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INDICE
0. Introduzione
1. Due aggressioni emblematiche
2. Reti arancione, comincia l’invasione
3. Arboricidio (la somma non fa il totale)
4. Offensiva d’asfalto
5. La «guerra alle emissioni» non avrà luogo
6. Medaglia di platino al valore
7. No Passante Trek – Parte seconda
«Ogni albero ha il suo nemico, pochi hanno un avvocato.»
J.R.R. Tolkien
Nei primi mesi di quest’anno, Bologna e l’Emilia-Romagna sono state spesso sulle prime pagine dei quotidiani nazionali, per via del duello tra il presidente della Regione Stefano Bonaccini e la vicepresidente Elly Schlein. In gioco, la carica di segretario del Partito Democratico. Molto inchiostro s’è versato per rimarcare le differenze tra i due, e la vittoria della candidata più giovane ha rinfocolato le speranze in una svolta ambientalista del PD.
Come abbiamo già scritto altre volte, si tratta di una fiducia mal riposta.
L’Emilia-Romagna e il suo capoluogo sono terra di industrie e di interessi economici che marciano compatti in direzione opposta rispetto alla tutela degli ecosistemi, alla riduzione del riscaldamento globale, al tentativo di fermare lo stravolgimento del clima.
Si va dalla Motor valley di Lamborghini, Ferrari, Maserati e Ducati alla Packaging valley degli imballaggi di plastica (centinaia di aziende tra Bologna e Reggio Emilia), fino alle innumerevoli death valley degli allevamenti concentrazionari di polli, vacche e maiali.
Il PIL della Regione dipende dagli hub della logistica che divorano suolo da Piacenza a Rimini, dalle cooperative di muratori trasformate in enormi finanziarie del cemento, dalla grande distribuzione di Coop Adriatica, dall’agritortura intensiva del piano padano, dal turismo insostenibile della Riviera e da quello energivoro dello sci d’Appennino.
La classe dirigente emiliano-romagnola viene selezionata per difendere quest’economia. Possono cambiare le retoriche, possono colorarsi di verde le parole, ma non si vedono eccezioni alla regola, comprese le nuove leve, i pesci piccoli, i «civici» coalizzati con la maggioranza, gli antagonisti convertiti al leporismo.
1. Due aggressioni emblematiche
Oggi Bologna è una città all’avanguardia dell’ingiustizia climatica, in particolare con due progetti che non esitiamo a definire criminali: l’allargamento dell’A14/Tangenziale – meglio noto come «il Passante» – e l’incubo ventennale del «più grande comprensorio sciistico del Mediterraneo». Entrambi, al netto di qualche frase o gesto senza conseguenze, procedono nel loro cammino con il benestare delle forze politiche che governano la Regione, la Città Metropolitana e il Comune.
Abbiamo scritto molto intorno a queste due opere, fin dai loro primi vagiti. Non solo perché colpiscono il territorio in cui viviamo, ma anche per la loro carica simbolica: in tutt’Italia è difficile trovare due esempi più spudorati della protervia del capitalismo fossile.
«Largo alle automobili!», gridano i fautori del Passante di Bologna, sostenendo la necessità di espandere fino a diciotto corsie un arco d’asfalto che passa tra caseggiati e campi di granturco, parchi e centri sportivi, scuole dell’infanzia e terreni selvatici.
«Largo allo sci senza neve!», strillano i paladini della nuova seggiovia sul Corno alle Scale, tacendo il fatto che quell’impianto è il primo passo di un’aggressione in stile Godzilla al crinale appenninico tra l’Abetone e il Reno, dove si trovano due parchi regionali e cinque siti della rete Natura 2000.
Due slogan che riecheggiano in tutta la Penisola, ma che a Bologna acquistano un tono più sinistro. L’A14/Tangenziale è un autostrada cittadina, a dieci minuti di bicicletta dalle Due Torri, accanto alle case di migliaia di persone. Se si accetta l’idea che la si possa allargare ancora, dove mai riusciremo a contrastare il culto del trasporto privato, dell’inquinamento, delle malattie cardiovascolari, degli alberi abbattuti, del consumo di terra, delle emissioni che alterano il clima?
Le piste da sci dell’Abetone, della Doganaccia e del Corno alle Scale, che si vorrebbero aggregare in un unico comprensorio, costruendo almeno tre nuovi impianti a fune, si trovano tutte sotto i 2000 metri d’altezza. Nonostante la neve artificiale e i contributi pubblici sopravvivono a fatica, riuscendo a malapena a rendere sciabile quel che già c’è. Se accettiamo che s’investano milioni di euro per ampliare queste stazioni fallimentari, come possiamo fermare la monocultura dello sci da discesa in altri territori?
