS ma per il resto, nel cosiddetto global nord, credo sia evidente che ci troviamo in una situazione di totale e pervasiva urbanizzazione di tutti gli ecosistemi, ognunə di noi cittadinə del famoso «villaggio globale».

      Secondo: non dimentichiamo che la campagna é il luogo di origine del concetto di proprietà privata: «get off my land» per intenderci. Basta avventurarsi a piedi per le campagne per scoprire quanta retorica si nasconda dietro l’idea del “rurale”. Il fatto che vi sia uno «scollamento» tra due mondi mi sembra un tantino inverosimile.

      • Probabilmente non esiste più un “mondo rurale”, ma esistono mondi marginali, che possono essere i paesi di montagna, o le periferie delle grandi città, o la squacquera padana che si estende tra Milano e Venezia e tra Milano e Bologna dove un tempo si coltivava il mais, o la provincia del sud, spopolata dell’emigrazione. Sono luoghi poco serviti, senza ospedali e scuole adeguati, e mal collegati. Luoghi considerati di intralcio dai politici di tutti gli schieramenti. Oppure luoghi in cui si possono costruire svincoli, depositi, dighe, discariche, rigassificatori ecc, perché “tanto ormai”.

      • @tuco: lo scollamento che intendevo non è una cosa netta o assoluta. Però c’è e mi sembra sia in partenza su base “socio-geografica”. Poi come fai notare è su più piani e in un certo senso trasversale: c’è chi alleva pecore tra gli svincoli di periferia e ci sarà anche chi è “ricco” e completamente urbanizzato e globalizzato in qualche bel posto in montagna. Potrei fare altri esempi ma rimando al paragrafo sotto.

        @dude: ha in parte risposto tuco, ma provo ad aggiungere. Forse la faccio facile io e senza volerlo sono retorico nell’uso del termine, e sono anche d’accordo che
        «nel cosiddetto global nord, credo sia evidente che ci troviamo in una situazione di totale e pervasiva urbanizzazione di tutti gli ecosistemi»,
        ma c’è una serie di differenze (i citati servizi, ma anche culturali e di stili di vita) tra il centro di Bologna, Torino o Milano e i territori delle rispettive province, e la differenza aumenta ancora andando verso sud.
        Parlando di aree che conosco, man mano che esci dall’area urbana di Torino o Milano trovi centri abitati più piccoli, scendendo a 25.000, 5.000, 1.000 e poi magari 200 abitanti.
        Anche qui molti ecosistemi sono antropizzati se non urbanizzati, e la maggioranza di chi ci abita lavora comunque da pendolare in fabbrica o nel terzo settore, etc., ma il contatto con il “mondo rurale” è diverso da quello che puoi avere in una periferia o in un centro urbano..
        Non fosse altro perché una fetta anche se piccola di quei 5.000 – 1.000 – 200 abitanti “lavora” ancora la terra, alleva vacche o pecore, fa manutenzione del verde o il tagliaboschi, il contoterzista, in proprio o come dipendente di qualcun altro, etc. Lo scollamento è qui, nel modo in cui puoi percepire le priorità del tuo stile di vita. (ad esempio per quel che riguarda le fonti di reddito, i trasporti, l’accesso all’energia, etc.).
        Lo scollamento è anche nel come chi vive in uno dei due “mondi” percepisce il modo di pensare, le priorità e i bisogni di chi vive nell’altro.

        • Mi intrometto nel discorso dello scollamento tra la “magia dei borghi di montagna e di collina” marchigiani e i cittadini, come il sottoscritto, integrati all’ionterno di nel breve periodo, per motivi lavorativi e della migliore (per noi) qualità della vita.
          Per qualità della vita intendo aria-acqua-suolo, visto che io e la mia ragazza vivendo a Morrovalle (MC) ci troviamo all’interno di sito di interesse nazionale del basso bacino del fiume Chienti, tradotto abbiamo i valori del piombo, nichel, Tetracloroetilene ed altri. sopra i valori soglia (gia ritoccati verso l’alto negli anni) di 15-20 volte, con la conseguenza che in teoria (ed anche in pratica) non ci potremmo ne lavare il cibo, cuocere la pasta, lavarci i denti o farci una doccia.
          Per quaesti motivi e l’impossibilità di avviare una attività nella zona (visto che gli affitti arrivano sulla costa tra i 1.000€-1.500€ al mese, impossibile aprire una sartoria argianale),. abbiamo deciso di trasferirci.

          La cosa che stiamo notando è lo scollamento totale con il mondo rurale che ancora si auto-produce legna, vino, olio, animali da cortile, orto e si lamenta meno. Anche in questo borgo ci sono problemi attuali e non tutto è idilliaco e bucolico come in apparenza può sembrare per un merenderos o un turista italiano o straniero della domenica.

          Arrivo al dunque, la nostra regione Marche sta invenstendo solo ed esclusivamente sul turismo del Nord e Nord Europa e questo porta a delle distorzioni enormi per chi ci vive e vuole tentare di rimanerci a vivere oppure in maniera velleitaria tenatare di fare una pseudo famiglia o progetto di vita insieme

          Da noi, ma come ovunque, il libero mercato si sta drogando con effetti paradossali:

          – non esistono case in affitto, per via dei soggiorni a breve termine Booking.com o Airbnb e noi dormiamo a casa di un inglese in affitto in un bilocale. Oltre la follia

          – Esistono migliaia di case sfitte, ma non vengono vendute (se affidato al mercato privato, ogni mpropietario è libero di farci qualsiasi cosa del porprio immobile, purtroppo)

          – I prezzi degli immobili sono alle stelle (compresi l’aumento dei muti con il tasso fisso arrivato al 4.5%) compresi i ruderi, venduti a prezzi fuori mercato (drogati dal dumping salariale dei paesi del Nord Europa), sperando e preggando di venderli a facoltosi inglesi, olandesi, tedeschi, belgi amanti della campagna e della vita tranquilla postmezzadra.

          Tutto questo disastro, affidato al libero mercato senza nessuna tutale o regolamentazione della disciplina, provoca e ha provato una sbonia che dura a fasi intermittenti dal dopo guerra fino alla nostra generazione. Conclusa questa fase porterà a una totale desertificazione ed espatrio in altre regioni del Nord o Nord Europa, con l’esito paradossale di incentivare l’arrivo di pensionati stranieri, invece di accogliere giovani persone migranti che vorrebbero crearsi una vita e una famiglia qui.

          Credo che tutta questa situazione di desertificazione, mancata pianificazione della gestione del Territorio (erogazione di soldi per “rigenerazione urbana” a pioggia del PNRR) si ricollega alla decenele mancata prevenzione del dissesto idrogeologico perchè “non da voti e non è visibile”, lascindo il territorio fragile, in ablia degli eventi atmosferici estremi.

          • Ciao Cugino.

            «Lo scollamento è qui, nel modo in cui puoi percepire le priorità del tuo stile di vita […]
            Lo scollamento è anche nel come chi vive in uno dei due “mondi” percepisce il modo di pensare, le priorità e i bisogni di chi vive nell’altro.»

            Appiattendo il problema ad una questione di “stili di vita” individuali non otterremo nessun risultato. É il solito sversamento di liquami responsabilizzanti/colpevolizzanti di stampo cattolico, verso il basso. Dalle zone “rurali” a quelle urbane, periferiche soprattutto, con tutto quello che ciò significa in termini socioeconomici.

            Francamente non riesco neanche a seguire il discorso sul “percepire modi di pensare” di “chi vive nell’altro [mondo]”.

