Quello che Cristicchi dimentica. Magazzino 18, gli «italiani brava gente» e le vere larghe intese

Simone Cristicchi

di Piero Purini (guest blogger),
con una postilla di Wu Ming e una breve linkografia ragionata.

[Abbiamo chiesto allo storico Piero Purini  – o Purich, cognome della famiglia prima che il fascismo lo italianizzasse – di guardare il discusso spettacolo di Simone Cristicchi e recensirlo per Giap.
Purini è autore del fondamentale Metamorfosi etniche. I cambiamenti di popolazione a Trieste, Gorizia, Fiume e in Istria. 1914-1975appena ristampato da KappaVu con una prefazione di Jože Pirjevec.
Consigliamo questo libro a chiunque voglia conoscere e capire la storia del confine orientale nel Novecento. L’autore ha scovato, consultato e confrontato non solo fonti “nostrane”, come troppo spesso accade, ma anche fonti in lingua tedesca, slovena, croata e inglese.
Per potersi dedicare alla ricerca degli «esodi» e delle migrazioni forzate nella zona che va dal Friuli orientale al Quarnero, Purini è dovuto andare all’Università di Klagenfurt, visto che in Italia aveva trovato solo porte chiuse. Metamorfosi etniche è l’espansione della sua tesi di dottorato.
Piero è modesto e non lo dice in giro, ma un paio di settimane fa lui e Poljanka Dolhar hanno messo in fuga da Radio 3 Marcello Veneziani, e senza nemmeno fargli «Buh!» Cliccare e ascoltare per credere, ma solo dopo aver letto l’articolo qui sotto.
In calce, una nostra postilla su «memoria condivisa» e rimozione del conflitto.
Ricordiamo che sotto il post ci sono due comandi: uno permette di salvarlo in ePub, l’altro lo apre in versione ottimizzata per la stampa.
AGGIORNAMENTO DEL 26/02: in fondo al post, ospitiamo la replica di Cristicchi.
AGGIORNAMENTO DEL 19/03: in fondo al post, Purini analizza la seconda replica di Cristicchi (e Bernas).]

Magazzino 18 di Simone Cristicchi mi è sembrato un’operazione teatrale molto furba con uno scopo politico più che evidente: fornire uno strumento artistico efficace per propagandare la cosiddetta memoria condivisa, tanto cara al mondo politico «postideologico», secondo cui tutti gli italiani devono riconoscersi in una storia comune. Storia comune di cui, fin dal nefasto incontro Fini-Violante del 1998, le foibe e l’esodo sono pietre angolari.

Questa finalità prettamente politica è andata decisamente a scapito del valore artistico dello spettacolo: ne è risultata una pièce teatrale che mette insieme in maniera piuttosto bislacca generi disparati, richiami furbeschi all’immaginario collettivo italiano, imitazioni di spettacoli o film più o meno familiari allo spettatore medio. Un mix nazionalpopolare (a mio avviso piuttosto noioso e stucchevole) in cui troviamo un impiegato romano burino (che risulterà nostalgicamente simile ad alcune macchiette di Alberto Sordi); suggestioni musicali che si ispirano evidentemente a Schindler’s List (a suggerire per l’ennesima volta l’improprio paragone tra l’esodo giuliano-dalmata e la Shoah); imbarazzanti imitazioni di Marco Paolini, sia nella struttura dello spettacolo, sia nella recitazione; discutibili inserti tipo musical (alcuni brani non stonerebbero in film Disney come Pomi d’ottone e manici di scopa o Tutti insieme appassionatamente).

Secondo me, proprio l’ultima di queste canzoni – una via di mezzo tra Aladdin e Il re Leone – mostra l’ambiguità che permea l’intero spettacolo. La canzone si intitola Non dimenticare e recita: «Non è un’offesa che cede al rancore / non è ferita da rimarginare / è l’undicesimo comandamento: / non dimenticare».
E’ sottinteso, ciò che non si deve dimenticare è la tragedia delle foibe e dell’esodo, ma per ricordare questi eventi Cristicchi non esita a dimenticarne o trascurarne completamente altri che potrebbero risultare estremamente scomodi per lo scopo del suo spettacolo: appunto la creazione di una memoria collettiva esclusivamente italiana.

Cinque minuti e poi…

Innanzitutto Cristicchi dimentica di contestualizzare storicamente l’esodo. È vero che nello spettacolo è stata inserita una scena in cui vengono narrati i suoi antefatti storici, ma questa scena è del tutto assente nel cd allegato al libro e, se non sbaglio, ridotta nella lunghezza in alcune repliche, in quanto – almeno così mi sembra confrontando la trasmissione Rai, il cd e alcuni spezzoni tratti da YouTube – lo spettacolo viene modificato a seconda del luogo dov’è rappresentato.

Tale spiegazione storica è comunque troppo breve (cinque minuti scarsi su uno spettacolo di un’ora e tre quarti), superficiale, inesatta e abbonda di luoghi comuni. Talmente sbrigativa che sembra essere stata inserita al solo scopo di prevenire eventuali accuse di scarsa obiettività e dare un’apparenza bipartisan allo spettacolo.

Locandina Magazzino 18

La complessità etnico-linguistico-nazionale del territorio è liquidata dicendo che «per questo fazzoletto di terra ci sono passati tutti: italiani, austriaci, francesi, ungheresi, slavi». Già con questa descrizione Cristicchi può creare confusione nel pubblico: lo spettatore inconsapevole non sa che in questo territorio c’erano popolazioni autoctone (italiani, sloveni e croati) presenti da secoli, spesso fuse e mescolate tra loro, mentre Austria-Ungheria e Francia furono le entità statali che lo amministrarono.

Anche sul termine «italiani» ci sarebbe da ridire, in quanto, più che di «italiani» si trattava di popolazioni che parlavano il dialetto istroveneto della zona. Probabilmente la maggior parte degli italofoni residenti a Trieste o a Gorizia avevano la percezione di sé come fedeli sudditi asburgici, mentre l’irredentismo era appannaggio di una limitata ma rumorosa minoranza di altoborghesi (che proprio per la loro posizione sociale riusciva ad amplificare a dismisura le tesi favorevoli all’Italia) e di un’altrettanta sparuta minoranza di giovani contestatori che vedevano nel mito dell’Italia la contrapposizione ad un’Austria percepita come vecchia, bigotta ed opprimente. Esisteva anche una comunità di diverse decine di migliaia di persone di lingua tedesca, che risiedeva sul territorio da almeno 120 anni, e una miriade di piccole ma culturalmente vivacissime comunità non italiane: ebrei, serbi, cechi, greci, armeni, svizzeri, rumeni, turchi.

Gli altri esodi prima dell’esodo

Ciò che Cristicchi dimentica è che questo equilibrio e questa (fragile) convivenza non furono interrotte dal fascismo – come sostiene in Magazzino 18 -, ma già dalle autorità militari italiane subito dopo la conquista del territorio nel 1918.

Cristicchi dimentica che con la vittoria nella Grande Guerra l’Italia si annesse un territorio che comprendeva circa 500.000 non italiani.

La grande Italia. Cartolina propagandistica su Trieste irredenta, 1915

Cristicchi, che ha voluto scrivere uno spettacolo sull’«Esodo», dimentica che quello giuliano-dalmata non fu il primo spostamento forzato di popolazione di questo territorio: già a partire dal novembre ’18 si verificò una diaspora degli abitanti della zona, che se ne andavano perché temevano l’arrivo delle truppe italiane o perché la nuova sistemazione politica del territorio impediva loro di poter restare.

Cristicchi dimentica che le autorità militari italiane già nel novembre 1918 chiusero tutte le scuole della comunità tedesca della Venezia Giulia trasformandole in buona parte in caserme;
dimentica che insegnanti tedeschi, sloveni e croati persero il lavoro, furono espulsi o addirittura internati perché continuavano ad insegnare clandestinamente nelle loro lingue;
dimentica che migliaia di reduci dell’esercito austroungarico non poterono tornare alle proprie case perché le autorità militari permettevano il rientro ai soli reduci di lingua italiana;
dimentica che già nel primo anno di occupazione (1918-’19) l’intellighenzia culturale slovena e croata (850 persone tra sacerdoti ed insegnanti) venne internata nel Meridione perché rappresentava il veicolo di sopravvivenza della lingua e della cultura delle due minoranze;
dimentica che vi fu una campagna di delazione nei confronti di chi in casa parlava ancora tedesco, o che molti di coloro che erano definiti “austriacanti” (anche di lingua italiana) vennero fatti salire senza troppe cerimonie sui treni e spediti a Vienna o a Graz.
Dal 1918 al 1920 la vox populi locale parlò di oltre 40.000 partenze dalla sola Trieste verso Austria e Jugoslavia.

Cristicchi dimentica (o non sa) che l’esodo da Pola di cui parla nel suo spettacolo fu preceduto da un altro che nel 1918-’19 vide la partenza di oltre un terzo degli abitanti, e che fu questo esodo a rendere la popolazione così compattamente italiana, dal momento che se ne andarono la stragrande maggioranza dei tedeschi e una parte consistente dei croati e degli sloveni.

Cristicchi ignora che nel periodo tra le due guerre oltre 100.000 abitanti della Venezia Giulia partirono per Jugoslavia, Austria o Argentina perché le condizioni del territorio sotto l’Italia erano per loro invivibili;
dimentica – o più probabilmente non sa, perché la storiografia italiana non ne ha quasi mai parlato – che nel 1919 più di mille ferrovieri tedeschi e sloveni del compartimento di Trieste vennero pretestuosamente licenziati in tronco durante uno sciopero e spediti in Austria e in Jugoslavia per poterli sostituire con personale ferroviario italiano;
dimentica che lo Stato italiano portò avanti una campagna di insediamento di italiani provenienti soprattutto dal Veneto e dalla Puglia per sostituire i non italiani che erano partiti e che dal ’18 al ’31 furono quasi 130.000 gli immigrati nella Venezia Giulia, un numero tale che le autorità dovettero addirittura proibire l’immigrazione nelle nuove province, perché la situazione economica del territorio non permetteva di fornire occupazione a tutti.

I primi immigrati ad arrivare furono 47.000 tra militari, carabinieri, poliziotti, guardie carcerarie, che dovevano imporre un controllo di stampo quasi coloniale alle nuove terre. La militarizzazione del territorio è particolarmente evidente se viene confrontata con la situazione prebellica: prima del conflitto l’Austria manteneva di stanza nel Litorale solamente 25.000 tra soldati e gendarmi, di cui ben 17.000 concentrati a Pola, dove si trovava la più grande base militare della marina austroungarica.
Cristicchi, poi, dimentica (ma più probabilmente ignora) che nel settembre del 1920, per piegare un sciopero, l’esercito cannoneggiò le case del rione “rosso” di San Giacomo, caso unico nella storia d’Italia di uso dell’artiglieria pesante contro un centro abitato in tempo di pace.

L’incendio del Narodni Dom

Nella sua scena di «introduzione storica» Cristicchi parla delle violenze contro i non-italiani (attribuendole tutte al fascismo, ancor prima che il partito fascista esistesse) e cita – giustamente – l’incendio del Narodni Dom, l’enorme casa del popolo, centro culturale e simbolo degli sloveni, dei croati e dei cechi nel centro di Trieste. Cristicchi sostiene che la sua distruzione fu «la prima grande frattura tra gli italiani della Venezia Giulia e la popolazione slovena e croata». Affermazione discutibile, visto che tensioni e violenze ce n’erano già state prima, e che – ad esempio – già in epoca asburgica il principale partito italiano, quello liberalnazionale, aveva ottenuto che a Trieste venisse impedita la costruzione di un liceo sloveno.

L'incendio del Narodni Dom, 13 luglio 1920

L’incendio del Narodni Dom di Trieste, 13 luglio 1920

Per giunta Cristicchi presenta l’incendio del Narodni Dom come una reazione all’uccisione di due militari italiani a Spalato. La stampa nazionalista dell’epoca aveva però omesso di dire che quei due militari avevano appena mitragliato i partecipanti ad una manifestazione, uccidendone uno, e pure Cristicchi omette questo particolare. Invece, rispetto all’incendio, in un’intervista a Repubblica ha sostenuto che ci sono «dubbi e chiaroscuri» (aggiungendo tra l’altro «Lì è morta una persona soltanto»!), insinuando forse l’interpretazione in voga durante il fascismo secondo cui dal palazzo si sparò e vennero gettate bombe contro gli assedianti, versione già ampiamente smentita dalla stampa non fascista e dalla stampa straniera dell’epoca, nonché da storici titolati e decisamente non sospettabili di simpatie filoslave come Carlo Schiffrer.

Chi ha detto «Italiano = fascista»?

Magazzino 18 descrive le prevaricazioni che il fascismo adottò per legge contro le minoranze:
il divieto di utilizzare lingue straniere nei tribunali e negli uffici pubblici (ma dimentica che gli sloveni riottennero questo diritto solo nel 2001!);
la totale chiusura delle scuole slovene e croate;
la rimozione delle tabelle in lingue slave (ma dimentica che ancor oggi nel centro di Trieste non ci sono le tabelle bilingui per non urtare la sensibilità di qualcuno…);
l’italianizzazione di «molti» cognomi (si parla di 100.000 persone solo a Trieste, mezzo milione in tutta la Venezia Giulia… Solo «molti»?) e quella dei toponimi (con paesi che ancor oggi, nonostante gli esiti di referendum locali, non possono tornare ufficialmente al nome originario perché è necessaria una votazione in parlamento)…
«Gradualmente,» dice Cristicchi, «gli spazi culturali, economici e sociali degli slavi vengono soppressi». Corretto. Ma non sarebbe stato male aggiungere che accanto alle chiusure per legge avvenivano veri e propri pogrom antislavi, con distruzione di tipografie, circoli, case private, negozi. Chi parlava sloveno o croato in pubblico rischiava bastonate, sputi (alcuni zelanti maestri erano usi sputare in bocca agli alunni che non parlavano in italiano), olio di ricino e addirittura olio da motore, come quello che venne somministrato al dirigente di coro Lojze Bratuž, che morì un mese dopo.

Bratuz

Lojze Bratuž, italianizzato in Luigi Bertossi. Morto a Gorizia nel 1937 a soli trentaquattro anni. Una squadra fascista lo sequestrò e gli fece bere a forza olio da motore. Il giorno della sua morte, gli amici si radunarono di fronte all’ospedale e cantarono una canzone slovena (gesto proibito dal fascismo), poi fuggirono per non subire violenze a loro volta.

Cristicchi scrive che il risentimento produsse tra sloveni e croati l’equazione «italiano = fascista». E anche qui c’è una bella dimenticanza. In realtà questa uguaglianza non fu un’invenzione di sloveni e croati, ma per un ventennio fu portata avanti dalla propaganda fascista: proclamando l’entrata in guerra contro l’Etiopia, dal balcone di palazzo Venezia, il Duce aveva enfaticamente affermato: «L’identità tra Italia e fascismo è perfetta, assoluta, inalterabile». Dunque anche qui si attribuisce agli slavi come errore di valutazione una parola d’ordine che invece era ben radicata nell’ideologia fascista e probabilmente gradita a non pochi italiani.

Cartello contro l'uso della lingua croata affisso dai fascisti a Dignano/Vodnjan

Occupazione fascista e Resistenza

Cristicchi passa poi all’analisi del periodo bellico: cita l’invasione della Jugoslavia, gli incendi di villaggi, i massacri di civili, i crimini di guerra per cui nessuno ha mai pagato, gli ordini delittuosi di Roatta, le migliaia di morti nei campi di internamento, in primis quello di Arbe (anche se attribuisce tutto ciò a Mussolini, quando invece dietro di lui c’era tutto un apparato militare e amministrativo-burocratico che sosteneva le sue avventure belliche al di là dell’appartenenza al fascismo).

Tutto corretto storicamente, ma troppo sbrigativo: quelle che sono le cause principali di foibe e deportazioni sono liquidate in poche frasi. Forse Cristicchi avrebbe potuto ricordare la città di Lubiana, circondata da filo spinato e trasformata essa stessa in un enorme campo di concentramento; avrebbe potuto spiegare come i militari italiani a Podhum uccisero 91 abitanti, ne deportarono 900 e rasero al suolo l’intero paese, non diversamente da quanto i tedeschi fecero a Sant’Anna di Stazzema o a Marzabotto. Avrebbe potuto dire che la Slovenia ebbe un numero di vittime pari al 6,3% della popolazione, addirittura la città di Lubiana raggiunse il 9% di vittime; avrebbe potuto dire che la Jugoslavia contò un milione e centomila vittime su una popolazione di 15 milioni (solo a titolo di paragone l’Italia su 43 milioni ebbe circa 450.000 vittime).

Soprattutto, Cristicchi dimentica (o non sa) che molti di quelli che sfuggirono ai massacri italiani e tedeschi andarono ad ingrossare le fila della resistenza antifascista di Tito.

Partigiani della divisione italiana Garibaldi, II° Korpus dell'Esercito Popolare di Liberazione della Jugoslavia.

Partigiani della divisione italiana Garibaldi, inquadrata nel II° Korpus dell’Esercito Popolare di Liberazione della Jugoslavia.

I partigiani, nel racconto di Cristicchi, ad un certo punto «scendono dalle montagne dell’interno dove sono accampati» ed iniziano a girare casa per casa alla ricerca delle loro vittime su cui sfogare la propria vendetta.

Cristicchi omette di dire che i partigiani non fecero campeggio in montagna per poi andare ad ammazzare gli italiani: sostennero una lotta durissima contro le forze dell’Asse, contro i nazifascisti e dopo l’8 settembre 1943 contro i tedeschi e contro i collaborazionisti italiani che continuarono a combattere a fianco dei nazisti. Perché anche questo Cristicchi dimentica: che con l’armistizio e la dissoluzione dell’esercito italiano, una parte dei soldati italiani riuscì a tornare a casa, mentre altri si unirono proprio a quelle forze di Tito che sarebbero «scese dalle montagne» per «colpire gli italiani che sono un ostacolo» alla grande Jugoslavia (termine inventato: non è mai esistita una «grande Jugoslavia», a significarne l’espansionismo, a differenza di «grande Serbia», o «grande Germania»).
Altri soldati italiani continuarono a combattere assieme ai tedeschi. Cristicchi dimentica di dire che spesso questi collaborazionisti italiani si incaricarono del «lavoro sporco» (rastrellamenti, torture, esecuzioni), forse facendo – questi sì – odiare gli italiani in quanto fascisti.

Inoltre, quando parla dei partigiani Cristicchi li descrive sempre come «bande», «titini», «ribelli» rimuovendo il fatto che i soldati di Tito non furono bande feroci e selvagge, bensì un esercito che combatteva contro l’Asse e considerato parte integrante delle forze alleate.

Infoibare la storia

L’argomento foibe, poi, è un condensato di luoghi comuni e dimenticanze.

Innanzitutto Cristicchi omette la distinzione tra le cosiddette «foibe istriane» (1943) e le «foibe triestine» (1945). Le prime furono una sorta di jacquerie, di rivolta contadina contro chi aveva detenuto il potere fino ad allora, in cui la rappresaglia politica potè mescolarsi in alcuni casi a vendette personali. Cristicchi esclama: «Sta gente è stata ammazzata in tempo de pace!», ma dimentica che nel settembre ’43 c’era ancora la guerra.

Simone Cristicchi

Sulle foibe triestine, Cristicchi sfrutta il solito luogo comune secondo cui tutte le vittime sarebbero state infoibate. Come sa chiunque si occupi anche lontanamente dell’argomento, gli scomparsi del maggio ’45 finiti effettivamente nelle voragini carsiche sono stati una minoranza: qualche decina di persone. Gli altri furono deportati in quanto appartenenti a forze armate che avevano combattuto contro l’esercito jugoslavo, al pari di quanto accadde agli italiani catturati da inglesi, francesi, americani e russi. Le condizioni della prigionia non erano certamente delle più facili (ma i soldati catturati in Russia o in Africa non ebbero condizioni migliori); va detto però che buona parte di chi non aveva responsabilità personali riuscì a tornare.

Per fascisti e collaborazionisti vennero allestiti processi che si conclusero anche con condanne a morte. Il fatto però che le persone venissero liquidate «in quanto italiane» è smentito sia dal fatto che alcuni fascisti colpevoli di crimini vennero liberati dagli jugoslavi che non li riconobbero (il che la dice lunga sulla «terribile efficienza» della polizia segreta jugoslava), sia dai numeri. Cristicchi dà cifre vaghe (500, 5.000, 10.000, 14.000), mentre quasi tutti quelli che sono andati a spulciarsi uno per uno le liste dei “desaparecidos” concordano su un numero tra 1.000 e 2.000 persone. Cifre analoghe a quelle dei morti negli ultimi giorni di guerra a Genova, a Torino o in Emilia. Dove però mai nessuno è stato ucciso «in quanto italiano». Mi sembra dunque che questi numeri siano la riprova numerica del fatto che in queste terre le esecuzioni del maggio ’45 non hanno risposto ad una logica di pulizia etnica, bensì siano state la – purtroppo – fisiologica resa dei conti di un conflitto che era stato atroce e fortemente ideologico.

Se poi si vanno a confrontare le cifre delle vittime a guerra finita in Jugoslavia, si nota come altrove – dove Tito non doveva temere di rendere conto agli alleati – la mano della giustizia partigiana fu estremamente più pesante rispetto alla Venezia Giulia dove sarebbe avvenuta la «pulizia etnica».

Sorvolo sul caso Norma Cossetto, sulla descrizione della foiba (che sembra tratta pari pari dal racconto del sedicente sopravvissuto Graziano Udovisi) e sulla strage di Vergarolla, in quanto Cristicchi le interpreta come avvenimenti sicuri, ma dimentica di segnalare che si tratta invece di singoli episodi sui quali sono cresciuti a dismisura racconti mai corroborati da prove, o al massimo si sono fatte ipotesi investigative.

Davvero «non si può vivere senza essere italiani»?

Rispetto all’esodo è interessante come Cristicchi generalizzi l’esodo da Pola, facendo credere che anche l’esodo dalle altre parti dell’Istria, da Fiume, da Zara, dalla Zona B, dal Muggesano si sia svolto nello stesso modo. La questione è che l’esodo da Pola risponde a tutti i clichés di cui lo spettacolo ha bisogno: la partenza in tempi brevi, le navi, il trasporto delle masserizie, la neve, la bora.

Cristicchi dimentica che l’esodo fu un fenomeno estremamente complesso, che avvenne con modalità e tempi diversi: Zara fu addirittura sfollata ancora durante la guerra a causa dei bombardamenti angloamericani, l’esodo di Fiume si risolse in pochi mesi, l’esodo dalla Zona B si prolungò per anni, dando il tempo agli abitanti di fare una lunga analisi sul se, sul come e sul quando partire; quello del Muggesano coinvolse una popolazione in larghissima parte comunista cominformista che in maggioranza rifiutò l’aiuto delle associazioni dei profughi per non essere strumentalizzata dalla destra o dalla DC.

Soprattutto, Cristicchi dimentica le mille cause di questa complessità. Banalizza affermando che ci fu una causa sola: la gente partì «perché non si può vivere senza essere italiani».

In nome di questa tesi, Cristicchi rimuove il fatto che la Jugoslavia stava realizzando riforme di stampo socialista nell’economia: aveva appena approvato pesanti restrizioni nel commercio privato, imposto la distribuzione delle derrate alimentari attraverso cooperative, pesantemente tassato le rendite finanziarie, attuato una riforma agraria in base alla quale venne proclamata l’abolizione della mezzadria, del colonato e del lavoro agricolo su appalto, assegnato le terre ai contadini che dimostrassero di lavorarle da almeno quindici anni, e infine stabilito il sequestro dei latifondi e la distribuzione delle terre, nonché l’uso collettivo delle macchine agricole, tassando pesantemente le terre incolte ed i terreni oltre determinate superfici.

In un contesto del genere, che qui mi sono limitato a riassumere, è chiaro che tutta una serie di categorie (proprietari immobiliari, commercianti all’ingrosso e al dettaglio, imprenditori, locatori, addetti alla distribuzione ecc.) videro la partenza come l’unica soluzione dei loro problemi, a prescindere da quale paese vi fosse oltre frontiera. Credo che sull’esodo abbia giocato molto di più la paura di un sistema economico-politico demonizzato dal fascismo, dalla chiesa e dall’influente DC che di là dal confine spingeva per la partenza del maggior numero di persone. Non si dimentichi inoltre che per la piccola e media borghesia (quella che oggi viene chiamata middle class) la questione si semplificava in un’equazione molto banale: Jugoslavia = comunismo = miseria, Italia = Stati Uniti = ricchezza.

Un’altra paura che spingeva alla partenza era il sovvertimento di quello che fino ad allora era stato l’ordine sociale: le classi che avevano detenuto il potere venivano ad essere spazzate via da una sorta di tsunami sociale. Operai e braccianti diventavano arbitri dell’esistenza di chi fino ad allora aveva tenuto le redini del sistema sociale e ora non intendeva diventare subalterno agli ex servi. Non dunque fuga per l’italianità, quanto fuga dal socialismo, dal ridimensionamento sociale e dalla (probabile) miseria.

Lui ricorda, solo che ricorda male.

Lui ricorda! Ma solo quello che gli fa comodo. Per giunta, lo ricorda male.

Cristicchi dimentica che le autorità italiane spinsero sotterraneamente all’esodo: attraverso le organizzazioni degli esuli, in Istria si pubblicavano appelli per la partenza e si reclamizzavano i veri e finti vantaggi che i profughi avrebbero avuto in Italia (non si dimentichi che comunque, da un punto di vista economico, l’Istria era una delle zone più depresse del Regno d’Italia e perciò l’esodo poteva essere addirittura allettante). La DC, riuscita ad accreditarsi come la forza politica che maggiormente tutelava i profughi, doveva rendere solida la propria base nelle terre di confine e dopo il 1954 la massa di profughi fu fatta fermare a Trieste, nell’intento da parte del governo di rendere più sicura una città che in realtà molto fedele all’Italia non era mai stata (i due quinti dell’elettorato triestino si esprimevano per partiti favorevoli all’indipendenza). A Trieste i profughi ebbero precedenza nell’impiego pubblico e privato e graduatorie privilegiate nell’assegnazione di case popolari. In Magazzino 18 si dimentica che, con la saturazione del mercato del lavoro e l’impossibilità di accedere ad alloggi, circa 25.000 triestini dovettero optare per l’emigrazione in Australia.

Anche i numeri confutano la tesi che gli esuli siano partiti per mantenere la propria italianità. Cristicchi, prendendo come oro colato il numero canonico di 350.000 profughi (in realtà inventato da Flaminio Rocchi), dimentica che in base al censimento del 1936 il numero di italiani residenti nelle terre perse era di 264.799. Se si dà credito alla cifra di Rocchi, si afferma automaticamente che 85.000 non italiani partirono… per restare italiani!

Non ho grandi considerazioni da fare sul pessimo accoglimento dei profughi a Bologna, salvo ricordare che purtroppo accoglienze di questo genere sono piuttosto frequenti: anche i profughi sloveni dopo la prima guerra mondiale, quando giunsero nei loro luoghi di destinazione in Jugoslavia, vennero spesso accolti con epiteti come lahi – spregiativo di «italiani» – e fašisti, proprio coloro dai quali stavano scappando.

Sulle condizioni dei campi profughi, è indubbio che esse furono terribili, ma solo una minoranza assoluta dei profughi ci visse per dieci anni (come si dice in Magazzino 18): per la maggior parte fu un periodo di transizione relativamente breve: in genere, dopo qualche anno, a volte solo qualche mese, i profughi ottenevano alloggi popolari di buona qualità. A Trieste vennero edificati interi rioni esclusivamente per profughi, come il complesso di Chiarbola con 112 edifici per un totale di 868 appartamenti.

Visita a Goli Otok

Infine due accenni: il «controesodo» e i «rimasti».
Cristicchi dimentica che, tra i cantierini monfalconesi andati in Jugoslavia per «costruire il socialismo», quelli che non abbracciarono la causa del Cominform poterono tranquillamente restare in Jugoslavia. Degli altri solo una minoranza venne arrestata ed internata. La maggior parte potè tranquillamente (e mestamente) tornarsene in Bisiacheria. I monfalconesi che finirono nei gulag della costa adriatica furono una quarantina, a dimostrazione che non ci fu alcun accanimento contro di essi «in quanto italiani», ma solo in quanto irriducibili stalinisti.

«A Goli Otok, dopo la visita nelle carceri, si ha a disposizione un piccolo esercizio alberghiero ed un negozio di souvenirs ed inoltre si puo prendere a noleggio una mountain bike per arrampicarsi sui rilievi dell' isoletta.» Clicca sull'immagine se vuoi visitare Goli Otok.

«A Goli Otok, dopo la visita nelle carceri, si ha a disposizione un piccolo esercizio alberghiero ed un negozio di souvenirs ed inoltre si puo prendere a noleggio una mountain bike per arrampicarsi sui rilievi dell’ isoletta.» Clicca sull’immagine se vuoi visitare Goli Otok.

«Non esiste un monumento, una targa. Niente. Goli Otok non c’è nemmeno sui dépliant», dice Cristicchi. Gli segnalo che i dépliant su Goli Otok ci sono eccome e ci si possono anche fare delle visite di diverse ore. Resterà un po’ deluso, perché quella che lui definisce «per quasi 40 anni la prigione della Jugoslavia» fu un carcere per prigionieri politici per non più di dieci anni. Divenne poi un penitenziario per criminali comuni e negli anni ’70 fu trasformato in riformatorio, in cui i giovani detenuti venivano indirizzati all’attività turistica. Alcuni abitanti della costa mi hanno raccontato che in estate i turisti potevano raggiungere l’isola in barca e mangiare al ristorante del riformatorio, dove i reclusi lavoravano come cuochi e camerieri. Raccontano ancor oggi di piatti di pesce ottimi e prezzi bassissimi. Dal 1988 l’intero complesso è stato chiuso ed è ora fatiscente.

I «rimasti»

Cristicchi parla della triste sorte dei rimasti, ma dimentica che le comunità italiane di Fiume, Rovigno, Capodistria, Pola, Cittanova (anzi, come piace dire a lui storpiando: Rigeca, Rovini, Coper, Pula, Novigrad…) ebbero scuole italiane, bilinguismo, la possibilità di relazionarsi con gli uffici pubblici nella propria madrelingua, circoli culturali, cori, giornali, case editrici, rappresentanti nelle istituzioni politiche ecc.

In conclusione credo che Cristicchi sia il primo a dover rispettare quel suo «undicesimo comandamento»: all’inizio di Magazzino 18 parla di un’«enorme amnesia», ma mi pare che questo spettacolo continui a perpetuare un’amnesia altrettanto enorme su altri aspetti che è assolutamente necessario conoscere per capire la storia.
Non dimenticare, caro Simone.

Anzi, magari la prossima volta, per non dimenticare, cerca di informarti meglio.

Una postilla sulla «memoria condivisa»

Piero Purini

Piero Purini

Anche noi, finalmente, abbiamo trovato il tempo e lo stomaco di vedere Magazzino 18.

Siamo pienamente d’accordo con il nostro guest blogger quando dice che l’intento dello show è chiaramente politico e tutta l’operazione si inserisce nella costruzione della solita «memoria condivisa» pseudo-pacificatrice.

E’ su quest’ultima che vogliamo aggiungere qualcosa.

La «memoria condivisa» è in realtà smemoria collettiva, una ri-narrazione della storia italiana che finge di voler mettere d’accordo tutti, siano essi oppressori od oppressi; sfruttatori eredi di sfruttatori o sfruttati eredi di sfruttati; nipoti di italiani che combatterono agli ordini di Graziani (cioè di Hitler) o nipoti di italiani trucidati dai nazifascisti.
Non devono più esserci destra e sinistra, ragioni buone e cattive, scelte giuste e sbagliate. Soprattutto, non deve più esserci lotta. A sostituire tutto questo, una marmellata di «opinioni» preventivamente rese innocue, neutralizzate. Tutti abbiamo avuto le nostre vittime, e le vittime sono vittime, i morti sono tutti uguali ecc.