Non a caso, il 22 ottobre scorso, Bologna ha visto convergere sulla Tangenziale almeno ventimila paia di gambe, arrivate da tutt’Italia, insieme al collettivo di fabbrica della GKN. Una manifestazione che nel progetto del Passante ha riconosciuto il simbolo di un mondo rovesciato, dove il profitto di pochi è più importante della salute di tutti gli esseri viventi.
Non a caso, il 23 febbraio, a Porretta Terme, sotto il Corno alle Scale, si sono riuniti comitati e associazioni di Marche, Lazio, Lombardia ed Emilia-Romagna per un’assemblea dal titolo: «In montagna non nevica più ma piovono soldi e impianti: a vantaggio di chi?»
Purtroppo, da allora, la situazione non ha fatto che peggiorare.
2. Reti arancione, comincia l’invasione
I primi cantieri del Passante, quelli «propedeutici», hanno srotolato le reti arancione nel solito clima di informazione parziale, di menzogne e di negligenza.
I quotidiani locali, ricalcando i comunicati stampa del Comune, hanno annunciato l’inizio dei lavori per il campo base in un’area «utilizzata d’estate come parcheggio».
Solo che il terreno in questione non veniva usato in quel modo da svariati anni, ed era diventato un prato di dieci ettari, con arbusti fitti, giovani pioppi, noci e robinie, all’interno di una più vasta distesa verde di oltre ventinove ettari di superficie.
Per dare un termine di paragone, uno dei parchi urbani più grandi della città, i giardini Margherita, si estende per ventisei ettari. O ancora: ventinove ettari misura il bosco urbano dei Prati di Caprara Est, strappato con le unghie a chi lo voleva cementificare mentre adesso si fa bello per averlo tutelato.
Ed è un bosco urbano anche quello che cresce lungo il torrente Savena abbandonato e attraverso il quale passeranno i mezzi diretti al campo base (almeno stando alle mappe del progetto definitivo, perché quello esecutivo è ancora in fase di sviluppo).
Un’altra fascia di alberi, lunga trecento metri, sorgeva tra il cantiere e la tangenziale, ma li hanno estirpati uno a uno, in poche ore, come peli superflui da un sopracciglio.
Tutto questo senza remore né proteste, perché a differenza dei giardini Margherita e dei Prati di Caprara, il bosco di via Zambeccari si trova in estrema periferia, oltre il distretto fieristico, in una zona della città dove il paesaggio rinselvatichito non ha valore in sé, non fa vincere premi o menzioni speciali, e si può valorizzare solo distruggendolo.
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Dopo l’annuncio coram populo del cantiere primigenio, a metà febbraio ne sono spuntati altri, all’insaputa di chi ci vive accanto. Giusto il tempo di appendere i cartelli del «Lotto 0» e di dare un nome criptico ai lavori («interventi per lo spostamento dei sottoservizi»), ed ecco partire il coro delle motoseghe. Questa volta però gli spazi recintati e i grandi alberi abbattuti si trovavano all’interno di parchi e giardini, dove giocano bimbi e bimbe, la gente passeggia, i cani scorrazzano. L’ufficio segnalazioni del quartiere San Vitale ha ricevuto decine di richieste di chiarimento. Quanti tronchi sono stati tagliati? Che genere di lavori verranno eseguiti? Quanto dureranno? Nessuna risposta, alla faccia del «piano di comunicazione costante per informare efficacemente le comunità locali», ovvero una delle dodici migliorie che hanno convinto gli ex-oppositori di Coalizione Civica ad appoggiare l’opera.
3. Arboricidio (la somma non fa il totale)
Di fronte alle critiche, il Comune ha chiesto ad Autostrade di accelerare i tempi delle piantumazioni, quasi che gli alberi fossero una voce di bilancio. Ne tolgo 2936 già cresciuti, annuncio che pianterò 34 mila virgulti (dove? quando?) et voilà, il saldo è positivo.
L’assessore regionale alle infrastrutture Andrea Corsini si è affrettato a ribadire che verrà creato «un bosco di 130 ettari». La superficie, in realtà, è la somma (arrotondata) delle opere a verde previste dal progetto.
In queste «opere a verde» rientra il rinnovo di arredi (panchine, staccionate, ecc.) in dodici ettari di parchi. Il che è una buona cosa, ma è scorretto conteggiare quella superficie come “bosco”. E la manutenzione dei giardini pubblici è un compito dell’amministrazione, senza bisogno di allargare un’autostrada.