            Ma come. Soltanto due mondi?

            Mi permetto di dire che, a mio modo di pensare, sarebbe più appropriato da parte di chi vive al di fuori della città, provare ad accollarsi una dose di “responsabilità collettiva”, atto necessario a livello di specie, in quanto
            siamo tuttə consumatori, anche se in dose ridotta gli uni rispetto agli altri a seconda dele fasce sociali/urbane.

            Se invece si preferisce pensare di potersi “scollare” da qualcosa/qualcuno nessuno è qui per impedirlo.

          • Dude non ho mai detto che ci sono quei due mondi e basta.
            Ho detto che quello scollamento è una delle possibili letture di un fondo di verità contenuto in uno slogan sgradevole e sbagliato (slogan raccontato da tuco nel primo post del Thread). E che è trasversale ad altre “caratterizzazioni”. E anche “mondi” era tra virgolette.
            L’appiattimento sugli “stili di vita” è un esempio fra tanti, un tentativo forse non felice di farmi capire.
            Soprattutto non c’è alcuna “mitizzazione” cosciente da parte mia di un qualcosa o un qualcuno.
            Non cercherò di argomentare oltre, se mi sono espresso male oppure ho scritto una cavolata, pazienza.
            Preciso solo che sono ben consapevole della responsabilità, personale e collettiva, che ha chiunque viva nel mondo occidentale, consumi, si sposti e abbia un tetto sopra la testa relativamente allo sponsorizzare e far parte di un sistema di sviluppo. Come si diceva in un blog che leggevo una volta, ogni volta che schiacci l’interruttore della luce stai foraggiando “il sistema”.
            Detto questo, nella tua frase «sarebbe più appropriato da parte di chi vive al di fuori della città, provare ad accollarsi una dose di “responsabilità collettiva”», io vedo già un potenziale conflitto e linea di frattura proprio su quello scollamento.
            Quando, per fare un esempio banale e scontato che ci porterà di nuovo a non capirci, il bancario con la macchina elettrica che fa le vacanze in un luogo turistico in montagna, andrà a dire, con il beneplacito del mainstream, al boscaiolo di non tagliare alberi.
            (tagliare alberi all’interno di una filiera agroforestale sostenibile e già parecchio regolamentata, intendo, a scanso di equivoci).

            • Però lo stesso bancario tifa manganelli contro il movimento NO TAV della Val Susa, e pretende non solo che si taglino gli alberi ma anche che si buchi la montagna, si prosciughino le falde, si riempia la valle di smarino e si renda un inferno la vita di chi in valle ci vive (vedi le famose “madamin” di Torino). Idem per la variante di valico e l’alta velocità tra Bologna e Firenze e per mille altre grandi opere. Quel bancario si opporrà al taglio degli alberi solo nel luogo ameno che ha scelto per le ferie estive. Ma già durante le ferie invernali invocherà il taglio degli alberi per far posto agli skilift e alle funivie, in perfetta sintonia con gli imprenditori locali del turismo di massa, e in conflitto con altri abitanti della montagna che magari vorrebbero puntare su un tipo di turismo diverso e meno impattante, o addirittura solo vivere in un bel posto facendo uno dei mille altri lavori che si possono fare al mondo: l’insegnante, il barbiere, la fotografa, il panettiere, la ricercatrice, l’operaio, il medico, aprire una libreria, un negozio di scarpe, suonare il basso in un gruppo punk hardcore… Come in città, del resto, dove non tutti sono bancari.

              • Esatto. Mi sembrava che la trasversalità della cosa fosse acclarata.
                E che la divisione più importante sia sempre quella in classi.

                Mi veniva buono l’esempio proprio pensando alle madamin di Torino e immaginandole magari manifestare per imporre una casa passiva a tutti, magari al pastore che vive tra gli svincoli. Magari sfrattandolo e usando quei terreni per fare un bel parco fotovoltaico con cui alimentare le loro pompe di calore installate con il 110%.
                Però di iperbole in iperbole mi rendo conto di continuare a mettere tacconi peggio del buco.

                E, per inciso, so benissimo che non è che in città fan tutti i bancari. Era appunto un’iperbole.
                Mi spiacerebbe però vedere impiegati, barbieri e insegnanti che, ignari di differenze di classe ben più significative, si “schieranino” metaforicamente dai balconi con le “Madamin” contro il nuovo nemico pubblico un giorno individuato dal mainstream.

            • > Preciso solo che sono ben consapevole della responsabilità, personale e collettiva, che ha chiunque viva nel mondo occidentale, consumi, si sposti e abbia un tetto sopra la testa relativamente allo sponsorizzare e far parte di un sistema di sviluppo.

              Aspetta, col cavolo.

              Si chiama “capitalismo” perché il potere-di-fare-le-cose è di chi ha i capitali.
              E io non ho capitali di alcun tipo.

              E casomai fossimo in una sorta di democrazia, io non voto un partito che superi la soglia di sbarramento da 20 anni, alle varie assemblee nessuno m’ha mai dato credito, i miei amici dicono che ho idee eccentriche e/o desuete, ché il socialismo Ha Fallito Ovunque, e mia suocera dice che ci vorrebbero più bombe contro Putin.

              Io non c’entro un beneamato cazzo.

              Incidentalmente, il-bancario-con-la-macchina-elettrica è quanto di più somigliante a qualcuno che non ha capitali ma riesce ad operare un effetto tangibile, vista l’importanza economica del suo consumo (i 40k che sborsa cominciano ad essere “un piccolo capitale”) e la sua assoluta nocività.
              Fosse il bancario con la Panda FIRE…

  18. “Dopo ogni terremoto violento i mezzi di informazione obbligano tutti a prendere atto delle conseguenze catastrofiche dell’evento: l’elenco del numero di vittime, delle distruzioni, delle lacerazioni del tessuto sociale è posto sotto gli occhi di tutti.
    La prima reazione, ovviamente, fa scattare i meccanismi della solidarietà; successivamente inizia il momento delle polemiche su quanto poteva essere fatto, ma non si è fatto, per prevenire le conseguenze catastrofiche dell’evento. Poi l’emozione si spegne e sul tema del rischio sismico torna il silenzio.”

    Così scrivevano a metà degli anni ’90 due tra i maggiori esperti sul rischio sismico. Lavoro da 30 anni in un ente di ricerca e faccio parte di un laboratorio che ha nel nome “Prevenzione del rischio sismico e idrogeologico”, e le considerazioni dopo un disastro sono sempre le stesse. Possiamo avere le conoscenze più approfondite, i modelli più raffinati e le tecnologie più avanzate ma finché non si inizierà ad affrontare i disastri con un approccio socio-ambientale e a riconoscerli come un problema di sviluppo non risolto, questi continueranno a verificarsi. In questo paese, purtroppo, non esiste una cultura del rischio – che altro non è che l’ingrediente base della tanto decantata resilienza – e questo lo vediamo continuamente sia negli atti dei politici che nei comportamenti delle comunità. Sono almeno trent’anni che non si fa più manutenzione del territorio, sono state le prime spese ad essere state tagliate, e non parlo di grandi interventi ma di quella manutenzione ordinaria e continuata che è la base della prevenzione.
    Ma l’approccio italiano alla prevenzione è ancora quello descritto da Biani qui https://maurobiani.it/wp-content/uploads/2017/08/terremoto-castello-carte.png

