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cambiamento climatico

Come prima, più di prima. Quelli che se ne fregano della crisi climatica.

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Il comitato Un altro Appennino è possibile – che riunisce persone e associazioni tra Bologna, Firenze, Pistoia e Modena – ha lanciato ieri una nuova raccolta fondi per ricorrere al Consiglio di Stato contro il progetto della nuova seggiovia Polla – Scaffaiolo sul Corno alle Scale.

La regione Emilia – Romagna e il comune di Lizzano in Belvedere continuano infatti a sostenere l’investimento di almeno 8 milioni di euro in un impianto di risalita a bassa quota (neanche 1800 metri sul livello del mare), su un crinale battuto da forti raffiche di vento, in un comprensorio che l’anno scorso, per le alte temperature, non è riuscito nemmeno a sparare la neve prima di fine gennaio. Un comprensorio in perdita, che si regge solo grazie al denaro pubblico, usato per pagare un enorme spreco di energia e di acqua.

Per aggirare queste critiche, i proponenti sostengono che la seggiovia funzionerà anche d’estate, con una capacità di 1800 persone all’ora, e con biciclette al seguito. In totale, a pieno carico, sarebbero 15000 esseri umani riversati sul crinale e sulle sponde del lago Scaffaiolo. Un territorio fragile, che d’estate è già molto frequentato, visto che lo si raggiunge con una camminata di un paio d’ore, su strada forestale. Prosegui la lettura ›

L’Emilia-Romagna: da illusorio «modello» a «hotspot della crisi climatica». Quale futuro immaginare?

22 luglio 2023, traliccio abbattuto dalla tempesta «downburst» nel Ravennate. Foto tratta da meteoweb.eu.

Pochi giorni fa si è svolto a Cesena il convegno di Energia Popolare, la «non-corrente» (sic) bonacciniana del Partito Democratico. Tra gli ospiti Romano Prodi, che ha parlato della necessità, da parte del PD, di un «radicalismo dolce». Numerosi gli articoli e i servizi tv – per non dire delle photo opportunities su Facebook e Instagram – dedicati a quest’ennesimo pseudoevento politicante, ovviamente svoltosi in una sala con l’aria condizionata.

Mentre i notabili di Bonaccini – tutti con curriculum ominosi: alfieri della cementificazione, difensori di un’economia ecocida, favorevoli ai rigassificatori e quant’altro – se la cantavano e se l’applaudivano, nel mondo si batteva ogni record di temperatura e aumentava la frequenza di fenomeni estremi e disastri. L’Europa cuoceva a fuoco rapido. Le foreste canadesi bruciavano da mesi. Il fumo faceva tossire persone a migliaia di chilometri di distanza.

In capo a poche ore, sulla stessa Romagna che ospitava il convegno si sarebbe abbattuta, di nuovo, la furia degli elementi. Ma l’aria condizionata dà sollievo, aiuta a non pensare, a continuare col tran tran anche se fuori, letteralmente, si crepa di caldo e le città sono sempre più roventi… anche a causa dei condizionatori. Prosegui la lettura ›

Fanghi velenosi e narrazioni tossiche: sulle alluvioni in Emilia-Romagna

Provincia di Ravenna, 2 maggio 2023. In un punto tra Conselice e Massa Lombarda, il Sillaro rompe l’argine. In tutte le immagini, quest’ultimo appare pulitissimo, disboscato e sfalciato (cfr. il paragrafo 4 di questo articolo).

di Wu Ming

INDICE

1. Cementificazione: negare l’evidenza
2. Dare la colpa ad «ambientalisti» e «animalisti»
3. Vivere su una terra di cui non si sa niente
4. Denudare gli argini: l’eccidio della flora ripariale in Emilia-Romagna
5. Paradosso di una «ciclovia»: eliminare il verde per essere green
6. Le trappole dell’eccezionalismo
7. Bona lé tirare in ballo il terremoto del 2012
8. Il suprematismo emiliano-romagnolo ha rotto i maroni
9. Der Kommissar

«Le acque stan via anni e mesi, poi tornano ai loro paesi.»
«L’acqua rosica anche il ferro.»
(Proverbi delle terre del Delta padano)

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Non è «maltempo», è malterritorio. Le colpe del disastro in Emilia-Romagna

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malterritorio romagnolo

La narrazione che imperversa sulle alluvioni in Emilia-Romagna è  tossica e nasconde le responsabilità reali. Responsabilità che non sono del «meteo». E nemmeno, genericamente, del «clima», termine usato da amministratori e giornalisti più o meno come sinonimo di «sfiga».