Ci sono poi 46 ettari di fasce arbustive o arboreo-arbustive. Si tratta per lo più di piante che verranno messe a dimora sulle scarpate dell’autostrada. Singoli filari di pruni, melograni, aceri e ciavardelli, alternati a rosa canina, viburno, sambuco, corniolo. Oppure, sempre sulle scarpate, cinque ranghi di arbusti misti. Nulla che possa somigliare, nemmeno in futuro, a un bosco.
A questi si aggiungono 29 ettari di nuovi parchi pubblici, che saranno certamente alberati, ma questo non li trasforma in boschi. Inoltre, se a San Donnino diventerà parco un campo coltivato di undici ettari, uno dei pochissimi che ancora esistono nell’area urbana a sud della Tangenziale, in cosa consiste il risultato positivo? Per quale motivo “il verde” cittadino dev’essere omologato e ridotto a una sola tipologia, ovvero quella del giardino ben curato?
Stesso discorso in zona Birra: cinque ettari di terreno incolto saranno per cinque anni un cantiere, dopodiché verranno trasformati in parco, ma lasciandoli in pace sarebbero già uno spazio verde, fruibile, dotato di piste e sentieri.
Le fasce arboree (33 ettari) e la forestazione di parchi esistenti (19 ettari) sono gli unici due interventi che possano vagamente ricordare un bosco. Farnie, pioppi, olmi, tigli, frassini, aceri. Dieci file di piante ad alto fusto distanziate di due metri per tre. Sulla scelta delle specie, c’è già chi solleva grossi dubbi. Quanti decenni impiega una quercia a diventare adulta?
In ogni caso, più della metà di questi “boschi” rimpiazzerà i boschi ripariali del fiume Reno e del torrente Savena distrutti dall’opera (30 ettari).
L’intervento di “forestazione” riguarda invece il Parco Nord, uno spazio mal messo, terra da eventi e feste dell’Unità, che verrà sistemato e riempito di fronde. Bellissima idea, nata fuori dal progetto di Autostrade, ma poi vincolata al Passante, per usarla come ricatto, insieme a piste ciclabili e sottopassi rigenerati. «Se volete una cosa, vi tocca prendere anche l’altra», è il ritornello che si sente ripetere. E così un’opera da due miliardi di euro, profondamente ingiusta, malsana e retriva, vuole colonizzare le periferie di Bologna in cambio di una manciata di perline verdi.
4. Offensiva d’asfalto
Ma il tocco mortale del Passante non ha colpito solo i parchi a ridosso della Tangenziale, cioè i giardini Montale a Scandellara e le fasce boscate dell’Arcoveggio e della Pescarola. Scavatrici e trituratori sono entrati in azione anche in aree più distanti, come di fianco al centro sportivo Lame, perché la Grande Opera non ha mai un impatto lineare, e sparge all’intorno asfalto al posto di aiuole, tigli e coltivi.
Con il «restyling» dell’uscita San Donato un terreno agricolo di ben sette ettari sarà occupato da una rotatoria e dalle sue bretelle.
Sei chilometri più a ovest, la nuova uscita “Lazzaretto” vomiterà automobili sullo spicchio di città con la più bassa densità abitativa, un territorio sorprendente di campi e boscaglie che negli ultimi anni ha visto spuntare: la nuova sede di Ingegneria; un supermercato Eurospin; la monorotaia sopraelevata per la navetta stazione-aeroporto (il Marconi Express, già «People Mover») e l’unica fermata intermedia di quest’ultima, per ora in mezzo al nulla, ma in realtà pronta a servire le persone che dovrebbero insediarsi lì, nel campus universitario e in duemila abitazioni, in gran parte ancora da costruire.
Chi s’immagina che l’allargamento dell’A14/Tangenziale consista solo nell’aggiungere, su ciascun lato dell’infrastruttura, otto metri di carreggiata, dovrebbe leggere la sfilza di nuove opere stradali previste: sette cavalcavia; tre svincoli in uscita; dieci nuove rotonde; una bretella di collegamento; cinque varianti della viabilità esistente.