    • Ciao Bruno lavoro in un campo diverso dal tuo ma sento altrettanto acutamente il problema gigantesco e folle della manutenzione scomparsa nell’Assurdistan delle spese considerate accettabili e virtuose per il settore pubblico. Vedo letteralmente consumarsi e sbriciolarsi sotto i miei occhi impotenti quel che andrebbe protetto e mantenuto in stato di integrità e funzionalità. Non è una mera questione di territorio e speculazione su di esso: è l’abbandono ovunque e in qualunque settore di una funzione pubblica cui si sarebbe tenuti per legge, perché è la cosa più facile da tagliare quando si cerca «l’equilibrio di bilancio». Si tratta oltretutto di un’attività che richiede alte quantità di lavoro umano ma si sa, guai spendere per pagare chi lavora. E un’altra cosa: il sistematico accorpamento delle strutture dell’amministrazione pubblica, anche lì per tagliare posti di livello medio-alto con relativi stipendi, diminuisce la capacità delle amministrazioni anche solo di monitorare le situazioni e i rischi che si vanno creando. Ma di questa seconda cosa si parla molto meno, eppure essa crea intrecci perversi con il modello di sviluppo, amplificandone gli effetti.
      Mi chiedo se e quanto le differenti situazioni verificatesi a Ferrara rispetto a altre città siano dovute a pura fortuna o a un sia pur parzialmente diverso sviluppo del territorio, anche come infrastrutture – la storia dello scolmatore e del consorzio di bonifica in particolare.
      Come aneddoto poi mi ha molto divertito, si fa per dire, vedere dove erano stati installati i server delle amministrazioni locali di tutta la regione: a due passi da un canale, là dove c’è bel piatto per tirar su un capannone nuovo di zecca in santa pace.

      • Lo stato di marginalità geografica e sociale in cui è rimasta la provincia di Ferrara dal capoluogo fino al Delta è sempre stato vissuto come uno stigma o comunque un grosso problema, ma basta guardarlo da un’altra angolatura e diventa un potenziale, paradossale punto di forza. Quel territorio è uno dei più antropizzati – nel senso di artificiali – del mondo, perché è frutto di estese bonifiche, e al tempo stesso uno dei meno popolosi d’Italia, anche perché terra di emigrazione continua. Soprattutto – con l’ovvia eccezione della riviera, la parte litoranea del comune di Comacchio dove a partire dagli anni Sessanta c’è stata massiccia speculazione a fini turistici – è di gran lunga il meno cementificato dell’Emilia-Romagna e penso dell’intera pianura padana. Oltre il 95% del territorio a est di Ferrara è costituito da campi, corsi d’acqua (canali della bonifica), zone umide (le valli sfuggite alla bonifica) e riserve naturali (come il Bosco della Mesola, 835 ettari). Si tratta però di un territorio sempre in bilico, perché in gran parte sotto il livello del mare, con campi e paesi sovrastati da corsi d’acqua “pensili”, dagli argini altissimi, e l’Adriatico che incombe. Al tempo stesso, è minacciato da grandi opere, come la nuova autostrada Orte-Mestre. In ogni caso – ripeto, esclusi i Lidi – al momento assorbe precipitazioni anche intense senza le devastazioni che invece abbiamo visto nelle province di Ravenna e Forlì-Cesena, tra le più cementificate d’Italia.

        • Aggiungo: il basso ferrarese non è raggiunto da fiumi appenninici – a parte il Reno, che però corre nel vecchio letto del Po di Primaro e quando vi si immette ha già attraversato un lungo tratto di pianura ed è dunque molto “addomesticato” – e non ha uno sprawl urbano che possa essere travolto dall’esondare di quei fiumi. Quindi qualche allagamento ha danneggiato coltivazioni, ma l’acqua non ha spazzato via paesi e quartieri facendo morti e dispersi.
          Una questione è anche come quei fiumi e torrenti appenninici sono stati trattati: spesso “rettificati”, deviati e costretti per far posto a opere umane, con tratti intombati, argini disboscati e spesso addirittura cementificati, costruzioni nelle zone golenali e ripariali ecc.
          Ma se parli di rinaturalizzazioni il sindaco di Ravenna – impegnato in una crociata personale contro «gli ambientalisti» che gli impediscono di tagliare gli alberi e «gli animalisti» che a suo dire lo avrebbero minacciato per proteggere le nutrie dice: – Tu vuoi che si torni a prima delle bonifiche! Che si torni a morire di malaria!
          È la solita catena di non sequitur, il solito mezzuccio del «piano inclinato»: se sei contro il tunnel di TELT in Val Susa allora sei per il ritorno ai carri trainati da muli ecc.
          Tutto questo per negare l’evidenza del consumo di suolo.

          • Mi aggrappo alla storia del “piano inclinato” per fare una postilla al mio altro commento, quello sulle prese di posizione “per il clima” sgangherate.

            Riflettevo che il “piano inclinato” in realtà funziona BENISSIMO anche al contrario, nelle critiche dei più ingenui tra coloro-che-parlano-di-clima col cervello inebriato dai social.

            Più di una volta ho dovuto fare appello alla mia calma per spiegare che, se pretendo di andare a fare una gita fuori porta con la mia moto di vent’anni fa una domenica ogni mese in estate, non sto avvallando un intero modello di sviluppo.

            Per tacere della parte in cui mi becco del “negazionista climatico” se sottolineo come non mi sembri la più efficace fra le idee sostituire a caro prezzo TUTTI i motori del trasporto privato con motori elettrici mantenendo il MEDESIMO modello economico (e mantenendo le medesime ore-motore-persona, VERA quantità che ci interessa, in particolare al netto dell’uso strettamente individuale-ricreativo): quello che ne uscirà resterà comunque insostenibile per un motivo o per l’altro.

            Dopotutto, come esempio estremo, a Cuba hanno un parco macchine degli anni ’50 e 1/10 delle emissioni pro capite americane (che sappiamo essere una misura idiota, ma se iniziano a variare gli ordini di grandezza qualcosa forse ci dice…)

            Il “piano inclinato” e la riduzione di tutta la complessità a dicotomie idiote e/o estetica sembra essere _il_ problema, ma non mi viene in mente una soluzione più intelligente di una serie di sabotaggi mirati alle infrastrutture di telecomunicazione per fare smettere l’internet “cold turkey” a tutta la popolazione per almeno qualche mese.

            Spero che qualche bello spunto mi verrà dalla lettura di “…se no seghe”.

            • Ma guarda che critiche molto dure all’idea di ridurre tutto a una semplice sostituzione del parco macchine passando dal trasporto privato a idrocarburi al trasporto privato elettrico, nell’ambito di un capitalismo presuntamente “verde” e senza investire su un trasporto pubblico universale e gratuito, le esprimono continuamente proprio i movimenti di lotta sul clima, l’ultima volta che l’ho sentita in manifestazione l’ha espressa con grande chiarezza un attivista diciannovenne di Fridays For Future, dal camion alla testa del corteo. Queste critiche sono parte del nocciolo duro della lotta contro il passante di Bologna. Non so con chi tu abbia polemizzato, immagino in rete, ma le sue/loro posizioni non mi sembrano rappresentative dello stato-dell’-arte.

              • L’immagine che sembra si voglia far apparire con certi discorsi su “i giovani” fatti da moltə di noi che della gioventù abbiamo ormai solo ricordi, sembra quella di una massa di cervelli acefali in balia di una specie di sbornia perenne causata “dall’internet”. Che, in un certo modo, siano succubi, solo loro, della tecnologia che utilizzano.

                Quindi una delle soluzioni proposte ai problemi che affliggono il mondo sarebbe il boicottaggio dell’internet e della tecnologia più avanzata in generale. Semplificando al massimo: disconnettersi dalla rete per riconnettersi alla “Natura”.