Frasi come «i morti sono tutti uguali» significano in realtà: tutte le storie si equivalgono, una scelta è valsa l’altra, chi ha avuto ha avuto, chi ha dato ha dato, e chi cazzo siete voi per dirci cosa dobbiamo fare, non ci rompete i coglioni.
I morti saranno forse «tutti uguali» (qualunque cosa significhi), ma sono diverse – a volte opposte e inconciliabili – le cause per cui si muore. Se non si riconosce questo, l’uguaglianza tra i morti è solo una supercazzola per difendere un sistema basato sulla disuguaglianza tra i vivi.

Giorgio Napolitano

Dopo il riconoscimento delle «buone ragioni» dei «ragazzi di Salò» (ma «italiani di Hitler» sarebbe più preciso), è stata tutta una valanga.
In questo processo il «centrosinistra» ha molte più responsabilità del «centrodestra», che è solo passato dalle porte che gentilmente gli venivano aperte. Non a caso quell’apertura ai repubblichini la fece Luciano Violante.

Per capirci: se a fini retorici dovessimo dare a questo revisionismo storico omologante un nome di persona, sarebbe quello di Giorgio Napolitano, che ne è il massimo propugnatore istituzionale. Che dire di quest’estratto da un suo famoso discorso del 2007, dove ogni frase contiene un falso storico?

«[…] già nello scatenarsi della prima ondata di cieca violenza in quelle terre, nell’autunno del 1943, si intrecciarono “giustizialismo sommario e tumultuoso, parossismo nazionalista, rivalse sociali e un disegno di sradicamento” della presenza italiana da quella che era, e cessò di essere, la Venezia Giulia. Vi fu dunque un moto di odio e di furia sanguinaria, e un disegno annessionistico slavo, che prevalse innanzitutto nel Trattato di pace del 1947, e che assunse i sinistri contorni di una “pulizia etnica”.»

In realtà comincia tutto molto prima degli anni Novanta, con la creazione del mito degli «Italiani brava gente». Un mito che agisce tutti i giorni e ci fa chiudere gli occhi su troppe cose, in primis sul nostro razzismo.

Ma c’è anche più di questo: chi controlla il passato controlla il presente. Imporre un orizzonte fintamente pacificato serve a rendere inaccettabile l’idea del conflitto sociale, e quindi a criminalizzare quest’ultimo quando inevitabilmente si manifesta.
C’è un collegamento diretto tra la «memoria condivisa», le «larghe intese» – che hanno una storia ben più lunga dell’ultimo anno, e prima che parlamentari sono intese economiche e culturali – e l’accusa di «terrorismo» scagliata contro chiunque sia interprete di conflitto, o semplicemente non rimuova l’esistenza del conflitto.
Conflitto che è interno alla società, prodotto dalle sue contraddizioni, dall’incessante attrito degli interessi e bisogni contrapposti. Conflitto intrinseco, endogeno, e quindi endemico.

Con buona pace delle dichiarazioni sul «né destra né sinistra», la rappresentazione di una società senza conflitto interno, dove ogni contraddizione viene sfogata contro presunti nemici esterni (volta per volta i mestatori eredi dello «slavocomunismo», i perfidi indiani che sequestrano i «nostri» marò, «l’Europa» ecc.) è una rappresentazione eminentemente di destra.

La storia non è una fiction, noi ricordiamo tutto

Contestazione a Magazzino 18. «La storia non è una fiction, noi ricordiamo tutto». Striscione aperto al Teatro Aurora di Scandicci (FI) la sera del 30 gennaio 2014.

Contributi e analisi critiche su Magazzino 18 (lo spettacolo e l’operazione mediatica)

Lo.Fi.
Magazzino 18: la storia cucinata alla maniera delle Basse Intese
L’autore ha una storia di famiglia direttamente legata all’esodo istriano, ma non accetta la versione di quella storia propagandata da certe associazioni e lobby di profughi. Le stesse lobby che, per il tramite di Jan Bernas, hanno «imbeccato» Cristicchi e le cui posizioni il cantautore romano ripropone acriticamente nel suo show.

Claudia Cernigoi
Recensione di Magazzino 18
Oltre a questa dettagliata disamina, sul sito diecifebbraio.info c’è una pletora di altri materiali in tema.

Linkiamo anche un articolo di Fulvio Rogantin apparso sul sito triestino bora.la:
Esodo, le parole pesano: Cristicchi e dintorni
L’impostazione dell’articolo è molto discutibile: l’autore è troppo teso in uno sforzo bipartisan, di condanna degli «opposti estremismi», e ogni volta che critica Cristicchi deve mettere sull’altro piatto un’equipollente critica a chi critica Cristicchi, and the other way around. Nondimeno, sullo showman, sulla sua superficialità e inadeguatezza, scrive cose che in linea di massima condividiamo:

«E’ forse troppo offensiva la definizione data dalla Cernigoi […] di Cristicchi “testa di legno”, certo la sensazione è quella di un autore che si è innamorato del raccontare una tragedia, un Nabucco contemporaneo, si è innamorato dell’impatto emotivo del magazzino 18, ma che non ha capito dall’inizio che chi lo accompagnava nel suo percorso di conoscenza non aveva una visione neutrale degli episodi. Cristicchi appare non capace di poter affrontare il tema, si difende dicendo che ha dato priorità alle storie delle persone, che ad esempio non parla di numeri. Difende il suo diritto a raccontare le storie della gente e d’altra parte a non fare lo storico. Non tiene conto, o forse lo ha scoperto tardi quando la macchina era già in moto, che queste storie sono ancora per molti, a maggior ragione da queste parti, scontro politico, ideologico. Cristicchi anche nelle poche parole che dice mostra di aver colto poco gli equilibri/squilibri sottili del pantano in cui si è ficcato.»

Abbiamo precisato «in linea di massima» perché secondo noi questa descrizione calzava al personaggio fino a qualche mese fa, ma ora non calza più. Sì, probabilmente all’inizio si è mosso per ingenuità e ignoranza, ma dopo…

Beh, ecco, dopo...

Beh, ecco, dopo…

Noi abbiamo letto le difese di Cristicchi e le sue risposte alle critiche (con tanto di vittimismo arrogante alla Pansa); abbiamo constatato l’uso di miseri escamotages che a noi stessi è capitato di smontare; abbiamo assistito alle cagnare fasciste aizzate da Cristicchi su Facebook contro Claudia Cernigoi (e suo marito). E tutto questo è accaduto prima della contestazione di Scandicci.

Ecco il nostro ponderato parere: l’ignoranza c’è ancora tutta, ma adesso prevale la malafede.

[A proposito: sotto l’articolo di Rogantin c’è l’inferno.]

Molti materiali sulle polemiche intorno a Magazzino 18 si possono trovare sul blog di Marco Barone.

Sull’incendio al Narodni Dom, consigliamo la lettura di questo dossier:
Al Balkan con furore. Ardua la verità sul tenente Luigi Casciana
Casciana è il presunto «martire fascista» di quei giorni. La vicenda è degna del Camilleri di Privo di titolo.

Un’ultimissima cosa, e riguarda i nostri gustibus: noi preferiamo Purini a Cristicchi non solo come fonte su cos’è accaduto al confine orientale, ma anche come musicista. Però, appunto, son gusti nostri.

N.d.R. I commenti a questo post saranno attivati 72 ore dopo la pubblicazione, per consentire una lettura ragionata e – nel caso – interventi meditati (ma soprattutto, pertinenti).

AGGIORNAMENTO AL POST: LA REAZIONE DI CRISTICCHI

Su Twitter, Cristicchi ha deciso di rispondere con la diffamazione nei nostri confronti. Se abbiamo ben compreso, sostiene – impossibile capire in base a cosa – che gli avremmo mandato “sicari” a tagliargli le gomme.
Dopodiché, ha insultato Purini storpiandogli il cognome.
Oltre a essere precipitato nello stato di chi vede ovunque complotti e mandanti, costui dimostra anche di essersi emiliofedizzato al 100%. L’ultimo arrivato dei trovatori di corte ha imparato in fretta, introiettando tutta la sempiterna volgarità del potere italico.

I vaneggiamenti di Cristicchi

Il vaneggiamento diffamatorio di Cristicchi e la nostra risposta.

Gli insulti di Cristicchi

Cristicchi risponde alla recensione critica di Piero Purini insultando l’autore.

Del resto, come segnalato e linkato nel post qui sopra, si era già comportato così con Claudia Cernigoi.
Da costui è del tutto vano attendersi risposte nel merito.

Il commento di Piero Purini.

Il commento di Piero Purini.

AGGIORNAMENTO 19 MARZO 2014: LA GROTTESCA RISPOSTA DI CRISTICCHI E BERNAS

Dopo questi insulti e messaggi diffamatori, Jan Bernas – la «mente» del duo, ma anche il «cuore dannunziano», come scrive nel suo profilo Twitter – deve aver detto a Cristicchi che così non poteva andare. Si sono messi di buona lena e, dopo ben quindici giorni, a quattro mani hanno prodotto una replica davvero scarsa, un pateracchio di distorsioni, attribuzioni sbagliate e malafede, il cui fine evidente era montare contro di noi la solita canea su Facebook. Il livello di serietà è già misurabile dal fatto che continuano a chiamarci «WuMing» anziché «Wu Ming». Evidentemente, proprio non ce la fanno a non storpiare i nomi, è più forte di loro.

Oltre ad attribuire a Purini espressioni nostre, nella noterella linkata sopra – ambiguamente sospesa nella distanza tra «Noi» e «io, io, io» – la coppia Bernas-Cristicchi mette intenzionalmente sullo stesso piano le critiche argomentate ricevute, le scritte sui muri, la contestazione subita a Scandicci (atto duro ma legittimo e antico quanto l’arte del mettere in scena, parente dei fischi a scena aperta provenienti dalla «piccionaia» e del lancio di pomodori che talora si verificava quando il teatro era faccenda più popolarmente schietta e meno fighetta) e il solito, sempiternamente ricordato taglio delle gomme. Tutto equivalente.

Questo ostinato rifiuto di discernere azioni e contesti serve ad accusarci, ancora una volta, di avere aizzato presunti «esaltati».
Sconcerta la facilità con cui i cuori dannunziani mettono da parte quisquilie come il diritto di critica e, in subordine, il fatto che il post di Giap sia successivo a tutti gli eventi ricordati.

Dopodiché, ecco dove si va a parare: «gli artefici di quelle gesta eroiche» (quali? Della contestazione o del taglio delle gomme? Per loro non c’è differenza) «pubblicano commenti proprio sul blog di WuMing» [sic]! Questo spiega come mai i Wu Ming non hanno preso le distanze da ecc. ecc. ecc.

Ai due cantori dell’italianità dell’Adriatico orientale rispondiamo che noi non dobbiamo prendere né prenderemo le distanze dai «gesti scomposti» di nessuno, dal momento che il collegamento tra tali gesti e il nostro (e di Purini) esercizio del diritto di critica esiste solo nella propaganda da chiagni-e-fotti che circonda Magazzino 18. Perché non prendono loro le distanze dagli insulti e dal pattume neofascista che si attacca ai loro post e li segue come bava di lumaca?

Qui sotto, Purini analizza la «risposta», evidenziandone errori e contraddizioni.

Wu Ming, Bologna, 19 marzo 2014

Cristicchi
«L’ARTISTA NON DEVE FARE LOTTA», MA CHI OSA CRITICARLO È COLPEVOLE PER I «GESTI SCOMPOSTI» COMPIUTI DA «ESALTATI»
ovvero: una bizzarra concezione della responsabilità

La risposta di Cristicchi (e/o Bernas: non si capisce dove è scritta a due mani e dove a quattro) dimostra come la mia critica sia stata letta con una superficialità ed una disattenzione che lasciano interdetti. Se la documentazione storica necessaria ad allestire Magazzino 18 è stata preparata con la stessa accuratezza con cui gli autori hanno letto il mio scritto, mi pare che la credibilità storica dello spettacolo sia pressoché nulla. L’altra possibilità invece è che Cristicchi e Bernas manipolino la realtà (in questo caso il mio pezzo) al fine di screditare chi sta scrivendo. Andando a ricostruire punto per punto si vedrà come buona parte delle critiche che mi vengono mosse siano del tutto infondate, in quanto basate – semplicemente – su cose che non ho scritto.

Cristicchi scrive: «Cosa avrei dimenticato secondo Purini? Le fasi principali del fascismo al confine orientale (che invece il mio spettacolo ricorda)».
Nel mio pezzo non ho assolutamente imputato a Cristicchi di non aver ricordato le persecuzioni fasciste, anzi, ho preso atto che nello spettacolo (non nel cd, però!) c’è un’introduzione storica che riguarda il periodo 1915-1943. Ho però stigmatizzato il fatto che questa è decisamente troppo breve (cinque minuti su uno spettacolo di un’ora e tre quarti) per riuscire ad essere esauriente ed a spiegare gli avvenimenti successivi. Riprendo un commento apparso nel blog Wu Ming Giap da parte del commentatore Paolo 1984:

«Riuscite ad immaginare un Cristicchi tedesco che fa uno spettacolo come questo sui tedeschi dei Sudeti dedicando ai crimini nazisti cinque minuti cinque? Io no.»

Neanch’io, semplicemente perché lo scopo di Magazzino 18 non è quello di spiegare e far conoscere un pezzo di storia, bensì quello di confermare il cliché degli italiani brava gente, perennemente vittime. Se carnefici, invece, questo va ricordato solo per 5 minuti.
Inoltre mentre tutto lo spettacolo lo vede protagonista onnipresente, questa parte è l’unica in cui Cristicchi si tira fuori, lasciando la parte più propriamente drammatica (la lettura di un brano scritto da una bambina reclusa nel campo di Rab) ad un’altra attrice. Una presa di distanza personale dalle tragedie che colpiscono i non italiani?

La superficialità della lettura da parte di Cristicchi è confermata pure dalle recriminazioni che fa rispetto a come avrei trattato l’argomento Goli Otok. Secondo lui avrei «omesso» di ricordare i reclusi dell’Isola Calva, descrivendoli come «camerieri» per turisti. A questo punto mi chiedo seriamente se Cristicchi abbia letto quanto ho scritto.

Dossier foibePremesso che ho aggiunto la parte su Goli solo per confutare la frase ad effetto (e falsissima) di Magazzino 18 secondo cui «Non esiste un monumento, una targa. Niente. Goli Otok non c’è nemmeno sui dépliant», ho specificato che l’isola è stato un carcere per detenuti politici fino a metà degli anni ’50, in seguito è diventata un riformatorio, in cui una parte dei reclusi lavoravano come cuochi e camerieri per i turisti che si recavano nel ristorante (annesso al carcere) che c’era sull’isola! A questo punto devo dedurre che Cristicchi non conosca la differenza tra detenuti politici e giovani reclusi in un istituto di correzione minorile. Su Goli Otok vengo inoltre invitato a leggere il libro di Giacomo Scotti Goli Otok. Italiani nei gulag di Tito. Già letto, grazie (conosco anche personalmente Scotti con cui vado spesso a cena quando sono a Fiume). Curiosa però la tendenza di Cristicchi a citare gli autori solo quando gli conviene. Visto che mi invita a leggere Scotti, anch’io lo invito a leggere Scotti: Dossier foibe, libro che forse potrebbe dargli l’idea di come la questione foibe sia stata sfruttata in queste terre per puro tornaconto politico da parte di DC ed estrema destra.

La tendenza di Cristicchi ad utilizzare solo ciò che gli fa comodo si ripete quando nomina la relazione della Commissione mista italo-slovena: «Fra le ragioni dell’esodo vanno tenute soprattutto presenti l’oppressione esercitata da un regime la cui natura totalitaria impediva anche la libera espressione dell’identità nazionale» ecc.
Ma coerentemente a ciò Cristicchi dovrebbe citare la Commissione mista italo-slovena anche quando questa parla di «bonifica etnica» italiana nei confronti degli sloveni (visto che Magazzino 18 insinua una «pulizia etnica» degli italiani da parte degli jugoslavi – tutta da dimostrare – mentre quella italiana nei confronti di sloveni e croati ci fu e fu addirittura dichiarata).

Cristicchi dovrebbe citare la Commissione italo-slovena quando parla della presenza slovena e croata in Istria, invece di sparare frasi fatte come «l’Istria era Italia» (in realtà lo era stata per nemmeno trent’anni), o «anche le pietre parlano italiano» [verso della canzone Di là dall’acqua della band neofascista Compagnia dell’anello, incorporato da Cristicchi e Bernas nel loro spettacolo N.d.R.], luoghi comuni che falsano completamente la prospettiva storica di una regione assolutamente mista sia dal punto di vista culturale che linguistico (tra l’altro con lo stesso criterio si potrebbe dire che a Trieste «anche le pietre parlano viennese», con buona pace dell’idea di Trieste città italianissima).

Divertente inoltre come Cristicchi si dia la zappa sui piedi da solo, sempre citando la Commissione mista, per confutare la mia tesi secondo cui ci fu anche un forte motivo economico a spingere all’esodo. La relazione della Commissione scrive: «…a ciò si aggiunse il deteriorarsi delle condizioni di vita, tipico dei sistemi socialisti» che è esattamente ciò che dico io quando parlo di un’equazione che in quegli anni fu estremamente frequente fra i profughi: Jugoslavia = comunismo = miseria, Italia = Stati Uniti = ricchezza.

Cristicchi mi accusa di aver a mia volta omesso di nominare diversi episodi: la Pasquinelli, il campo di Borovnica, la Linea Morgan, il Trattato di Osimo, ecc. Ha ragione: non ho neanche citato la rottura del Cominform, l’istituzione e la dissoluzione del Territorio Libero di Trieste, il divieto di tenere comizi in sloveno in Piazza Unità durato fino al 1981, la partenza di massa dei triestini per l’Australia… Ho omesso un sacco di cose perché la mia era una critica nei confronti di uno spettacolo. Ma se Cristicchi ci tiene così tanto a conoscere la storia di queste terre, lo invito a comprare il mio Metamorfosi etniche dove troverà tutti gli avvenimenti che non ho citato nella recensione. Sarebbe anche un giusto scambio di cortesie: visto che io ho dovuto vedere il suo spettacolo per poterne scrivere, anche lui potrebbe leggere il mio libro; e se proprio non gli va di dare soldi a quei cattivoni della KappaVu, lo può trovare in biblioteca, anche a Roma.

Passando ad un altro argomento, Cristicchi scrive di essere vittima di un (fantomatico) linciaggio e di gesti di «esaltati», e che queste reazioni deriverebbero dagli articoli scritti da me o da altri.

Innanzitutto, nel momento in cui uno decide di allestire uno spettacolo deve mettere in preventivo di subire delle critiche o anche delle contestazioni. Non mi pare che in passato essere oggetto di fischi o di lanci di ortaggi sul palco significasse essere sottoposti a linciaggio morale: erano semplici inconvenienti del mestiere e segnali consueti di disapprovazione da parte del pubblico. Nel mondo informatizzato di oggi e rispetto ad uno spettacolo che va in televisione, le reazioni ed i giudizi arrivano anche da Internet, sono del tutto legittimi e fanno parte della libertà di parola e di critica.

Che queste critiche originino poi «gesti scomposti» è tutto da dimostrare. Non ritengo di dover prendere le distanze da alcunché semplicemente perché mi sono limitato a scrivere ciò che penso. Sarebbe come dire che un’azienda vinicola debba prendere le distanze da chi eventualmente usa le sue bottiglie per farne delle bombe molotov.

E in quanto alle violenze (verbali), finora l’unico violento e decisamente villano è stato proprio Cristicchi nei miei confronti quando mi ha chiamato «(P)Urina»: le sue scuse giungono tardi e comunque mi pare evidente come il loro unico scopo sia ripulire la propria immagine da una caduta di stile alquanto becera, non certamente il rispetto nei miei confronti.

Infine chiudo con una considerazione su una delle frasi finali di Cristicchi: «il mestiere dell’artista non è fare politica, non è fare lotta.»
Sentire una frase del genere da uno che ha fatto uno spettacolo decisamente politico è grottesco. O non si rende conto di averlo fatto – e dunque è uno sprovveduto -, o fa finta di non rendersene conto – e quindi è un furbo. Basta vedere chi viene a vedere i suoi spettacoli, i commenti che girano sul suo profilo facebook, i suoi anfitrioni a Trieste e altrove (generalmente la créme de la creme della destra locale) per capire che Magazzino 18 è uno spettacolo fortemente politico.

Cristicchi immortalato mentre non fa politica e non strumentalizza dei bambini.

Cristicchi immortalato mentre non fa politica e non strumentalizza dei bambini.

E comunque l’affermazione di Cristicchi è – secondo me – profondamente errata: il mestiere di artista è politica ed è lotta, è analisi estetica del contesto sociale, è interpretazione della polis e del mondo attraverso l’arte. Da Eschilo a Seneca, da Dante a Shakespeare, da Beethoven a Luigi Nono, Wagner e Verdi, Brecht, Majakovskij, Dario Fo, Victor Jara, Marinetti, D’Annunzio (cito questi ultimi due perché forse gli sono più congeniali), l’arte è sempre stata politica, ha avuto una funzione politica, a volte conformista, molto più spesso di denuncia del potere e di trasmissione di ideali attraverso l’estetica. Il mio giudizio finale su Magazzino 18 è proprio l’opposto di quanto dice Cristicchi: temo si tratti di un’opera precipuamente politica, che invece – mi pare – di artistico ha ben poco.

Scarica questo articolo in formato ebook (ePub o Kindle)Scarica questo articolo in formato ebook (ePub o Kindle)

173 commenti su “Quello che Cristicchi dimentica. Magazzino 18, gli «italiani brava gente» e le vere larghe intese

  1. Una delle cose che i “costruttori della memoria condivisa” ripetono in modo ossessivo, è che in Italia non si sarebbe mai parlato di foibe e esodo prima dell’istituzione del giorno del ricordo. Io sono nato e cresciuto a Gorizia, e di queste cose ho sentito parlare – in modi diversi e da punti di vista diversi – praticamente da sempre. Dicono che però a ovest del’Isonzo non fosse cosi’. Ok, posso immaginare che a Frosinone non passassero le giornate a discutere di foibe. Però… nel 1983 lo storico triestino Galliano Fogar sentì l’urgenza di intervenire nel dibattito mainstream nazionale, in seguito alla pubblicazione di diversi fascicoli divulgativi della rivista popolare “Storia Illustrata” diretta da Antonio Pitamitz. Già allora Fogar delineò in modo lucidissimo quali fossero i contorni dell’ operazione pseudostoriografica, tutta politica, che cominciava a prendere forma intorno al *mito* del confine orientale: la rimozione sistematica dalla memoria storica delle persecuzioni fasciste contro sloveni e croati a partire dal 1918, dell’espansionismo italiano verso i balcani culminato nell’invasione dela Jugoslavia nel 1941, dei crimini di guerra italiani, del collaborazionismo, eccetera…. Fogar spiegava che se non si delinea in modo esplicito *quel* contesto, allora le violenze e le stragi del ’43 e del ’45 diventano automaticamente “barbarie slava”. Scriveva Fogar:

    “Tornando al servizio del Pitamitz che considera in sostanza l’operato del «nazionalsciovinismo» comunista jugoslavo come il fattore prioritario, determinante per le sorti e traversie della comunità nazionale, rispetto a quello della politica fascista e nazista, osservo che è un discorso, un’ottica, ancora condivisa e radicata a Trieste in strati consistenti dell’opinione pubblica ed in quella stampa che per decenni ha propagato schemi identici o simili: lo slavocomunismo principale minaccia e principale responsabile, per cosciente volontà di dominio e sopraffazione se non addirittura di sterminio, delle sofferenze inflitte alla popolazione italiana. Una tesi che riecheggia, a guardar bene, posizioni e giustificazioni del collaborazionismo nazionalfascista e confindustriale del 1943-45. Ed è un discorso che trova ricetto o rilancio, pur con sfumature e accenti diversi, in gruppi dirigenti del municipalismo nazionalista (che negli anni ’70 ed ’80 hanno riproposto non solo le formule ma anche il linguaggio dello scontro nazionale e di classe del ’45 e anni seguenti), e in persone ed ambienti di partiti democratici: vuoi, in questo caso, per convinzioni ereditate dalle esperienze del dopoguerra, vuoi per convenienza tattica onde raccogliere o conservare i voti degli elettori istriani profughi a Trieste e per mantenere in tutto o in parte il controllo sulle associazioni dei profughi, anche quelle di tendenza ultranazionalista già gestite o largamente infiltrate da notabili del fascismo istriano del ventennio e di reduci nostalgici della Repubblica di Salò (5).”

    Fogar avvertiva tutto il pericolo dell’esportazione oltre-Isonzo di questa narrazione tutta triestina. E infatti, molti anni dopo criticò aspramente Ciampi per il contenuto del suo discorso in occasione del Giorno del Ricordo:

    “Il messaggio di Ciampi per la giornata del Ricordo dell’esodo istriano, fiumano e dalmato, senza alcun cenno al fascismo e alle sue colpe per quanto è poi avvenuto nella Venezia Giulia, può anche indirettamente suffragare l’idea, tutta post-fascista, che su questi confini si sono fronteggiati due totalitarismi, quello nazista e quello comunista jugoslavo di stampo stalinista. Non è stato così. E il fascismo dov’è? Io rispetto ciò che dice Ciampi per il fatto che gli italiani dell’Istria, di Fiume e di Zara dovettero abbandonare le terre perse, ma anche lui dimentica di ricordare che tutto ciò, anche se è certamente da condannare sul piano umano e morale, ebbe il suo terreno di coltura nella violenza fascista e nell’invasione e disgregazione della Jugoslavia da parte italiana e tedesca. Senza questo non si può discutere, non esiste una storia a metà.”

    e ancora:

    “I grandi mezzi d’informazione hanno gravi responsabilità perché non si documentano e si limitano ad ampliare e ad avallare stereotipi nazionalisti e fascisti sulla storia del confine orientale: dalle foibe viste come genocidio di tutti gli italiani al sempre incombente pericolo slavo-comunista. Per quanto riguarda le foibe, per esempio, in tanti continuano a parlare di 12.000-50.000 vittime, mentre i dati obiettivi parlano di 4.000-6.000 persone scomparse in tutta la Venezia Giulia, tra il ’43 e il ’45, e non solo per infoibamento. Nessun giornalista si rivolge al nostro istituto per avere informazioni reali. Pochi sono anche gli storici che ci interpellano. Così le bugie si perpetuano nell’ignoranza”

    p.s. Fogar non era nè comunista, nè filojugoslavo. Era un azionista, membro del CLN triestino (quello anticomunista, nato in contrapposizione al partito comunista).

    Qua l’articolo di Galliano Fogar:

    http://www.didaweb.net/fuoriregistro/leggi.php?a=6977

  2. Bè..il Cristicchi si conferma un vero signore.

    La lettura del post mi ha stimolato altre riflessioni a margine delle varie analisi apparse in queste settimane.
    La prima, la retorica “forte” veicolata nell’opinione pubblica, e ormai data per assodata da chiunque, è il nesso causa-effetto tra “foibe” e “esodo”. Nell’opinione pubblica, tale rapporto fantasioso produce più o meno questo pensiero: in Istria si operava una pulizia etnica (di cui le foibe costituivano la sineddoche), *dunque* gli italiani sono dovuti scappare. Inutile stare a ripercorrere le vicende per cui tale nesso è inventato, sono sballati i riferimenti temporali (le cd foibe riguardano il ’43-’45, l’esodo dal ’47 al ’56, ma comincia prima e termina addirittura dopo, come spiega benissimo Purini), perchè l’altra prova su cui si basano i foibologi è l’italianità dei corpi ritrovati. Tutti erano italiani, d’altronde tutti i ritrovati portavano cognome italiano (che poi, neanche tutti). Inutile spiegare che l’italianizzazione forzata dei cognomi portò migliaia di sloveni e croati ad assumere un cognome italiano artificiale. Così facendo, evidentemente tutti i corpi ritrovati sembravano italiani. Vallo a spiegare a chi pensa che “anche le pietre parlavano italiano”.
    Terzo, si accusa l’amministrazione jugoslava di aver identificato l’italiano con il fascista, colpendo a casaccio senza distinzioni di responsabilità politica. Qua l’analisi di Purini centra la questione: chi è che aveva per due decenni prodotto ideologicamente l’identificazione tra italiano e fascista se non il fascismo stesso? Forse l’amministrazione centrale jugoslava avrebbe dovuto mirare con maggiore perizia, ma la popolazione locale istriana, nella furia della vendetta storica, con chi se la sarebbe dovuta prendere se non con il colonialismo fascista, identificato per due decenni con l’italiano tout court?
    Ma quello che contestano i foibologi non è tanto la “qualità della mira” jugoslava, quanto proprio il fatto che questa abbia cercato di catturare, processare e condannare i criminali di guerra italiani. E’ questo che la Jugoslavia si è permessa di fare (peraltro non riuscendoci), e sembra proprio lo stesso frame rivisto ad esempio nella vicenda dei due marò: non è importante l’accertamento della verità, quanto il fatto che l’italiano dev’essere giudicato in patria. Quanti hanno pagato per i crimini di guerra operati dal colonialismo italiano? Quanti per la guerra d’aggressione nazifascista? Quanti i vertici politici e burocratici condannati per il proprio sostegno al fascismo? Nessuno, se non con pene irrisorie subito amnistiate.
    Quale credibilità dunque può avere un sistema giuridico simile agli occhi di una ex-colonia come l’India?

    • Non dimentichiamo, però, che anche tra gli istriani e i dalmati di lingua e cultura italiana (o istroveneta) ci fu chi si unì alla lotta partigiana. Pino Budicin, per esempio:
      http://www.anpi.it/donne-e-uomini/giuseppe-budicin/

      E’ un fatto risaputo, ma per chi non viene da queste parti riporto un passo dell’articolo di Fogar già citato da Tuco:

      “Bisogna tentare di capire comportamenti e reazioni delle forze in campo e i moventi di violenze che, come quelle del ’43 in Istria, esplodono sull’onda di una rivolta contadina di massa che travolge anche persone innocenti perchè ritenute strumenti del “padrone” italiano, dell’odiato regime fascista italiano. E che non vi fossero preordinati piani di stragi e stermini per distruggere la presenza italiana, lo dimostra fra l’altro l’aiuto che le poverissime popolazioni slave dell’Istria , in questo unite a quelle italiane, diedero a migliaia di soldati italiani inermi braccati dalle truppe tedesche, molti dei quali alle forze di occupazione in Balcania e la partecipazione o il sostegno che numerosi italiani diedero alla lotta antinazista nel settembre ’43 e negli anni successivi a fianco o inquadrati nelle formazioni slovene e croate.”

  3. Oggi, su Facebook e su Twitter, Cristicchi ha riesumato la vecchia storia di Fojba 2000, linkando il terribile videogame che i perfidi slavi komunisti anti-italiani avrebbero a suo tempo messo on line per fare l’apologia degli infoibamenti. Ooooohhhhh….! Indignazione.