Sette anni or sono, l’assessore alla mobilità Irene Priolo, oggi vicepresidente della Regione al posto di Elly Schlein, dichiarò che il Passante avrebbe sbloccato infrastrutture «che i bolognesi attendevano da trent’anni». E quindi all’elenco di cui sopra si aggiungono: il terzo lotto della Lungosavena (due chilometri a due corsie per senso di marcia, più un viadotto); il nodo di Funo (tre nuove rotatorie, un cavalcavia, una nuova bretella lunga 600 metri); il completamento dell’Intermedia di Pianura (nove chilometri di nuova strada, cinque chilometri “potenziati”, otto rotatorie e un cavalcavia); il nuovo ponte sul Reno Triumvirato-Chiù (ovvero il quinto in due chilometri e mezzo, più quello della ferrovia ad Alta Velocità, e compresi i due nuovi viadotti dell’A14/Tangenziale, che scavalcherà il fiume sdoppiandosi in due impalcati).
Queste le opere direttamente collegate al Passante. Ma la cura d’asfalto che Autostrade somministrerà a Bologna prevede una dose ancora più massiccia: lungo l’A14, i sette chilometri della Complanare Nord, il nuovo casello di Ponte Rizzoli, e da lì l’ampliamento a quattro corsie fino alla diramazione per Ravenna (circa 27 km e altrettanti ettari di suolo ricoperto), oltre ai nuovi svincoli di Dozza e Solarolo; sull’A13, la terza corsia fino a Ferrara Sud (32 km e 32 ettari) e il nuovo svincolo di via Aposazza.
5. La «guerra alle emissioni» non avrà luogo
Tutto questo accade in un Comune che nel 2019 ha dichiarato l’emergenza climatica, figura tra le cento città europee che intendono raggiungere la neutralità carbonica ed è pronto a convocare l’assemblea cittadina per il clima.
L’obiettivo di azzerare le emissioni di anidride carbonica e di altri gas serra si può ottenere in vari modi. L’impegno principale dovrebbe essere quello di abbatterle. Alberi e piante possono servire a compensarle, a patto che non si finisca per usarli come “automobili al contrario”, macchine verdi da installare perché assorbano certi elementi chimici invece di produrli.
Su questo tema, la posizione di Autostrade non è chiara.
Nel giugno 2017, la Regione Emilia Romagna presentò le sue richieste d’integrazione alla procedura di valutazione d’impatto ambientale del Passante. La domanda numero 4.44 sollecitava una stima delle emissioni veicolari totali di CO2 nei diversi scenari: attuale, programmatico e progettuale.
La risposta arrivò in forma di tabella e dal raffronto tra le varie colonne risultò che il Passante avrebbe prodotto più anidride carbonica dell’A14/Tangenziale senza allargamento. Nel complesso, considerate anche le altre strade, il nuovo progetto avrebbe comportato un aumento dello 0,38% rispetto agli ultimi dati disponibili, quelli del 2014.
Oggi Autostrade dichiara che la green infrastructure farà risparmiare 70 milioni di chilogrammi di CO2 all’anno. Viene da chiedersi se un risultato così diverso, rispetto a sei anni fa, sia attribuito a qualche ettaro di “bosco” in più e alle famigerate migliorie introdotte nel frattempo.
In cerca di lumi sul sito del proponente, si rimane ancor più disorientati, perché nel testo introduttivo compare la cifra suddetta – «70 milioni di chilogrammi» – mentre nel video promozionale, al minuto 1.27, una scritta in sovrimpressione promette il «contenimento delle emissioni con -1350 tonnellate di CO2 all’anno», cioè un milione e 350 mila chili. Un milione o settanta?
Del resto, il sito del comune di Bologna, nella cronologia dei lavori, calcola cinque anni di cantieri, mentre nel video sulla stessa pagina, realizzato ai tempi del “confronto pubblico”, ancora si parla di “solo tre anni” (ed è uno dei vantaggi elencati rispetto ad altre soluzioni progettuali che… avrebbero richiesto cinque anni). Tre o cinque? Più probabile tre più cinque.
Allo stesso modo, ballano le cifre sulle opere verdi (140 ettari per il Comune, 160 per autostrade) e quelli sulle barriere fonoassorbenti (18 chilometri o 20?).
Di fronte a questi dati messi giù un tanto al chilo, l’Assemblea No Passante ha formalizzato la richiesta di una Valutazione di Impatto Sanitario dell’opera: ché almeno sulla salute ci si possa veder chiaro, dato che intorno alla Tangenziale/A14 si concentrano le zone della città con il maggior rischio di mortalità relativo.