Le piogge di questi giorni stupiscono, sembrano più eccezionali di quanto non siano, perché arrivano dopo un inverno e un inizio di primavera segnati da una protratta, inquietante siccità. E di per sé non sarebbero affatto «maltempo», concetto fuorviante, deresponsabilizzante e dannoso. Come diceva John Ruskin, «non esiste maltempo, solo diversi tipi di buontempo». A essere mala è la situazione che il tempo trova.

Veniamo da lunghi mesi a becco asciutto: montagne senza neve, torrenti e fiumi tragicamente in secca, vegetazione e fauna in grave sofferenza, contadini disperati, prospettive cupe per l’estate prossima ventura (già quella scorsa è stata durissima)… In teoria, le piogge dovremmo accoglierle con giubilo. Prosegui la lettura ›

Di nuovo in marcia: Alpinismo Molotov, il territorio aggredito, i sollevamenti della terra

I sollevamenti della terra, manifesto.

Dal 2014 il logo di Alpinismo Molotov mostra il profilo di una montagna dentro una bottiglia incendiaria con lo stoppaccio pronto a essere acceso.

Oggi andare in montagna vuol dire questo: attraversare un territorio infiammato e febbricitante, un paesaggio in pieno sconvolgimento. Il surriscaldamento causa siccità, provoca crolli e stragi e appicca incendi quasi indomabili.

Tutto questo ha ripercussioni atroci in pianura. La Marmolada che viene giù e l’Adriatico che risale il Po in secca – l’acqua salata ha già raggiunto Taglio di Po, tra pochi giorni arriverà a Bottrighe – sono due immagini della stessa crisi.

Il territorio si trasforma rapidissimo, mostrandosi sempre più fragile. Eppure il capitalismo non smette di aggredirlo. In montagna lo fa con nuovi trafori, nuovi impianti di risalita, nuove colate di asfalto e cemento, nuove cattedrali nel deserto di roccia, nuovi «grandi eventi».

Un tempo «andare in montagna» volle dire unirsi alla guerra partigiana. Anche oggi per noi l’andare in montagna è legato al conflitto. Rifiutiamo una pratica alpinistica ed escursionistica presuntamente “pacificata”. Siamo dentro una bottiglia incendiaria, e si va in montagna per esserne sempre più consapevoli. Consapevoli che il nemico, l’invasor, è il capitalismo.

Dopo un rallentamento post-pandemico, Alpinismo Molotov annuncia la propria ripartenza. Lo fa sul suo blog, riprendendo i fili di molti discorsi e comunicando la propria adesione a «I sollevamenti della terra», la marcia contro le grandi opere che nei giorni dal 2 all’11 settembre attraverserà il territorio bolognese, dalla Bassa al Corno alle Scale (quota 1945).

Oltre alla marcia, ci saranno altre camminate a tema organizzate direttamente da AM, che le annuncerà e spiegherà nei prossimi giorni e settimane. Il blog torna in piena attività, ci si rimette in cammino. Buona lettura.

A proposito del Po in secca, dell’«emergenza idrica» e di come raccontare quel che sta accadendo

Questa foto è del 2017.

Ci investe l’ennesima ondata di immagini del Po in secca, e ogni volta i media fingono stupore. Si parla di «emergenza idrica», ma l’espressione evoca uno stato di improvvisa eccezionalità ed è perciò falsante, sottilmente eufemistica e diversiva.

Ricordiamo che il futuro del Po, del suo delta, delle terre che circondano il suo corso tra Emilia e Veneto è proprio il tema del progetto Blues per le terre nuove, che Wu Ming 1 ha descritto qui.

Ricordiamo l’apparente paradosso di quel territorio: la siccità, insieme alla subsidenza del suolo e ad altre dinamiche in corso, agevola l’ingresso dell’Adriatico, che nel frattempo si innalza per lo sciogliersi dei ghiacci polari. La mancanza d’acqua prefigura un mondo sommerso. Di questo non parla nessuno. Riportiamo alcuni stralci del testo linkato sopra:

«L’Adriatico reclama già la costa. Ogni tanto divora decine di metri di spiaggia in un sol colpo irrompendo negli stabilimenti balneari. Lo fa sempre più spesso. In una di quelle occasioni, nell’inverno 2018, sul quotidiano La Nuova Ferrara ho letto l’ossimoro “fenomeni eccezionali sempre più ricorrenti”.