    E’ un falso, naturalmente, che noi avevamo smontato su Giap (quand’era ancora una newsletter) il 7 marzo del 2005:

    «Estate 2000: Mladina [rivista slovena, N.d.R.] mette on line un videogame modellato sul Tetris, solo che l’ambientazione è l’orlo di una cavità carsica e i mattoncini da far scendere sono – a scelta – cadaveri di domobranci (miliziani filo-nazisti) o di partigiani titini.
    Già questa ironica forma di “par condicio” […] dovrebbe far drizzare le orecchie, ma gli italiani che passano di là – su imbeccata di qualche fascistone giuliano – non sanno lo sloveno né conoscono la storia. La parola “domobranci” è per loro un mistero.
    Il gioco viene scambiato per un attacco all’Italia, all’Italianità e chi più ne ha più ne metta, anche se in Fojba 2000 non figurano italiani: le vittime virtuali – di destra e di sinistra – sono tutte slave.
    A rigore, uno che non sappia chi erano i domobranci non dovrebbe avere il diritto di aprir bocca sulle foibe, tantomeno di scandalizzarsi per quanto avvenne in quelle zone. Ma questo fa parte del problema: nessuno sa un cazzo, e chi più apre bocca per darle aria è proprio chi meno sa.
    Per farla breve, scoppia un grande scandalo al di qua del confine, e il bello è che dalla messa on line sono già passati diversi anni. Come sempre è tutto un cadere dalle nuvole, un finto rimanere a bocca aperta, un artificioso indignarsi. Il ministro per l’innovazione tecnologica Lucio Stanca chiede alla Farnesina di “attivare i canali diplomatici affinché venga posta alle autorità slovene l’esigenza di oscurare subito l’offensivo e vergognoso gioco”. Le autorità slovene, giustamente, se ne fottono.
    A sfuggire è il contesto. Mladina, con pazienza, lo spiega:

    “Il gioco rifletteva il clima politico dell’estate del 2000, quando un esecutivo di centrodestra aveva sostituito il governo di Janez Drnovsek. Il premier era Andrej Bajuk, sloveno ritornato in patria dall’Argentina, che non ha mai nascosto le sue simpatie per i domobranci e l’ostilità per tutto ciò che ricordava l’epoca di Tito. Il suo governo durò solo sei mesi, nell’ottobre del 2000 fu sconfitto dalla coalizione di centrosinistra che riportò al governo Drnovsek. Nella presentazione ci si riferiva, infatti, alle elezioni imminenti. ‘Offriamo ai lettori di Mladina un singolare attrezzo di fitness per un allenamento preelettorale’” »

  4. Una curiosità. Qualche giorno fa sulla pagina FB di Cristicchi era tutto un gongolare perché Elena Donazzan aveva dichiarato: «Magazzino 18 va visto da tutte le scolaresche del Veneto».

    Ma chi è Elena Donazzan?

    Questo è il ritratto che le abbiamo fatto qui su Giap tre anni fa, quando insieme ad altri amministratori cercava di mettere al bando i nostri libri – e quelli di altri autori politicamente (per lei) inaccettabili – dalle biblioteche pubbliche del Veneto:

    http://www.wumingfoundation.com/giap/?p=2695

    Il mondo è piccolo, vero?

  5. Anche nella mia mente trovo un piccolo magazzino di masserizie di esuli istriani, in questo caso masserizie immateriali di esuli che non facevano parte di alcuna associazione di esuli perchè di queste associazioni non condividevano l’uso politico che ne facevano dell’esodo istriano-dalmato.
    Questi racconti sono rimasti ben impressi nella mia mente perchè sono pezzi di una storia inabissata, rimossa dal discorso pubblico sia di una destra nazionalista italiana che si intestava l’esodo come cosa propria sia di una sinistra italo-slovena, comunista e socialista, che non ne parlava per ragioni di realpolitik, lasciandolo alle memorie private e al passaparola. Escluse dal discorso politico ufficiale, queste memorie raccontavano di un altro esodo già molti decenni fa. Ecco alcune di queste masserizie immateriali rimaste nella mia mente.

    Libero. Tagliandomi i capelli quand’ero studente, polemizzava bonariamente con le mie critiche da sinistra al PCI, del quale aveva da sempre orgogliosamente la tessera, con un’ammirazione sconfinata per Paolo Sema, come lui esule dall’Istria a Trieste, prima segretario della FIOM, poi consigliere regionale e in quel momento senatore del PCI, che poi fonderà il centro di studi e documentazione della CGIL e, come ultima fatica, scriverà nel 2004 “Siamo rimasti soli. I comunisti del PCI nell’Istria occidentale dal 1943 al 1946”. Prima di essere costretto ad abbandonare l’Istria, Paolo Sema era stato anti-fascista, partigiano e dirigente del PCI nella zona di Pirano, dalla quale anche Libero proveniva e raccontava che, pochi mesi dopo la fine della guerra, non sventolavano più le bandiere rosse, ma quelle nazionali jugoslave e agli slogan sull’unità proletaria si erano sostituiti quelli sulla patria jugoslava. A chi, come Paolo Sema, osava criticare quell’evoluzione era stata tolta l’agibilità politica se non peggio. I cosiddetti “poteri popolari”, espressione del Partito Comunista di Jugoslavia, avevano sciolto il CLN, il PCI e tutti gli altri partiti anti-fascisti degli italiani d’Istria. Paolo Sema era stato destituito dall’incarico di preside del liceo di Pirano e gli era stato anche impedito l’insegnamento. Eravamo nei mesi dopo la fine della guerra, ancora un paio d’anni prima della rottura tra Tito e Stalin del 1948. Alcuni anni dopo Paolo Sema era stato costretto a lasciare l’Istria e anche Libero aveva fatto lo stesso.

    Antonia. Di famiglia di origine slovena, diventata bilingue, con un padre che si era preso una medaglia durante la prima guerra mondiale nell’esercito austriaco, ma ne parlava come di un assurdo massacro, nel periodo precedente la seconda guerra mondiale prendeva lezioni private dal padre di Paolo Sema, Antonio Sema, il quale era stato espulso dall’insegnamento per il proprio anti-fascismo. Diventata insegnante a sua volta, durante la guerra aveva visto i tedeschi bruciare un paese sloveno per rappresaglia. Dopo la fine della guerra, venuta a conoscenza della destituzione di Paolo Sema da preside e dall’insegnamento per motivi politici, era rimasta colpita dal parallelismo col padre, Antonio Sema, fatto oggetto dalla stessa misura da parte del regime fascista. Questo fu uno di una serie di fatti, tra i quali la sparizione di persone conosciute, che la convinsero poco dopo ad abbandonare l’Istria per Trieste. Mai iscrittasi ad alcuna associazione di esuli, diceva di votare socialista.

    Ernesto. Uno zio militante socialista, picchiato e costretto a bere l’olio di ricino dagli squadristi e che gli aveva raccontato delle elezioni vinte dai fascisti con le minacce e i brogli, un padre di lingua italiana che però si era rifiutato di italianizzare il proprio cognome subendone conseguenze sul lavoro, un servizio militare durante la guerra in una zona della Jugoslavia in un reparto che, dopo l’8 settembre 1943, si era unito ai partigiani, finita la guerra era entrato da socialista nel CLN della sua zona in Istria, convinto di partecipare alla costruzione di una democrazia del lavoro fondata sull’internazionalismo. Un sera a casa sua era arrivata la polizia titina a prelevarlo. Rinchiuso in un carcere improvvisato, gli era stata annunciata la sua eliminazione il giorno successivo. Durante la notte un compagno lo aveva aiutato ad evadere, aprendogli la finestra della stanza dall’esterno. Fuga a piedi verso il confine, rocambolescamente attraversato con l’aiuto di un gruppo di lavoratori transfrontalieri sloveni che l’avevano messo in mezzo e fatto passare per uno di loro. Anche lui mai iscritto ad associazioni di esuli, diceva di votare socialista, nonostante nel PSI di allora a Trieste erano presenti anche gli ex titini triestini, entrati dopo l’evoluzione pseudo-autogestionaria e neutralista, ma in realtà filo-occidentale, del Partito Comunista di Jugoslavia.

    Joze. Il falegname di mio zio era una buona persona, ma si faceva prendere da improvvisi attacchi d’ira puramente parolai, nei quali, molto spesso, dava sfogo ai propri viscerali sentimenti anti-italiani, dei quali non sopportva quelle che, secondo lui, erano le negative caratteristiche nazionali. Dunque era un nazionalista sloveno, ma anche un esule istriano in Italia, a Trieste, dove diceva di votare per l’Unione Slovena, partito di sloveni antifascisti non di sinistra. Il suo anti-comunismo cattolico, che gli sfuggiva a causa dei suoi attacchi d’ira, dopo la guerra gli avevano consigliato di togliere il disturbo dalla patria jugoslava, prima che gli costassero cari.

    Ho tirato fuori dalla mia mente alcune masserizie immateriali perchè la memoria di questo tipo di esuli è stata rimossa. Era politicamente scomoda sia per la destra nazionalista italiana che per la sinistra italo-slovena che per la realpolitik dello stato italiano che, in quanto parte della NATO, considerava lo stato jugoslavo, in rotta con l’URSS, un alleato sottobanco da non disturbare. Quella di questo tipo di esuli è una storia a lungo rimossa che racconta di un doppio nazionalismo – italiano e sloveno/croato – e di un triplo totalitarismo – fascista, nazista e titino – che hanno calpestato nel novecento le istanze internazionaliste e di liberazione o anche semplicemente la vita umana e la libertà di espressione in queste zone. Troppo si è rimosso della dittatura fascista nazionalista – e razzista – ma anche troppo si è rimosso del dispostismo burocratico-nazionalista titino, in nome della sua rottura del 1948 con l’URSS e dell’alleanza di fatto con la NATO, coperta da un neutralismo di facciata sotto il quale scorrevano milioni di dollari americani. Per raccontare la storia di questo tipo di esuli, dei quali ho riferito pezzi di racconti, rimasti in mezzo tra il nazifascismo e lo stalinismo titoista, come molti anarchici, socialisti e comunisti non allineati in Spagna, ci vorrebbe qualcosa come “Omaggio alla Catalogna” di George Orwell, da cui un Ken Loach tragga un “Terra e libertà” in salsa istro-dalmata. Chissà, forse un giorno arriverà.

    • Aggiungo, sempre per smentire i clichés, che molti optarono per l’esodo senza per forza subire pressioni politiche, ma ad esempio per la scomparsa del proprio nucleo famigliare e del proprio universo culturale di riferimento, come nel caso di Fulvio Tomizza; molti emigrarono per ragioni economiche e sociali, perché non seppero integrarsi lavorativamente nel nuovo regime. Famiglie di mezzadri come quella dei miei bisnonni paterni semi-croati, abituati per secoli a quel tipo di rapporto lavorativo, non riuscirono ad adattarsi al nuovo ordinamento che richiedeva uno sforzo evolutivo per il quale non avevano gli strumenti (erano analfabeti e avevano sempre vissuto in campagna). Se è facile capire le motivazioni all’esodo della middle-class urbana più complessa è l’analisi dell’esodo dalle campagne.
      Per queste ragioni ho sempre pensato che lo strumento adatto per spiegare e indagare l’esodo istriano sia l’antropologia culturale e non di sicuro la pseudo-pseudo-storiografia di propaganda, che è quella che informa di sé Magazzino18 dall’inizio alla fine. D’altronde gli esodi di popolazioni sono sempre stati trattati dall’antropologia e dall’etnografia che sono adatte a studiare “complessità” e “movimenti lenti”, a indagare le motivazioni di un gruppo sociale e ad archiviare la memorialistica senza maneggiarla come verità storica lacrimevole ma inscrivendola in un quadro generale con il giusto distacco e sospensione del giudizio.
      Qualcosa del genere l’ha fatto Gloria Nemec nel saggio “Fuori dalle mura. Cittadinanza italiana e mondo rurale slavo nell’Istria interna tra guerra e dopoguerra” inserito in “Nazionalismi di frontiera” (Rubbettino, 2003) – che analizza la vicenda di Grisignana d’Istria / Grožnjan. Ovviamente questo tipo di studi non sarebbero mosche bianche come lo sono attualmente se veramente ci fosse la volontà di spiegare l’esodo istriano e non lo si volesse usare come clava nazionalistica, per quello vincono sempre Mieli, Cristicchi e cuori nei pozzi Neri…

    • @ginseng

      Che storie interessanti!

      La Jugoslavia anche dopo la rottura con Stalin era in fondo un altro stalinismo anche se, come il maoismo, nato da una rivoluzione autentica e non direttamente dalla sua usurpazione. La rivoluzione jugoslava riuscì a trattare con attenzione e intelligenza quasi tutte le questioni nazionali sovrapposte e incacrenite una nell’altra che piagano quella zona e che la restaurazione integrale del capitalismo dopo la morte di Tito ha fatto riesplodere come sappiamo.

      Due casi in cui fallì furono nei rapporti con gli italiani, e in particolare coi comunisti e gli antifascisti italiani, e in quelli con gli albanesi del Kosovo, anche se qualche sforzo per includere anche loro nel sistema jugoslavo fu fatto. Credo che abbia giocato un ruolo nefasto il fatto che questi due gruppi etnici fossero in qualche modo legati a due Paesi esterni alla Federazione Jugoslava, rispettivamente l’Italia capitalista (e per giunta imperialista ed ex fascista) e l’Albania “socialista” di Enver Hoxha (che finì per intendersela con la Cina, col risultato pazzesco che a un dato momento i Balcani “socialisti” erano divisi da tre “osservanze” diverse: Belgrado, Mosca, Pechino). Ma erano proprio questi casi la cartina al tornasole dell’internazionalismo, perché è comunque troppo facile essere internazionalisti ponendo come condizione il rispetto delle frontiere…

      Un libro che ha provato a sfiorare in modo un po’ “orwelliano” le contraddizioni di quel periodo e di quelle terre io l’ho letto: “54”, di un certo Wu Ming.

  6. Volevo iniziare il mio commento in altra maniera ma dopo aver letto l’aggiornamento al post mi é salito un po’ il sangue alla testa. Ma dico, uno riceve una critica rispetto al suo lavoro e l’unica cosa che pensa di fare è quella di mandare affanculo chi ha speso del tempo per far conoscere la propria opinione. Ma deve funzionare tutto così di ‘sti tempi?
    La critica di Purini, seppur aspra, non é stata mai offensiva nei confronti di Cristicchi e questo dopo averla letta lo offende e dice che l’analisi si smonta in cinque minuti.
    Caro Simone, invece di offendere, fallo. Smontala questa analisi, li troverai cinque minuti. Invece di offendere difendi il tuo lavoro. Hai portato in scena una cosa a cui credi, hai pianto mentre recitavi e allora trova il tempo di spiegare certe scelte oppure taci perché il tuo commento é la risposta di un uomo che non ha argomenti. E poi non si tratta di smontare analisi si tratta di confrontarsi si tratta di difendere le proprie scelte e magari qualche volta ammettere che forse si sarebbe potuto far altro.
    Poi il fatto di accusare i Wu Ming di essere i mandati di un attentato alle gomme della sua auto può far sorridere ma anche no. Un tweet come quello della gomma lo scrive una persona disturbata e siccome non penso che Cristicchi lo sia allora c’é una “strategia” di fondo perché non posso credere che un persona sana di mente nella sua posizione possa credere realmente che degli scrittori abbiamo pagato delle persone per compiere atti vandalici nei suoi confronti.
    La strategia di fondo é quella di immedesimarsi con l’esule e l’infoibato, con la vittima, dopo tanti anni, su scala diversa ma sempre vittima di una persecuzione. Patetico.

    Per quanto riguarda l’articolo di Piero, che condivido e apprezzo volevo aggiungere qualcosa relativamente allo spettacolo in quanto tale. Dunque Cristicchi dice di voler difendere il suo diritto a raccontare le storie della gente e che non é sua intenzione fare lo storico. Sono d’accordo, ma anche senza fare gli storici ci sono modi e modi di narrare attraverso il teatro fatti storici. Molte critiche hanno evidenziato come venti e passa anni di occupazione, violenze eccidi e sopraffazioni italiane in quelle terre siano state liquidate in pochi minuti tanto da far sembrare quella parte dello spettacolo messa lì giusto per una parvenza di “par condicio”. Io dico che non é tanto una questione di minuti ma di come vengono messi in scena questi minuti. Non tanto di quantità ma di qualità. La persecuzione fascista e il processo di italianizzazione vengono descritti senza l’aiuto di una scena carica di pathos come quella delle foibe o della strage di Vergarolla ma offerti al pubblico come in una conferenza. Mai in tutto lo spettacolo Cristicchi ci regala una scena recitata dove il carnefice sia un fascista. Lo fa a metà con la bambina che descrive le sue precarie condizioni di vita nel campi di prigionia ad Arbe scegliendo una soluzione scenografica d’effetto ma guarda caso non é lui a recitare quelle parole. Questa é una scelta teatrale che però denota la presa posizione chiara e netta di Cristicchi .Lui sul palco (e adesso sembra anche nella vita vera) é la vittima dell’odio contro gli italiani quello é il suo ruolo il resto é contorno. É chiaro che lo spettatore a fine spettacolo avrà ben in mente il dramma delle foibe e dell’esodo perchè questi aspetti sono stati drammatizzati e inevitabilmente restano più nel cuore rispetto alle citate e basta violenze antislave.
    Altri momenti deprecabili sono il coro di bambini che intona “un colpo alla nuca e giù nelle buca” di pessimo gusto veramente e lo sfottò agli operai di Monfalcone che vanno in Yugoslavia (controesodo lo chiama lui) attirati da un sogno socialista e che per alcuni di loro si trasforma in dramma. Qui poteva citare questo episodio come ha fatto per l’incendio del Narodni Dom e invece ha messo di mezzo di nuovo il coro dei bambini affinché lo spettatore si ricordi che c’é stato anche qualche scemo che si é tuffato nell’inferno da dove era logico e naturale scappare.

    Concludo ricordandovi che il 30 aprile ricorrerà il 70° anniversario della strage di Lipa, che in questo contesto c’entra molto. Il quel tragico pomeriggio in questo paesino, che dista solo una sessantina di km dalla mia città, Trieste, e che oggi si trova in Croazia a ridosso del confine sloveno, furono trucidate 269 persone. Donne, vecchi e bambini. 121 bambini. Una delle stragi nazifasciste più efferate della seconda guerra mondiale e anche una delle meno conosciute. Quel giorno saremo all’auditorium della Casa della Musica di via Capitelli 3 a Trieste, verso le 21.00 per una serata commemorativa. Verra letto ed interpretato da quattro attori un mio testo che parla della strage con l’aiuto di una nutritissima band che suonerà dal vivo. Non é un testo “Anti-Cristicchi”, anche perchè parte di esso é stato scritto nel 2010 quindi ben prima di Magazzino 18, ma un omaggio a chi ha dovuto affrontare così tragicamente la morte. Mi piace pensare che dare vita ad una storia e ai suoi personaggi sia un bel modo per farlo. Ovviamente entrata libera.

    • Ecco questo commento illustra molto meglio la disonestà artistica e non solo storica di #Magazzino18 di quanto sia riuscito a farlo io con il mio modesto contributo sul mio tumblr, perché analizza lo spettacolo con cognizione di tutti i codici della messinscena e non solo del tempo cronometrico, ché la difesa dell’autore dietro il paravento della licenza artistica poi è la più vigliacca.
      Quando tutte le licenze poetiche di un’opera vanno in una sola direzione vuol dire che l’intento è la propaganda, come ben spiegava WM1 in “Allegoria e guerra in 300”.
      Da quando in qua “licenza poetica” significa irresponsabilità dell’artista sui messaggi politici perdipiù espliciti che veicola? Utilizzare il meccanismo della sospensione dell’incredulità (l’interruzione della verosimiglianza e della logica a fini artistici) per far passare becera propaganda senza pagar dazio mi sembra quanto meno infantile.
      Cristicchi (o chi gli ha scritto la parte) non ha omesso cose a caso per esigenze di semplificazione, ha omesso tutto quello che avrebbe interferito con uno specifico messaggio di propaganda: l’arcinota italianità calpestata, dal trattato di Rapallo in poi il mantra è sempre quello. Tutto ciò che nello spettacolo non rientra in questo frame ricorrente fino all’ossessione è sotto tono, inserito con piglio pedantesco, scollegato, quasi come la lettura veloce e atona dell’elenco degli effetti collaterali nelle réclame dei medicinali.
      Anche Shakespeare distorceva i fatti storici per piegarli ai suoi fini drammaturgici, ma lo faceva per esigenze formali e diegetiche.
      In tempi più recenti rammento l’episodio di “Miracolo a Sant’Anna” di Spike Lee, in quel caso pur discutibile (ineccepibili par mio le parole scritte a suo tempo da Wu Ming 2 su New Italian Epic) la storia veniva modificata per esigenze di plot, se si toglieva il particolare del tradimento partigiano cadeva tutto l’impianto narrativo del film. In Magazzino 18 tutte le distorsioni e omissioni non sono funzionali né al misero escamotage narrativo del ragionier Persichetti né alla metrica delle canzoncine, volendo lo stesso spettacolo, con la stessa struttura, avrebbe potuto essere scritto utilizzando fonti equanimi e circostanziate. Che poi è ancora più ridicolo rifugiarsi dietro la causa dell’art for art’s sake quando i padrini politici di quest’operazione e le relative contrattazioni sui contenuti sono state rese note anche dalla stampa.

      • Grazie per la risposta. Fai bene a dire che non c’è stata nessun esigenza narrativa e teatrale che ha costretto Cristicchi ad operare queste scelte. E fai benissimo a linkare l’articolo del Piccolo di qualche giorno antecedente la prima di Magazzino 18. La polemica scatenata dalla destra era stata molto accesa poi dopo la prima si chiaramente spenta completamente.

        Cito dall’articolo:

        Cristicchi aveva fatto leggere il testo a tanti per evitare errori e omissioni, oggi Renzo Codarin, presidente dell’Associazione nazionale Venezia Giulia e Dalmazia e della Federazione degli esuli esce dal coro: «L’autore ha accolto un suggerimento costruttivo, una bambina leggerà in sloveno una poesia sul campo di concentramento di Arbe dove dal 1942 furono rinchiusi sloveni, e va bene. Ma Pahor non va bene, perché ha sempre avuto parole molto negative sugli esuli. L’autore è in gamba, Budin subisce ancora pressioni molto forti dalla sua parte etnica, ma in definitiva – dice Codarin – bisogna lasciare libertà: Cristicchi porterà in scena il testo che ha deciso, coloro cui non piace se ne scriveranno un altro.

        Mi fa da ridere quel “e va bene” sulla poesia di Arbe che quindi scopriamo non essere una scelta dell’artista ma un “suggerimento costruttivo”. Su Pahor non dico niente perché non ho mai letto niente di suo ma si capisce chiaramente che il veto è stato messo sulla persona più che sul suo testo.

        Magazzino 18 più che uno spettacolo è stato una merce di scambio fin dall’inizio e Cristicchi ha fatto le sue scelte. Peccato anche perché come attore non mi è dispiaciuto.

  7. Ricordo cosa può succedere, nell’Italia di questi anni, se organizzi un’iniziativa sulle #foibe non allineata al pensiero nazionalista dominante e imposto per legge.

    Irrompono i fascisti con spray al peperoncino e fumogeni e cercano di aggredire la storica invitata a parlare, com’è successo a Verona l’anno scorso:

    http://storiedimenticate.wordpress.com/2013/02/13/verona-aggressione-fascista-alluniversita-lancio-di-fumogeni-e-spray-in-occasione-di-un-incontro-sulle-foibe/

    L’estrema destra minaccia e fa pressioni sulle istituzioni locali, che zelanti negano la sala, com’è successo a Como poco tempo fa (sindaco PD, l’iniziativa era dell’ANPI):

    http://www.senzasoste.it/anti-fascismo/como-il-sindaco-pd-obbedisce-ai-fascisti-di-militia-e-sfratta-l-anpi

    In entrambi i casi, la storica invitata a parlare era Alessandra Kersevan. Sono anni che le succedono cose del genere. Come succedono a Claudia Cernigoi, che da anni subisce ingiurie, minacce, addirittura appostamenti di fasci, scritte sui muri della sua città e davanti a casa, stalking telematico ecc., come racconta nella sua testimonianza “Scusate se parlo di me” (PDF qui).

    • Sarà bene anche ricordare che quasi regolarmente, ogni qualvolta la Kersevan si sposta dalla propria città per prendere parte ad eventi/iniziative trova, alla stazione d’arrivo, la digos ad accoglierla.

  8. Più o meno sullo stesso argomento segnalo il libro del già citato Galliano Fogar, “sotto l’occupazione nazista nelle provincie orientali”.

    http://www.tusfiles.net/meoc2958q4vc

    (cliccare su “scarica file”, in mezzo, e deselezionare “use our download manager”)

  9. Riguardo alla mancata o scarsa contestualizzazione storica di Magazzino 18, in cui tutti gli antefatti storici sono stati compressi in cinque minuti su novanta, mi viene naturale associare il lavoro di Cristicchi a uno spettacolo portato in scena di recente dal Teatro stabile sloveno del Friuli Venezia Giulia. Si tratta del dramma documentaristico »Caporetto 38« in cui si narra dell’attentato a Mussolini che fu progettato, ma mai portato a termine, da parte degli appartenenti al TIGR, una delle prime organizzazioni clandestine antifasciste in Europa. Per questo spettacolo, il teatro e l’autore Dušan Jelinčič – apprezzato scrittore noto anche nella sua veste di alpinista, intervistato da Wu Ming 1 in Point Lenana, e figlio di uno dei fondatori del TIGR – decisero di fornire un approfondimento del quadro storico nel programma di sala, affidandolo alla nota studiosa Milica Kacin Wohinz (http://www.teaterssg.com/uploads/events/jelin%C4%8Di%C4%8D.pdf).
    Ora, io non ho visto il programma di sala di Magazzino 18, ma suppongo che se avesse fatto un’operazione simile, in questi giorni Cristicchi avrebbe cercato di sfruttarla a proprio favore, invece di nascondersi dietro al direttore sloveno del teatro Rossetti.

    Aggiungo che come tutti gli spettacoli del Teatro stabile sloveno, anche l’opera di Jelinčič è stata proposta e resa accessibile agli spettatori di lingua italiana con un programma di sala bilingue e sopratitoli in italiano. Mi chiedo perché Cristicchi, i suoi impresari e lo stesso teatro Rossetti non abbiano pensato di prendere esempio dai colleghi sloveni. In fondo si tratta di parole in musica, tradurle e attrezzare la sala con sopratitoli in sloveno (e/o croato) non sarebbe stato particolarmente oneroso nemmeno dal punto di vista finanziario e avrebbe permesso all’autore di presentare la sua opera a un pubblico molto più vasto e internazionale. Ma forse a Cristicchi (e a chi c’è dietro di lui) un po’ di fama internazionale non interessa, visto che tutti gli spettacoli in Slovenia e Croazia erano e sono riservati ai soli appartenenti alle Comunità degli italiani locali. Viene da chiedersi il perché.

  10. Due parole sul tema “memoria condivisa”, che è argomento molto dibattuto, anche abbastanza ferocemente.
    Credo che il problema stia nella parola “condivisa”, che non rende il problema che la memoria, soprattutto quando riguarda un numero ampio di persone, è fatta di conflitti e di punti di vista che molto spesso sono in contrasto fra di loro.
    Quando la memoria di un evento viene definita “condivisa” vuol dire, spesso, che qualcuno la sta spacciando come tale, che c’è un tentativo di egemonia su ciò che viene ricordato del passato e spesso anche sulle forme in cui ciò avviene. Ciò è viene studiato specialmente per quel che riguarda l’uso della memoria da parte dei regimi fascisti che avevano come prima preoccupazione quello di legittimarsi.
    Il problema è che ora non ci sono solo i regimi di Stato: in campo entrano anche i meccanismi del mercato. In particolare modo il mercato editoriale e quello dello spettacolo. Questi non hanno come riferimento esclusivamente un ordine statale (un passato, un’identità, dei nemici da allontanare), ma la vendita, i lettori, gli spettatori, i numeri. Secondo me in questa operazione di Cristicchi e nella sua divulgazione entra in scena anche questo elemento: fa numeri, fa spettatori, bisogna parlarne, guadagnare lettori, spettatori, ché la coperta è corta e non c’è spazio per una scelta critica dei contenuti.

    • Infatti Cristicchi su Twitter risponde alle critiche mostrando con uno screenshot che “#magazzino18” è stato in cima ai Trending Topic. E quindi ha ragione: il popolo sta con lui (mah…)
      L’Unto del signore non si può criticare. Se lo critichi sei malvagio. La logica è quella.
      Allora #JustinBieber cos’era? Il Messia in persona, evidentemente.

    • @plv Può darsi che *ora* sia così. Ma per arrivare a questo punto, al punto cioè che ci sia mercato per un’operazione di questo tipo, ci sono voluti anni e anni di lavoro politico in senso stretto. Come diceva Fogar, l’operazione è partita da lontano, e negli ultimi 15, 20 anni ha avuto l’imprimatur (se non l’input) delle più alte cariche dello stato. Cristicchi è la conseguenza, non la causa di questa artificiosa costruzione della “memoria condivisa”. Una specie di esecutore (forse inconsapevole) di direttive zdanoviste, mediate però dal mercato.

      • @tuco, totalmente d’accordo. Il mio ragionamento era riferito ad un periodo relativamente breve. Però è una forma di pensare alla costruzione della memoria che secondo me non va presa sottogamba, tanto più in epoca di dismissione dello Stato.
        Hai perfettamente ragione nel dire che il lavoro politico sulla memoria è il criterio fondamentale per inserire delle operazioni come quella di Cristicchi sotto la giusta luce.
        Il problema è che ora (ma magari sbaglio) andiamo in una direzione in cui si confondono le carte: come può uno Stato appartenente all’UE costruire una memoria che preservi la nazione, ma al contempo evitare i nazionalismi? Insomma, è un triangolo pieno di forze differenti quello che lega la memoria di una nazione, il mercato e la verità storica.
        Ma qui sto drasticamente uscendo fuori tema, il caso in questione rientra in queste tematiche fino a un certo punto.

        Riguardo alla consapevolezza di Cristicchi a cui accennavi: se Cristicchi è consapevole o meno che un’opera come la sua può avere tali conseguenze è una cosa che gioca solo a suo sfavore. Se non ne è consapevole esistono tanti altri lavori che si possono fare.
        Uso questo tono molto secco perché noto che molti autori contemporanei (sto pensando alla penisola iberica, non ci sono riferimenti italici) interrogati sul senso politico della loro opera rispondono “volevo solo raccontare una buona storia”, oppure “attraverso la finzione possiamo raccontare la verità”.
        Come se la verità fosse un dato oggettivo che si spiega da solo che non ha bisogno di un punto di vista per essere letto correttamente.
        Secondo me la tendenza all’equiparazione tra fascisti e anti-fascisti è passata da per questi binari. Così come passa da questi binari il sostegno allo status quo.
        In un contesto di re-responsabilizzazione dell’autore a chi sta fuori non resta che criticare l’operazione, come si sta giustamente facendo qui. È una delle poche forme di resistenza rimaste in questo campo, andrebbe solo che implementata.

    • Hai perfettamente ragione ed infatti quando gli avranno detto: “Se porti in scena Pahor, ti fotti Trieste e se ti fotti Trieste ti fotti tutto lo spettacolo e il tour” (vedi qualche commento sopra) il buon Cristicchi è corso ai ripari.
      Ripeto che dico questo non per difendere Pahor di cui non conosco niente ma per convinzione che le scelte di Cristicchi più che ideologiche sono di convenienza. E lo penso, magari sbaglierò, per la maniera con cui ha reagito alle critiche. Uno che ci crede veramente ha quello che ha fatto risponde in ben altra maniera. Quindi quello che ha recitato non lo ha minimamente scritto lui e quindi non si sente coinvolto oppure é opera sua ed ha messo in cassetto il buon senso ed ha aperto le porte solo agli interessi economici e di immagine.

      • Probabilmente è così, però secondo me più che soffermarsi sulle motivazioni personali di Cristicchi, bisognerebbe continuare a ragionare sul senso che ha, che assume questa operazione “artistica” nel contesto politico e culturale italiano, se non europeo. Cristicchi è arrogante, risponde alle critiche in modo piccato e infantile, si arrocca nella difesa di qualcosa il cui senso forse gli sfugge. Quello che bisognerebbe fare, quello che ha fatto Purini col suo post, quello che stiamo facendo in questa discussione, è appunto smontare il dispositivo che produce Cristicchi.

        • @tuco
          Non so quanto Cristicchi sia creatura di un “dispositivo” e quanto ne sia parte attiva, in effetti. Mi sembra un “consapevole strumentalizzato” e felice di esserlo. Condivido comunque che l’obiettivo più importante non è criticare lo spettacolo e tanto meno l’operato della persona ma smontare un certo tipo di ideologia basata su falsità ed omertà storiche.