Inoltre, gli studi sull’inquinamento inseriti nel progetto definitivo risalgono ormai al 2016, si basano su stime e modelli matematici, e prendono in considerazione i valori registrati l’anno prima. Tant’è che proprio in questi giorni Autostrade ha chiesto una proroga al provvedimento di compatibilità ambientale (V.I.A.) ottenuto ad aprile 2018 e valido cinque anni. Per farlo, ha dovuto redigere un aggiornamento del suo studio sull’impatto ambientale dell’opera e in particolare sull’atmosfera, dal quale risulterebbe «un trend in leggera diminuzione degli inquinanti», basato per lo più sulle rilevazioni del 2020, ovvero l’anno del confinamento in casa per contenere il virus Sars-Cov2 (e, indirettamente, anche le emissioni di particolato e biossido d’azoto).
Oltretutto, le tre centraline per l’analisi dell’aria di Bologna si trovano ben lontane dall’A14/Tangenziale. Dal 2016 fino a oggi, si sarebbe potuta monitorare quella zona specifica e avere così ben sette anni di dati su cui ragionare. Invece, soltanto da poche settimane sono state piazzate le centraline per la rilevazione ante operam, con i lavori «propedeutici» già partiti e a meno di un anno da quelli di allargamento. Una scelta che trasuda cattiva coscienza.
6. Medaglia di platino al valore
Ben lungi dal rispondere agli interrogativi sulla salute, il sindaco Lepore e il governatore Bonaccini preferiscono esibire la certificazione Envision® di livello Platinum per l’elevata sostenibilità socio-ambientale del Passante. Il prezioso bollino è stato assegnato grazie alle verifiche di ICMQ,«un organismo di certificazione di terza parte» che ha per soci effettivi: Enel; Rete ferroviaria italiana; Associazione italiana operatori nel settore bitumi; Associazione italiana tecnico economica del cemento; Associazione nazionale produttori manufatti in calcestruzzo; Confindustria ceramica e via così, di conglomerato in conglomerato. Forse qualcosa ci sfugge, ma in che modo questi soggetti possono essere «terzi» nel certificare la sostenibilità di un’infrastruttura che porterà profitti al loro settore?
Per lo meno, quando il TAR dell’Emilia Romagna ha dovuto valutare se la nuova seggiovia sul Corno alle Scale fosse nuova – e non una semplice sostituzione di due esistenti – si è rivolto a un ingegnere dell’Università di Ferrara e non all’Associazione Nazionale Esercenti Funiviari. Il verificatore ha verificato e ha rispedito la domanda al mittente, dichiarando di non avere le competenze per rispondere in maniera esaustiva. Come a dire che non serve un tecnico delle costruzioni per decidere se sia davvero “nuovo” un impianto che gli stessi proponenti, nelle loro carte, chiamano «nuova seggiovia Polla – Lago Scaffaiolo». Serve piuttosto un lessicografo, oppure un esperto di leggi e codici, e così la palla è tornata ai giudici amministrativi, che dovrebbero esprimersi proprio in questi giorni.
Nel frattempo, «l’ambientalista» Elly Schlein ha formato la squadra per la segreteria del “nuovo” PD e come responsabile organizzativo ha scelto Igor Taruffi. Già consigliere comunale a Porretta Terme (con Rifondazione comunista), poi consigliere regionale (con Sinistra Ecologia e Libertà ed Emilia Romagna Coraggiosa), quindi assessore regionale al Welfare, Politiche giovanili e Politiche per il sostegno e lo sviluppo della Montagna e delle aree interne. Da poco iscritto al Partito Democratico. Chi s’è battuto in questi anni contro l’allargamento del comprensorio sciistico del Corno alle Scale lo conosce come uno degli irriducibili sostenitori del progetto.
Un’ulteriore conferma che l’Emilia Romagna spinge sulla scena nazionale coloro che, coperti da autonarrazioni di comodo e greenwashing, meglio difendono asfalto, cemento, motori, plastica, turismo pesante, sfruttamento intensivo degli esseri viventi e sci senza neve.
Se vogliamo una vera transizione energetica e una svolta ecologica, la classe dirigente emiliano-romagnola è l’ultima a cui dobbiamo guardare.
7. No Passante Trek – parte seconda
Per toccare con mano e calcare coi piedi quel che sta succedendo lungo la Tangenziale di Bologna ci vediamo domenica 16 aprile alle ore 14.30 al Parco delle Caserme Rosse. Da lì partiremo per una camminata a tappe, organizzata insieme al collettivo Amanda, visitando alcuni dei luoghi già sconvolti o che saranno sconvolti dalla Grande Opera.
Si tratta della seconda puntata dopo quella del 3 settembre scorso.
Tutti i dettagli qui.
Il giorno seguente, lunedì 17 aprile, alle 16.30, sotto Palazzo D’Accursio, in Piazza Maggiore, spentolata rumorosa per rompere il silenzio del Comune e del sindaco sulla Valutazione d’Impatto Sanitario chiesta dall’Assemblea No Passante.