                Bah!

                Sbattili in “cold turkey” per qualche tempo ( non si capisce quanto) e vedrai che ne usciranno “guariti”, magicamente curati, pronti ad affrontare i veri problemi di questo mondo ladro.

                Una delle cose che non è chiarita però, di questa simil terapia, è chi e/o che cosa esattamente andrebbe a prendere il posto del vuoto lasciato nel momento in cui ci si libererà di questo tipo di tecnologia.

                Ma tant’è.

                Sono convinto che sforzandosi, insieme ai più giovani, forse, possiamo fare di meglio, trovare soluzioni e narrazioni più propositive.

                • @dude:

                  > Che, in un certo modo, siano succubi, solo loro, della tecnologia che utilizzano.

                  No, non “solo loro”, non l’ho mai detto da nessuna parte.

                  E sì, sono assolutamente certo che la quasi interezza della popolazione soprattutto-ma-non-solo italiana sia succube della mano pesantissima della politica editoriale che i padroni impongono con gli algoritmi, per massimizzare l'”engagement”, le “views” e quanto altro già discusso a lungo (rimando anche al recente pezzo di Bukowski su Malanova).

                  Come detto sopra, non ho una soluzione (evidentemente quella dei sabotaggi all’infrastruttura era una battuta).

                  Contrapporre Facebook alla Natura, magari con la N maiuscola, a mio parere però è proprio da matti — o da ignari del fatto che un telefono, un fax, un modem, un computer, una radio si possono utilizzare in tanti modi diversi da quelli che oggi sono di massa, basati sull’addiction e nei casi più benigni e ormai quasi desueti sull'”impression” pubblicitaria.

                  E in effetti _sono_ stati così utilizzati in passato, dalle BBS alle ben diverse meccaniche di Usenet (all’epoca già piena di troll, ma pagata di tasca propria in bolletta e senza algoritmi a controllare e polarizzare l’opinione e il pensiero per massimizzare l’addiction o obbligo di installare interfacce apertamente ostili).

                  Riprendendo a sproposito Mark Fisher, un discorso simile confermerebbe che:

                  “Ormai è più facile immaginare la fine della civiltà industriale che la fine di Facebook.”

              • Tra l’altro gli attivisti in carne e ossa sanno benissimo che anche la filiera delle auto elettriche ha un impatto ambientale pesante, e ad esempio qua a Trieste seguono da vicino le lotte ambientaliste in Serbia contro la Rio Tinto, che ha ottenuto dal governo la concessione per aprire una miniera di Litio che devasterà un’intera vallata. Dipingere le ragazze e i ragazzi che lottano per la giustizia climatica come bamboccioni viziati, sprovveduti e drogati di social è totalmente fuori fuoco, e corrisponde più che altro all’immagine che di loro dà la stampa mainstream, con tutto il codazzo di boomer del facebook dietro.

              • Quello che racconti mi infonde una necessaria dose di serenità, grazie (purché, si intende, invocare il trasporto pubblico e gratuito non prescinda a sua volta da un attacco alle ZTL, al pendolarismo come specialità olimpionica, agli alloggi in estrema periferia e… al capitalismo se non al lavoro stesso, ed eviti di sfociare in ascetismo, Flygskam e condanna del picnic in Vespa).

                Purtroppo ho polemizzato di persona, dentro o “intorno” a circoli e centri sociali, al pub.
                Ero un bulimico utente di Usenet e BBS, ma ormai Interagisco elettronicamente in 3-4 posti oltre a Giap.

                Peraltro, è proprio il fatto che nelle discussioni di persona sento distintamente l’eco dei modi di interazione sui social che mi rende scoraggiato e diffidente verso tutti.

                Immagino che lo stato-dell’-arte, inteso come massimo sviluppo teorico pratico delle lotte e quindi per definizione “punta” della piramide, non sia quello descritto, ma un “controllo a campione” mi manifesta perlomeno l’esistenza, abbondante, di persone che si sentono e si descrivono impegnate in temi simili ma poi l’analisi e la prassi vanno a catafascio.

                Il mio campione certamente non è numeroso né può presupporre uniforme, ma inevitabilmente qualcosa mi suggerisce anche sulla distribuzione della “massa”: speriamo bene.

                A margine, anche in altri tipi di lotte vedo gli stessi meccanismi, non solo tra simpatizzanti e frequentatori di circoli, ma anche negli slogan e negli striscioni di chi, presumibilmente con un minimo di ragionamento, organizza (screma screma, un collettivo femminista assai attivo da queste parti invoca sostanzialmente “più donne imprenditrici e manager” nei loro stampati).

                • […] la quasi interezza della popolazione soprattutto-ma-non-solo italiana…succube della mano pesantissima della politica editoriale che i padroni impongono con gli algoritmi, per massimizzare l’”engagement”, le “views” e quanto altro già discusso a lungo».

                  Lo stesso si può dire delle credenze religiose di una larghissima parte della popolazione adulta sia italiana che mondiale. È rarissimo però sentire criticare l’approccio prettamente religioso alla fine del mondo, quello apocalittico originario delle sacre scritture, che occupa i pensieri di chi é nato nell’era analogica.

                  Per farla breve, un uso diverso di certe specifiche tecnologie é indubbiamente auspicabile. A patto che dietro certi auspici non si nasconda, magari inconsapevolmente, il desiderio di levare dalle mani dei “giovani” i telefonini per ri-metterci la zappa…o la pala…nulla togliendo alle proprietà pedagogiche del giardinaggio!

                  • Mi perdonerai, ma trovo di difficile comprensione il tuo commento :-)

                    Non capisco il discorso escatologico del primo paragrafo da dove prenda le mosse, ne a dove tenda (limite mio).

                    Non ho nessun problema ad ammettere invece la mia urgenza di togliere dalle mani dei giovani (e degli adulti, e degli animali da compagnia…) i “telefonini” intesi come smartphone, che nulla hanno a che fare col telefonino personale quale dispositivo dalla notevole funzione emancipatrice.

                    Riassumendo: lo smartphone inteso nella sua forma reperibile in qualsiasi megastore è un autentico guinzaglio elettronico che permette al padrone di comandare a bacchetta la mente di torme di del malcapitati portatori, tipo formiche zombie, 24 ore al giorno, attraverso tattiche ampiamente studiate e incarnate nelle cosiddette “app” – vale a dire programmi per calcolatore addictive by design ed abbinati ad un “servizio” (servizio si intende reso ad altri, e non al portatore dell’apparecchio).

                    La sua funzione di “guinzaglio mentale” è così potente che non ne posso rinvenire il potenziale emancipante del ciclostile, del fax, delle BBS, del “vecchio” cellulare o computer, degli “smartphone” dei primi anni 2000, che pure portavano seco esternalità negative pesanti (come tutti i prodotti del capitalismo).

                    Comunque stiamo divagando a manèlla, quindi qui mi fermo.

                  • Nel film zombie “The dead don’t die” di Jim Jarmusch, in cui l’apocalisse zombie è causata dal fracking per estrarre petrolio, gli zombie escono dalle tombe e vanno a saccheggiare i negozi di telefonini. Li vedi aggirarsi tra le rovine di Center Town alla ricerca di wi-fi. Sono zombie boomer, uno di loro è Iggy Pop, che oltre al wi-fi vuole anche una tazza di caffè al drugstore. Gli unici che si salvano dall’apocalisse sono i ragazzini del riformatorio, che riescono a scappare nel bosco. E il vecchio barbone Tom Waits. E l’aliena Tilda Swinton, esperta di arti marziali e abilissima nell’uso della katana.