    • Sono d’accordissimo sul concetto di “memoria condivisa” come progetto di egemonia sulla stessa, sulle esigenze di mercato invece ho qualche dubbio. Non sono sicuro che il pubblico chieda questo, al pubblico viene fatto bere questo. Secondo me “il mercato” viene continuamente orientato, mantenendo il falso presupposto che sia libero da influenze e sia quindi specchio della democrazia, senza considerare che poi il mercato culturale italiano è veramente povero e queste iniziative hanno successo perché vengono coinvolte fasce di pubblico che frequenta di rado il teatro ed i libri.
      Ad ogni modo Paolini ha dimostrato che si può sbancare anche proponendo opere complesse, approfondite e che non rispondono a nessun partito politico o lobby.

      • ovviamente cito Paolini per quanto concerne il teatro, per la letteratura mi pare che abbiamo un esempio lampante nei libri di quei signori senza nome di cui si parla spesso qui…

        • Parlando di teatro, io citerei anche Moni Ovadia. Lo citerei al quadrato, perchè il suo lavoro sulla memoria della Shoah non elude mai la questione dell’uso strumentale che di tale memoria fa la classe politica israeliana. Inoltre Moni Ovadia mette continuamente in guardia dall’uso autoassolutorio che viene fatto della memoria della Shoah anche in Italia, ora che non costa niente condannare i persecutori degli ebrei di 80 anni fa, e ci ricorda sempre che gli ebrei di oggi sono i migranti.

          • p.s. a scanso di equivoci, che’ non si sa mai: ritengo i paragoni tra esodo istriano e shoah una delle aberrazioni piu’ oscene messe in circolo in questi anni. faccio questa precisazione perche’ questa e’ una discussione importante, che viene seguita da persone che magari non frequentano abitualmente giap e non mi conoscono.

          • Qua Moni Ovadia parla di memoria e falsa coscienza:

            http://youtu.be/B1rYDb3uyUk

            “gli ebrei di oggi sono i rom”

            “l’ insieme di particolare e universale e’ la contraddizione che dobbiamo imparare, per diventare stranieri a noi stessi”

          • ancora moni ovadia:

            L’Italia ricorda con difficoltà. Perché?

            Gli italiani come anche gli austriaci hanno difficoltà a richiamare il periodo nazifascista, mentre la Repubblica Federale tedesca ha cercato di fare un percorso critico.

            In termini psicanalitici ha rielaborato il lutto nazionale provocato degli orrori nazisti?

            Sì, molto più che da noi, mentre l’Austria come noi ha tentato di rimuovere, scegliendosi la parte della vittima. Gli italiani devono sempre raccontarsi che sono della brava gente. Scoprire il contrario li destabilizza. Graziani ha usato i lanciafiamme contro i villaggi dei civili in Africa. La politica fascista contro le popolazioni slave per radicare e sviluppare nei Balcani la minoranza italiana è stata una politica xenofoba, di segregazione razziale. Ora si cerca di intorbidare le acque con le foibe, che sono state una grandissima efferatezza, le vittime innocenti delle foibe vanno risarcite con coraggio. Ma il problema è che per capire le foibe bisogna passare dalla politica nazifascista in Jugoslavia, dall’odio e dalle distruzioni seminate, dagli Ustascia di Ante Pavelic, dal campo di sterminio di Jasenovac, che per ferocia rivaleggiava con i lager nazisti. Vi furono sterminati 500mila serbi, 200mila zingari e un numero imprecisato di ebrei. I nazifascisti erano complici dei fascisti croati e la politica di violenza del fascismo italiano sulle popolazioni slave ha provocato morti e lutti. E’ fatale che, potendo, le vittime si trasformino a loro volta in carnefici. Il presidente della Germania federale, Von Weitzaecker, commemorando la distruzione di Dresda, una inutile rappresaglia inglese, disse: “Il fuoco che abbiamo scatenato sull’Europa è ricaduto sulle nostre teste”. E’ bizzarro dire come fanno certi esponenti della nuova destra italiana che per andare ad Auschwitz bisogna passare prima dalle foibe. Bisogna prima passare da Jasenovac per capire le foibe.

            http://www.ilportoritrovato.net/html/bibliovadia10.html

            • La rielaborazione del lutto dovrebbe essere preceduta dalla fase “esame di coscienza”. Se il racconto egemonico è quello dell’italiano sempre vittima, viene a mancare il passaggio che produce consapevolezza. Il risultato è una produzione reiterata dell’oblio o comunque di una memoria edulcorata.

  11. Lo premetto. Dello spettacolo di Cristicchi in sé me ne importa davvero poco in questa discussione. È un testo teatrale, va preso per quello che è. La messa in scena è certo semplicistica e, io credo, parecchio didascalica e un po’ troppo compiaciuta nel far vibrare la corda del sentimento. Ma non sono un critico teatrale e qui mi fermo. È l’uso pubblico di quello spettacolo che mi interessa per il mestiere che faccio e cioè il ricercatore di storia, pure io dalle parti di Trieste. E la prima cosa che penso è che nessun testo teatrale – dedicato a qualsivoglia vicenda della frontiera orientale – possa essere in grado di proporre ricostruzioni davvero soddisfacenti di vicende che sono intricatissime e che certo non possono essere dipanate su un palcoscenico in un’ora e mezza. Ad ogni modo, per quanto mi riguarda, Cristicchi può dire quello che vuole. E noi possiamo stare ore a discutere della qualità della ricostruzione, dell’operazione di pedagogia culturale che c’è sotto ecc. Ma se su Cristicchi vuole intervenire il commentatore colto, accettando il rischio di fare opinione in un senso o nell’altro, è meglio che adotti un certo rigore. È di storia che voglio parlare allora, avendo la pretesa che l’approccio alla disciplina possa almeno tentare di essere “scientifico” o, quantomeno, spoglio di alcuni chilogrammi di pregiudizi ideologici.

    Purini me ne dà l’occasione con questo suo articolo, con cui vorrei interloquire, mettendo in discussione alcuni passaggi, ma sottolineando subito che concordo su tutta la prima parte della ricostruzione. Concordo con l’analisi che fa risalire le pratiche discriminatorie all’ultimo scorcio del cosiddetto Stato liberale – che internava pure i preti slavi – sotto l’egida dell’Ufficio centrale per le nuove province, in un clima di saldatura fra nazionalismo, ambienti militari e squadrismo insorgente. Concordo sulla ricostruzione dell’orrore patito dal Narodni Dom. Concordo parola per parola con quanto detto sul regime fascista, sulle sue politiche odiose e ributtanti contro la popolazione slovena, contro gli antifascisti, contro la libertà. E concordo nell’attribuire valenza eroica al sacrificio degli antifascisti e quindi di quegli slavi del Sud e di quei militanti comunisti che lottarono per abbattere i fascismi e restituire speranza al continente.

    Poi però arriva il dopoguerra e la piega dell’articolo cambia con la rapidità una piroetta. Il totalitarismo cattivo è solo uno, quello nazi-fascista. Anzi, quello di Tito non sembra essere nemmeno un regime di derivazione totalitaria, ai suoi esordi ampiamente radicato nel solco dello stalinismo. Sembra quasi che tutto nasca spontaneamente e con urgenza, dal basso. Perché questo vorrebbe dire probabilmente «jacquerie» per Purini, che ripesca una chiave di lettura proposta prima di lui dall’importante storico triestino Giovanni Miccoli, negli anni Settanta. Le ricerche più recenti dimostrano tuttavia, con dovizia di documentazione, che il pur comprensibile (e inevitabile) fiotto di violenza del 1943 istriano non fu soltanto un impasto di rancori accumulati in vent’anni di nazionalizzazione e persecuzione antislava, ma venne indirizzato da un progetto politico rivoluzionario – in senso sociale e nazionale insieme – guidato dall’esercito di liberazione jugoslavo e dai suoi organi politici/popolari. Una jacquerie non si sarebbe data tribunali politici…

    Pulizia entica o rivoluzione? I dispersi italiani del 1945 sono probabilmente un po’ di più di quanto attesta l’articolo: non cifre spaventose, se paragonate agli eccidi di altre città europee nel Novecento, ma probabilmente doppie rispetto a quelle citate. Nessuno morì in effetti in quanto italiano: nessuna pulizia etnica. E questo valga a commento delle dichiarazioni di Ciampi, Napolitano e Grasso, che hanno fatto nel tempo valutazioni francamente grossolane e in parte errate, evidentemente consigliati da cattivi ghostwriter. Furono perseguiti (e in buona parte deportati) fascisti e rappresentanti anche di basso rango dello Stato italiano (essendosi ormai instaurata l’uguaglianza retorica di regime tra italiano e fascista), ma vennero colpiti anche diversi antifascisti di lingua italiana. Questi ultimi finirono in mezzo non perché italiani tout court, ma perché contrari per ragioni ideologiche e nazionali – certo qualcuno ora griderà: di classe! – all’instaurazione a Trieste di una repubblica socialista, parte del mosaico jugoslavo. Il Cln giuliano dovette tornarsene in clandestinità, perseguitato perché potenziale contropotere all’instaurazione di un regime politico jugoslavo: i comunisti triestini di lingua italiana non stavano più nel Cln dal 1944, passati compattamente al fronte di liberazione sloveno. Nessuna pulizia etnica da parte jugoslava, dunque, tanto più se si pensi alle decine di migliaia di cosiddetti slavi bianchi passati contemporaneamente per le armi dalle forze di Tito. In Jugoslavia non si andò molto per il sottile con le epurazioni. Appunto, di nuovo: non fu una resa dei conti “fisiologica”, ma il progetto di instaurazione rivoluzionaria di un nuovo regime, che eliminava preventivamente le possibili voci d’opposizione. Italiane o slave che fossero. Fasciste, monarchiche o democratiche che fossero, poco importava. Il regime faceva il suo mestiere di regime, certo. Ma era totalitario e negatore della libertà. Il che può anche piacere a Purini, che non dedica a tutto ciò una riga di commento, dopo i giudizi appassionati espressi sul fascismo: de gustibus…

    Il comunismo jugoslavo aveva peraltro ben poco dell’internazionalismo. La fratellanza italo-slava fu effettivamente tentata, ma funzionò poco e male. Essa era ovviamente esercitata solo fra compagni, ma le stesse associazioni organizzate degli italiani “rimasti” (per questioni ideologiche e sociali) ebbero più di qualche screzio con le autorità. Basta sfogliare un po’ di testimonianze per saperlo. La storiografia ha inoltre dimostrato che molti dei partigiani comunisti italiani, inquadrati nelle Garibaldi, erano stati mandati a combattere la guerra antifascista nelle zone più perigliose, venendo decimati dal piombo nazista: difficile pensare che si trattasse di scelte strategiche del tutto casuali. La fratellanza italo-slava non diede gli esiti sperati. Nel dopoguerra, gli operai di lingua italiana di Trieste stavano in larga parte con la Jugoslavia, è vero. Ma erano gli stessi che solo tre anni dopo avrebbero assunto in massa una posizione “cominformista” e antititoista, dopo la scomunica di Tito da parte di Stalin nel 1948. E da sostenitori dell’annessione di Trieste all’Italia, i comunisti triestini sarebbero stati fautori per un decennio almeno della creazione del Territorio libero (zona A e zona B), assieme ad indipendentisti di varia tradizione e sloveni anticomunisti. Negli anni successivi sarebbero calate perfino le iscrizioni alle scuole slovene di Trieste: molte famiglie della minoranza – passate in maggioranza allo stalinismo – lo ritennero una sorta di gesto esteriore per rivendicare il proprio internazionalismo dopo la cacciata di Belgrando dal Cominform.

    Gli italiani avevano scuole (con libri tradotti in modo quantomeno naif) e Rovigno e il Buiese sono certo casi importanti di minoranza italiana che rimase cospicua sul posto. Eppure per molti italiani, la via fu quella dell’esodo. E, a dire il vero, non se ne andarono solo i padroni e la borghesia. Per un motivo semplice: l’Istria era povera, quanto e forse più del Polesine. La borghesia era tutta italiana, ma a Capodistria gli scioperi italiani contro l’introduzione del dinaro – che spezzava l’economia delle due zone e impoveriva i transfrontalieri che lavoravano a Trieste – videro in piazza anche la classe operaia italiana: sciopero nazionale o anche di classe dunque? Chi può dirlo e chissà che ne penserebbe Paolo Sema, comunista, esule da Pirano (dopo aver tentato di rimanerci da compagno italiano) e poi senatore del Pci. Molti esodarono semplicemente perché il mondo si era ribaltato: non considerare la dimensione psicologica, antropologica quasi, e avventurarsi soltanto sul terreno dell’argomentazione social-sociologica, mi pare un’imprudenza e una notevole ingenuità di metodo per descrivere quel fortunale. Il mondo istriano si ribaltava senza dubbio perché c’era la rivoluzione: perché il bracciante ora diceva al piccolo proprietario come si doveva fare. Ma la terra tremò anche per ragioni nazionali: è inutile fare finta che non sia così. Ci si ricordi che il proselitismo nelle campagne croate da parte dell’esercito di liberazione venne attuato sulla base di un programma fortemente incentrato sull’elemento nazionale (lo jugoslavismo) e non soltanto sulla palingenesi sociale. È un aspetto di non poco conto, se si vogliono davvero illustrare quelle vicende.

    Infine. Le autorità italiane che spinsero all’esodo. Andiamoci cauti. Molti documenti dimostrano che De Gasperi era un convinto assertore (in sede pubblica e privata) del mantenimento della presenza italiana in Zona B. Era un elemento negoziale importantissimo perché il governo si rendeva conto che chiedere i confini di Rapallo era ormai impossibile (e sarebbe stato ingiusto, aggiungo), ma non si arrendeva nel rivendicare le cittadine della costa occidentale dell’Istria, dove pertanto era meglio che gli italiani continuassero a vivere. Ben oltre il trattato di pace. Per salvare quel che si poteva dell’Istria. Non spingeva all’esodo nemmeno la Dc di Trieste e neppure il cosiddetto Comitato di liberazione nazionale dell’Istria (anticomunista, ma chiuso ai fascisti) che organizzò anzi una (tendenzialmente sgangherata) rete di sabotatori e informatori in Zona B, con ampie e dimostrate sovvenzioni dello Stato italiano, che versava anche piccole quote di danaro a molte famiglie proprio per alleviarne le condizioni di vita e mantenerle sul territorio. Niente da dire sull’uso politico che degli istriani venne poi fatto a Trieste dalla Dc, per consolidare il proprio bacino di consenso identitario (italiano, cattolico, anticomunista) e per spezzare la cosiddetta cintura rossa dell’altipiano carsico, insediando numerosi borghi per profughi: non è un caso che il comune di Duino-Aurisina (quello che costituisce l’aggancio fra provincia di Trieste e resto d’Italia) abbia visto in pochi anni un mutamento degli equilibri etnici, che oggi si traduce ad esempio nel voto maggioritario per il centro-destra, unico caso dei comuni del Carso.

    Sono un po’ di appunti in libertà questi miei. Disorganici senz’altro e scritti con mille parentesi e incisi. Ma mi permetto di dire – moralista come sono moralisti l’incipit e la conclusione di Purini – che noialtri scrivani di storia dovremmo spogliarci dell’abito della militanza quando ci mettiamo al tavolino. Mi colpisce che alla durissima condanna che l’articolo emette sul fascismo (e come fare altrimenti?) corrisponda l’assoluta assenza di giudizio sul titoismo. L’assoluta mancanza di riferimenti e valutazioni sulla commistione fra rivoluzione e programma di unità nazionale, programma solitamente borghese più che di classe, a voler usare categorie che sono ormai davvero un bel po’ lise. E che dire dell’idilliaco ritratto di Goli Otok? Mi pare inelegante ragionare se quel luogo di fame, malattia e morte – che oggi sembra in effetti ameno a passarci in barca – fosse meglio o peggio del campo italiano di Gonars: non lo so davvero e non è qui il punto. Ma diciamo che mi pare piuttosto macabra la descrizione bucolica del ristorantino per turisti, in un posto dove svariati poveri cristi hanno lasciato la pelle, in alcuni casi perché diversamente comunisti o perché non comunisti affatto.

    Alcuni dubbi. Postideologico è una bestemmia? E soprattutto: che c’entra il “postideologico” con la memoria condivisa: chi ha detto che una cosa implica l’altra? Non sono meglio le idee che le ideologie? Qui non si tratta di distinguere tra partigiani slavi e fascisti: tutta la vita con l’antifascismo, ammesso che oggi il dibattito storiografico e pubblico debba mantenere un livello ancora così primitivo. Oggi i tempi sono maturi a sufficienza perché si vedano i drammi del totalitarismo e dell’ideologia. Regime. Oppressione. Omologazione. Servitù. Il migliore dei mondi possibili non stava lì. Chissà che quel mondo migliore non stia più semplicemente in un’Istria ideale, a coltivare la propria terra e cucinare il pesce appena pescato, mentre la brezza di mare ti ricorda che lì fuori c’è un mondo che sarebbe bello sapere senza più frontiere. E peraltro: che c’entrerà mai Tito con il conflitto sociale odierno, Wuming?

    D.D.

    P.S. Finisco con una battuta. L’articolo comincia un pochino moralista – un moralismo che condivido – sull’impossibilità/inopportunità della storia/memoria condivisa. Memoria condivisa: un ossimoro. Ma un passo dopo Purini si trova a fare le pulci ad uno spettacolo teatrale, con l’accusa primaria di non aver messo sullo stesso piano le tragedie immani toccate agli slavi per colpa del fascismo. Beh, ha invertito il ragionamento della sua premessa e non ne ha modificato affatto il meccanismo intrinseco…
    La chiusura è un’altra spruzzata moralista: “capire la storia”, “non dimenticare”, “informati meglio”. Credo che valga di certo per Cristicchi, ma il suggerimento di capire e informarsi – e aggiungo di informare – dovrebbe valere ancor di più per gli storici e caricare il peso della responsabilità civile che si sono scelti: bell’affare peraltro, a base di precarietà e sussistenza economica. Non dimentichiamo il passato, ma contribuiamo a superare questo passato che, ancora, non passa. Staremmo meglio tutti quanti e non ci toccherebbe sostenere più o meno velatamente che le dittature novecentesche sono un fatto simpatico.

    • “Alcuni dubbi. Postideologico è una bestemmia? E soprattutto: che c’entra il “postideologico” con la memoria condivisa: chi ha detto che una cosa implica l’altra? Non sono meglio le idee che le ideologie? Qui non si tratta di distinguere tra partigiani slavi e fascisti: tutta la vita con l’antifascismo, ammesso che oggi il dibattito storiografico e pubblico debba mantenere un livello ancora così primitivo. Oggi i tempi sono maturi a sufficienza perché si vedano i drammi del totalitarismo e dell’ideologia. Regime. Oppressione. Omologazione. Servitù. Il migliore dei mondi possibili non stava lì. Chissà che quel mondo migliore non stia più semplicemente in un’Istria ideale, a coltivare la propria terra e cucinare il pesce appena pescato, mentre la brezza di mare ti ricorda che lì fuori c’è un mondo che sarebbe bello sapere senza più frontiere. E peraltro: che c’entrerà mai Tito con il conflitto sociale odierno, Wuming?”

      Non sono “alcuni dubbi”, direi che è il nocciolo del problema. Il punto è che la “memoria condivisa” *è* ideologia. E’ una delle pietre angolari di quella terrificante forma di ideologia postmoderna che si chiama “senso comune”. Il “senso comune” prevede che non esista conflitto endogeno e che i conflitti che attraversano una società (che sia la società di un’entità imperiale, nazionale o locale-identitaria) vengano sempre “da fuori”. Se il mercato del lavoro sta involvendo verso condizioni ottocentesche, la colpa è degli immigrati. Se le ragazzine di buona famiglia si prostituiscono è colpa dei gay, se le aziende falliscono è colpa degli operai sindacalizzati. Eccetera. Il “senso comune” ha bisogno di un “popolo” che si riconosca in certi “canoni” che potremmo definire “normali”. Il “popolo” è buono per definizione. Il “popolo” è sempre stato vittima delle circostanze, oppure del Grande Altro.

      E’ evidente allora che il “popolo” ha bisogno di riconoscersi in una storia pacificata all’interno, e gonfia di recriminazioni all’esterno. Quindi la battaglia sulla memoria, D’Amelio, non è tra apologeti del fascismo e apologeti del titoismo. La battaglia è tra chi vuole costruire artificiosamente una “storia nazionale” pacificata e chi invece si ostina a rompere i coglioni portando alla luce le faglie interne, le linee di conflitto, e la coscienza lercia della nazione.

      Tanto per essere chiari, qualcosa di simile sta attraversando anche la società slovena. I tentativi di equiparazione tra partigiani e domobranci hanno prodotto la reazione di una parte degli intellettuali sloveni e di un’ampia fetta di cittadini. E a ben vedere, questa battaglia attraversa un po’ tutta la società europea. E’ in atto, e non da oggi, un’offensiva politico-culturale che tenta di rimuovere il dato di fatto che è dall’Europa che sono partite due guerre mondiali, è in Europa che è stato ideato e realizzato Auschwitz, ed è sempre l’Europa che nei confronti degli africani era stata “nazista” ben prima del “nazismo”. La razzializzazione e la gerarchizzazione delle culture è uno dei presupposti del capitalismo. E’ questo il non detto, l’indicibile. Ed è questo che il “popolo”, per esistere, deve continuamente rimuovere dalla propria coscienza e scaricare sul Grande Altro. Adesso guardiamo lo spettacolo di Cristicchi, e vediamo un po’ come si colloca in questo dispositivo.

    • Qui non si tratta di fare a gara se sia stato più massacratore razzista il regime fascista o se sia stato più repressore e persecutore di avversari politici il regime titoista, anche perché è come chiedersi se puzzi di più una merda o se sia più rumoroso un tuono.

      Molte delle cose che affermi sono state descritte nei commenti qui sopra, c’è un dibattito in corso, senza presunti pregiudizi ideologici:
      è stata sviscerata la storia di Paolo Sema e della problematica vicenda di molti antifascisti italiani e pure di sloveni o croati in Istria;
      è stata sviscerata l’impronta stalinista del regime titoista e le sue pratiche repressive nei confronti dei dissidenti politici;
      è stata pure sviscerata la complessa partita eminentemente politica giocatasi nei Balcani del secondo dopoguerra – divisi fra diverse correnti comuniste ferocemente invise le une alle altre;
      io poi ho suggerito le ragioni antropologiche, economiche e sociali dell’esodo (compresi gli esempi di lavoratori abituati ai rapporti di mezzadria e incapaci di integrarsi nel sistema socialista evidentemente imposto con una certa ottusità).

      Altre cose da te scritte sono nuove al dibattito, e preziose anche, almeno per me a livello personale: per esempio è interessante la questione dei cali di iscrizione alle scuole slovene dopo la scomunica di Stalin; mi pare sia un dato più antropologico che storiografico, quali fonti sono state incrociate per evidenziare questa correlazione? (Questo in parte spiegherebbe perché la mia famiglia materna, slovena e partigiana con il mito dell’URSS, abbia scelto di non mandare alle scuole slovene i propri figli, tra cui mia madre)

      Non mi torna l’impianto di fondo del tuo discorso però, che ha a che fare proprio con la tua domanda “che c’entrerà mai Tito con il conflitto sociale odierno?”, oppure la tua speciosa divisione fra ideologie e idee, chi ha detto che il cosiddetto approccio postideologico non risponda a una ideologia di dominio? Sono d’accordo che la storia dev’essere condotta con un approccio scientifico ma qui il discorso non è solo storico, e anche tu hai disseminato la tua disamina di giudizi di valore (alcuni li condivido, altri no). Le tue critiche sarebbero ineccepibili, se ne stessimo discutendo a una conferenza a Honolulu, ma sembri rimuovere, pur ammettendone certi effetti, il clima politico, culturale e istituzionale italiano che ripete a spron battuto falsità manifeste sul confine orientale, rimuovendo e non affrontando le colpe di cui lo stato italiano si è macchiato in queste terre.

      L’antistoricità del concetto di pulizia etnica per ciò che concerne le cosiddette foibe è assodato nell’ambiente accademico eppure istituzioni, media e cultura mainstream lo rimpallano di continuo senza alcuna voce contraria. Pure il rapporto “foibe – esodo” è fortemente arbitrario e risponde a una lettura ideologica precisa. È evidente il fatto che si stia compiendo sotto i nostri occhi un progetto egemonico di segno nazionalista sulla cultura e sulla storia, purtroppo non nuovo.
      L’articolo di Purini per me è una risposta, dura, sicuramente non esaustiva (e come potrebbe esserlo nello spazio di un articolo online, già di per sè corposo?), a questo progetto politico che si attua con operazioni come Magazzino18 (e negare la presenza di mandanti politici dietro questa operazione è arduo, data la notorietà dei retroscena), impelagarsi a parlare di Tito mi pare un modo per non vedere le pesanti manipolazioni che il discorso dominante opera sulla Storia.

    • Purini affronta il rimosso di Cristicchi con una critica a sua volta sovraccarica di rimosso. “Quel che Cristicchi dimentica” con il suo “Italiani brava gente” del titolo va integrato da “Quel che Purini dimentica” con il suo “Titini brava gente” come emerge nei commenti al post.
      Il gioco “Italiani brava gente” vs “Titini brava gente” non solo non corrisponde alla verità storica, ma blocca anche il dibattito politico ai termini di parecchi decenni fa anche con il risultato che, sulla base di questa dicotomia, non può che vincere “Italiani brava gente”, come è sempre successo.
      La “brava gente” è un’altra. La “brava gente” sono gli italiani, gli sloveni e i croati che in queste zone si sono battuti contro i rispettivi nazionalismi e contro i totalitarismi nazista, fascista e titino. Nessuno di questi nazionalismi e totalitarismi va dimenticato o giustificato se si vogliono affrontare i conflitti di classe e di libertà su un terreno almeno europeo, come la globalizzazione impone.

      • Titini brava gente“? “Come emerge nei commenti al post“?! Che commenti hai letto scusa? Io leggo solo commenti che raccontano complessità e contraddizioni. Credo che tutti qui riconoscano la distanza tra le aspirazioni di chi ha combattuto sul campo e le porcherie che hanno fatto i burocrati di partito o quanto siano stati duri gli scazzi tra comunisti italiani e jugolsavi. Ma non si può non riconoscere che l’esercito popolare jugoslavo ha combattuto contro il nazismo e il fascismo, così come l’armata rossa ha liberato Auschwitz, e che invece nessuno si è mai liberato o ha liberato altri sventolando svastiche o fasci littori. Solo dopo aver stabilito questo punto fermo si può e anzi si deve affrontare le contraddizioni di una rivoluzione che è degenerata in un regime oppressivo.

        • Evidentemente mi sono espresso male e si è capito il contrario. Il senso di quel che intendevo dire era che dai commenti emerge una critica al “Titini brava gente”, necessaria per integrare la critica a “Italiani brava gente” sul piano di una critica a tutti i nazionalismi e totalitarismi che hanno attraversato queste zone.
          E’ chiaro che l’esercito popolare jugoslavo ha combattuto il nazifascismo. Aggiungo che con esso c’erano anche decine di migliaia di ex militari italiani che dopo il ’43 sono passati coi partigiani – la Divisione Partigiana Garibaldi in Jugoslavia – e migliaia di loro sono morti combattendo contro i nazifascisti proprio in Jugoslavia.
          Invece non sono d’accordo sulla “rivoluzione che è degenerata in un regime oppressivo” che può valere per la Russia del ’17, ma non per la Jugoslavia del ’45. Il Partito Comunista di Jugoslavia era un partito stalinista all’origine e voleva fare – e fece -come nell’URSS di Stalin, salvo entrare in rotta di collisione con l’URSS per questioni geostrategiche e di indipendenza nazionale come la Cina maoista. Il totalitarismo stalinista era nel DNA del del gruppo dirigente del PCJ, al di là delle contraddizioni che potevano esserci nella sua base.

          • OK, adesso ho capito meglio il tuo commento.
            “Titini brava gente” non l’ho mai sentita giuro. Tito è stato un mito identitario per una parte considerevole della comunità slovena di Trieste fino agli anni ’90, come ben tratteggiato da Marko Sosic nel ruo romanzo “Tito, amor mijo” (forse continua ad esserlo ma in misure ormai molto molto minoritarie), ma si tratta di un fatto che pertiene più all’antropologia e alla studio della cultura che all’ideologia o alla Storia. I misfatti di quel regime credo siano stati ampiamente sviscerati, lo stato di polizia, alcune politiche disastrose sull’agricoltura, la corruzione e il carrierismo dei burocrati. Eppure secondo me, per equità, occorrerebbe indagare anche gli sforzi e i risultati positivi ottenuti da quell’esperienza e te lo dice uno che non è minimamente jugonostalgico e che è sempre stato insofferente al culto della personalità di Tito. Ad ogni modo questo discorso non c’entra niente… ho in mente un concetto espresso da Marcello Flores, curatore dell’enciclopedia UTET dei diritti umani, per il quale ai fini della pacificazione ogni stato dovrebbe pensare a riconoscere i torti e le violenze di cui si è macchiato ai danni di altre popolazioni lasciando agli altri stati uno speculare processo di riconoscimento delle proprie colpe, è il solo modo per non scadere nella coazione a ripetere del revanscismo.
            Possiamo discutere a lungo, sempre off topic, del DNA stalinista del PCJ e del fronte di liberazione jugoslavo ma come possiamo stabilire oggi che questo quadro corrispondese ad un efficientissimo disegno preordinato e non fosse invece figlio dei fatti storici e della peculiare fisionomia della lotta di liberazione nei Balcani? Cosa sarebbe stata la resistenza jugoslava se i monarchici cetnici non avessero rivolto verso i comunisti le armi che ricevevano dagli alleati? Non pensi che l’elemento diciamo stalinista possa aver prevalso perché “premiato” dalle contingenze storiche, a scapito delle istanze più genuinamente internazionaliste? Ricordo che si trattava di persone che combattevano in clandestinità, che non sapevano se avessero visto il domani ed erano ben lontani dalla certezza della vittoria, che avevano disperato bisogno di proselitismo nella popolazione ed erano pronti ad appoggiarsi ad ogni espediente per ottenerlo, compreso lo spingere sull’elemento nazionale, ma un elemento nazionale ben diverso da quello dei cetnici e degli ustascia, lo jugoslavismo in pratica lo crearono loro, di sicuro non aveva ottenuto cittadinanza nell’irrisolto regno dei Karadjordjevic.

    • Non amo dare lunghe risposte a lunghi commenti, specie se si tratta di interventi che non centrano bene l’argomento di cui si parla. Se fin dall’inizio dici: “Dello spettacolo di Cristicchi in sé me ne importa davvero poco” oppure “È un testo teatrale, va preso per quello che è (…) Nessun testo teatrale – dedicato a qualsivoglia vicenda della frontiera orientale – può essere in grado di proporre ricostruzioni davvero soddisfacenti di vicende che sono intricatissime e che certo non possono essere dipanate su un palcoscenico in un’ora e mezza” mi pare che non tu non colga il senso del mio scritto.

      Il focus del mio pezzo è invece PROPRIO una critica all’operazione di Cristicchi, sia per il suo uso di mezzi “impropri” per raccontare la storia, sia per la solita interpretazione che nella Venezia Giulia la popolazione subì foibe ed esodo in quanto italiani. Se invece vuoi discutere dell’intera storia della Venezia Giulia, mi pare che questa non sia la sede più adatta, e ti rimando invece a “Metamorfosi etniche”, dove potrai avere soddisfazione delle lacune del mio articolo su Cristicchi.