Tutti i dettagli qui.
Un piccolo approfondimento: come scritto nell’articolo, la Valutazione d’Impatto Ambientale del Passante risale al 2018 ed è in scadenza (in quanto rilasciata per cinque anni). Autostrade chiede una proroga e stila un aggiornamento del SIA, lo studio d’impatto ambientale. Nel farlo, utilizza i dati sulla qualità dell’aria di Bologna aggiornati all’anno 2020. E il 2021? E il 2022? Un aggiornamento non dovrebbe tener conto degli ultimi dati disponibili? Ebbene, quelli per il 2021 sono già di dominio pubblico. Quelli del 2022 ancora no, ma credo che ad Autostrade basterebbe chiederli ad Arpae per poterli consultare. E quindi: perché non sono stati considerati? Per sciatteria? Per opportunismo? O c’è un terzo motivo che non riusciamo a immaginare?
Fermarsi al 2020 permette ad esempio di affermare che:«Nel 2020 la media annuale di biossido di azoto rispetta il valore limite di legge (40µg/m3) in tutte le stazioni della Città Metropolitana di Bologna». Mentre nel report ARPAE del 2021 si legge che: «Dopo un anno in cui, grazie probabilmente anche alle misure adottate per limitare la diffusione dell’epidemia di Sars–CoV2, su tutte le stazioni della rete di monitoraggio era stato rispettato il valore limite annuale previsto dalla normativa (40 μg/m3), nel 2021 si sono ristabilite le tipiche condizioni storicamente riscontrate sul territorio della Città Metropolitrana di Bologna, ovvero il generalizzato rispetto della summenzionata soglia di legge con l’eccezione della stazione urbana da traffico di Porta San Felice che, ancora una volta, presenta una concentrazione media annuale superiore ai 40 μg/m3»
Si consideri che: a) La centralina di Porta San Felice è l’unica di Bologna inserita in un contesto di «traffico urbano»; b) la medesima centralina, nei mesi di novembre e dicembre 2021, ha fatto registrare una concentrazione media di 60 e 70 µg/m3 di NO2; c) a proposito di aggiornamenti, le nuove linee guida dell’OMS (del 2021) raccomandano una concentrazione annuale di biossido di azoto non superiore a 10 µg/m3. Il limite di legge italiano è dunque di quattro (4) volte superiore. d) Sempre secondo queste linee guida, se la mortalità di una popolazione esposta a una concentrazione annuale media di NO2 pari a 10 µg/m3 è rappresentata dal valore arbitrario 100, allora quella di una popolazione esposta alla concentrazione di 40 µg/m3 è 106. e) Come riportato dalla stessa Giunta regionale dell’Emilia-Romagna, la Tangenziale/A14 – con i suoi 13,5 km – è responsabile del 40% delle emissioni di NOx [cioè ossidi di azoto generici, compreso il biossido] di tutto il Comune di Bologna (con le sue centinaia di chilometri di strade). Nel 2025, con il Passante, questa percentuale arriverà al 50%.
Nonostante l’omissione dei dati, l’ingiustizia resta. Anzi, aumenta.
Vorrei aggiungere una considerazione su quanto detto nel cap. 5.
Per anni mi sono occupato di VIS per la parte ambientale, in collaborazione con gruppi di epidemiologi e medici per la parte sanitaria, nonché sociologi ed economisti (tra l’altro ARPAE ha un bel background su questa pratica).
Visto il livello di pressapochismo dei vari progetti, ho l’impressione che i bolognesi dovranno aspettare gli effetti sulla loro pelle per avere contezza dell’impatto sanitario dell’opera.
I modelli matematici predittivi delle emissioni ci sono, ma alimentarli è cosa maledettamente difficile: nel caso di cui si tratta, non bastano i dati delle centraline fisse di monitoraggio, ma servono gli output di altri software, come quelli per la previsione delle emissioni delle sorgenti lineari (automobili, camion, moto), che a loro volta necessitano, come input, delle stime sulla quantità e tipologie (!!) di sorgenti (quante auto a gasolio passeranno in un certo arco di tempo? Di che cilindrata? A quale velocità media? Di quale segmento? E cosi per le benzina, ibride, moto, camion).