  19. Finora si era soprattutto ragionato sull’innalzamento del livello del mare come conseguenza del cambiamento climatico. Per quanto riguarda questa regione, i geologi e gli oceanografi prevedono che nel giro di un secolo avremo il porto di Ferrara, vale a dire che l’Adriatico avrà in gran parte ricoperto la Romagna e il ferrarese (noi ne parliamo abbondantemente nel documentario di Armin Ferrari dedicato alla Wu Ming Foundation, “A noi rimane il mondo”). Ma se tra cento anni noi non ci saremo più e questo inconsciamente sposta in avanti la percezione del problema, le alluvioni sono qui e ora, e prefigurano in maniera plastica, ovvero concretizzano immediatamente il suddetto scenario di terre sommerse. Non in forma di un cambiamento permanente, non già cioè come mutamento della morfologia del litorale, ma come fenomeno stagionale, tipico di climi tropicali o equatoriali.
    Non ci sono solo le acque che risalgono dal mare, ma anche le acque che scendono dalle montagne e che tracimano dai fiumi in piena come conseguenza di alcuni giorni di pioggia forte. E questo è un fenomeno ben meno eccezionale di un terremoto o di una qualunque pandemia. Se un terremoto è imprevedibile e se è probabile che prima o poi capiti un’altra pandemia, non sappiamo però come si presenteranno, di che tipo saranno, ecc.; mentre possiamo essere certi che pioverà di nuovo. Tre o quattro giorni di pioggia dopo un lungo periodo di siccità capiteranno facilmente già il prossimo autunno o la prossima primavera, proprio perché la tropicalizzazione del clima temperato è qui per restare. Ecco allora che il futuro improvvisamente si materializza davanti ai nostri occhi e diventa presente. E ci rendiamo conto che non avere fatto nulla di serio per arginarlo (anche in senso letterale) ci lascia in balia degli elementi atmosferici, alla faccia di tutta la nostra tecnologia e del nostro sviluppo votato al profitto. Ce lo dicono ormai da anni e da più parti che “non c’è più tempo” per rimediare ai danni inflitti al territorio. Ed è precisamente così: più che mettere una pezza in vista dei prossimi acquazzoni cosa potranno mai fare gli amministratori del dato, i governi della “crescita”, inadatti o impossibilitati a mettere in discussione il modello di sviluppo, se non riproporre il “ma anche”, l’illusione puramente retorica che “crescita e sviluppo possono camminare insieme a rispetto e salvaguardia del territorio e dei territori” (Bonaccini dixit)?
    C’è solo da sperare in quello che dice qui nel commentario antonella, cioè che questa sia almeno l’occasione per l’avvio di un ciclo di lotte di nuova generazione (in tutti i sensi).

    • Non aggiungo granché di nuovo, è che non riesco a togliermi un’immagine da davanti agli occhi, arrivata leggendo la citazione di Bonaccini.
      C’è una sorta di bisogno di retorica in qualunque discorso pubblico che pare una dipendenza dura da eroina. O sei chi è stato colpito direttamente da piene e frane che ti hanno lavato le vene (come Mattia e Antonella qua sopra auspicavano), o devi farti al più presto con un qualche discorso che ti ridia pace. Come fosse una sorta di cattiva coscienza rimossa che deve essere zittita, un malessere profondo cui non puoi dare nome e che vuoi solo attutire. Allora vai di angeli del fango, pioggia eccezionale e colpa di quelli di prima. Mi rendo conto che anche questa mia è una visione troppo appiattita, è che non ce la faccio più a sentir parlare per esempio di “territori fragili” quando sono le nostre strade ed edifici ad esserlo, quando lo sono le nostre progettazioni incapaci di una convivenza col territorio. Siamo noi che proiettiamo le nostre fragilità sul territorio. E poi ci facciamo una bella pera di retorica. In Appennino bolognese e credo anche altrove ha risuonato ancora l’adagio “restate a casa” e ho avuto un brivido. Non ne ignoro la sensatezza ma dall’altra non riesco a farmelo andar giù, non riesco più a distinguere gli allarmi dagli allarmismi retorici atti solo a mettere un po’ di polvere sotto il tappeto e un altro po’ nel cucchiaino, pronti per scaldarla e spararsela in vena. Solo oggi un trafiletto di Repubblica diceva “Monterenzio (nel bolognese) spezzato in due, qui si è costruito troppo”. Ricordo che dopo le frane di Ischia di sei mesi fa (non molti) già il giorno dopo ci si chiedeva “ma come è stato costruito qui, eh?” perché la retorica nazionale tollerava lo sguardo di rimprovero verso il sud intrallazzone e poco produttivo, forse pure parassita, mentre nel quadretto di famiglia – come diceva wm1 – gli emilianoromagnoli sono i figlioli modello che fanno pil, anche ora rimboccandosi le maniche e ricostruendo. Ma se anche il figliol prodigo avesse per una volta inciampato, in ogni caso le responsabilità sono sue e del fato, mai di papà capitale.

  20. Intervista a Bonaccini di qualche giorno fa al Corriere online recuperata solo oggi. Tra le altre cose, il presidente afferma:
    1) “non appena cadrà l’ultima goccia di pioggia, avvieremo la conta dei danni e la ricostruzione”;
    2) “abbiamo approvato cinque anni fa una legge regionale sul consumo di suolo a saldo zero”;
    3) “la priorità saranno la rigenerazione e il recupero dell’esistente, niente nuove costruzioni o nuovi quartieri;
    4) “quanto alle casse di espansione, 14 sono funzionanti”.
    Uno viene da Marte, legge, e trova tutto molto logico e sensato. Se però avesse tempo e voglia per soffermarcisi un po’, si chiederebbe: come avverrà la ricostruzione? Nella maniera che Bonaccini non dice, ossia replicando esattamente ciò che era prima. E ammesso che la legge approvata cinque anni fa sia operativa, che significa consumo di suolo a saldo zero? Vuol dire che per ogni metro quadrato di suolo che cementifico devo ripristinare un metro quadrato di suolo impermeabilizzato ad uso agricolo o naturale. Questo principio (che poi è recepito da leggi) impedirà di fare il passante a Bologna? E poi, c’è l’affermazione numero 3 secondo la quale non ci saranno nuove costruzioni. Ma se sai già che non farai nuove costruzioni, che bisogno hai di approvare una legge sul consumo di suolo a saldo zero (o viceversa)? L’affermazione numero 4, infine, fa nascere una domanda spontanea: se con 14 casse di espansione (funzionanti) è successo quello che è successo, quante ce ne vorranno per impedire che quello che è successo succederà ancora? 100? 200?

    PS nella “Tabella di marcia verso un’Europa efficiente nell’impiego delle risorse” (Comunicazione Comm. 571/2011), l’Unione parla di consumo netto di suolo a saldo zero (no net land take). A Stoccarda, ad esempio, lo recepiscono nel senso che se voglio costruire un palazzo nuovo in città, devo liberare dal cemento una uguale quantità di suolo in città. Nella stessa intervista Bonaccini invoca l’applicazione del principio a livello nazionale, per cui un centro commerciale a Rimini magari lo si potrà compensare con lo smantellamento di un parcheggio dismesso in Basilicata, così lo sviluppo di “quel pezzo di terra voluto da Dio” che è l’ER non ne viene compromesso. Se ci pensiamo, è lo stesso meccanismo della famosa neutralità carbonica per cui una multinazionale può appestare 1 milione di persone a Mumbai basta che pianti qualche migliaio di alberi in Nuova Zelanda.