      Il tuo commento ha come fulcro il fatto che io non metterei in luce le colpe del titoismo. Mi pare che già così si vada relativamente fuori tema: ci pensa già abbondantemente Cristicchi a farlo. Mio compito è qui spiegare le sue inesattezze o le sue esagerazioni. E comunque mi sembra che addossare al titoismo l’intera responsabilità di foibe ed esodo sia il solito sistema per non fare adeguatamente i conti con le responsabilità storiche italiane (negli avvenimenti precedenti, ma pure nell’esodo stesso) e mantenere alla fin fine il solito luogo comune degli “italiani brava gente”, sempre vittime mai carnefici e di tutta l’interpretazione storica che si fa intorno alla Giornata del ricordo.

      Ribadisco: il mio articolo non è un Bignami della storia del ‘900 nella Venezia Giulia. E’ invece proprio ciò che tu rifiuti: una critica ad uno spettacolo teatrale e al modo di strumentalizzare e banalizzare avvenimenti storici a fini politici. Fini politici di una società che sta diventando sempre più autoritaria ed oppressiva, che punta ad imporre punti di vista “obbligatori”, tra i quali un’unica visione della storia (appunto quella della memoria condivisa). Scrivi: “Oggi i tempi sono maturi a sufficienza perché si vedano i drammi del totalitarismo e dell’ideologia. Regime. Oppressione. Omologazione. Servitù.” Lo condivido solo in parte: i tempi sono SEMPRE maturi perchè si vedano i drammi del totalitarismo e dell’ideologia: già Brecht, Kraus, Majakovskij, Orwell ed altri erano capaci di scorgerli. Il problema è che OGGI (come allora) solo pochi sono capaci di comprendere che anche noi viviamo in una società totalitaria ed ideologica: un’ideologia neoliberista, un regime totalitario tecnologico che crea omologazione e controllo sociale, un’economia inalterabile che distrugge giorno per giorno i nostri spazi di democrazia.

    • In realtà lo spettacolo di Cristicchi una ricostruzione dei fatti la dà: quella promossa per decenni dalle forze politiche antislave e anticomuniste. Lo spettacolo non è raffazzonato, l’unica “raffazzonatura” è il tentativo di inserirci una critica al fascismo che nel quadro generale c’entrava assai poco, messa lì con l’esclusivo scopo di pararsi il culo da facili critiche “democratiche”.
      Quello messo in scena da Cristicchi è il punto di vista delle forze nazionaliste e anche di quelle direttamente neofasciste.
      Il problema politico è che tale ricostruzione degli eventi avviene da un personaggio percepito, da una parte consistente della popolazione, come “di sinistra”, che dunque porta in sala un pubblico tendenzialmente democratico, e che tramite questo fraintendimento accoglie per buona una ricostruzione che se fosse venuta dal Luigi Papo di turno sarebbe stata rifiutata come nazionalista. Il problema è che, nel merito, le due ricostruzioni combaciano. Questa è l’operazione politica, di cui Cristicchi è solo l’esecutore finale di un processo ideologico che parte da lontano e oggi raccoglie i frutti di tale lavoro culturale revisionista.
      Non comprendere tale passaggio, peraltro piuttosto evidente, costituisce una grave lacuna d’impostazione storica.

      Significativo poi che si contrappone la retorica dell”italiano brava gente” al “titino brava gente” (in verità fatta da Ginseng). Insomma, gli italiani sono italiani, le popolazioni jugoslave sono “i titini”. Non hanno dignità di popolazione a sè, ma descritti tout court secondo il governo di turno. Chissà perchè gli italiani non vengano mai definiti “i mussoliniani”.

      Per venire al dunque, il problema di Purini sarebbe stato quello di non essere eccessivamente critico col socialismo jugoslavo così come lo è stato con il fascismo italiano (precisiamo: socialismo jugoslavo, e non titino, visto che il processo di costruzione del socialismo coinvolgeva centinaia di migliaia di persone e non è possibile schiacciarlo tutto sulle volontà di una singola persona). Il fatto è che è già tutto l’apparato culturale, mediatico e politico – italiano e internazionale – a processare quotidianamente ogni forma di rivoluzione socialista. In sintesi, Purini per essere credibile avrebbe dovuto prima di tutto adeguarsi all’ideologia dominante, e soltanto poi magari far rilevare che anche “i nostri” qualche marachella l’avevano in effetti commessa.

      Senza volerlo, però, Diego D’Amelio una verità la dice: il problema era politico, non etnico. E allora lo si dicesse chiaramente. Una parte della popolazione istriana optò per la cittadinanza italiana perchè, oltre che per la povertà, aveva un problema politico col nuovo governo jugoslavo. E in effetti il socialismo jugoslavo, sulla spinta della vittoria antifascista, procedette di gran carriera ad annullare ogni privilegio economico accumulatosi negli anni della dominazione italiana, soprattutto attraverso la riforma agraria ma non solo. Non si tratta tanto di difendere il socialismo jugoslavo, di cui anche a me, in questo caso, non frega nulla (peraltro concordo sull’esasperato nazionalismo), quanto quello di difendere un discorso rivoluzionario. Una parte di quella popolazione se ne andò perchè non approvava il processo rivoluzionario in corso. Nessun problema, basta che lo si dica e che non si nasconda la motivazione politica attraverso quella etnica, pacificatoria e omologante.
      Chi aveva da guadagnarci da quel processo rimase; chi aveva da perderci cercò di riparare altrove (non solo in Italia: peraltro una parte consistente utilizzò l’Italia come trampolino per altre mete, soprattutto gli Stati Uniti).

      Alessandro

      • Che lo spettacolo sia inseribile fra gli usi pubblici della storia – di quella storia – è lapalissiano. C’è moltissimo da dire su questo. Sul riconoscimento del valore di “monumento nazionale” dato alla Risiera solo negli anni Sessanta. Sul riconoscimento di una medaglia di bronzo al valor militare al torturatore Collotti. Sulle clamorose assoluzioni ai collaborazionisti della frontiera orientale e non. Sulle reintegrazioni in grado di militari macchiatisi di delitti esecrabili. Sulla stampa antifascista italiana di Trieste che ricorda agli sloveni che il fascismo ha anche fatto cose buone per loro. Ci sono forme di continuità culturale evidenti e piuttosto odiose, seppure il tutto sia un fenomeno ampiamente comprensibile in una fase di transizione come il passaggio al postfascismo. Evidenti sono poi le continuità del personale burocratico dello Stato.
        Occhio però a non esasperare certe prospettive di lettura. Anche se fra mille ritardi, spiegabili in tanti modi e non è qui la sede, si realizzeranno anche aggiornamenti culturali importanti e tentativi politici di superare certe strettoie. Certo, dopo decenni e ancora con zavorre importanti: pezzi di opinione pubblica e speculazioni di alcune forze su determinate questioni. E sempre per non esasperare. La presa di certi temi sulla “gente” mi pare scolorire nel tempo: quando Italia e Jugoslavia firmano il trattato di Osimo nel 1975, ad esempio, fuori da Trieste non se ne accorge nessuno, a parte la solita manciata di neofascisti e le associazioni dei profughi istriani. Speculatori politici, appunto, incapaci di ostacolare davvero i processi distensivi in atto. Che poi questo tema possa essere strumentalizzato in alcune fasi, questo lo riconosco.
        “Il fatto è che è già tutto l’apparato culturale, mediatico e politico – italiano e internazionale – a processare quotidianamente ogni forma di rivoluzione socialista”. Guarda che dal 1948 Tito diventa un amicone degli americani. Dagli Usa arrivano soldi e armamenti. Negli anni Cinquanta si tenta di inserire la Jugoslavia (tramite un accordo regionale con le atlantiste Grecia e Turchia) nel sistema di difesa Occidentale. E aggiungo: negli anni Sessanta, Tito è un non allineato e i socialisti italiani (Nenni ministro degli Esteri, Saragat presidente della Repubblica) parlano dello Stato jugoslavo come di un esperimento politico e sociale importante, da sostenere. Le riforme degli anni Sessanta, Tito se le paga anche con soldi italiani, per dire… E l’Eni viene utilizzata per cooperare con le aziende jugoslave e aprire così spazio al confronto politico: e quel tipo di business piaceva anche ai rivoluzionari, altroché.
        Chi ha mai chiesto ha Purini di adeguarsi all’ideologia dominante, che peraltro non so bene quale sia… Mi sono limitato a dire che mi sembrava un ragionamento tronco. Quanto all’esegesi del mio pensiero su problema politico/etnico e motivazioni che spinsero all’esodo: si leggesse Militant l’ultimo libro di Gloria Nemec. Qui: http://www.crsrv.org/pdf/etnia/Etnia_XIV.pdf. Le cose sono molto più complicate di come può apparire da un’analisi di classe, ci crediate o no. Non si coglie la natura di quegli eventi, se non si valuta il fatto che il processo rivoluzionario fu affiancato – e per certi versi a mio avviso anche sopravanzato – da un processo di nation building e di state building (scusate gli anglismi insopportabili). E quindi non c’è una motivazione che nasconde l’altra: c’è un intreccio di questioni, piaccia o meno. Poi si può far finta che non esista, ovvio.

        • Aggiungo questo link: un’intervista a Focardi, autore di un bel libro sull’uso pubblico della memoria del “bravo italiano”.

          http://www.carmillaonline.com/2014/02/20/il-cattivo-tedesco-il-bravo-italiano-intervista-filippo-focardi/

          Trovo che sia una posizioni molto equilibrata sul tema e sulle sue ricadute fino ad oggi.

          • Ti segnalo che Giap ha dedicato un post al libro di Focardi, per la precisione il post immediatamente precedente a quello su Cristicchi ;-)

            http://www.wumingfoundation.com/giap/?p=16130

            • Vero vero. Anche se certe conclusioni del post di Giap sono molto libere rispetto a quanto afferma Focardi, che su queste cose si muove con un pizzico di prudenza in più. Il libro è davvero buono, per chi fosse interessato alla tematica.

              • Ah quindi il libro di Focardi è DAVVERO buono *nonostante* sia pubblicizzato dai Wu Ming con la loro distorta lettura ideologica? Io penso che se la categoria professionale degli storici volesse essere maggiormente ascoltata – e qui ti rispondo a un quesito che mi hai posto altrove – dovrebbe cercare continuamente ponti e alleanze con il mondo della cultura e smettere questa spocchia sacerdotale accademica, incoraggiando tutti gli inviti all’approfondimento serio della Storia, invece che accoglierli con sufficienza quando promossi da non addetti ai lavori. L’importante non è che si legga il testo di Focardi? temi che qualcuno non lo faccia perché pubblicizzato dai Wu Ming?
                Forse questo atteggiamento da parte tua è inconsapevole, ho apprezzato i tuoi contributi alla discussione (mi sto stampando il testo della Nemec), non altrettanto il tuo tono saccente, non lo attribuisco ad un tratto della tua personalità sia chiaro, non ti conosco: è tipico di una parte non minoritaria della tua categoria professionale – e io sono dalla VOSTRA parte eh: sono il primo a dire che gli storici dovrebbero essere più ascoltati dalle istituzioni italiane, se così fosse i presidenti della repubblica o i loro rappresentanti si recherebbero ad Arbe, a Lipa, a Lubiana a chiedere scusa invece che sproloquiare di pulizie etniche, 30.000 infoibati e barbarie slave o colpe fasciste, mai italiane, se così fosse gli storici sarebbero anche più indipendenti e rispettati e non sarebbero costretti ad andare all’estero oppure a rimanere in patria vivendo di briciole da mendicare alla leadership politica di turno, ieri DC, PSI e PCI, oggi PD e NCD/altri CDX… perché sono queste le centrali del pensiero politico dominante che dici di non vedere, per fare nomi e cognomi, aldilà di fondi e iniziative comunitarie europee.
                Chiaro il grosso lo dovrebbero fare le istituzioni che dovrebbero incominciare a modernizzarsi, buttando nel cesso una buona volta l’italica abitudine alla contingentazione politica degli ambiti pubblici, memoria storica compresa, ma anche gli storici nel loro piccolo dovrebbero incominciare a cambiare atteggiamento.

      • @militant
        Il “Titini brava gente” è una sintesi che faccio di prese di posizione come le tue di difesa a spada tratta di quell’esperienza che per me non era “socialismo” ma “dispotismo burocratico” con la creazione di una nuova classe al posto della borghesia a gestire il capitalismo in termini di capitalismo di stato e ad opprimere i lavoratori in termini di classe e tutti in termini totalitari.
        Lo capì Karl Kautsky, marxista rivoluzionario tedesco fin dagli inizi dell’esperienza leninista che poi divenne quel che divenne con lo stalinismo. A Kautsky, Lenin gli diede del “rinnegato”, ma, visti i risultati, non è difficile capire chi rinnegò veramente il socialismo e il marxismo.
        Il “Titini brava gente” è poi contradditorio nel momento che ne difende a spada tratta sia la fase stalinista che quella successiva di alleato del campo capitalista, tenuto in piedi dai dollari americani, spacciano tutto per “socialismo” quando socialismo, per quel che mi riguarda, non era nè prima nè dopo. Invece molti socialisti e comunisti c’erano tra gli esuli ai quali sono stati messi fuori legge i CLN, il PCI e gli altri partiti anti-fascisti nei mesi successivi la fine della guerra.

        • Per Lo.Fi. Anche tu fai un’esegesi davvero curiosa del mio pensiero.

          “Vero vero. Anche se certe conclusioni del post di Giap sono molto libere rispetto a quanto afferma Focardi, che su queste cose si muove con un pizzico di prudenza in più. Il libro è davvero buono, per chi fosse interessato alla tematica”.

          Tu quanto mi attribuisci te lo se inventato. Non risponderò oltre. E “spocchia sacerdotale accademica” è cosa che proprio non mi appartiene. Ma pensa te.

  12. Non ho ancora visto lo spettacolo, dunque non mi voglio esprimere, anche se letta l’analisi di Purini e il tono delle reazioni di Cristicchi, insomma…è difficile partire bendisposti.
    Intervengo in merito ad una questione che mi riguarda da vicino, essendo il mio lavoro: l’arte ed in particolar modo il teatro e la sua supposta “estraneità” rispetto alla storia, alla politica, a ciò che è stato, è e sarà il mondo nel quale viviamo.
    Tagliando con l’accetta, l’arte o è politica o non è. Giustificarsi dicendo “non volevo fare storia, è solo uno spettacolo teatrale”, non solo non è una risposta convincente, ma svuota di senso e squalifica il teatro, ne rivela una concezione davvero povera.
    Che io parli di episodi storici o meno, ma ovviamente in particolare se parlo di episodi storici, il mio modo di rappresentare il mondo e la realtà (l’arte è sempre una rappresentazione ed una manipolazione della realtà, la “trasparenza” è una misticazione, un presentare come oggettivo ciò che è un punto di vista sulla realtà) parla del modo in cui interpreto quella realtà. Il modo in cui scelgo di inserire o di omettere dati, il registro stilistico che scelgo per raccontare un fatto piuttosto che un altro, tutto concorre a creare la mia visione del mondo. Non si tratta nemmeno di rimanere necessariamente fedeli alla verità storica: l’arte falsifica, stravolge, muta di segno [sempre per rimanere in ambito teatrale, pensiamo ad un’operazione come “Scemo di guerra” di Celestini e al suo fantastico, in tutti i sensi, racconto della liberazione di Roma dai nazifascisti, o ad “Aldo Morto” di Daniele Timpanoe al suo “pluriracconto” della prigonia di Moro – oppure, banalizzando, a quanto le tragedie fossero IL modo in cui venivano messi in scena i conflitti sociali e politici nella società greca). Ma se le omissioni, le minimizzazioni, le storture, le imprecisioni vanno tutte in una direzione, che io sia ne consapevole o meno, mi sto schierando. E dunque sono responsabile, che mi piaccia o meno, dei contenuti che la mia opera veicola.
    Del resto la lezione di WM1 su 300 dice le stesse cose molto più chiaramente.
    Questo volersi immunizzare dal diritto di critica dicendo che si sta “solo facendo teatro” è, ripeto, oltre che una deresponsabilizzazione molto comoda, squalificante in primo luogo per il teatro in sè.
    Oltretutto va di moda nei tempi della memoria condivisa, che (come già detto da altri sopra) in realtà diventa “s”memoria livellatrice, dove vittime e carnefici pari sono, dove chi ha lottato ed è morto per abbattere una dittatura va equiparato a chi ha lottato ed è morto per difendere quella dittatura.
    Anche il cinema dei “telefoni bianchi” degli anni ’30 era politico, anche “La principessa Sissi” è politico, credo che fosse Serge Daney a dire che (in quel caso) il cinema è politico non solo per quel che fa vedere ma anche e forse soprattutto per ciò che non fa vedere, per ciò che non mostra e omette. Dunque anche la più “innocua” delle opere artistiche in realtà ci parla politicamente, e ci mostra un modo di interpretare la realtà. Figuriamoci se può essere non-politica un’opera che prende di petto le questioni che ha deciso di affrontare Cristicchi (e si potrebbe “farla lunga” anche su questo intendere sempre il termine “politica” o “ideologia” solo in senso negativo).
    Spero di non essere andato OT…

  13. Rispondo ai primi quattro, in ordine un po’ sparso. Per carità. Non era davvero mia intenzione misurare l’efferatezza dei due regimi. Non è il mio metodo storico e lo lascio ad altri, che invece su queste cose si divertono ancora molto. Merda e tuono stanno in categorie diverse, però: mentre secondo me elementi di comunanza “totalitaria” il fascismo e lo stalinismo in salsa slava ce li abbiano eccome. Anche sul piano dei meccanismi di nazionalizzazione delle masse.

    La cosa sulle scuole slave la tiro fuori da carte dell’Ufficio zone di confine, attentissimo e interessato osservatore dei fenomeni politici in atto nella minoranza slovena dopo il 1948. Mi pare una chiave di lettura convincente se inquadrati nel cima di quegli anni.

    Sul postideologico, posso rispondere solo per me stesso. E la mia speranza di superamento delle ideologie – in generale e nell’approccio storiografico – non ha niente a che vedere con ideologia di dominio. Siamo qui a fare scienza o ci proviamo: del dominio non so che farmene e tantomeno mi sento utile idiota dello stesso.

    Giudizi di valore. Non me ne sono accorto. Parliamone. Non rimuovo davvero gli strafalcioni delle istituzioni e del mondo della cultura: faccio espliciti riferimenti a presidenti di Repubblica e Senato, mi sembra. Non so peraltro se sia vero che le istituzioni repubblicane – non Berlusconi o il Veneziani di turno che invece lo fanno – stiano promuovendo una rimozione delle responsabilità del fascismo: quale interesse avrebbero? Ma è pur vero – e me ne sto occupando professionalmente in questo periodo – che la difesa dell’italianità del confine orientale (1945-1954) indusse lo Stato italiano a molti cedimenti sul piano democratico (primo fra tutti le collusioni con gli ambienti dell’estrema destra) e spinse il dibattito pubblico a rapide e colpevoli rimozioni delle responsabilità della dittatura. Un fenomeno che d’altronde riguarda tutto il paese e molti dei suoi massimi intellettuali, ma che ad esempio negli anni Sessanta ricevette più di qualche correzione da parte del centro-sinistra, anche in termini ci cooperazione/distensione/pacificazione italo-jugoslava.

    Io non mi sono ancora fatto un’idea sulla portata del progetto pedagogico che c’è sotto lo spettacolo di Cristicchi. Ma concordo che le strumentalizzazioni che si fanno del testo vadano nella direzione di un disegno che alcuni chiamerebbero neoirredentista (termine antipaticamente vago): sono meno sicuro che esso abbia però una portata “egemonica”. Ci sono certo degli interessi politici alla base, non sono un sepolcro imbiancato. Penso soltanto che davanti a certi fenomeni gli storici debbano muoversi con armi diverse e star fuori dallo stucchevole giochino delle parti.

    È per questo che non mi sono addentrato sul tema dell’uso pubblico e della strumentalizzazione della memoria. Mi interessava meno a questo punto del dibattito. Ho ritenuto più urgente fornire elementi per un giudizio più equilibrato (che non ha niente a che vedere con la memoria condivisa) su certe vicende. Mi troverete sempre critico verso chi blatera di memoria condivisa: non ho mai sentito uno storico serio farlo, per dire. Nessuno studioso preparato negherebbe inoltre l’esistenza di un conflitto endogeno nella società giuliana (dalla seconda metà dell’Ottocento in poi, su base essenzialmente nazionale, ma con evidenti implicazioni anche sociali: rivalità fra una borghesia italiana “dominante” e una slovena emergente, subalternità della minoranza slovena di Trieste, disegno sinceramente internazionalista dell’austromarxismo). E se ci sono progetti culturali egemonici a cui rispondere, il primo modo di farlo è tenere presente tutta la cornice. Ho solo cercato di aggiungere dei pezzi insomma, non di pesare i due regimi. Quando si portano alla luce faglie interne, linee di conflitto e coscienza lercia delle nazioni (al plurale, mi raccomando), lo si deve fare fino in fondo. Proprio per sfuggire alla semplificazione e alla cappa omologante di buona parte del discorso pubblico: che è anche, d’altro canto, la semplificazione di percepire all’opera un Grande fratello che razzializza e gerarchizza le culture (chi sono i colpevoli dell’operazione, si può sapere?), che rimuove il programma di sterminio nazista, che dice che il colonialismo europeo è stato una passeggiata di salute: lo fanno alcuni e pure influenti, magari, ma ce ne sono tanti che continuano a offrire ricostruzioni e divulgazioni oneste, in cui prendere posizione contro una parte non significa automaticamente parteggiare per l’altra. Buoni e cattivi abbondano dappertutto.

    A Purini dico solo che ha ragione a vedere sfocato il mio intervento sul suo articolo. Forse avrei dovuto esplicitare meglio il mio pensiero. E cioè. Nel momento in cui si commentano i primi passaggi di uno spettacolo – con argomentazioni che, lo ribadisco, mi sembrano assolutamente convincenti sul piano della ricostruzione fattuale – sarebbe bene soffermarsi anche sui secondi e i terzi passaggi. Possibile che lo spettacolo non spinga a qualche breve riflessione sul resto? Non discuto dell’intera storia giuliana, ma mi permetto di aggiungere elementi al tuo discorso. Del tuo libro, che conosco, parliamo magari davanti a un Santa Teresa servito dai nostri baristi preferiti, una volta o l’altra. Non ne condivido comunque la tesi di fondo – penso anche ad un tuo intervento a un convegno in quel di Koper di un paio d’anni fa – e dico nel contempo che il tuo volume precedente sul 1954-1963 mi è invece stato di grande aiuto per inquadrare meglio le cose di cui mi occupo. Non ho nessun preconcetto, ci tengo davvero a chiarirlo. Sulle responsabilità storiche italiane, con me, sfondi una porta spalancata. Sulla cappa di conformismo calata ad arte e consapevolmente sulla società italiana invece mi permetto di dissentire. A me pare più “semplicemente” l’incapacità culturale delle classi dirigenti politiche di misurarsi col peso della storia: non so se sia un disegno autoritario o, piuttosto, l’ormai manifesta incultura dell’élite, che accetta per pigrizia una vulgata facile da capire e facile da propagandare. Il mio pessimismo mi fa propendere per la seconda opzione, tutto sommato. Mi sembra comunque che l’europeismo sia un valore quantomeno serpreggiante (se non radicato) nella cosiddetta classe dominate e che anche il rapporto col mondo balcanico sia molto mutato (in meglio) dagli anni Settanta in poi grazie allo sforzo di ambo le parti. Non vedo che interesse ci sia nella cosiddetta borghesia neoliberista italiana a propagandare l’antislavismo. A questa lettura credo davvero poco: gli interessi politici sottesi alla strumentalizzazione del confine orientale mi sembrano francamente di più piccolo cabotaggio e poco attinenti ai processi di globalizzazione.

    Ciò detto, mi sembra che Ginseng centri con grande efficacia la complessità delle vicende e lo spirito con cui ci si debba approcciare se non sul piano storico, su quello civile.

    • Diego, per adesso rispondo solo su un punto, perché il mio sabato è piuttosto incasinato:

      «Non vedo che interesse ci sia nella cosiddetta borghesia neoliberista italiana a propagandare l’antislavismo.»

      Forse non sai risponderti perché la domanda è mal posta.

      Il punto non è «l’antislavismo», che pure esiste ed è ancora radicato non solo a Trieste ma, in varie forme, nel resto d’Italia. E’ un pregiudizio confuso: per molti sono “slavi” anche gli albanesi, i rumeni e i Rom. C’è un generico “Est Europa”, da secoli e secoli vagina gentium che partorisce gente indesiderabile (come il conte Dracula nel romanzo di Stoker), e che è considerato in toto zona “slava”.

      Però, dicevo, il punto non è l’antislavismo. Nella narrazione deresponsabilizzante degli «italiani brava gente», oggi è colpa dello “slavo”, domani sarà colpa di qualche altro nemico esterno, utile a innescare un conflitto diversivo e presuntamente “esogeno”: il migrante, il musulmano, oscuri complotti internazionali ai nostri danni… L’importante è che la colpa non sia mai nostra.

      Diego, mi pare che tu sottovaluti quanto questa narrazione abbia pesato e continui a pesare sul discorso pubblico e sulla vita di tutti in Italia.

      Non lo vedi che è esattamente la stessa narrazione che ci ha portati a un demenziale scontro diplomatico/giuridico con l’India sulla vicenda dei Marò? Su questo abbiamo scritto molto, qui su Giap.

      E dovresti saperlo che il rimosso dei nostri crimini coloniali ha influenzato per decenni il nostro rapporto con l’Africa. Cazzo, si pensi a cosa si è fatto in Somalia durante Restore Hope! Anche i non-detti e i misteri sulla morte di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin fanno parte di una catena causale di eventi che risale alla nostra colonizzazione del Corno d’Africa (sulla Somalia però Wu Ming 2 è più ferrato di me).

      Ma soprattutto, quel rimosso sul passato aiuta a rimuovere il presente.
      Per fare solo pochi esempi, il nostro rimosso coloniale contribuisce a coprire quello che fa l’ENI nel Delta del Niger, o quello che fa l’ENEL imponendo grandi opere e dighe devastanti qui e là per il sud del mondo, o il ruolo che sta avendo l’Italia nella nefanda “ricostruzione” della Libia post-Gheddafi.

      Eccome, se la narrazione degli «italiani brava gente» è funzionale al sistema!
      [L’espressione può suonare un po’ rétro ai “post-ideologici”, ma tant’è, il concetto è proprio quello].
      La narrazione «Italiani brava gente» torna utilissima quando si devono additare capri espiatori, quando si deve coprire con soffiate di denso fumo ogni conflitto endogeno nella società italiana, e quando si deve sviare l’attenzione dagli affari sporchi di oggi.

      Cioè, praticamente, è utilissima sempre.

      Il fatto che oggi ci sia la UE non significa che sia finita la narrazione «italiani brava gente», anzi, c’è un’evidente dialettica viziosa tra l’europeismo tecnocratico (quello della BCE, dell’Austerity e quant’altro) e i neonazionalismi che fioriscono nel continente. E’ stata la globalizzazione liberista a rinfocolare gli identitarismi e i nazional-populismi. E gli identitarismi sono a loro volta funzionali al business globalizzato, dato che esasperano le divisioni nel mercato del lavoro, accelerano la “etnicizzazione” di quest’ultimo e ostacolano la solidarietà internazionale (solidarietà che sarebbe utilissima quando le corporation ricattano i lavoratori e impongono il dumping dei salari minacciando delocalizzazioni).

      Del resto, se la narrazione «italiani brava gente» non fosse funzionale al sistema, non sarebbe così incancrenita, non si investirebbero così tanti danari, tempo ed energie per tenerla in piedi e riproporla in ogni contesto: fiction TV in prima serata, giornate commemorative, talk-show, eserciti di opinionisti scatenati, scendendo di livello fino alle squadracce che, in questa o quella città, impediscono i dibattiti seri sulle foibe.

      E’ in questo contesto che si inserisce un’operazione truffaldina come quella su Magazzino 18. Ed è tenendo presente questo contesto che a noi interessa decostruirla.

      • Sono teorie politiche suggestive. Ma non mi sento titolato a discuterne, né era mia intenzione arrivare su questi temi. Il mio era un semplice invito al rigore storico e, programmaticamente, non sono intervenuto volutamente sul tema della memoria condivisa, che ritengo ad ogni modo andrebbe sviluppato ricorrendo anche ad altre categorie. Andrei più cauto nell’instituire così rigidi nessi causali fra rimozione del passato e rimosso del presente. Non perché ho visioni alternative, ma perché mi si dipinge un grande punto interrogativo in faccia. Faccio presente che l’Ue con il suo programma di ricerca Horizon 2020 dà moltissimo rilievo al nodo dell’uso politico del passato e della pedagogia pubblica attraverso la storia. Sono all’interno di un’equipe che sta scrivendo un progetto su queste cose: se mai ci finanzieranno, mi fionderò proprio su simili temi. Che non ora sono in grado di commentare da una prospettiva così fortemente sistemica, come fa Wu Ming 1. Bandiera bianca.