In tutti i manuali che trattano di modellistica previsionale c’è una fotografia eloquente: due camini industriali, uno accanto all’altro, uno un poco più basso dell’altro; il pennacchio di fumo che emette un camino va in una direzione, il pennacchio che emette l’altro camino va nella direzione opposta. Per dire che i dati di ventosità, fondamentali nella previsione, devono essere raccolti sul posto, in maniera continuativa, per periodi temporali significativi (generalmente mai inferiori all’anno).
Punto qualificante della VIS è il coinvolgimento delle popolazioni locali (pensate se si fosse fatta in Val di Susa trent’anni fa), che è di un tipo nemmeno lontanamente paragonabile agli incontri estemporanei (quasi sempre a semplice carattere informativo) già previsti dalla VIA. Nella VIS i residenti devono avere voce in capitolo per tutta una serie di aspetti non solo sanitari ma anche sociali coinvolti nell’opera, dato che, come noto, sul lungo periodo un effetto sanitario ha una ricaduta sociale (ed economica). Visto il clima, mi sembra poco verosimile che i proponenti vorranno imbarcarsi in un’impresa del genere.
Questo da un punto di vista puramente “tecnico”. Ma il vero nodo, ovviamente, è altro: il passante è davvero indispensabile? Ma l’indispensabilità sarebbe troppa grazia, basterebbe l’utilità. È utile?
È utile a chi lo costruisce. Questo è il criterio con cui si fanno le Grandi Opere. Che il passante non sarà decisivo per risolvere il problema della congestione da traffico lo ammettono persino i proponenti.
Secondo praticamente ogni esperto indipendente, il passante aggraverà il problema del traffico (e conseguentemente dell’inquinamento). Il perché lo spiegano il «Paradosso di Braess» in matematica, il «Paradosso di Jevons» in economia, la «Posizione di Lewis-Mogridge» e il «Paradosso Downs-Thomson» nella scienza dei trasporti. Che si riassumono in questo principio: la costruzione di nuove strade per automobili in un’area urbana congestionata induce ulteriore traffico privato e riduce gli investimenti in quello pubblico, aggravando la congestione e allungando i tempi di percorrenza sia dei mezzi privati sia di quelli pubblici.
È scienza acquisita da decenni, ma guardacaso, la stessa classe dirigente che per altre questioni usa «la Scienza» come clava e pseudoconcetto che chiude ogni discussione, quando vuole asfaltare e cementificare tratta il metodo scientifico come una seccatura, roba da ignorare a ogni costo.
Secondo me il criterio che dovremmo seguire noi è:
«Ogni volta che per risolvere un problema viene proposta una nuova infrastruttura di trasporto va detto un chiaro e tondo NO».
Non servono nuove infrastrutture di trasporto, nemmeno presuntamente “verdi”, nemmeno nominalmente pensate per il trasporto pubblico. Siamo già uno dei paesi più infrastrutturali al mondo, e siamo il paese europeo con la maggior percentuale di consumo di suolo rappresentata da infrastrutture di trasporto: strade, ferrovie, parcheggi e aree di cantiere coprono il 51% del territorio artificiale. E consumo di suolo significa impermeabilizzazione del suolo, l’acqua delle precipitazioni non penetra nel terreno e quindi non ricarica le falde.
Le falde sono state sistematicamente distrutte anche dagli innumerevoli trafori. Siamo un Paese all’82% montuoso-collinare ma per il capitale montagne e colline sono solo ostacoli, non preziosi ecosistemi e indispensabili serbatoi d’acqua. La tragedia idrologica causata dai lavori per l’AV Bologna-Firenze è solo una delle tante storie che non hanno potuto insegnare niente a nessuno perché sono state sepolte sotto strati di propaganda, nello specifico propaganda su quant’era bello metterci un quarto d’ora in meno a percorrere quella tratta. È in nome di questi presunti “vantaggi” e “guadagni” di tempo che si sta devastando tutto il devastabile.
Bisogna cambiare i modelli di mobilità, non continuare a costruire. Ogni volta che viene annunciata una “svolta” incentrata su una nuova infrastruttura c’è la fregatura.
Però ogni infrastruttura inutile viene spacciata per progresso, e una posizione che dicesse no a prescindere (sacrosanta per molti di noi) verrebbe seppellita da accuse di anacronismo, conservatorismo e arretratezza culturale. Sappiamo tutti di comitati di cittadini che si sono visti buttate addosso accuse di NIMBY e BANANA solo per aver detto che certi insediamenti non possono essere realizzati in mezzo alle case e alle scuole, ricorrendo semplicemente al buon senso che però non basta. Bisogna essere attrezzati per fronteggiare esperti di comunicazione e strategie di marketing abilissimi a trasformare l’inutilità in indispensabilità, o il danno in beneficio, e ingegneri esperti nel gettare fumo tecnico negli occhi.