    • La legge regionale del 2017 – frutto di un compromesso al ribasso con le lobby dell’edilizia che hanno in mano la regione – lasciava ampio spazio a ogni sorta di gabole, di proroghe, di svicolamenti, di aggiustamenti, e il risultato si è visto. Consiglio quest’articolo di Franz Baraggino:

      https://www.ilfattoquotidiano.it/2023/05/21/emilia-romagna-la-legge-di-bonaccini-sul-consumo-di-suolo-tra-proroghe-e-interessi-privati-lurbanista-cosi-si-e-continuato-a-costruire/7167746/

    • Il meccanismo della neutralità carbonica suona allettante ai più precisamente per una perdita di prospettiva materialistica in favore di una estetica, da filosofia delle Giovani Marmotte che: “così ci stiamo prendendo cura della nostra Terra”.

      Ma non c’è una “nostra Terra” (nel senso: tanto mia quanto di Elon Musk), e certamente non ha bisogno di noi.
      C’è invece il peggioramento o meno delle condizioni materiali di alcuni (e non di altri), e guarda un po’, questi alcuni finiscono con l’essere… i poveri.

      C’è un’analogia con lo slancio per salvare gli animali “carini”, che stanno bene in cartolina, anche quando non importanti come certi cugini “brutti”.

      Peraltro il “prendersi cura della nostra Terra” proprio per questo motivo difficilmente può causare una vera mobilitazione, che vada oltre il comprare il detersivo “sostenibile” che pianta gli alberi a Mumbai: alla maggior parte delle persone la Terra interessa soprattutto in quanto fonte di sostentamento e alloggio, e solo secondariamente come cartolina.

      Anche legittimamente.

      P.s.: Il pezzo di Alex Giuzio andava benissimo, ma poi si chiude anch’esso con l’auspicio di “abbandonare i combustibili fossili” (ahimè insostituibili in molti contesti, i cui benefici superano financo le esternalità in molti casi e che proprio per questo vanno conservati) anziché abbandonare per primo il modello che brucia esponenzialmente risorse a casaccio per la “rat race” tra miliardari.

      C’è anche qui spesso una puzza di “estetica” da individuare e contenere con massima urgenza — l’estetica delle città algide e pulite visitate dall’equipaggio di Star Trek, che vanno a motori che ronzano silenziosi e “non inquinano”, a differenza del vecchio e puzzolente motore a combustione — lo sanno del resto le case costruttrici, basta vedere la reclàme dell’ultimo SUV con i suoi 100000 kWhr di energia incorporata nella sola costruzione (per tacere dello smaltimento).

      Situazione simile l’abbiamo già vista con la crociata contro la carta (che “abbatte gli alberi”) a favore di mostruosità digitali “pulite” e “paperless”, e non è andata benissimo (https://www.lowtechmagazine.com/2009/06/embodied-energy-of-digital-technology.html)

      • A me questa sembra una rappresentazione caricaturale della questione delle lotte contro le emissioni di CO2. Si ricade sempre sull’esempio della macchina spetezzante del muratore vs la macchina “pulita” del bancario. Ma chi la mette in questi termini sono quelli di Repubblica o del Guardian. Sul campo, in strada, come già detto da WM1, la questione del trasporto è sempre posta dai movimenti come non separabile da quella del trasporto pubblico e gratuito. Dopodiché una grande nave da crociera di quelle che ogni cazzo di giorno attraccano qua a Trieste inquina come una piccola città, perché *è* una piccola città. 7-8000 passeggeri con l’aria condizionata in cabina, shopping center, ristoranti, discoteche, piscine, casinò e taconère, tutto alimentato a nafta. Per non parlare della merda (in senso letterale) che sversano a mare. Bon, per quanto mi riguarda quella roba andrebbe affondata a cannonate. Non dovrebbe più esistere. Invece le amministrazioni si affrettano a svendere ulteriori pezzi di territorio per favorire il business degli armatori (magari presentando i loro progetti come green…). Altro esempio: non era più umanamente sostenibile per gli abitanti di Servola (e nemmeno per gli operai della ferriera, in verità) ritrovarsi due cm di fuligine ogni mattina sul davanzale. Quegli altoforni non potevano continuare a funzionare in quel modo. Altro esempio ancora: chi si ritroverà un rigassificatore nel cortile, in periferia sud, ha le balle che gli girano a elica. Altro che sindrome NIMBY. Qua la questione è AIMY (always in my backward e mai nel salotto dei riccastri con la villa in costiera). E così capita che i movimenti come FFF sul territorio possano convergere con un comitato di fabbrica come quello fiorentino di GKN, oppure coi comitati di rione, messi su da gente incazzata per il fatto di dover vivere in un ambiente malsano (è capitato a Domio, davanti ai depositi SIOT presidiati dall’esercito). E così via. Ci sono più cose in cielo e in terra di quante ne possa immaginare la nostra filosofia.

        • Purtroppo il Grauniad e Petalopubblica non sono un mero avamposto, sono un bastione.

          Circa “le lotte” mi sono espresso altrove, anche nello specifico del trasporto pubblico gratuito e capillare (una necessità assoluta e ovvia, ma una posizione tutto sommato arretrata rispetto a ragionamenti sulle forme dell’urbanizzazione, del lavoro e… sulla necessità del lavoro stesso).

          È importante anche come arriva il messaggio al di fuori del “cuore” delle lotte, però.
          Se gran maggioranza della fetta di cittadinanza che potrebbe essere ben disposta finisce col capir pan per polenta, non ne usciremo mai.

          Quello che sto dicendo è che un certo tipo di _estetica_ (bello-pulito-carino vs. sporco-brutto-appiccicoso) la vediamo declinata in tantissimi modi, _dappertutto_.
          Si presenta OGGETTIVAMENTE e TESTUALMENTE anche in un pezzo linkato qui sotto.
          Essa è a mio avviso un pericolo estremamente significativo, forse il maggiore da affrontare per chiunque voglia fare un discorso vagamente ecosocialista, e serve fare l’esercizio di individuarlo sotto tutte le spoglie possibili.

          A margine, diciamocelo: anche i rigassificatori e le raffinerie hanno una loro utilità.
          Mi piace tantissimo il fatto che se sto male in ospedale abbiano una fornitura di cateteri e l’elisoccorso abbia il gasolio.
          Confesso che non mi dispiace nemmeno potermi spostare a distanze che coi soli piedi sarebbero impensabili, su tratte più o meno impervie.
          Il gioco dovrebbe essere _minimizzare_ le inevitabili esternalità che la tecnologia porta seco e non farle calare dall’alto sulla testa dei poveracci di turni con la violenza.

          Il problema è… boh, se dico “il capitalismo” è monotono?