L’Adriatico reclama i corsi dei fiumi. Il Po è indebolito dalla siccità, dalla scomparsa dei ghiacciai e nevai alpini, dall’incuria… Durante l’estate il mare è più alto e più forte, e risale il fiume per chilometri e chilometri, creando problemi all’agricoltura – con quell’acqua non puoi irrigare i campi – e pericoli per la falda potabile. Nel 2017 l’intrusione ha toccato i diciotto chilometri, superando l’asta della Romea. Il record risale però al 2006, quando l’ingressione fu di trenta chilometri e mandò in tilt l’acquedotto di Taglio di Po. Dai rubinetti usciva acqua salata. Prosegui la lettura ›

Non basta tornare a parlare di clima, conta il come torniamo a parlarne. Primi appunti (post-pandemia e dal Delta padano)

La ricerca degli iconemi. Una delle cornici-capitolo della presentazione multimediale «Blues per le terre nuove».

PREMESSA: UN PERICOLO, DUE EMERGENZE, UN RISCHIO

Il testo che segue è stato scritto nell’estate 2020, durante la prima “tregua” concessa dall’emergenza pandemica, e pubblicato nell’ottobre successivo come saggio introduttivo a Quando qui sarà tornato il mare, romanzo «a mosaico» scritto dal gruppo Moira Dal Sito.

Il libro – risultato di un laboratorio su crisi climatica e scrittura collettiva che ho tenuto nel Basso Ferrarese – è arrivato in libreria in un momento sfortunato, mentre l’angoscia riscendeva le pareti del pozzo e, dopo le parziali riaperture estive, si tornava a chiudere tutto. Ogni attenzione era sui numeri della «seconda ondata» e  qualunque altro discorso era destinato a infrangersi contro l’Emergenza. Non è stato possibile organizzare presentazioni e l’esperimento – parte del progetto Blues per le terre nuove – ha attirato poca attenzione.

Ora la questione climatica è tornata in primo piano e ripartono le mobilitazioni sul tema, che è il tema dei temi, perché noi viviamo nel clima. Il clima è sempre stato la precondizione di ogni attività umana, di ogni modo di produzione, di ogni civiltà e società.

Forse è un buon momento per proporre quel testo su Giap, e riprendere i fili di Blues per le terre nuove.

Blues per le terre nuove è un progetto la cui fase preliminare è partita nel 2017 e che mi terrà impegnato ancora per diversi anni, probabilmente per tutti gli anni Venti. È imperniato sulla storia e la geografia del grande Delta del Po, in particolare del Basso Ferrarese, e sui modi in cui i cambiamenti climatici permettono di rivisitare tale storia. Quei territori, infatti, sono destinati a essere sommersi – con un’ingressione dell’Adriatico fino a trenta chilometri dalla costa – da qui alla fine del secolo. Dove la terra fu strappata all’acqua in secoli di bonifiche e ingegnerizzazione del territorio, l’acqua tornerà a regolare i conti.

Blues per le terre nuove è partito come idea per un libro, un «oggetto narrativo non-identificato» a tema geografico, sulla scia di Point Lenana e Un viaggio che non promettiamo breve. Nel tempo, però, si è trasformato in un progetto più articolato e transmediale, fatto di performances, esplorazioni, reportages, laboratori di scrittura, autoproduzioni letterarie e audiovisive… e opere «di avvicinamento» al libro vero e proprio, che includono anche un sequel de La macchina del vento.

Si tratta di lavorare sullo sguardo di chi scrive, forzarlo, usare la letteratura per sperimentare diversi modi di raccontare la crisi climatica. Raccontarla partendo dal territorio e dalla storia dei conflitti che lo hanno plasmato e strutturato. Un approccio che combatta rimozioni e diversivi, faccia a meno del fatalismo, non si esaurisca nella distopia, dia profondità di campo connettendo tra loro le epoche, e soprattutto tenga i piedi sulla strada. Anche con l’acqua già alle ginocchia. Un contributo peculiare – quello che sempre può dare la letteratura, persino quella che sembra art pour l’art – alla lotta generale.

Lotta che, non facciamoci illusioni, si farà più difficile. Prosegui la lettura ›