        • Mi scuso per la lunghezza.
          Una replica alle cose da te (permetti?) scritte in vari interventi (non so nemmeno se li ho visti tutti).
          Vorrei innanzitutto ricordarti che, come disse qualcuno di famoso nel mondo della storiografia (Bloch?), la storia si scrive sempre per l’oggi. La STORIA. Quella che scriviamo io e te, Piero e tanti altri. Aggiungo che gli strumenti e le categorie che si utilizzano per interpretarla e scriverla sono strumenti dell’oggi, determinati dall’oggi e non sono per nulla neutri, ma determinano il racconto che della storia si vuole dare (il discorso vale anche per le altre scienze umanistiche e pure per quelle esatte). Lo è anche la categoria di totalitarismo, sulla quale condivido le osservazioni di Militant. E lo è pure la categoria del postideologico, che è in realtà una vera e propria ideologia. Una ideologia fondata sulla pretesa di essere a-ideologica. Quindi di non avere dei punti di partenza, delle chiavi interpretative. Cos’è questo, se non ideologia allo stato più puro? Quanto ai »drami« che le »ideologie« avrebbero prodotto essi sono in realtà (purtroppo) la normalità della storia. Sono il modo in cui la storia procede, che ci piaccia o meno. E non sono il risultato di »ideologie« (che sono solo le »interpretazioni del mondo«, il rivestimento ideologico, appunto, funzionali a legittimare e sostenere interessi molto concreti), ma dello scontro di interessi concreti di persone e classi (si, proprio loro), che tali ideologie hanno prodotto e/ o che di esse si sono serviti.
          Ancora: la storiografia ha giocato e gioca un ruolo determinante nella costruzione e nella legittimazione di miti nazionali e di altro tipo, nella costruzione in fin dei conti di ideologie, anche di quella del postideologico. Nel suo piccolo lo stesso Cristicchi, pur dicendo di non voler scrivere LA storia, poi deve ammettere che per scrivere il suo spettacolo si è basato sulla storiografia (lasciamo perdere quanto Bernas possa essere considerato »scientifico« o meno, è un fatto che il suo lavoro viene presentato come storico). E lo spettacolo che ne è venuto fuori è pieno zeppo di ideologia ed è parte della costruzione di un nuovo mito nazionale italiano, di un »comune sentire« nazionalista, e non solo ed esclusivamente attraverso il Giorno del Ricordo (rientrano in ciò gli »eroi« di Nassiria, i »marò«, la retorica patriottarda e nazionalista ritornata prepotentemente in voga …). Questo è quello che stà avvenendo nei fatti (non solo in Italia), e le dichiarazioni di Ciampi, Napolitano e Grassi non sono per nulla errori, perché lo scopo di Giorni del Ricordo e simili è stato spiegato più che chiaramente nei loro stessi discorsi. Anche oggi però alla base di questi racconti ci stà una storiografia, che è anche quella dalle cui file provengono i ghostwriters che hanno scritto i discorsi dei sopracitati. Posso farti nomi e cognomi, uno sta certemente in posizioni di vertice nell’istituto di cui dirigi la rivista. Una storiografia involuta a costruire storie nazionali (perché non è un fenomeno solo italiano, sia chiaro).
          Quindi non c’è nessun passato da superare perché non stiamo parlando del passato, ma dell’uso a scopi attuali del passato. Né è compito della storiografia superare alcunché, ma semplicemente cercare di capire cosa è accaduto e perché. L’unico modo in cui il passato può essere superato è che nel presente non esistano più le contradizioni, le ragioni che hanno prodotto le contrapposizioni del passato. La petizione a superare il passato è una petizione tutta politica, ideologica, che cerca di far passare l’idea che quanto accaduto nel passato era dovuto solo alle idee sbagliate che la gente si era fatta e che, eliminate e criminalizzate quelle idee, non ci sono più le ragioni degli scontri del passato. A te sembra che oggi la società non sia divisa (più) in classi, che Marchionne e soci non pratichino coscientemente la lotta di classe (essendo lotta presuppone almeno due contendenti)? E che tale realtà non produca ideologie, tra cui quella del postideologico?
          Ed è proprio per tutto quanto detto finora che Tito c’entra. Che piaccia o meno il PCJ (perché non si tratta di Tito, che può essere al massimo un simbolo) è parte di quel movimento di trasformazione del mondo, dei rapporti sociali che lo regolano, che ha segnato la storia mondiale dal suo apparire, e che tuttora la segna (visto che ne stiamo ancora a parlare nonostante le compagni statali a cui tale movimento ha dato vita siano scomparsi da ormai diversi decenni e che Marx sia stato dato per finito almeno una decina di volte). Con tutti i suoi errori, deviazioni, disastri, quel movimento è l’unico a portare in se la possibilità di superare la barbarie nella quale viviamo. Perché è l’unico che ha come obiettivi il superamento dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo. Perché magari, come dici, la fratellanza italo – slava funzionò poco e male, ma fu portata avanti SOLO da quel movimento, mentre l’altra parte nemmeno ci provò, ponendo lo scontro sul terreno nazionale (voglio ricordarti che il CLN di Trieste era un organismo »etnicamente puro«, visto che escludeva pregiudizialmente dalle sue file chi non fosse italiano, mentre diversi italiani fecero parte – aluni fino dal ’41 – dell’OF, anche con ruoli di rilievo).
          La criminalizzazione di quel movimento – in particolare della sua parte comunista, che fu quella che nel bene e nel male fu la più efficace ed efficente nella lotta per il potere – non ha alcun senso per il passato, ma ne ha, eccome, per l’oggi e per il futuro: serve a far passare il messaggio che qualsiasi tentativo di uscire dai rapporti sociali attuali è criminale e destinato al fallimento.
          Detto questo, credo che la storiografia abbia il compito di studiare e approfondire cosa sia stata la Jugoslavia di Tito e come sia giunta agli esiti a cui è giunta. Perché la Jugoslavia non è stata un qualcosa di immobile, in cui non accadeva nulla o in cui tutto dipendeva dalla volontć di Tito, in cui non ci fossero interessi contrapposti che si scontravano e ne determinavano le evoluzioni (ti do una notizia, la lotta di classe esisteva anche li!). C’era chi, come Anton Ukmar – Miro, membro del PCJ e »titoista« dopo il ’48, sosteneva che in Jugoslavia non c’era stata alcuna rivoluzione socialista, ma al massimo una rivoluzione democratico borghese. Se sai il serbo-croato forse potranno interessarti queste due interviste con Vlado Dapčevič, membro del PCJ dal ’33, partigiano, poi generale dell’esercito jugoslavo, in seguito »cominformista« rinchiuso a Goli, transfuga in Unione Sovietica, critico del breznevismo, condannato a morte in Jugoslavia…… Che di Tito e del titoismo non aveva proprio una grande opinione (http://www.youtube.com/watch?v=ggTcrV-0ztE; http://www.youtube.com/watch?v=L1QFSaMWu5M). A me è questo l’approccio che interessa, non quello morale e moralista che proponi (con le categorie interpretative connesse).
          Quanto al tuo appello al rigore è in notevole contraddizione con le tue enunciazioni. Perché il CLN giuliano (che era poi quello di Trieste) scelse esso di tornare in clandestinità perché non volle accettare il fatti di non essere l’unico titolato al potere. E in questa seconda clandestinità pare essere stato molto più attivo che durante l’occupazione nazista. Che in Jugoslavia si stesse attuando una rivoluzione non era per nulla un mistero, ma nel ’43 in Istria è dimostrato che la »jacquerie« scoppiò spontaneamente, senza una direzione del movimento partigiano. I quadri inviati in Istria per assumere la direzione dell’insurrezione e la creazione dei »poteri popolari« arrivarono solo dopo e furono loro a creare i tribunali popolari. Ma prima gli arresti e le esecuzioni vennero effettuati da gruppi parecchio improvvisati, come la »Ceca« di Rovigno, composta esclusivamente da italiani.
          Come puoi ritenere che, visto il tipo di guerra condotta dai nazifascisti e dai loro alleati, non si sia trattato di una resa dei conti (almeno in gran parte) fisiologica? Nel caso jugoslavo la cosa fu addirittura preannunciata dal movimento partigiano, per esempio nelle diverse amnistie offerte ai collaborazionisti. O forse dobbiamo ritenere che anche in altri paesi in cui ci furono uccisioni di massa dopo la fine della guerra – ad esempio Italia e Francia – ci fu »il progetto di instaurazione rivoluzionaria di un nuovo regime, che eliminava preventivamente le possibili voci d’opposizione«? Cìè chi lo sostiene. Ma non è bella gente.
          Nelle Garibaldi (in Jugoslavia come in Italia) non c’erano solo comunisti. Quella alla quale ti riferisci è evidentemente la Divisione Garibaldi, nata dopo l’8 settembre dai resti di alcune divisioni di stanza in Jugoslavia e in cui i comunisti erano davvero pochini. Combatté sul fronte di Srem (Sirmio), dove le perdite jugoslave furono altissime in generale (tanto che i nazionalisti serbi accusano i comunisti di aver volutamente mandato a morire la gioventù serba richiamata alle armi dopo la liberazione della Serbia per togliere ai serbi le forze migliori) e la cui stessa ratio da un punto di vista militare è messa in serio dubbio da numerosi studiosi. E poi, che avrebbero dovuto fare, tenerli nelle retrovie perché non si facessero male?
          Che il comunismo jugoslavo »avesse ben poco dell’internazionalismo« è quasi una contraddizione in termini! Il comunismo jugoslavo era come minimo plurinazionale, visto che lo stesso PCJ era composto di militanti di tutte le nazionalità della Jugoslavia (dagli albanesi agli sloveni) e che al suo interno esistevano due PC nazionali, quello sloveno e quello croato. In realtà gli jugoslavi erano talmente internazionalisti che nel ’45 erano dispostissimi a mettere le loro truppe a disposizione del PCI per esportare la rivoluzione in Italia. É però altrettanto vero che erano un po inebriati dai loro successi ed avevano un atteggiamento spesso di sufficienza (per usare un eufemismo) nei confronti dei loro compagni italiani. Forse sei tu ad avere una idea un po confusa di cosa significhi internazionalismo.
          Lo sciopero di Capodistria è stato indubbiamente anche una manifestazione di classe. Quanto a Sema, con tutto il rispetto, le sue memorie sono un bel esempio delle contraddizioni che i comunisti italiani dell’Istria si portavano dietro dal punto di vista nazionale (non che dall’altra parte non ce ne fossero, sia chiaro). I membri del PCI rifiutarono di collaborare con i comunisti croati nella lotta partigiana fino a quasi l’8 settembre perché la ritenevano un movimento “piccoloborghese”. Dai suoi libri emerge come Sema (e ancora più suo padre Antonio) fosse più un socialista di stampo umanitario che un comunista. E qual’ è la prima misura che il CLN di Pirano prende subito dopo la fine della guerra su proposta di Paolo Sema? Raddoppiare le ore d’insegnamento dell’italiano nel liceo locale! Dopo 20 anni di fascismo, di proibizione di sloveno e croato e tutto il resto manco gli passa per la capa che magari sarebbe stato opportuno, anche solo per dare la possibilità alla gente di capirsi con gli sloveni che vivono (pochi) a Pirano e (moltissimi) nel circondario, di introdurre qualche ora, magari facoltativa, di sloveno. Magari leggersi “Socialismo adriatico” della Cattaruzza può aiutare a capire alcune particolarità del socialismo italiano in Istria.
          Dopo la guerra il ribaltamento di rapporti non avvenne tra bracciante e piccolo proprietario, ma nei confronti dei gradi proprietari. I piccoli (e piccolissimi) proprietari erano tanti, ma in Istria durante il fascismo avvenne una redistribuzione della terra a rovescio, a favore delle grandi proprietà. Che elementi psicologici e antropologici abbiano avuto il loro bel ruolo nel determinare le partenze è fuor di dubbio. E che la “terrà tremò” anche per ragioni nazionali è altrettanto fuor di dubbio – non solo braccianti, ma per di più “’s’ciavi” al potere, mio Dio! Ecco, magari tra le determinanti psicologiche e/o antropologiche dell’esodo andrebbero valutati anche i pregiudizi sciovinisti (con tratti razzisti) che la borghesia italiana aveva diffuso a piene mani per mezzo secolo tra la popolazione italiana. E che continuò a diffondere anche dopo la guerra.
          Il PC del TLT, quello guidato da Vidali, non fu mai ufficialmente assertore dell’annessione di Trieste all’Italia, ma sempre e solo della creazione del TLT. Che aveva molti estimatori anche tra i dirigenti comunisti “titoisti”, da Babič, segretario del partito filojugoslavo, al già citato Ukmar. Personaggi che proprio per tale loro posizione vennero “esiliati” a Lubiana.
          Che le autorità italiane (ovvero una componente dello schieramento filoitaliano) abbia spinto per l’esodo dopo il Trattato di Pace è più che dimostrato (basti citare l’esodo da Pola). Che i governi italiani lo facessero di loro iniziativa o sotto la spinta delle organizzazioni filoitaliane locali è un’altra questione. Ma sta di fatto che non delegittimarono in alcun modo la preparazione dell’esodo da parte del CLN di Pola e che per loro stessa ammissione le organizzazioni come l’ANVGD si impegnarono a far optare più gente possibile su indicazioni “dall’alto”. Come è un fatto l’esistenza di reti clandestine – non tutte dedite solo alla distribuzione di sussidi – in Istria. E’ però vero che a lungo De Gasperi e lo stesso CLN dell’Istria operarono contro la partenza della gente dalla Zona B del TLT, anche distribuendo sussidi tra i sostenitori dell’Italia. Che valenza ebbe però per quella stessa gente il fatto che ad un certo punto il CLN dell’Istria ed il Governo decidessero di sospendere la distribuzione dei sussidi per impiegare quelle somme per l’assistenza ai profughi a Trieste ed in Italia? Poteva essere percepito come il messaggio che se rimanevano avrebbero dovuto arrangiarsi, mentre se partivano avrebbero avuto assistenza?
          Come vedi quelle vicende non sono state affatto ricostruite con dovizia di particolari e di profondità analitica, ma semplicemente in funzione di necessità politiche. Per cui i documenti inediti, per nulla clamorosi, non solo non sono stati cercati, ma accuratamente evitati o, nel caso, manipolati.
          E poi, sinceramente, fai tutto un pippone su una recensione di uno spettacolo, mettendone in luce le presunte manchevolezze in nome di un approccio meno ideologico, per poi concludere che quello che veramente imputi al Purini e di aver dato scarso rilievo all’aspetto nazionale! Alla faccia del nuovo approccio!

    • «elementi di comunanza “totalitaria” il fascismo e lo stalinismo in salsa slava ce li abbiano eccome. Anche sul piano dei meccanismi di nazionalizzazione delle masse.»

      secondo me invece violenze su base etnica e pianificate (comprensive di deportazioni all inclusive di popolazioni e villaggi, leggi donne, vecchi, bambini) rientrano in un’altra categoria rispetto alle violenze su base politica, frutto di uno stato di polizia esasperato. Sono da condannare entrambe, ovvio, ma metterle sullo stesso piano come semplici forme diverse di totalitarismo, è più che sbagliato, è grave.

      «Non so peraltro se sia vero che le istituzioni repubblicane – non Berlusconi o il Veneziani di turno che invece lo fanno – stiano promuovendo una rimozione delle responsabilità del fascismo: quale interesse avrebbero?»

      Non è solo il Berlusconi o il Menia di turno, c’è una giornata del ricordo che ha precisi significati politici e che è stata posta immediatamente dopo la giornata della memoria, peraltro sulla base dell’anniversario della firma del trattato di pace, scelta dal sapore decisamente revanscista non trovi? ci sono ddl sul negazionismo che ciclicamente si riaffacciano e i rappresentanti delle associazioni degli esuli non mancano mai di puntualizzare che l’eventuale reato riguarderebbe anche chi cerca di “minimizzare” il fenomeno delle foibe, che alle mie orecchie suona come “verrebbero puniti anche quelli che si oppongono al concetto di pulizia etnica slavocomunista”. Sui moventi di questa operazione credo ti abbiano risposto bene Tuco e Wu Ming 1 prima di me. Chiaramente non si cerca di innescare una guerra con Slovenia e Croazia, il discorso è tutto interno all’Italia, gestire la storia e il modo in cui viene raccontata significa gestire anche il racconto (o meglio non-racconto) del conflitto sociale e politico interno, attuale. La partita è sempre nel presente.

      «sono meno sicuro che esso abbia però una portata “egemonica” (…) Proprio per sfuggire alla semplificazione e alla cappa omologante di buona parte del discorso pubblico: che è anche, d’altro canto, la semplificazione di percepire all’opera un Grande fratello che razzializza e gerarchizza le culture (chi sono i colpevoli dell’operazione, si può sapere?)»

      Quello che passa per TV e testate giornalistiche grosse è per me sempre un discorso egemonizzante, è li che si orienta il dibattito pubblico, è un imbuto e solo interessi politici forti, soprattutto economicamente, passano. Non è un guestbook dove ognuno scrive la propria opinione. Non è neanche il Grande Fratello di Orwell, nè il complesso pluto-giudaico-massonico o Bilderberg o singoli colpevoli, perfidi nemici dell’umanità, è proprio il meccanismo, il “sistema” si diceva una volta. Io non penso ci sia uno che si siede e decide come orientare il discorso pubblico, c’è una sorta di contratto, a cui non partecipano né gli storici né la gente comune, poi ci sono gli esecutori di quel contratto, gli spin-doctors e giù giù fino ai morti di fama che smaniano di mettere in scena il discorso dominante per ottenere 1/4 d’ora di celebrità.

      «ce ne sono tanti che continuano a offrire ricostruzioni e divulgazioni oneste»

      Quanto contano le riscostruzioni storiografiche oneste nel discorso pubblico? Zero. Ci sono, vero, ma paradossalmente rafforzano i discorsi dominanti disonesti, perché con la loro esistenza testimoniano una presunta pluralità, ma è la pluralità delle terze pagine e avanti su Google… per dire, e la pseudostoria della pulizia etnica emerge come discorso vincente e quindi vero.

      «non so se sia un disegno autoritario o, piuttosto, l’ormai manifesta incultura dell’élite»

      Per me tutti e due, perchè la seconda fa sempre il gioco della prima.

      • Io non capisco perché ne fai una questione di differenza essenziale. Le forme dei totalitarismi sono state diverse, ma le loro violenze stanno sullo stesso piano. Cos’ha di diverso la base etnica da quella politica, se parliamo di violenza totalitaria?

        • Ok, quindi mettere in pratica lo sterminio della “razza inferiore” è uguale a colpire un nemico politico. Stesso fenomeno.
          E’ con inaccettabili equivalenze di questo genere (inaccettabili sul piano storiografico e anche su tutti gli altri), già proposte da Nolte agli inizi dello Historikerstreit tedesco degli anni ’80, che è iniziata l’ondata di merda.
          Su, sforziamoci un minimo di ragionare…

          • Io sono stato sintetico, ma ho fatto una domanda. Mi spiego meglio allora, però Nolte e compagni e lo sforzo di ragionare non c’entrano molto. Nolte non so chi sia. Il piano storiografico, non so bene neanche cosa sia, qua va in secondo piano. D’amelio parla di comunanze totalitarie. Gli si risponde che però stanno su piani diversi, per quanto condannabili entrambi. Ora, io non ho parlato di stesso fenomeno. Ma l’eliminazione di una persona per motivi etnici o per motivi politici, se confermate queste comunanze totalitarie, dal punto di vista della critica al totalitarismo, oltre che dal punto di vista etico, cosa ha di diverso? Se uno stato democratico compie uno sterminio, la democrazia non si equipara al totalitarismo, ma lo sterminio è lo stesso. Non sto facendo un discorso banalizzante, però mi pare che il discorso della rivoluzione degenerata stia poco in piedi, e mi pare un modo improprio di mischiare le premesse ideologiche alle conseguenze politiche. @ Luigi L. ti rispondo qua così non faccio due commenti. Scusami se ti ho dato un dispiacere. Non sto in nessun modo dicendo che gli jugoslavi erano come i nazisti. Mi sono collegato a un discorso critico del totalitarismo.

            • Su Nolte e sull’operazione politico-storiografica iniziata negli anni ottanta, ti segnalo questo articolo di Primo Levi, pubblicato su “La Stampa” nel 1987:

              http://www.neteditor.it/content/188265/buco-nero-di-auschwitz-di-primo-levi

              • Purtroppo, trent’anni dopo, possiamo dire che Nolte ha vinto. Quei paragoni, quei ridimensionamenti delle responsabilità dei fascismi (e dell’Europa) sono diventati “senso comune”, tanto che persino molti che si definiscono “di sinistra” ripetono certe cose, quasi sempre senza conoscerne la matrice, e senza capire le conseguenze del loro ripeterle.

                Invece Primo Levi (che, lo ricordo, non era un comunista) ha perso. Oggi, se qualcuno tenta di discernere come discerneva lui in quell’articolo, e dice che il movente razziale e il movente politico non possono essere messi sullo stesso piano, viene trattato da estremista, gli si dice che “non condanna tutti i totalitarismi”, partono reprimende, fuochi di sbarramento, e soprattutto si usa la parola-passepartout “ideologia” a cazzo di cane.

              • Grazie del link. Capisco che sto parlando di cose che hanno una portata enorme, ma d’altronde non vedo in che altro modo esprimermi. Io non sono d’accordo con Primo Levi. Mi sembra che faccia lo stesso errore di Nolte, quello di essenzializzare. Parte dal confutare l’asiaticità di una pratica per poi definirla tedesca, nonostante nella stessa frase parli di specificità nazista. Ricondurre la specificità nazista all’essere tedeschi significa contraddirsi. Compie anche un errore storico, parlando di specificità nazista nello sterminare bambini e moribondi nella modernità passata e futura. Pratiche eugeniche poi furono effettuate prima negli USA, in altri paesi europei oltre alla Germania e nella Russia sovietica. La rieducazione politica si basava se non sbaglio sulle teorie di Lysenko ( la psichiatrizzazione del dissenso politico cosa era? E come si fa a dire che la mortalità dei gulag fosse un sottoprodotto razionale? E come si fa a dire che fosse un massacro fra eguali? Qua c’è un’evidente confusione data appunto dal fatto che si vuole a tutti i costi, per quanto comprensibilmente, spiegare un orrore tale ). Se andiamo più indietro nel tempo troviamo che i genocidi compiuti nelle americhe avevano la stessa matrice nazista e sovietica, ovvero si fondavano sulla disumanizzazione delle persone. O perché privi di anima, o perché inferiori, o perché nemici del popolo. Se andiamo più avanti nel tempo ci sono gli esperimenti dei servizi segreti inglesi, i vari esperimenti condotti su cittadini poveri o ritenuti malati mentali o carcerati. Ci sono i bombardamenti vari. Ci sono state le pulizie etniche balcaniche e quelle africane e non so dove altro ( c’era già stato il genocidio degli armeni ). Significa forse non riconoscere le varie specificità o ridurre tutto a una pappa informe di violenza? No, ma allo stesso tempo mi pare difficile condividere un discorso che parte da un a priori per cui la pregiudiziale etnica o razziale sia diversa da quella politica se si tratta di eliminare qualcuno o per giudicare le azioni di qualcun altro.

              • No, jackie brown, non giochiamo con le parole, non inventiamo simmetrie assurde tra Primo Levi e Nolte. Quando primo Levi dice che Auschwitz (preso come metonimia) è tutto tedesco, e non importazione di prassi asiatica, non sta facendo nessuna identificazione tedeschi=nazismo. Sta richiamando i tedeschi ad assumersi collettivamente la responsabilità di qualcosa che è stato partorito in germania, e non è stato importato “dall’ asia”.

                Quanto allo sterminio dei bambini ad Auschwitz, non stiamo parlando di pratiche eugenetiche. Stiamo parlando di bambini fatti scendere dai treni e mandati direttamente in camera a gas, a centinaia di migliaia. Spero che adesso tu non mi venga a dire che fare questa distinzione significa giustificare le pratiche eugenetiche, senno’ mi viene il latte alle ginocchia.

              • Jackie, ma tu ti rendi conto o no di dove si va a parare con la meccanica equiparazione dei “totalitarismi”?

                Si va a parare che se in un territorio arrivavano i nazisti o arrivavano i partigiani – che spesso erano comunisti, e quindi, secondo il paralogismo oggi in voga, tout court per la dittatura – in fondo era uguale. I nazisti avevano costruito i lager, sì, ma in fondo, se avessero potuto, i partigiani avrebbero costruito i gulag. E bada che questa non è una mia forzatura a fini retorici: è preciso preciso il “senso comune” imposto in Italia con l’operazione fatta intorno ai libri di Pansa, che è la nostrana parodia di Nolte in sedicesimo.

                E a pensarci bene, i sovietici che hanno liberato gli ebrei di Auschwitz sono uguali ai nazisti che ce li avevano rinchiusi. Chi resisteva a Stalingrado era uguale a chi Stalingrado la assediava. Si stavano opponendo due totalitarismi: la spiegazione è a buon mercato, e quindi ha successo. Getta la complessità nel water e tira lo sciacquone. Sterminare le razze inferiori, senza distinzioni, ed eliminare nemici politici: uguale. Tanto si tratta sempre di uccidere.

                E’ proprio dove ci troviamo noi oggi che quei discorsi “equiparazionisti” volevano andare a parare fin dall’inizio: hanno fornito basi teoriche alla – per fortuna parziale – deresponsabilizzazione dei tedeschi di fronte all’orrore nazista (e così si può fare una fiction come “Generation War”), e hanno rafforzato la già fortissima tendenza degli italiani a deresponsabilizzarsi per il fascismo, e a rimuovere tutti i crimini coloniali e di guerra, e quindi – come provavo a spiegare sopra – ad accettare in toto il presente che su quelle rimozioni è stato costruito.

                Le tue obiezioni sull’essenzializzare sono allucinantemente fuori fuoco. Sarebbe come dire che noi, contestando la narrazione “italiani brava gente”, stiamo a nostra volta essenzializzando.

                Io faccio sommessamente notare che simili discorsi non ce li saremmo potuti permettere, se in Europa avesse vinto Hitler. E se in Europa Hitler ha perso, è stato soprattutto merito dell’URSS (dalla controffensiva di Stalingrado in avanti) e anche del tanto deprecato Tito. Non c’è bisogno di essere “titini” o “jugo-nostalgici” per riconoscere questo, e chi non lo riconosce o è ignorante o è in malafede. Si può essere critici e anche *parecchio* critici su com’era trattato il dissenso nella Jugoslavia postbellica (e non solo su quello), e al tempo stesso riconoscere il ruolo prezioso svolto dall’Esercito popolare di liberazione della Jugoslavia. Perchè il pensiero critico (lo dice la stessa etimologia della parola “critica”) consiste nel distinguere, e nel discernere.

              • @ Tuco

                Alcune cose spiacevoli, senza polemica: non sto giocando con le parole, non sono una macchietta, sono semplicemente in disaccordo. Non c’è bisogno che mi si ricordino a ogni commento le atrocità naziste. Vi ringrazio ( @ wu ming 1, leggo adesso il tuo nuovo commento sul quale rifletterò )

                Il confronto che faccio Nolte-Levi è sulla loro argomentazione particolare. Levi scrive “tutto questo è specificamente tedesco, e nessun tedesco lo dovrebbe dimenticare; né dovrebbe dimenticare che nella Germania, nazista, e solo in quella, sono stati condotti ad una morte atroce anche i bambini e i moribondi, in nome di un radicalismo astratto e feroce che non ha uguali nei tempi moderni”. Se la specificità è nazista non si capisce perché il popolo tedesco dovrebbe ritenersi responsabile collettivamente in maniera speciale. Il fatto che il nazismo si sia manifestato in Germania, non vuol dire che nei tedeschi ci fosse qualcosa di particolare del quale dovrebbero tenere memoria. Tanto più che tutte le idee di cui si è nutrito Hitler sono circolate in tutto l’Occidente. E mi pare, ascoltando i discorsi delle persone, che quest’idea che il nazismo sia un fatto tedesco ricorra proprio nei luoghi comuni più rozzi fra italiani, tedeschi e popoli vari. Inoltre nella continua auto-difesa stile “ma noi non abbiamo fatto cose gravi come i nazisti-tedeschi”, c’è appunto l’idea di una matrice particolare. Alla quale non credo sia utile rispondere “guardiamo anche alle atrocità di casa nostra”. Io non mi sento in dovere di conoscere meglio certi orrori perché più vicini a me. Mussolini non mi riguarda più di Hitler o di Stalin, e il fatto che li metto in fila non ha a che vedere con Nolte, HiIlgruber e Habermas. Nolte sbaglia a definire la prassi asiatica, ma ugualmente sbaglia Levi a rispondere “prassi europea, tedesca, nazista”. Sbaglia Nolte a dire “noi tedeschi”, sbaglia Levi a richiamare a un presunto posto che spetterebbe alla Germania di oggi. Questo comunque lo dico perché non mi sento affatto di star banalizzando e ridimensionando nulla.

              • @jackie.brown
                guarda, mi sono registrato (tentazione giá vinta un paio di volte) solo per risponderti…
                Sto a Berlino da 4-5 anni.
                Non si puó sentire *Il fatto che il nazismo si sia manifestato in Germania, non vuol dire che nei tedeschi ci fosse qualcosa di particolare del quale dovrebbero tenere memoria*.
                Se posso presumere, non credo tu abbia alcuna esperienza di germania o di austria.
                e, presumendo ulteriormente, che tu non abbia alcuna esperienza di vita all’estero.
                Mussolini se lo sarebbero ciucciato solo gli italiani! o perlomeno, non certo i tedeschi, i russi, gli americani etc etc.
                Hitler e il nazismo sono parte dell’essere tedeschi.
                Se avessi vissuto in germania, probabilmente capiresti perché i tedeschi giocano quel calcio; perchè ballano e vivono molte parti della loro vita sociale e privata come robot; perché i criminali nazisti dissero che eseguivano solo ordini.
                La radice di quel male é dentro ogni tedesco, come dentro di noi c’é la radice del nostro male.
                Capirlo, ricordarlo, puó far magari addirittura girare queste specificitá a proprio favore – non economico beninteso, ma etico-morale.
                Perlomeno può far riconoscersi quando ci si guarda allo specchio, in giornate o in vite in cui ci si chiede chi siamo.

            • Per JB.
              Sei gentile. Fai bene a scrivere quello che pensi, ma non sono d’accordo. Hanno già scritto Tuco e WM1. Provo ad aggiungere qualcosa e a porre la questione su un piano che forse puoi condividere.
              La persecuzione razzista non può essere messa sullo stesso piano di una persecuzione politica, anche se forse muovono da un simile “stato moderno” o “totalitario” (che è giusto combattere). La repressione del dissenso politico colpisce chi fa una scelta politica-ideologica (chi ha detto e/o ha fatto qualcosa). E’ possibile il silenzio e il conformismo (che questo sia un male è un’altra faccenda).
              Nel regime nazista i Testimoni di Geova avevano qualche possibilità di sottrarsi alla persecuzione (l’apostasia, per esempio), gli ebrei no (come sai, i figli di ebrei, anche se battezzati, erano considerati ebrei).
              Credo che, in sintesi, si possa dire che il nazismo discenda dall’imperialismo europeo, dall’antisemitismo europeo (evoluzione positivista/spiritualista dell’antigiudaismo cattolico), dal razzismo europeo, dal nazionalismo tedesco. E’ l’espressione di una razionalità moderna, (temporaneamente) occidentale (stato, dominio della tecnica, capitalismo…) che riusa elementi della tradizione culturale e della storia europea (anche italiana!) e tedesca. Il nazismo deve molto al fascismo italiano, che lo precede ecc.
              Dunque, Mussolini Hitler Stalin, come il colonialismo europeo, che tu giustamente ricordi, ci riguardano eccome (forse i tedeschi, come raccomandava Levi, malgrado Nolte, hanno fatto i conti col loro passato più e meglio degli italiani).
              Ci riguardano, dicevo: sono parte di una storia di cui dobbiamo sentirci responsabili. Dobbiamo risponderne, ogni giorno, con le parole e con gli atti: dobbiamo ricordare il futuro.
              L.

              • Parto dalla fine, premettendo che condivido la linea generale del tuo commento e del pezzo, ma d’altronde mi sono inserito in un punto specifico. Capisco poi che i miei discorsi possano sembrare simili a quelli più o meno in voga, però a parte il fatto che non sono partito da questi, sono tranquillo su cosa si può o non si può inferire dalle mie parole. Comunque dopo aver letto le parole di Levi sono ancora più convinto di ciò che sto dicendo.

                Quando ho parlato di Mussolini, Hitler e Stalin l’ho fatto per dire che se mi riguardano, mi riguardano allo stesso modo. Non penso che Mussolini mi riguardi di più perché sono italiano. Cerco di conoscere il passato e punto. Esco da un discorso collettivo in parte perché non sono in grado di dire come lavorare pubblicamente con la “memoria” ( immagino che in Germania abbiano lavorato meglio nel cercare di conoscere e capire ), e in parte perché l’idea che una persona debba conoscere il fascismo per riconoscere un pensiero o una azione che abbia caratteri fascisti mi pare limitante e difettosa. Ma questi sono fatti miei.

                Concordo sui pregressi storici del nazismo, meno su quelli che parlano di modernità. Dominio della tecnica, diversificazione dei compiti deresponsabilizzante e capitalismo sono le forme che assunse e che usò, ma non fanno la differenza per ciò che mi riguarda. Sarebbe come spiegare il genocidio in Ruanda con le radio e i machete a basso costo d’importazione cinese. E ugualmente conoscere i pregressi storici del colonialismo belga spiega le cause prossime, non quelle lontane. Nella Russia sovietica ciò che è successo si lega a ciò che è successo in passato e in futuro perché si sono mossi gli stessi meccanismi di base dell’umanità. Non si è trattato di repressione del dissenso. Il dissidente diventò indegno di vivere. Posso sbagliare da un punto di vista dei fatti, ma se parliamo di principio etico, non è possibile considerare lo stalinismo un massacro tra eguali ( e comunque non si capisce perché un massacro tra eguali sia più giustificabile di uno tra diseguali ) o un sottoprodotto razionale. Stalin si è posto degli obiettivi e per raggiungerli ha disumanizzato gli altri con cognizione di causa. A me interessa sapere se e quando ciò è successo in tutte le epoche. Non è affatto un modo per non discernere o per buttarla in caciara ( rossi e neri tutti uguali ). Non sto equiparando totalitarismi e dittature. Quel meccanismo di cui parlo si è manifestato anche in paesi democratici. È chiaro che nel nazismo si è manifestato in maniera strutturale, ma non è un meccanismo nazista.