    • Proprio ieri sera il presidente della regione è intervenuto in una trasmissione del servizio pubblico nazionale per fare una oscena intervista pilotata, ovviamente senza alcun contraddittorio, e con il solito bonacciniano paternalismo perbenismo moralismo ha spiegato agli spettatori che questa catastrofe è il frutto del ” glo – bb- al warming”, sillabato proprio così: con due ” b” per i duri di comprendonio, ha detto che è tutta colpa del global warming e ha spiegato bene, per filo e per segno, un concetto che gli era probabilmente sconosciuto fino a tre giorni prima. Il cemento non c’ entra niente e comunque non è colpa sua. Gli addetti alla comunicazione devono avergli spiegato che bisogna attaccare su più fronti: nutrie, ecoterroristi e global warming. Mica vorrai semplificate tutto così, vero?!
      C’è stata un’ ovazione e nessuno ha fatto vedere le dure proteste dei cittadini incazzati o l’intervento di Davide Daniza Celli che, provocatoriamente, si addossa le colpe del disastro in quanto ambientalista. Al netto del fatto che bisogna proprio ripartire dal motivo per cui il partito verde in Italia conta meno del due di briscola ( grazie ad una legge elettorale che lo vuole alleato del partito del cemento e dell’incapacità congenita dei verdi di dichiararsi anticapitalisti a 360 gradi, quindi contro lo sfruttamento e contro il precariato) al netto di tutto questo, sentire parlare Bonaccini di ricostruzione fa venire gli incubi da svegli. E comunque a Bologna contro il passante eravamo in 30.000. Mi aggrappo a questo ricordo per affrontare il totale appiattimento mediatico del dissenso.

      • Qualcuno dovrebbe fargli notare che il glo-bb-al warming è anch’esso un effetto della cultura del cemento, della ferrari, della plastic valley e dello sviluppismo. Che anche i suoi progetti di innevamento artificiale dell’appennino contribuiscono al glo-bb-al warming, così come il suo passante, il suo tav, i suoi poli logistici. E che solo lui (e gli hater dei wuming sul twitter) ritengono che parlare di cementificazione significa negare il glo-bb-al warming (tra l’altro i cementifici sono autorizzati a bruciare rifiuti speciali e a schiaffare le ceneri nel cemento, come raccontavamo su alpinismo molotov, e magari si beccano anche i contributi green per questa attività).

        Anzi no, nessuno dovrebbe fargli notare niente, sarebbe del tutto inutile

        • Proprio così. La foga di salvarsi fa commettere degli errori a Bonaccini. Quando, non so se per ignoranza o per malafede ma un’idea ce l’ho, confonde causa ed effetto, non si rende conto che aggrava la sua situazione. Perché da uno che dice che le conseguenze di quanto accaduto sono da ascrivere al riscaldamento globale non ci si può aspettare alcun cambiamento di rotta. Ci sta dicendo che continuerà con la sua politica esattamente come se nulla fosse successo, perché la politica non c’entra niente (nel bene e nel male). Sta consolidando le basi per le future devastazioni e ce lo sta dicendo esplicitamente, senza alcuna soggezione né imbarazzo. Si tratta davvero di “incubi da svegli”. In un paese diverso dal nostro verrebbe inchiodato alle sue parole, invece, ha dalla sua una perfetta macchina mediatica, che oggi è al servizio di Bonaccini, domani di qualcun altro.

          • Rientra pienamente in questo quadro la narrazione scattata fin da subito e divenuta onnipervasiva soprattutto nei media locali: quella basata sulla similitudine tra le alluvioni di oggi e il terremoto in Emilia del 2012. Narrazione che non ha contestato quasi nessuno, ma che è tossica da qualunque parte la si guardi. Una classe dirigente non ha responsabilità di un evento tellurico. Casomai ce l’ha di come viene gestito il territorio dopo, di come viene impostata e realizzata (o non realizzata) la ricostruzione. Nel caso del post-sisma emiliano, la narrazione è trionfalistica, e quanto siamo stati bravi, e quanto siamo stati fighi ecc. Attivare il frame discorsivo «l’alluvione come il terremoto» serve a dire: «son cose che capitano e prima non ci si può far niente» (falsissimo, perché questo disastro ha colpe precise e individuabili) e «ne usciremo da fighi quali siamo». Come ne usciremo? Ovvio: «ricostruendo tutto», quando sta proprio nell’aver costruito troppo uno dei principali problemi..

            • Oltre ad essere tossica, questa impostazione narrativa è smaccatamente guerrafondaia e fà l’occhiolino al negazionismo climatico.

              Si tratta di “Global Warming” manco fosse un’entità aliena, separata dalla specie umana, un nemico che ci assedia e ogni tanto sferra un attacco. Per combatterlo servirebbe semplicemente determinazione, energia, preferibilmente energia di origine fossile e tanta ma tanta pila; chi dice il contrario é il nemico, mio e della civiltà come la conosciamo.

              Dire che il GW non esiste o sostenere che esiste ma non ci possiamo fare nulla se non applicando le stesse soluzioni che hanno contribuito ad accellerarlo, dal lato pratico, é la stessa identica cosa.

              Sono entrambi discorsi da maschio, bianco e suprematista.

              Mera consolazione è la consapevolezza, che ogni tanto viene a disturbare il sonno vigile della maggioranza, che tutto questo sia ormai in fase di estinzione.

              • Scusa, mo’ io sono un maschio e sono pure bianco oltre che bellissimo, ma in che modo “combattere il global uorming con tanta pila” dovrebbe essere un discorso che mi pertiene in modo specifico (piuttosto che boh, a un maschio nero, o a una donna bianca, o a un carlino)?

                Ragionamenti del genere, che pensavo fossero provincia dei college americani, mi ricordano quel meme tratto da It’s Always Sunny in Philadelphia che cita a sua volta A Beautiful Mind.

                Senza offesa, ma roba del genere non può che allontanare chiunque abbia un po’ di sale in zucca e, cosa ancora più grave, gettarlo tra le braccia di figuri poco raccomandabili.

                Sovviene Marco Rizzo, che ormai è ospite fisso a Rete 4 e ha fatto all in sul negare l’evidenza dei mutamenti climatici antropogenici (e non già inquadrarli in un contesto marxista), e di questo passo supera pure la soglia di sbarramento al prossimo giro.

                • Mi sono tenuto volutamente alla larga da questo argomento per evitare fraintendimenti (alla fine finisco sempre per dire la cosa sbagliata da una parte, e poi correggere sbagliando dall’altra)
                  :-))
                  però la questione “Marco Rizzo o simili” e i neo-negazionisti climatici mi sembra importante e ci vedo un grosso rischio causato proprio dalle narrazioni alla Bonaccini.

                  Cioè, cerco di spiegare: ormai è talmente evidente che il modo in cui si fronteggerà l’emergenza climatica rischia di essere narrato, governato, guidato e “profittato” sempre dagli stessi padroni del vapore che ci hanno portato fin qui (e che erano negazionisti fino a un’ora fa) e sempre sulla pelle degli stessi che erano vittime del capitalismo anche prima, che sta emergendo una sorta di negazionismo di ritorno proprio fra le frange della popolazione che dovrebbero o potrebbero essere più critiche col “sistema”.

                  In questo contesto, ed esattamente come nella pandemia, si rischia che le voci più razionali, magari proprio di chi di ambiente, di riscaldamento climatico e di legame con questo sistema di sviluppo parla da trent’anni, finiscano schiacciate ai margini e inascoltate fra
                  da una parte, i padroni del vapore e i relativi Media di regime (la “bocca di Sauron” li aveva chiamati un tizio una volta) impegnati a creare alibi e proporre soluzioni ai problemi da loro stessi creati e a calarle dall’alto, senza trascurare di massimizzarne sempre e comunque il profitto,
                  e dall’altra una pseudo-controinformazione farlocca, carica di negazionismi e paranoie, molto più seducente perché permette di rifugiarsi nel rigettare tout court le pillole anche amare che saranno necessarie anche perché sarà evidente che la pillola, utile o no, viene proprio da chi ha creato il problema.

                  • Cercammo di mettere in guardia da questo rischio – che s’intravedeva già come ben più di un rischio – nel settembre del 2020, nella premessa a questo post su come raccontare il cambiamento climatico.