Quella nell’articolo è secondo me la strategia migliore da adottare per contrastare certe dinamiche, ossia opporsi in maniera documentata, perché di fronte all’evidenza dei numeri e alla forza della logica il proponente non arretrerà, perché per lui ci sono in ballo milioni, ma il cittadino indifferente verrà portato a farsi delle domande. E una volta che l’indifferente prende posizione allora sì che si raggiunge quella massa critica che può fermare lo scempio. E ferma oggi, combatti domani, si potrà arrivare ad affermare la cultura secondo la quale la sostenibilità passa anzitutto per il non fare, e quindi riuscire, anche, a “cambiare i modelli di mobilità”.
A proposito di grandi opere devastanti per l’ambiente ma spacciate come green, qua a Trieste abbiamo in dirittura d’arrivo una cabinovia (finanziata col PNRR) che dall’ex porto vecchio arriverà sul carso. Per realizzare l’opera verrà spianato un bosco protetto sul ciglione dell’altipiano. Le opere accessorie (parcheggi, stazioni, ecc.) cementificheranno una vasta area alle spalle della città. Inoltre l’amministrazione ha approfittato dell’elaborazione della variante al PRG per autorizzare la costruzione di supermercati e villette a Opcina. L’anno scorso il comitato “No Ovovia” ha raccolto in quattro ore più di mille firme per indire un referendum (ne bastavano 500). Ma la commissione di garanzia non ha autorizzato la consultazione. Con l’appoggio di tutta la stampa cittadina l’amministrazione è andata avanti indifferente ai presidi, ai cortei, alle contestazioni. Con una serie di sotterfugi la giunta ha boicottato la presentazione delle opposizioni alla variante del PRG da parte dei cittadini. Alla fine il comitato ha comunque raccolto più di 1000 opposizioni. Nel frattempo la gara d’appalto è stata indetta e il vincitore è già stato proclamato, senza nessun colpo di scena. L’entità ha deciso che la cabinovia si fa. La cabinovia ontologicamente si fa. E’ come Dio che pensa se stesso pensante. Ovviamente l’opera viene spacciata come indispensabile per decongestionare il traffico. Come se il traffico che sale dalla città fosse costituito da automobilisti che si fermano a Opcina. La realtà è che la cabinovia fa parte del pacchetto che Trieste vende alle grandi compagnie crocieristiche. L’entità ha deciso che Trieste diventerà un hub crocieristico da 8 grandi navi al giorno. La valorizzazione immobiliare dell’ex porto vecchio e la costruzione della cabinovia vanno lette in questo contesto, altrimenti non si capisce niente. N.B. Una sola nave da crociera ferma in porto per un giorno inquina quanto l’intero traffico automobilistico di una città di medie dimensioni.
P.S. alle recenti elezioni regionali a Trieste il 60% degli elettori non è andato a votare, e tra chi è andato a votare solo il 55% ha votato per Fedriga e per la coalizione di destra che governa anche in città, a fronte del 64% ottenuto da Fedriga nell’intera regione. Non è solo la cabinovia, ma dai discorsi che si sentono in giro per bar e autobus è anche per la cabinovia.
Questa mattina, con mezza città bloccata per l’esondazione del torrente Ravone, è iniziato lo sgombero di via Agucchi 126, ovvero il primo edificio che sia mai stato occupato a Bologna contro l’allargamento della Tangenziale/A14, da cui dista qualche decina di metri.
Proprio lì era terminata la seconda puntata del No Passante Trek di domenica 16 aprile, partecipata da più di 200 persone. La nuova vita dello stabile (una casetta di due piani e un grande capannone) era inziata soltanto due giorni prima.
Oggi, mentre la Regione è in allerta rossa per la pioggia e tutti i fiumi sono sotto osservazione, nelle operazioni di sgombero sono stati coinvolti anche i pompieri. Una bella dimostrazione delle priorità di chi amministra il territorio…
Mentre scriviamo è in atto un presidio di solidarietà, nella fascia boscata di via Zanardi – dove nel frattempo sono tornati i mezzi del cantiere B2 per il Lotto 0 del Passante.
Nel dare questa notizia, ci rendiamo conto che sono successe diverse cose, intorno all’allargamento della Tangenziale/A14, dopo la pubblicazione del nostro ultimo post. Bisognerà trovare il tempo per scrivere un articolo di aggiornamento.
Intanto, siamo vicini alle «coniglie di Via Agucchi» e con loro ribadiamo che il Passante si può fermare.