                @ Emiliano Rossi

                Faccio pure aumentare i giapster. Nessuna esperienza, all’estero solo vacanze e non da quelle parti. Che le varie forme culturali spiegano molti dei comportamenti e dei processi storici lo capisco. Società che esaltano di più l’individuo e altre il collettivo, i rapporti con l’autorità, l’adesione a certi valori. Ma se mi parli di radici del male non sono d’accordo. Le radici del male sono biologiche, e fino a prova contraria vale la teoria di Darwin. Che poi ogni società possa riflettere sulla propria condizione e sul proprio passato per capirsi meglio va bene. Capire meglio perché si concentrarono tutti i fattori di cui stiamo parlando eccetera. I criminali nazisti penso che risposero così perché era più conveniente.

              • Secondo me, Jackie Brown, ti sfugge un dato essenziale: la memoria non è una cosa astratta: è qualcosa che si trasmette molto materialmente attraverso il racconto, spesso orale, che una generazione fa di se’ alla successiva; attraverso la scuola; attraverso la letteratura, il cinema, eccetera; attraverso il modo in cui le strutture dello stato si rapportano ai cittadini; e infine attraverso il discorso politico dominante. Quindi sì, se esiste una comunità (immaginata, alla Anderson, ma fatta di individui in carne e ossa) che si identifica in senso nazionale come tedesca, questa comunità deve fare i conti col nazismo, che è un suo parto storicamente determinato. Lo stesso vale per gli italiani e il fascismo. Eccetera. Per quanto riguarda lo stalinismo, i conti con lo stalinismo, oltre alla comunità che si identifica in senso nazionale come russa, li deve fare un tipo diverso di comunità, quella che nelle sue mille ramificazioni si riconosce in uno specifico phylum rivoluzionario di classe nato dalla rivoluzione francese. Qua su Giap, se permetti, i conti con la rivoluzione, col terrore, con lo stalinismo, eccetera, sono pane quotidiano.

                @emiliano rossi Mah, io in Germania ci ho vissuto due anni, tra l’altro in una zona calda (Rostock). Nemmeno “i tedeschi che ballano e giocano a calcio come robot” si può leggere, eh.

              • @tuco
                si ma, perchè mettere le virgolette per poi metterci dentro altro? :)
                non ho scritto “i tedeschi che ballano e giocano a calcio come robot” ma “capiresti perché i tedeschi giocano quel calcio; perchè ballano e vivono molte parti della loro vita sociale e privata come robot”.
                dopodichè, il mio insegnante di tango a Bologna era tedesco, ció non toglie che i tedeschi (maschi soprattutto) hanno un rapporto col corpo e le passioni che è parecchio ma parecchio freddo.
                il calcio..se tu riesci ad immaginarti un Maradona o anche un nostro Bruni Conti tedesco, beh, complimenti per la fantasia!
                Guarda, in Italia gli ing. sono noti perché culturalmente si sforzano di comprendere la materia di lavoro in profondità, consapevoli delle interconnessioni con altri campi etc etc.; ora una delle frasi standard cui mi sono abituato nello studio di ingegneria in cui lavoro è: non fa parte del mio compito interessarmi a questa cosa. Frase detta addirittura piuttosto dai “migliori” che dagli ultimi. Incredibile!
                E poi scusa, ma a che robot sei rimasto?
                Rutger Hauer si incavolerebbe una cifra leggendoti.
                Comunque il senso che mi premeva è che oltre ai fatti, è la cultura degli assassini e assassinati a far dire che i morti non son tutti uguali.
                Per me più delle ragioni,che spesso sono inventate (ora od allora).
                Fuori OT direi..

                • State inesorabilmente andando OT. Del “Bruno Conti” tedesco si può parlare altrove, grazie.

              • A JB.
                Il passato dell’umanità ci riguarda tutti/e, ma è in Italia che si rimuove, più che in ogni altro luogo del mondo, il passato fascista e il passato coloniale dell’Italia. Il film Il Leone del deserto fu censurato in Italia, non negli Usa. E’ in Italia che si fatica a usare fascista per indicare fascista/nazista.
                Aggiungo due parole sui gulag.
                Levi dice altrove che alcuni nemici dei nazisti “ariani” potevano essere redenti, i prigionieri ebrei no. Dai gulag sovietici alcuni prigionieri escono vivi. Dai lager nazisti non deve uscir vivo nessun ebreo. A questo allude, credo, quell'”uguali” che usa Levi. Spero di non essere stato troppo sintetico.
                Ciao.

              • @ Tuco

                Credo ci sia una ovvia difficoltà di fondo nello spiegarsi su certe cose, anche perché non ci conosciamo, e un commento è uno commento. Io con le storie Wu Ming ci sono cresciuto, penso di aver letto almeno il 90% dei post e dei commenti di Giap, ho setacciato il sito in lungo e in largo, nidificazioni comprese. Ho letto un libro di Claudia Cernigoi scoprendolo da queste pagine. Quindi so bene che qua si fanno i conti con tutto ( e ne sono felice ), per quanto non capisco quali altri conti andrebbero fatti con lo stalinismo e perché mai una comunità di sinistra dovrebbe farli. Può essere che appaia allucinante ciò che dico, però mi fa piacere “ascoltare”. C’è un punto che non mi torna nel tuo ultimo commento. Il nazismo è stato un parto della comunità tedesca di allora, ma oggi? La maggior parte dei tedeschi cosa ha a che fare con il nazismo? Come fai a dire che il nazismo è un parto storicamente determinato della comunità tedesca odierna? Posso capire un discorso che rifletta su quali elementi possano essere rintracciati oggi che siano riconducibili al nazismo, ma a parte uno che creda nel nazismo oggi chi altro dovrebbe riflettere sul nazismo in maniera particolare? Se spostiamo il discorso in Italia, è chiaro che se qualcuno, che sia un intellettuale, un artista o un politico o un nostro conoscente facesse propaganda fascista sarebbe opportuno contestarlo, ma questo vale per qualsiasi idea che vada contro alcuni principi sui quali grossomodo concordiamo, compresa certa esaltazione patriottica, nazionalista. Se poi la propaganda viene mascherata in maniera subdola stessa cosa. Ma il fascismo a me personalmente in quanto italiano (con tutto che non ha alcun senso razionale per me parlare di identità nazionale) non mi riguarda se non come insieme di idee nefaste da respingere. E come persona di sinistra vale lo stesso per lo stalinismo. Credo anch’io nell’importanza di una certa trasmissione di valori, di conoscenza storica e politica, di principi eccetera; ma non mi sento per niente responsabile per il periodo fascista e coloniale dell’Italia. E non credo che questo mi limiti nell’essere critico nei confronti di qualsiasi tema politico.

              • @jackie.brown
                Si nasce respirando l’aria del nostro paese e si pensa che sia la stessa area che tutti respirano.
                Poi si respira l’aria di un altro paese e ci si rende conto che è diversa. Puzze e profumi diversi.
                Poi si ritorna e la “vecchia” aria sembra nuova, si identificano le puzze e i profumi che la compongono, per la prima volta.
                Che siamo intrisi di cattolicesimo, per il solo fatto di aver respirato l’aria italiana, è una certezza che diventa tale solo dopo aver respirato arie che sanno di buddismo, o di protestante, o di musulmano.
                L’italia è fascista, nella sua organizzazione sociale, nella sua tv, nel suo centro-dx e centro-sn.
                Il mio paesello ferrarese negli anni ’70, nel pieno del potere della sinistra (o sinistra di potere)
                era governato da un dirigente del pci che amministrava il paese come un gerarca (senza squadracce per fortuna).
                Il poliziotto tedesco che una volta mi son sorbito per varie ore d’aereo parlava come un nazista.
                La mia compagnia est-berlinese mi dice che molti, ma molti, lo sono.
                A Berlino molti meno, ma il marito della sindachessa di un paese vicino mi dicono abbia i baffetti molto simili a Hitler.
                Ho provato di far capire come l’essere tedesco coincida con l’eseguire ordini, ma è difficile farlo capire da lontano.
                Ma ripeto:è questione di aria che si respira, che cambierà forse quando si apriranno veramente le porte delle nazioni, assieme a quelle delle nostre menti.
                ps. secondo me non sono andato OT.

        • Un figlio di ebrei o romanì di tre anni dai nazi veniva mandato nelle camere a gas. Nei lager nazi non c’erano prigionieri politici di sei o dieci anni…
          Gli Jugoslavi non hanno sterminato bambini italiani. E io da bambino vedevo e ascoltavo, in italiano, tv Capo d’Istria.
          Mi fermo qui. Immagino che si rischi di andare fuori tema. Non ho potuto resistere. Buona serata, JB.

      • Il concetto di totalitarismo per come è stato costruito nella scienza politica non riguarda nè l’oppressione politica in sè – tipica anche di regimi assolutisti o autoritari ma non totalitari – nè il razzismo in sè che è anch’esso – in forme diverse – precedente al totalitarismo nazista.
        Il totalitarismo è un salto di qualità sia dell’oppressione politica – dalla persecuzione dei nemici politici all’ oppressione totale della società mobilitata in un consenso attivo obbligato al regime attraverso il terrore totale – sia del razzismo dalla persecuzione al tentativo dello sterminio totale.
        Il discorso non investe l’unicità della shoah, della quale l’ebrea Annah Arendt – che introdusse il concetto di totalitarismo nel secondo dopoguerra – era ben conscia, ma i meccanismi di potere comuni di terrore totale e mobilitazione totale che intravide analizzando nazismo e stalinismo. Infatti lo stalinismo deportò interi popoli – per esempio i Tatari o Tartari dalla Crimea, per citare un caso oggi di attualità – provocando milioni di morti non solo con i gulag.
        Successivamente il concetto di totalitarismo fu esteso da altri anche a casi ritenuti meno estremi, come il fascismo e il socialismo reale pre e post-staliniano, dove la totalità politica della società viene perseguita con il controllo totale, limitando l’uso del terrore ai nemici politici.
        Purini parla di totalitarismo in relazione alla società capitalista attuale e questo è un concetto introdotto da Marcuse negli anni sessanta, ma, come spiega lo stesso Marcuse ne “L’Uomo a una dimensione”, non è un concetto politico, ma sociale, in quanto una società totalitaria capitalista, nel senso dei meccanismi di creazione del consenso attraverso la pubblicità e i media con la mobilitazione totale consumista della società, può benissimo coincidere con il pluralismo e la democrazia politica che invece sono negati dal totalitarismo come concetto politico. Le due cose sono su due piani diversi e non vanno confuse anche se possono presentarsi contemporaneamente, come avviene attualmente in Cina con un turbocapitalismo totalizzante diretto da un partito unico che ha un controllo politico totale della società.
        Che la Jugoslavia di Tito sia stata un totalitarismo politico mi sembra non ci siano dubbi, anche se certamente si può discutere su che tipo di totalitarismo è stato.

      • Qualche rapido tratto, davvero come se fossimo al bar.

        1. La Jugoslavia non è uno Stato di polizia esasperato. È uno Stato di polizia e basta. Sull’Ozna e l’Udba si è scritto un po’. Nessuna rivoluzione degenerata. Anzi, se vogliamo, il regime di Tito è migliorato aprendosi nel tempo.
        2. Fare la distinzione morale fra violenza politica e violenza nazionale mi pare un’aberrazione e siamo d’accordo. Se poi vogliamo occuparci del fenomeno storico, ricordiamoci che nelle aree plurinazionali ci sono spesso forti commistioni fra lotta politica, nazionale, religiosa e sociale. Prendere il bandolo della matassa non è sempre così facile come sembra.
        3. Il Giorno del ricordo ha avuto un forte carico negli anni in cui è stato istituito, quando il nodo del confine orientale è andato repentinamente alla ribalta e ci è rimasto per un po’. Da addetto ai lavori, direi che questa attenzione sta molto scemando sul piano generale. Poi certo ci sono le minoranze agitate e i monomaniaci, ma sono pochetti sul computo dell’opinione pubblica nostrana.
        4. Sul senso di istituire giornate-anniversario (non solo quella del Ricordo), potremmo parlare per ore. Qui sarebbe davvero off topic. Sul negazionismo: tutte le società degli storici si sono fortemente opposte ad ogni ipotesi di disegno di legge. Una follia. Ma anche qui: il mio cinismo mi porta a pensare che siano più iniziative legate a lanciare discussioni per ottenere visibilità politica che oscuri disegni di attentato alla memoria. Ciò detto, è molto giusto vigilare.
        5. Attenzione. C’è una bella differenza fra minimizzare il discorso sulle foibe e sostenere che non fu una pulizia etnica. La seconda via è percorribile senza per questo ritenere che si trattò di una pagina meno tragica di quella che fu effettivamente, per quanto comprensibile alla luce dell’eredità fascista bla bla bla.
        6. Se c’è un disegno pedagogico in atto, lo si combatte solo con la corretta informazione, che è l’aspetto prioritario per una battaglia di tipo culturale. La corretta informazione non è porsi sulla posizione uguale e contraria. Ma valutare i fenomeni nella loro complessità e correlazione.
        7. Riconosco che c’è un problema a orientare il dibattito pubblico secondo assi di “verità” storica. La mia categoria è subalterna e non conta niente. Il dibattito pubblico massificato si fa altrove. Ma qui il discorso si allarga di molto. Se gli storici non contano più, se i giornali non si leggono più, se sui forum ci stanno minoranze illuminate, come si fa a combattere una vulgata che spesso è somministrata ad arte con operazioni squallide come la fiction Il cuore nel pozzo?

    • «Possibile che [#Magazzino18] non spinga a qualche breve riflessione sul resto?»

      I motivi per cui non può farlo, secondo me, li hanno spiegati benissimo qui sopra Beppe Vergara, Furoredidio e Zora, non a caso persone che fanno o si intendono di teatro, drammaturgia, messa in scena. Così come è scritto non può fare riflettere: è esclusivamente assertivo, ed è unidirezionale. Tutte le licenze “poetico-storiche” pettinano la storia senza mai un contropelo, la rendono liscia liscia e poi la ungono in modo che ti scivoli bene giù in gola, senza farti rimettere, e ti raggiunga rapidamente le viscere, che poi sono la vera parte del corpo a cui la drammatizzazione si rivolge.
      Furoredidio ha citato e linkato la mia vecchia “Lezione su 300”. Mi fa molto piacere, anch’io – immodestamente – credo possa essere utile in questi giorni.
      A proposito: lo sai che anche noi WM ci occupiamo di storia e storie, e da circa una ventina d’anni ragioniamo ogni giorno che l’Ente Supremo manda in terra su questi temi, e ci troviamo a risolvere problemi del rapporto storia/narrazione che Cristicchi si è guardato bene dal porsi, e che – a questo punto possiamo supporlo – forse non si porrà mai? :-)

  14. Leggendo i commenti di D’Amelio c’è una cosa che da slovena mi è saltata subito agli occhi e che riguarda il linguaggio. Uno storico che si occupa di confine orientale e conosce da vicino queste zone, dovrebbe sapere molto bene che l’uso generalizzato del termine »slavo« al posto di sloveno o croato o jugoslavo rischia di urtare la sensibilità di non pochi lettori non italofoni, perché ritenuto spia di un atteggiamento mentale di sufficienza nei confronti di sloveni e croati. Non credo sia il caso di D’Amelio, ma lo inviterei comunque a riflettere sulle origini di questo tic e sull’opportunità di adottare un linguaggio diverso in futuro.

    • Chiedo scusa. Non era certo mia intenzione, credimi, Zora. Semplice pigrizia nello scrivere sul web. Sloveno e croato è giustissimo e sono le formule che adotto di consueto, anche se ammetto di non aver mai compreso la valenza dispregiativa di “slavo”, che io uso a volte per abbreviare popoli slavi o popolazione di lingua slava. Tutto qui. Spero che basti questo per esserci chiariti a proposito. Nessuna sufficienza da parte mia. Nessuno “slavo-comunismo” che entra di soppiatto. Davvero.

      • Scusa se insisto, ma la pigrizia (mentale) non è mai semplice, perché da qualche parte arriva, ed è un lusso che uno studioso non dovrebbe permettersi, specie quando scrive su un blog letto da migliaia di persone in tutta Italia e non rinchiuso in uno stanzino per produrre un saggio che leggerà solo una cerchia ristretta di addetti ai lavori. Come ha detto più sopra wu ming 1, in Italia un pregiudizio antislavo esiste ed è anche ben radicato, pertanto rinnovo il mio invito alla cautela quando si scrive pubblicamente. Lasciamo le »popolazioni di lingua slava« ai linguisti e cerchiamo di adottare un linguaggio più specifico e meno banalizzante, grazie.
        (Questo è solo un consiglio che mi sento di darti. Cerca di prenderlo come una critica costruttiva e non come il tentativo di imbastire una polemica.)

        • Davvero senza polemica, mi limito a far notare che espressioni come “slavi del Sud”, “popolazioni slave” ecc. sono di uso corrente e per nulla denigratorio anche nella pubblicistica di argomento storico. “Popolazioni di lingua slava” non è espressione da linguisti: è anzi un tentativo di uscire dalla rigidità delle “etnie” e far passare il messaggio che nelle terre mistilingue la scelta identitaria/nazionale è culturale. Nessun intento discriminatorio da parte mia, che ho un rapporto di grande vicinanza con sloveni e croati, credimi.

          • Con una battuta a Trieste si usa dire che gli slavi partono da Barcola e arrivano fino a Vladivostok. Però qua non si stava parlando di russi o ucraini, ma di Trieste e di Istria, dove le uniche popolazioni slave autoctone sono quella slovena e quella croata. Quando si discute di queste zone mistilingue si parla giustamente di italiani, friulani, istroveneti e istrorumeni e non si usano espressioni vaghe del tipo »popolazioni di lingua romanza«, perché a rigore potrebbero includere anche portoghesi, spagnoli e francesi.
            Non sto cercando di attribuirti intenti denigratori, credimi, ma ti faccio notare che in questa discussione hai usato il termine generico slavo anche quando non era dettato da ragioni di economia (linguistica). Così, per esempio, hai fatto quando hai parlato di »scuole slave« a Trieste, quando le uniche scuole slave qui sono quelle slovene, proprio come in Istria non ci sono scuole neolatine, ma italiane.

            Da storico dovresti sapere molto bene quanto gli sloveni del FVG si sono battuti per conquistarsi il diritto ad autodefinirsi come tali e da triestino dovresti sapere che l’espressione slavo alle nostre orecchie spesso suona solo come una versione edulcorata di s’ciavo, perché in questo senso è stata e continua a essere usata da queste parti: per toglierci e negarci la dignità di popolo con una propria storia e una propria cultura.
            Quindi, se quel che stiamo cercando di fare è »far passare il messaggio che nelle terre mistilingue la scelta identitaria/nazionale è culturale«, cerchiamo di far passare pure il messaggio che il mondo slavo non è una »vagina gentium che partorisce gente indesiderabile«, anche a partire dalle scelte linguistiche che facciamo.

          • Scusa Diego, ma non sono d’accordo quando dici ““Popolazioni di lingua slava” non è espressione da linguisti: è anzi un tentativo di uscire dalla rigidità delle “etnie” e far passare il messaggio che nelle terre mistilingue la scelta identitaria/nazionale è culturale.”

            A casa ho una guida del C.A.I. degli anni trenta in cui viene usata sempre l’espressione “parlate slave del contado”. Più che un tentativo di uscire dalla rigidità delle etnie, mi sembra un’ inconsapevole incrostazione linguistica che ha delle radici politiche e culturali ben precise.

            Come dice Zora, nessuno parla di “popolazioni neolatine della Venezia Giulia”. Aggiungo che anche al netto della risonanza del termine “slavo” con “s’ciavo” – che fuori da Trieste non coglie nessuno – parlare genericamente di “slavi” significa rappresentare *dall’esterno* in modo liquido, indifferenziato, una serie di lingue, culture, identità nazionali, storie, memorie eccetera molto diverse tra loro, che vanno appunto da Barcola a Vladivostok.

  15. No dai, D’Amelio, non puoi scrivere:

    “E questo valga a commento delle dichiarazioni di Ciampi, Napolitano e Grasso, che hanno fatto nel tempo valutazioni francamente grossolane e in parte errate, evidentemente consigliati da cattivi ghostwriter.”

    “Non rimuovo davvero gli strafalcioni delle istituzioni e del mondo della cultura: faccio espliciti riferimenti a presidenti di Repubblica e Senato, mi sembra. Non so peraltro se sia vero che le istituzioni repubblicane – non Berlusconi o il Veneziani di turno che invece lo fanno – stiano promuovendo una rimozione delle responsabilità del fascismo: quale interesse avrebbero?”

    Napolitano e Ciampi non sono due ignoranti. Le cose le sanno. Avranno anche ghostwriters di merda, ma un’occhiata ai discorsi l’avranno pur data prima di leggerli, no?

    • “Io non mi sono ancora fatto un’idea sulla portata del progetto pedagogico che c’è sotto lo spettacolo di Cristicchi. Ma concordo che le strumentalizzazioni che si fanno del testo vadano nella direzione di un disegno che alcuni chiamerebbero neoirredentista (termine antipaticamente vago): sono meno sicuro che esso abbia però una portata “egemonica”.”

      Non c’è nessun disegno neoirredentista, D’Amelio, e del resto non ci sono nemmeno “strumentalizzazioni” dello spettacolo di Cristicchi.

      Lo spettacolo di Cristicchi nasce già strumentale. Signore e signori, membri del club “Ognuno Stia Al Suo Posto”, sono lieto di presentarvi il nostro ospite, ecco a voi:

      “LA MEMORIA CODIVISA”

      La Memoria Condivisa è molto utile, grazie alla Memoria Condivisa i Ragazzi di Salò sono diventati simpa come i Ragazzi del Muretto, Almirante è diventato un padre della patria, Fini è quasi diventato uno statista, e Cecile Kyenge è stata espulsa dal Corpo Sano della Nazione. E non è finita! Molti altri prodigi si stanno verificando grazie alla Memoria Condivisa! Pescatori indiani che si trasformano in pericolosi pirati, wannabe Rambo che da omicidi di pescatori indiani si trasformano in Eroi, leccatrici di caschi che si trasformano prima in stupratrici di poliziotti e poi in pericolose terroriste…

    • Temo di doverti deludere in merito alla difficoltà effettive della classe politica ad approcciarsi a queste faccende con un lessico adeguato. A comprendere la complessità delle terre mistinlingui. Vale anche per l’Alto Adige: non è un problema di comunismo/anticomunismo. Il linguaggio politico è semplificante. E le cose si complicano ulteriormente: a causa di un lungo processo di rimozione che sul nodo delle foibe (formula che uso per brevità) ha contraddistinto la sinistra comunista, a causa della canea che su questi temi hanno sollevato per decenni i nazionalisti. E quindi, sì, quello che ho detto lo ribadisco.

      • Ma stiamo parlando di discorsi del 2004, 2007, 2014… Il dibattito sul confine orientale aveva valicato l’Isonzo già da un bel po’ di tempo. E poi Ciampi e Napolitano sono due intellettuali, non sono due analfabeti entrati in parlamento grazie al “porcellum”.

  16. Rileggendo qua e là i commenti di Diego D’Amelio mi sono venute in mente alcune riflessioni. Sia chiaro che non c’è da parte mia un intento provocatorio o recriminatorio: voglio solo dare una risposta a una domanda di Diego e chiedergli un paio di cose.

    1 Scrivi:”Chi ha mai chiesto a Purini di adeguarsi all’ideologia dominante, che peraltro non so bene quale sia…?” Risposta: Ti sei mai chiesto perchè ho dovuto andare a Klagenfurt a fare il dottorato e non in Italia, tantomeno a Trieste?

    2 Scrivi: “È di storia che voglio parlare allora, avendo la pretesa che l’approccio alla disciplina possa almeno tentare di essere “scientifico” o, quantomeno, spoglio di alcuni chilogrammi di pregiudizi ideologici.” Più che volentieri, facciamolo. Ma non in un blog o tanto meno al nostro bar preferito davanti a un Santa Teresa. Facciamolo in una sede storica istituzionale, come l’Istituto per la Storia del Movimento di Liberazione di Trieste, di cui credo tu possa disporre senza grandi problemi. Apriamo un dibattito su Qualestoria, di cui tu sei il direttore responsabile.

    3 (Questa è una mia curiosità personale). Scrivi: “Del tuo libro, che conosco, non condivido comunque la tesi di fondo.” Scusa: quale sarebbe questa tesi di fondo? E’ un libro che abbraccia un periodo di 71 anni. Di pensieri e riflessioni ce ne sono parecchi, ma non vedo quale sia quest’unica tesi che secondo te sottende tutto il libro.

    • Organizzare un confronto Purini – D’Amelio all’IRSML? Mi sembra un’ottima proposta. E se intorno a quel confronto si organizza una giornata a più voci, mi dichiaro disponibile a prendervi parte. Non sono tout court uno storico, ma sono uno scrittore laureato in storia che da vent’anni lavora con la storia e ogni giorno si pone e affronta dubbi, dilemmi e problemi (narrativi, metodologici, etici) su come narrare la storia. Oltre a questo, frequento Trieste con intensità e, si parva licet (mettere un cantastorie tra i ricercatori “seri”!), pure io ho raccontato pezzetti di storia di quel territorio.

    • Piero (posso?), non conosco il tuo percorso di studi e non metto minimamente in dubbio quanto dici. Il messaggio che passa però è: “la storiografia triestina aderisce convintamente e compattamente a una vulgata e respinge le scuole su posizioni diverse”. Se è così non lo so, ma io non ho mai respirato una cappa culturale così omologante, anche perché per fortuna Trieste non è il solo argomento che passa dalle parti dell’accademia e delle istituzioni culturali.

      Il mio ruolo all’Irsml lasciamolo da parte, per favore. L’Istituto per sua tradizione raccoglie sensibilità storiografiche, culturali e politiche molto diverse, che non mi arrogo certo il diritto a rappresentare in questa e altre sedi. Non dispongo insomma di un bel nulla e sono intervenuto a titolo sempre ed esclusivamente personale. Non so peraltro che senso avrebbe aprire l’ennesimo dibattito su questioni che – lo sai meglio di me – dalle nostre parti sono davvero trite e ritrite. I tanti aspetti che compongono la questione giuliana sono stati ampiamente sviscerati dalla storiografia e, salvo clamorosi documenti inediti, credo davvero che quelle vicende siano state ricostruite con grande dovizia di particolari e di profondità analitica. C’è moltissimo da leggere e ancora di più è stato detto: poi la gente si fa la sua opinione. Non c’è triestino che non abbia un’opinione in merito a queste cose. : ) Non vedo insomma quali novità potremmo apportare con una giornata di studi o qualcosa di simile, visto che di convegni sul tema ne sono stati fatti anche di recente fra Trieste e Koper, nello sforzo ultra positivo di mettere a confronto storiografia italiana e slovena. E ci sono i risultati del progetto Interreg di pochissimi anni fa. A Trieste, per esempio, l’Istituto della resistenza ha partecipato come ogni anno alle iniziative del Giorno del ricordo: nello sforzo di superare la soglia del 1954, a Trieste abbiamo proposto (suscitando qualche borbottio) un’analisi sul trattato di Osimo (1975), ovvero sul processo di distensione fra Italia e Jugoslavia (e fra italiani e sloveni di Trieste) sviluppatosi dopo il lungo dopoguerra. Su Giap sono intervenuto – da passante – solo perché ho sentito il bisogno di qualche postilla, dal momento che la maggioranza di lettori non abita dalle nostre parti. Volevo solo dire: “sommessamente faccio notare che – al di là dei ragionamenti sull’uso pubblico della storia, la questione a me pare più complessa sul piano della ricostruzione storica”. Punto.

      Sul tuo libro, ricco di lavoro e scavo documentario. Sono stato sciatto nell’esprimermi, scusa. Mi riferivo alla taglio prevalente della tua interpretazione dei meccanismi di esodo dall’Istria, anche sulla base di un tuo intervento che ho ascoltato all’università di Capodistria. Riconosco assolutamente l’importanza dell’indagine sulle dinamiche sociali (tanto più davanti ad un processo rivoluzionario in atto), ma penso anche che tu non dia sufficiente rilievo all’aspetto nazionale. Tutto qui. Cosa che invece fai – e giustamente – quando racconti delle posizioni della minoranza slovena nel tuo libro sul dopo 1954 a Trieste.

      • Peccato, perchè un confronto IRSML-storici “area KappaVu” (per intendersi), da privato cittadino l’avrei trovato molto interessante e non inutile. Hai ragione quando dici che esistono un sacco di cose da leggere, i documenti sono stati tutti sviscerati etc. ma quello che cambia continuamente (e che bisogna sempre far progredire) è l’interpretazione di quei documenti, no? Un dibattito all’insegna dell’impostazione politica della ricerca lo troverei molto utile in questi luoghi, è vero che lo storico (e le scienze sociali in genere) deve far di tutto per mantenere un rigore scientifico ma, come insegnava Gunnar Myrdal, penso che un’impostazione politica (o riconducibile a un sistema di valori comunque inevitabilmente politico) ci sia sempre, anche quando viene completamente repressa e buttata fuori dalla porta della razionalità ritorna comunque dalla finestra dell’inconscio. Tanto vale a quel punto palesarla subito.

  17. Stavo riflettendo sull’espressione usata da D’Amelio per commentare le mie note sull’utilità politica della narrazione «Italiani brava gente»:

    «Sono teorie politiche suggestive […]»

    C’è qualcosa, in quest’espressione, che mi suona male. In sé, non ha nulla che non vada. Eppure mi sembra di intravedere una connotazione nascosta, che parafraserei così: «Sì, interessante, ma sono cose che dici tu, non ancora corroborate dai risultati di serie ricerche storiche. Quelle che, ad esempio, voglio fare io.»

    D’Amelio mi dirà se sbaglio. Se sbaglio, quanto segue non andrà considerato una risposta a lui, ma una precisazione a uso di chi ci legge.

    In realtà, le cose che ho scritto sul rapporto tra rimozione del passato e politiche del presente, e sul permanere della narrazione «Italiani brava gente» in molti aspetti della nostra vita associata, non sono farina del mio sacco, né del sacco del collettivo Wu Ming. Noi possiamo aver aggiunto qualche spunto ulteriore, e tratto una sintesi più o meno icastica e accattivante, ma quelle cose sono già da tempo materia di riflessione e studio da parte di molti storici del nostro colonialismo e della condizione postcoloniale.

    Nella sua introduzione al libro collettaneo Colonia e postcolonia come spazi diasporici. Attraversamenti di memorie, identità e confini nel Corno d’Africa (Carocci, Roma 2011), Alessandro Triulzi scrive:

    «La storia coloniale dell’Italia nel Corno d’Africa, e la complessità di rapporti, ferite o eredità che la presenza italiana ha volutamente o involontariamente innescato nella società locale, vanno analizzate oggi pertanto per la loro nuova rilevanza per il presente in quanto la situazione postcoloniale italiana richiama con forza strutture
    cognitive e comportamentali del passato che vanno indagate non solo a livello teorico ma con analisi storiche concrete e indagini condotte sul terreno che cominciano ad affiorare grazie agli sforzi congiunti di studiosi italiani e stranieri.»

    Nell’editoriale che apriva il numero della rivista storica Zapruder dedicato alle dinamiche coloniali e postcoloniali (n. 08, settembre-dicembre 2005), Cristiana Pipitone e Giulietta Stefani scrivevano:

    «”Scoperchiare la pentola” del colonialismo in una stagione di guerre “preventive” e “umanitarie” volte a esportare la democrazia, se non la civiltà, è evidentemente un’operazione fastidiosa. Tracce di colonia ed echi di discorsi coloniali sono presenti nelle retoriche e nelle pratiche delle cosiddette missioni di pace […]»

    Dirò di più: a me sembra che questa consapevolezza della rilevanza del rimosso sulle politiche del presente fosse già alla base dell’enorme ricostruzione storica di Angelo Del Boca sugli “Italiani in Libia” e gli “Italiani in Africa Orientale”. Mi sembra che nei suoi libri (ancor più in quelli “divulgativi”, come Italiani brava gente?) Del Boca le abbia sempre presenti, e ciclicamente le faccia presenti al lettore.