                  • Lo Stato di Emergenza perenne serve a far adottare provvedimenti toltamente impopolari come la realizzazione di un rigassificatore galleggiante MADE AND FROM USA, con costi per la collettività triplicati che vanno a incidere sulle bollette dei cittadini. Tutto questo senza neanche presentare le autorizzazioni ambientali (VAS e VIA) e paesaggistiche necessarie, che in uno stato non emergenziale tutte le aziende italiane devono avere per aprire una qualsiasi attività.
                    Gli Stati Uniti d’America hanno utilizzato la Guerra al Gas/Ucraiana per estendere la loro sfera di influenza energetica e geopolotica, dando al governo italiano il compito di inserire nei Decreti Legge, la dicitura “opera di interesse nazionale”, risultando tutto fluido e naturale a livello giuridico, come una supposta.

                    https://ilmanifesto.it/decreto-alluvione-governo-a-tutto-rigassificatore

                • Rinoceronte, non sapevo con certezza fossi maschio e neppure che fossi bianco. Ma dato che me lo confermi tu stesso, mi dispiace un poco insistere e contraddirti ma della pila in continuo accumulo a causa della violenza imposta dal suprematismo di cui sopra, stai beneficiando, volente o nolente pure tu. Insieme a milioni di altri esseri umani, maschi, bianchi e privilegiati. Il fatto che dei loro privilegi questi esseri viventi non siano pienamente coscienti é, questa si, una tragedia.

                  Quello che do qui è un dato, che magari tarda ad “arrivare” ma pur sempre un dato. Non una qualche forma di «ragionamento [di] genere». Anche se il “genere” c’entra, anche quello, eccome se c’entra. Così come centra il discorso sulle razze. Ma qui andremmo OT.

                  É un fatto storico, studiato e analizzato, questo si, in atenei universitari in America, certamente, ma anche in Italia, Roma, Milano, Bologna etc.

                  Così come è un dato di fatto l’atteggiamento di scherno nei confronti di «certi ragionamenti» che a volte salgono a galla, anche su blog come questo, da parte di una larga fetta della cosiddetta “sinistra” che vuole essere alternativa.

                  • Sono semplicemente incapace di seguire il filo logico del tuo ragionamento Bonaccini -> ricostruire -> pila -> maschi -> bianchi -> supremazia -> beneficiare, e pertanto faccio fatica a risponderti nel merito.

                    Non capisco nemmeno quali siano implicazioni e quali coimplicazioni.

                    Posso solo immaginare che parte del filo logico stia a significare che “i bianchi” stiano ancora tutti godendo delle guerre imperialiste passate e future, compresi quelli “poveri” (peccato che la povertà sia una condizione innanzitutto sociale, altrimenti sarebbe proprio vero che “i comunisti ci vogliono tutti poveri”, come amava ripetere un uomo politico e imprenditore), e che quindi stanno godendo anche degli appalti del PNRR e via dicendo.

                    Credo tuttavia che il mio estratto conto perennemente ai confini del rosso dovrebbe essere bastevole a qualificarmi come non beneficiario di alcunché, a differenza di un’infinità di donne (che compongono le famiglie della classe dirigente-borghese circa al 50%) e uomini non particolarmente bianchi.

                    La chiudo qui perchè non riesco semplicemente a trovare un appiglio per fare un discorso costruttivo.

                    Mi chiedo solo, a margine, che risposta effettiva si possa guadagnare con un discorso del genere, anche qualora fosse “vero” — a parte, si intende:

                    “Vabbè ma se io in quanto bianco e maschio sono Confindustria allora la rivoluzione fatevela da soli”.

                    Se è questo che vogliamo…

  21. Qui su Giap cerchiamo di inserire quello che è successo in un contesto piu ampio, discutendo sul ruolo che ha il modello di sviluppo nei cambiamenti climatici. Poi scendiamo in po’ più giù discutendo su come la politica nazionale e locale contribuisca allo scempio con le sue scelte. Il capitale invece non discute, e anche nella tragedia applica e sfrutta la sua vera, grande capacità, che è quella straordinaria reattività che gli consente di cogliere al volo le opportunità e volgere le situazioni impreviste a suo favore. Ecco allora che il Corriere della sera si affretta a dare spazio all’ANIA, che ci dice, con rammarico, che in Italia solo il 5% delle case è assicurato contro gli eventi estremi. Un dramma al quale bisogna porre rimedio.

  22. Qualcosa è veramente andato in mille pezzi. Se si butta un occhio su qualunque social network la rappresentazione del mondo che si ricava è quella di una contrapposizione tra due schieramenti che sembrano prodotti da un algoritmo di intelligenza artificiale generativa impazzito. Chi appartiene a uno schieramento è vaccinato 6 volte, si sposta su e-bike da 10k euri, si nutre di insetti, e tifa per i nazisti arruolati nell’esercito ucraino. Chi appartiene all’altro schieramento spalma covid ovunque passa, viaggia su vecchie alfetta con la marmitta bucata, si nutre di lardo lardellato e tifa per i nazisti arruolati nell’esercito russo.

    Poi per fortuna c’è il mondo reale, che è un bel casino, è sull’orlo della catastrofe, ma è comunque più vitale e meno assurdo di quello virtuale.

    Chi è abbastanza vecchio ricorderà che gli zapatisti dicevano già 25 anni fa che la lotta per la giustizia climatica e quella per la giustizia sociale sono la stessa lotta. E ricorderà anche che Angela Davis aveva scavato a fondo nel groviglio delle questioni di genere, razza e classe. Se vogliamo passare il testimone alle nuove generazioni, questi (e molti altri) sono gli strumenti che possiamo lasciargli in mano, questo è il meglio che possiamo dargli. Il resto invece faremmo meglio a tenercelo per noi, perché non siamo un bello spettacolo.

  23. Esatto! È proprio così: “lotta per la giustizia climatica e quella per la giustizia sociale sono la stessa lotta.” Per questo “sinistra ” e “verdi” continueranno a perdere. Non hanno più nessuna credibilità e non sono capaci di lottare né per una cosa né per l’altra contemporaneamente e neppure a turno.
    Alluvione = terremoto è come dire: global warming = terremoto, veicolare questa associazione di idee serve a schivare ogni forma di responsabilità politica. Confondere quindi l’ imprevedibilità del terremoto con la gestione della ricostruzione e con l’ impossibilità di prevedere gli effetti del riscaldamento globale, con le cause che lo hanno determinato, serve a usare il riscaldamento globale come feticcio e paravento da agitare per continuare a prendere in giro le persone colpite dall’alluvione e per alimentare il “negazionismo climatico”, mi scuso per l’ espressione fuorviante.
    “da uno che dice che le conseguenze di quanto accaduto sono da ascrivere al riscaldamento globale non ci si può aspettare alcun cambiamento di rotta.”
    Ma la cosa che mi fa soffrire di più è che le fantasie di complotto sono palesemente alimentate dai potenti che, senza scrupoli, le propongono come “spiegazione” della realtà e che i cosiddetti “complottisti” le bevono e le assorbono come “teorie antisistema” fabbricate da loro in maniera originale. E le mie care amiche “complottiste” mi spiegano, con atteggiamento cospiratorio, che il cambiamento climatico non esiste e che ci credono solo gli imbecilli. E di fronte a questo totale scollamento dalla realtà mi sento annientata. Perché il capitalismo è riuscito di nuovo a fare centro e ad autoassolversi, facendo leva sulla disperazione delle persone. Che, a prescindere dall’ alluvione, vivono nel mondo di macerie creato dal capitalismo.

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