    Le fa presenti in modo ancor più esplicito nelle sue numerose prese di posizione sul presente, che siano affidate ad articoli o a interviste.
    Sul «manifesto» del 19/03/2011 Del Boca stabiliva un nesso molto preciso tra la rimozione dei nostri crimini in Libia e l’imminente partecipazione dell’Italia ai bombardamenti NATO su Tripoli:

    «[…] il dannunziano ministro della difesa Ignazio La Russa rivendica anche ai jet italiani il “diritto” di bombardare. Mi chiedo se l’Italia sul piano storico si sente di ripetere a sessant’anni dagli avvenimenti del colonialismo, un attacco militare a un paese del quale ha già provocato la morte di 100mila persone, un ottavo della popolazione libica. Mi chiedo se ci arroghiamo davvero questa responsabilità.»

    E sì, ce la siamo arrogata, di fronte a un’opinione pubblica ignara del sinistro parallelismo: nel centenario della guerra di Libia (1911), “festeggiavamo” la ricorrenza con una nuova guerra di Libia.

    E naturalmente, dopo la violenza, noi in Africa «facciamo le strade»:

    Salini-Impregilo: commessa da 963 milioni di euro per autostrada in Libia
    (Il Sole 24 Ore, 12 agosto 2013).

    L’opinione pubblica italiana non ha nemmeno “registrato” il fatto che i morti di Lampedusa del 3 ottobre 2013 venivano quasi tutti da nostre ex-colonie: Eritrea, Somalia, Etiopia, ed erano transitati per la Libia.
    Non lo ha “registrato”, perché questo Paese non ricorda nemmeno più di averle avute, quelle colonie, e se lo ricorda, pensa che là – appunto – «abbiamo fatto le strade» ed eravamo benvoluti.

    A proposito di Somalia, nessuno mette mai in relazione la caotica tragedia degli ultimi vent’anni (ormai già 23) e gli effetti a lungo termine della nostra pluridecennale presenza in loco (tecnicamente terminata con la fine dell’AFIS nel 1960, in realtà proseguita in altri modi anche sotto il regime di Siad Barre, amicone di Craxi).

    Ieri è oggi.
    Il presente si fonda sempre su immagini del passato.
    La battaglia su quali immagini del passato debbano prevalere è la battaglia per il dominio del presente.

    Naturalmente, quanto detto per il colonialismo italiano in Africa, vale anche per il colonialismo italiano nell’Adriatico orientale e nei Balcani, per il quale la permanenza della rimozione è presidiata con ancor maggiore violenza.

    • Aggiungo due dettagli sinistramente illuminanti:

      1) Nel 1991, all’inizio della guerra in Jugoslavia, “in quel fatidico 2 agosto Gianfranco Fini, allora segretario nazionale dell’Msi-Dn, si reca a Belgrado accompagnato dal dirigente del dipartimento esteri del partito, Mirko Tremaglia (oggi ministro degli Italiani all’estero – l’articolo è del 2003, ndr) e dal presidente del Fuan Roberto Menia (oggi deputato triestino di An). Oggetto dell’incontro è «un’eventuale richiesta dell’Italia per la restituzione dell’Istria e della Dalmazia». Fini decide di partire perchè la commissione Esteri della Camera guidata dal presidente Piccoli non aveva posto nella sua agenda i temi proposti dal leader missino. Ma non basta. Fini sostiene di essere venuto in Jugoslavia anche per dare appoggio alla Repubblica serba relativamente ai diritti umani e ai confini. Fini relaziona poi gli esiti dei suoi incontri all’allora capo dello Stato Francesco Cossiga e conferma che esponenti del Movimento di rinascita serbo hanno esplicitamente detto alla delegazione dell’Msi-Dn di trovare legittima una richiesta sull’Istria e sulla Dalmazia.
      Chi viene indicato come il «grande mediatore» dell’operazione Istria e Dalmazia è l’allora senatore socialista Arduino Agnelli.” http://ricerca.gelocal.it/ilpiccolo/archivio/ilpiccolo/2003/08/30/NZ_02_FINI.html

      2) Nel famigerato trattato di amicizia italo-libico del 2010, l’Italia aveva chiesto e otteniìuto da Gheddafi, in cambio della costruzione di un’autostrada, la costruzione di un certo numero di “CIE” (in realtà veri e propri lager nel deserto) destinati ai profughi eritrei e somali che attraverso la Libia cercavano di raggiungere la Sicilia.

    • Mi fai un processo alle intenzioni! :-) Nessun peana alla purezza e alla superiorità della Storia. Non mi sento in missione per conto di dio, credimi. Nessun retropensiero come quello che mi attribuisci. Il riferimento al progetto era solo un modo per dire che sono cose che effettivamente vanno affrontate e che anche gli orientamenti della Comunità europea (qui sarei curioso di sapere che lettura dai della cosa) ritengono che l’analisi dell’uso del passato sia asse delle ricerche finanziabili.

      E credo capirai se intendo tenermi fuori dalla discussione sul taglio politico della questione. Non sono intervenuto con quell’intento, ma solo per dare qualche chiave di lettura (che a me sembrava) utile, per dar modo ai vostri lettori non triestini di fermarsi un attimo a problematizzare.

      Ciò detto, credo di avervi tenuto anche troppo a lungo fuori focus con i miei interventi.

      • Non ti crucciare, Diego: se il problema è il focus, credo che a tutti noi interessi sapere cosa pensi dello spettacolo di Cristicchi. Dico davvero. Spero che, non appena lo avrai visto, ti esprimerai al riguardo.
        In uno dei tuoi commenti sopra hai definito “squallida” l’operazione Un cuore nel pozzo. Per noi quella fatta con Magazzino 18 non solo è squallida tanto quanto, ma è molto più subdola e pericolosa.
        Per dire, sai mica se qualcuno dell’IRSML si è espresso al riguardo?

  18. Il tema della rivoluzione, sollevato da più di qualcuno, è veramente interessante. Ricordo un vecchio post di Giap, «Foucault in Iran: rivoluzione, entropia, uguaglianza» in cui in particolare wu ming 1 scriveva:

    «Lo scacco di una rivoluzione si misura sempre nel suo cozzare contro quest’idea (l’idea di uguaglianza, ndr), nel suo non essere all’altezza di questo universale. Universale che, benché più volte incompreso, resta comprensibile a chiunque, perché comprensibili a chiunque sono le implicazioni del motto: “Non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te”. Se, pur con tutto lo sporcarsi le mani e le scelte gravose, una rivoluzione non mostra di puntare all’inveramento di questo motto, allora non è più niente, torna ad essere falso evento.»

    Nel caso della Jugoslavia, ci sono ulteriori elementi di complessità: il fatto che la rivoluzione si sia intrecciata con una lotta di liberazione nazionale nel contesto di una guerra totale, e i fatto che i suoi quadri si fossero formati nel contesto dello stalinismo.

    Però il tema di questa discussione non è la rivoluzione. Il tema sono le mistificazioni criptofasciste alla base dello spettacolo di Cristicchi, e io ritengo che sarebbe il caso di riportare quanto prima il focus su quelle.

  19. Mi sembra che nello sviluppo della discussione si sia dato troppo per scontato, come fosse un concetto condiviso, il termine di *totalitarismo* per descrivere determinati sistemi politici. Ecco, volevo solo far notare che il concetto stesso di totalitarismo, peraltro rifiutato da gran parte del mondo accademico e dalla quasi totalità del mondo “marxista”, non è un concetto neutro e meramente descrittivo (o tecnico), ma la sintetizzazione di un’impostazione storico-scientifica liberale nata per accomunare tutti i vari sistemi politici avversi alle democrazia liberale.
    Insomma, chi utilizza il termine “totalitarismo” lo faccia sapendo che non descrive nulla se non una comune opposizione al concetto di democrazia liberale, sfruttato da questa come parametro negativo con cui rapportarsi. E’ un termine denso di significati, tutti politicamente orientati, e tutti volti ad escludere dal novero delle possibilità storicamente pensabili il concetto di rivoluzione.

    Alessandro

    • Posto che, come non esistono memorie condivise, non esistono neanche “concetti condivisi”, ma dibattiti teorici sui concetti, sulla loro estensione e sulle loro caratteristiche, a cui si aggiungono usi ideologici dei concetti, il concetto di totalitarismo è adottato con diverse connotazioni a livello teorico e diverse denotazioni a livello di uso ideologico per cui è falso che il concetto di totalitarismo sia semplificabile come “la sintetizzazione di un’impostazione storico-scientifica liberale nata per accumunare tutti i vari sistemi politici avversi alle democrazie liberali”.

      Ad adoperare il concetto di totalitarismo non sono solo i “liberali”, ma anche altri fautori non liberali della democrazia come metodo, e questo è scontato, ma l’utilizzo non si ferma qui.
      Il concetto viene adoperato tra i primi da Antonio Gramsci che così lo definisce teoricamente:”Una politica totalitaria tende appunto: 1) a ottenere che i membri di un determinato partito trovino in questo solo partito tutte le soddisfazioni che prima trovavano in una molteplicità di organizzazioni, cioè a rompere tutti i fili che legano questi membri ad organismi culturali estranei; 2) a distruggere tutte le altre organizzazioni o a incorporarle in un sistema di cui il partito sia il solo regolatore.”
      Tra i primi ad adoperarlo è anche, all’opposto, Giovanni Gentile in” Origini e dottrina del fascismo”, del quale afferma il “carattere totalitario della sua dottrina, la quale non concerne soltanto l’ordinamento e l’indirizzo politico della nazione, ma tutta la sua volontà, il suo pensiero e il suo sentimento”.
      Il concetto di totalitarismo viene applicato ai regimi fondati sul monopolio religioso della chiesa cattolica dall’ anticlericale Adolfo Amodeo in “Totalitarismo cattolico” e in campo prostestante alla dittatura calvinista a Ginevra da Berrington Moore Jr.
      Il concetto di totalitarismo viene adoperato da Marcuse ne “L’uomo a una dimensione” per distinguere tra “amministrazione pluralista” e “società totalitaria” perchè, scrive, “Non soltanto una forma specifica di governo o di dominio producono il totalitarismo, ma pure un sistema specifico di produzione e di distribuzione, sistema che può essere benissimo compatibile con un pluralismo di partiti, di giornali, di poteri controbilanciantisi, ecc,”.

      Dunque il concetto di totalitarismo non è semplificabile come “la sintetizzazione di un’impostazione storico-scientifica liberale”. Ma neppure è un concetto che serve “per accumunare tutti i vari sistemi politici avversi alle democrazie liberali”. Infatti nel dibattito teorico sul totalitarismo una parte molto importante riguarda proprio il confine tra il totalitarismo e altri sistemi politici non liberali come assolutismo, tirannia, dispotismo, autoritarismo. Per molti, a cominciare da Gramsci e Gentile, il totalitarismo si distingue per la presenza di un partito unico che direttamente e/o attraverso lo stato assume il controllo totale, non solo politico, dell’intera società. La Jugoslavia di Tito rientra senz’altro in questa accezione più larga di totalitarismo, ma non in quella più stretta che nasce nel secondo dopoguerra, a partire da “Le origini del totalitarismo” dell’ebrea Hannah Arendt.
      Per Arendt il totalitarismo è una “forma di governo che ha la sua essenza nel terrore” dove non ci si limita a dare la caccia ai “nemici reali” come negli stati di polizia tipici di varie forme di governo, ma si dà la caccia anche ai “nemici oggettivi” che sono tali al di là del loro comportamento soggettivo. Potenzialmente chiunque può diventare un nemico oggettivo e dungue il dominio si esercita con il terrore totale. In questo modo il concetto di totalitarismo viene ristretto da Arendt ai regimi nazista dopo il 1935 e staliniano dopo il 1930 e non pare proprio applicabile alla Jugoslavia di Tito.

      Il concetto di totalitarismo potrà essere criticabile e/o interpretabile come qualsiasi altro concetto, ma non è semplificabile
      per lanciare anatemi ideologici sul suo uso, rimuovendone tutte le connotazioni e denotazioni che non rientrano nello schema semplificatorio utile per l’anatema.

      • Possiamo tornare un po’ più vicini all’argomento del post? Argomento che non è “Tutto ciò che riguarda direttamente e indirettamente la natura del socialismo o presunto socialismo jugoslavo dal 1945 alla morte di Tito”, ma l’operazione “Magazzino 18” e la sua ricezione nell’Italia di oggi.
        Grazie.

  20. Questa intervista allo storico Andrea Graziosi aiuta secondo me a relativizzare il fenomeno e inserirlo in un contesto più ampio, in cui la “nazione” ha una parte direi non proprio secondaria:

    http://ilpiccolo.gelocal.it/cronaca/2014/02/22/news/grazie-alla-guerra-fredda-la-citta-plurilingue-si-ritrovo-ancora-italiana-1.8720100

    Graziosi ha poi parlato al teatro lirico (ingresso gratuito), pieno fino al loggione. A Trieste la storia eccita ancora.

    • Appunto: se a Trieste la storia “eccita ancora”, non capisco perché dai certe questioni per “trite e ritrite” e sminuisci la proposta di un confronto pubblico con Piero (e non solo).

  21. Ho riletto il commento di Beppe. Io non ho visto lo spettacolo completo, nè mi intendo di teatro, ma l’intuizione mi dice che questa osservazione sia centrale e vada sviluppata:

    “Mai in tutto lo spettacolo Cristicchi ci regala una scena recitata dove il carnefice sia un fascista. Lo fa a metà con la bambina che descrive le sue precarie condizioni di vita nel campi di prigionia ad Arbe scegliendo una soluzione scenografica d’effetto ma guarda caso non é lui a recitare quelle parole. Questa é una scelta teatrale che però denota la presa posizione chiara e netta di Cristicchi .Lui sul palco (e adesso sembra anche nella vita vera) é la vittima dell’odio contro gli italiani quello é il suo ruolo il resto é contorno.”

    A naso, ma chi ha visto lo spettacolo completo può confermare o disconfermare, mi sa che questa scelta scenica non serve solo a relegare al ruolo di contorno la persecuzione degli sloveni e dei croati, ma proprio a marcare una distanza. Come dire: questo è affar loro, non nostro. A riprova che la “memoria condivisa” è un affare tutto italiano, e non ha niente a che fare con l’empatia per le reciproche sofferenze.

    • Premetto che io ho visto lo spettacolo che ha trasmesso la RAI girato al Politeama Rossetti di Trieste e penso che le riprese si riferissero alla sera della prima. Lo dico perché da come ho capito nel tour che ne è seguito ci sono state delle variazioni. Sul sito di Cristicchi lo spettacolo cambia anche nome mentre in alcune date è solo “Magazzino 18” in altre diventa “Magazzino 18 – L’esodo di italiani cancellati dalla storia” ed in un’unica occasione, a Poggibonsi, “L’esodo”. Suppongo che non si tratti solo di sfumature, del resto non è neanche cosa comune portare in tour uno spettacolo e cambiarne il titolo. Mi vengono in mente testi che sono stati portati in tour e che sono maturati e si sono sviluppati via via fino a prenderne una forma definitiva ma sinceramente non penso che sia il caso di “Magazzino 18 e comunque questi spettacoli non cambiavano titolo. Poi magari mi sbaglio e ci saranno stati tanti casi di cambio titolo nella storia del teatro. Comunque anche questo è un aspetto interessante da analizzare. Peccato non poterlo chiedere direttamente all’interessato visto che nessuno di noi, penso, abbia voglia di essere offeso gratuitamente.

      Quello che sembra sicuro è che Cristicchi si sia prodigato a cambiare in fretta e furia una scena che compariva nel testo fin dalla sua prima stesura ed è quella che ho citato in un risposta sopra ed è quella che cita Tuco. La mia è ovviamente un’interpretazione scritta tra l’altro prima di sapere che questa scena era stata inserita all’ultimo. Sarei curioso di vedere o leggere la scena che Cristicchi si è autocensurato.

      Avevo avuto occasione di dire che Cristicchi come attore non mi era dispiaciuto e conoscendolo, a malapena, come cantante mi sono meravigliato che avesse deciso di esordire con il teatro con Magazzino 18 ed infatti ho visto che alle spalle ha altri quattro spettacoli. Anche in questo caso conoscere meglio cosa ha fatto in passato potrebbe spiegare meglio le sue scelte per questo spettacolo. Non ricordo chi, scusate, in qualche precedente commento aveva sottolineato come la gravità di certe scelte di Cristicchi era determinata dal fatto che il pubblico lo percepisce come artista di sinistra. Direi che leggendo i titoli dei suoi spettacoli precedenti in effetti l’impressione è quella. Questo ovviamente porta l’opinione pubblica a pensare che chi contesta lo spettacolo di Cristicchi non può essere altro che un’estremista visto che destra e sinistra concordano su quanto viene raccontato.

      Io sono d’accordo che uno spettacolo non debba essere per forza, passatemi il termine, “bipartisan”. Ma allora non lo deve essere fino in fondo. Da come ho capito Cristicchi è stato influenzato nei suoi spettacoli precedenti (vi ricordo che non li ho visti sono solo impressioni) dal modello teatro canzone di Gaber. Quindi magazzino 18 diventa l’evoluzione di questo tentativo contaminato dal teatro civile. Considerando poi che prende una materia delicata come questa il risultato diventa qualcosa che molto probabilmente gli sfugge dalle mani come evidenziano i Wu Ming su Twitter (vedi lo screenshot del tweet nell’aggiornamento del post). E questo spiega anche le sue reazioni a chi lo critica.

      Sarebbe stato più saggio studiare di più la parte musicale, che è piuttosto scarsa, eliminare completamente la parte (diciamo non recitata) storica e dedicarsi solo a dei quadri dove i personaggi sono vittime dell’esodo e delle foibe. Ovviamente però anche nei contesti drammatizzati si sarebbe dovuto andare con i piedi di piombo e quindi la scena della strage di Vergarolla ci poteva stare ma senza declamarne i mandanti, visto che non sono stati mai accertati. E soprattutto dichiarare apertamente le propri scelte artistiche perché qui penso nessuno ha voglia di far processi ma è giusto far chiarezza e far sentire la propria voce se passano dei messaggi storicamente distorti.

  22. Diego, prima scrivi: “Non so peraltro che senso avrebbe aprire l’ennesimo dibattito su questioni che – lo sai meglio di me – dalle nostre parti sono davvero trite e ritrite. I tanti aspetti che compongono la questione giuliana sono stati ampiamente sviscerati dalla storiografia e, salvo clamorosi documenti inediti, credo davvero che quelle vicende siano state ricostruite con grande dovizia di particolari e di profondità analitica”, poi mi posti la conferenza di Graziosi al Verdi? Lo trovo piuttosto contraddittorio…

    • Nessuna contraddizione, perdonami. Graziosi non ha infatti parlato di foibe ed esodo, di Memorandum di Londra, di Tlt e cose del genere, toccando alcune sì cose ma dando il tutto quasi per scontato. Ha relativizzato invece la questione, facendo un sorvolo su quanto accaduto nelle città mistilingui d’Europa nel Novecento e spiegando quei fenomeni e quei cambi repentini di identità in prospettiva comparativa (Smirne, Leopoli ecc.). Un approccio molto utile per capire che non esiste solo il confine orientale e che non si capisce la portata di certi fenomeni se non li si inquadra in scenari più ampi che hanno visto l’intreccio fra questioni ideologiche, sociali, nazionali, linguistiche e religiose…

      • Diego, io la contraddizione la vedo, chiarissima: quella di Graziosi (di per sé una conferenza su un argomento decisamente non nuovissimo) rientra in un ciclo di conferenze in cui sono stati trattati proprio gli argomenti che tu definisci “triti e ritriti” (es. la conferenza di Pupo… sulle foibe! sai che novità). L’unica conclusione che traggo è che ancora una volta l’establishment storico triestino rifiuta il confronto sull’argomento con storici che definirei “non allineati”. Passo e chiudo perchè stiamo andando parecchio OT.

        • aggiungo e concludo:
          se la comparazione di Trieste con Smirne e Leopoli la fa Graziosi ti va bene;
          quando al convegno di Koper invece la comparazione tra l’esodo dall’Istria e gli esodi dalla Prussia e dalla Slesia, quello turco-greco, quello degli sloveni dopo la prima guerra mondiale la faccio io, no.
          Mah…
          Chiudo definitivamente

  23. Scusate, può essere che l’età e la poca lucidità mentale mi facciano brutti scherzi, ma “in Istria, non ti sembri strano, anche le pietre parlano italiano” non è forse un verso di una canzone, piuttosto vecchia (e orrenda), de “la compagnia dell’anello”?
    nota da Roma: “romano burino” o “burino romano” è una contraddizione in termini: o si è romani o si è “burini”; all’epoca del Belli venivano detti “burini” i sudditi umbri e marchigiani dello stato pontificio, che venivano a Roma solo a portare il burro (ad esempio: “li burini più screpanti” che il B. annovera tra i clienti di “Santaccia de Piazza Montanara”); il nome è rimasto per indicare chiunque non sia romano di nascita e chi abbia dei modi poco “romani”.

    ps: sono figlio di burini

  24. a proposito di “memoria condivisa” diversi deputati italiani, sia di destra, che di centro, che di sinistra, hanno presentato una proposta di legge, il 30 gennaio 2014,n°2019, che raccoglie la proposta del Parlamento europeo e che vuole istituire in Italia il 6 marzo il giorno dei Giusti, ma con una “piccola”omissione…non si parla del fascismo: http://xcolpevolex.blogspot.it/2014/03/la-giornata-dei-giusti-e-lomissione-del.html

  25. Uh, già che mi sono messo il vestito da chiosatore, voglio ricordare che almeno fino agli anni ’50 dire “olio di ricino” e dire “olio da motore” è stata praticamente la stessa cosa: la base per qualsiasi lubrificante per motori era l’olio di ricino, relativamente economico, cui veniva aggiunta una certa quantità di olio minerale, a quei tempi piuttosto costoso.
    Una famosa marca di lubrificanti, nota tuttora per l’impiego dei suoi prodotti in ambito motociclistico, deve il suo nome dalla contrazione del nome inglese dell’olio di ricino (castor oil).
    Spulciando le fonti (fasciste) dell’epoca spesso viene fatto un parallelo tra l’uso dell’olio di ricino con gli oppositori e la lubrificazione di un meccanismo.
    È molto probabile che quando le squadracce preparavano i fiaschi di olio di ricino per torturare antifascisti si procurassero del comune olio da motore, a base ricinata, piuttosto che l’olio di ricino FU (Farmacopea Ufficiale) più costoso e di solito confezionato in boccette, inoltre spesso le testimonianze delle vittime parlano di “ricino misto a nafta” o simili.

    • Si vede che in quello che ha distrutto gli organi interni di Bratuž c’era molta nafta e poco ricino.
      Non mi sembra esattamente il punto, comunque.

      • infatti è una chiosa, tendenzialmente superflua.
        Nel 1937 l’olio di ricino non veniva più usato sugli oppositori politici oppure era usato solo in casi particolarmente eclatanti; il fatto che venisse usato massicciamente contro le minoranze linguistiche rafforza l’interpretazione della politica italiana in Slovenia e Croazia come coloniale e oppressiva, alla faccia delle tesi autoassolutorie.
        In più la similitudine purga=lubrificante da macchine si lega all’altra similitudine Sloveno- Croato=oggetto, ma qui è inutile che mi dilunghi.

    • Trovo questa informazione molto interessante (sarebbe bello fosse confermata da altri), utile a rompere l’immagine delle squadracce come di congreghe intimamente bonarie che avevano come fine il dare una lezione al mascalzone che si era comportato male; immagine passata in piú di un film/racconto e che mi è istintivamente passata per la testa la prima volta che ho visto/letto che l’olio di ricino lo si vende in farmacia.
      Se nei film che ho visto e nei racconti che ho sentito avessero invece mostrato l’uso di olio di motore.. pure il mio istinto avrebbe agito diversamente.

      • Non è che l’olio di ricino “da solo” facesse bene, eh. La “cura” era devastante. Oltre a lesioni all’apparato digerente, dovute tanto alla quantità del purgante quanto ai modi della somministrazioni (tubi o imbuti calati in gola et similia, e per questi ultimi si poteva soffocare), si poteva anche crepare disidratati dopo avere pisciato l’anima dal culo.

        • in realtà la realtà(!) la sapevo giá anche in quel momento, ma quel film in bianco e nero visto da piccolino in tv, nei ’70, in cui c’erano questi “allegri fascistoni” in procinto di “somministrare la cura” ad un sorpreso ma non impaurito “disubbidiente”, con il capo-squadra che con vociona impostata e sghignazzante dice “che vuoi che sia un po’ di olio di ricino”, deve essersi bem sedimentato nella mia psiche.
          e purtroppo credo non solo nella mia.

          • Qui dicono che l’uso dell’olio di ricino per umiliare e/o uccidere l’avversario politico sia nato a Fiume, dalla testolina del solito D’Annunzio.

            • Mi sono sempre chiesto chi potesse progettare delle infamità così raffinate, prima pensavo fossero dei geni del male che pensassero ad umiliazioni con un mucchio di sottotesti o con molteplici letture come l’uso dell’olio di ricino, o la rapatura e la tatuatura dei prigionieri in alcuni lager, o ancora la distruzione con il fuoco delle salme degli ebrei.
              Poi ho visto le foto di Abu Grahib ed ho letto un po’ della storia coloniale italiana e mi sono fatto una ragione: anche i più cretini possono arrivare alla crudeltà geniale.
              Certo che occasione sprecata, se invece della solita retorica nazionalista, vittimista e piagnucolosa dell’italietta, in stile “la grande proletaria s’è mossa”, ci fosse stato il coraggio di guardare nel passato l’arte teatrale ne avrebbe tratto vantaggio senz’altro.

          • Per me, invece, l’olio di ricino è sempre stato solo e soltanto questo:

            “Mentre era ricoverato in ospedale tutta le regione respirava affannosamente come il suo petto. Un gelo pernicioso era calato sui pendii montani, sui campi della pianura, nelle cantine delle case. I cittadini si fermavano sui marciapiedi e si interrogavano con gli sguardi; la gente era immersa in un silenzioso cordoglio come se la morte avesse spalancato l’uscio di tutte le case slovene. […]
            Quando spirò nessuno poté vederlo. […]
            Il corpo avvelenato del defunto era stato nascosto nell’obitorio, messo sotto chiave. […]
            A nessuno fu permesso di avvicinarsi alla sua tomba. E davanti alla tomba se ne stava una guardia.
            E chi l’indomani entrò nel cimitero poté vedere da lontano l’uomo che piantonava la tomba proibita Poté vedere, però, anche una montagna di fiori su quella tomba; e ce n’erano tanti, di fiori, che si erano sparpagliati pure sui tumuli vicini. Una piramide di mazzi e di corone nonostante i fucili e le pistole; corone e mazzi che erano arrivati di notte, inafferrabili come i sonagli della serenata d’addio. Ma i fiori e i mazzi facevano pensare a un mucchio di sassi, oppure a una catasta di legna, perché erano stati gettati da dietro il muro, alla rinfusa, furtivamente, da lontano, come si getta qualcosa a un lebbroso.”

            Da “Fiori per un lebbroso” – Rože za gobavca in originale – racconto di Boris Pahor sulla vicenda di Lojze Bratuž.

  26. Segnalo una recensione dello spettacolo Magazzino 18 uscita oggi sul sito de L’Espresso. Mi sembra un classico esempio di recensione da “memoria condivisa” http://nemorock-in-piazza.blogautore.espresso.repubblica.it/2014/03/04/simone-cristicchi/

    • Mi sa che questa recensione, dal punto di vista delle falsificazioni e delle mistificazioni, e’ persino peggio dello spettacolo di Cristicchi. Sembra scritta da uno della Lega Nazionale o dell’ ANVGD.

  27. Rispondo qui sotto @emilianorossi perché sono esaurite le diramazioni.
    “Che siamo intrisi di cattolicesimo, per il solo fatto di aver respirato l’aria italiana, è una certezza che diventa tale solo dopo aver respirato arie che sanno di buddismo, o di protestante, o di musulmano.”
    beh, no. Non solo, almeno. Basta respirare un po’ di laicismo, come avviene in altri paesi, ma anche da noi, sia pure con difficoltà e venendo facilmente additati come esagerati disadattati. Però è sempre la migliore soluzione contro tutte le “intrisioni” del genere. Colpisce che si tenda a contrapporre religione a religione, come se non avessimo da qualche secolo inventato anche altro fuori dalla trascendenza.

  28. Il preteso dualismo spettacolo/emozione vs studio o lezione/fatti documentati e storia cui si richiamano Cristicchi e in parte pure D’Amelio cela in realtà una delle operazioni di semplificazione e banalizzazione più comode e riuscite di questi anni. La storia trattata in maniera rigorosa può essere emozionantissima pure quando non è semplificata, almeno non fino al punto di essere mistificata. Ci si può emozionare pure davanti a una nota… la questione è disporre degli strumenti per farlo, o quanto meno, di un traduttore in altro linguaggio che sia capace e attento a volerlo fare. Troppo spesso gli spettacoli pretendono di sfuggire a ogni tipo di critica invocando la differenza di linguaggi per veicolare più agevolmente banalità e patetismo. Perché sono più facili, più generici e non costringono a prendere posizione né ad approfondire. Dovrebbe essere un approccio da rifiutare in toto, non un argomento accettabile per giustificare operazioni di mistificazione (come qui), addomesticamento o anche solo da omogeneizzato in vasetto.

  29. Buongiorno a tutti,
    oggi mentre ero in sala d’aspetto di un reparto ospedaliero ho avuto la (s)fortuna di trovare un televisore sintonizzato su rai3, pane quotidiano, dove Cristicchi chiacchierava di Magazzino 18 (ecco il link: http://www.rai.tv/dl/RaiTV/programmi/media/ContentItem-40043dae-c7b0-4e8c-9a42-f91df8e86c37.html#p=0 )
    Io l’ho visto tutto, anche se in una sala d’aspetto l’acustica non è il massimo.
    Oltre a ribadire le solite cose, cito il più precisamente possibile, “non si può criticare un’opera d’arte su base storica”, esodo istriano “vuoto storico (?!)”, si trova a tu per tu con una quarta liceo a parlare di memoria condivisa e di storia. Quindi Cristicchi, che sua stessa definizione fa uno spettacolo “emotivo” (che la dea del sicomoro mi perdoni…) spiega storia, sulla base della quale però, non è valutabile. Bella lezione.
    però son successe due cose: primo voi WM, in quanto solita sinistra siete stati ampiamente citati, forse con tanto di braccia allargate, poi gli sono arrivate parecchie, pare, mail in cui gli si rendeva conto di ricordare l’occupazione fascista precedente…
    aggiungo una cosa, volevo chiedere caro giap, la signora seduta di fronte a me diceva, dato che la chicchierata televisiva ha risvegliato i sopiti animi, che gli abitanti di fiume, o i nati a fiume sono apolidi. a voi risulta?
    grazie!

    • Cito un surreale frammento di dialogo di quella surreale trasmissione televisa:

      De Gregorio rivolta ai ragazzi: Dov’e’ l’Istria? Lo sapreste dire sulla cartina?

      Studentessa (col tono di chi sa benissimo dov’è l’Istria, ma sa anche benissimo che la parte che deve recitare prevede che non lo sappia): Vicino alla Croazia, al confine con il Friuli.

      Cristicchi (con tono didascalico): Diciamo che l’Istria *è* la Croazia, sono un po’ la stessa cosa, si puo’ dire in tutti e due i modi. Però insomma fino a 70 anni fa quelle terre facevano parte dell’Italia, poi diventarono Croazia e Slovenia (..)

      Bon, adesso grazie a Cristicchi sappiamo che Istria e Croazia sono la stessa cosa, che si può dire in tutti e due i modi.

      Abitanti di Zagabria, lo sapevate di essere istriani? Sapevatelo, su Cristicchi Channel.

      • “Fino a 70 anni fa quelle terre facevano parte dell’Italia.”

        Se è per questo, fino a 95 anni fa facevano parte dell’Impero Austro-Ungarico.

        • Ma no dai, non dire così, chè poi Concita De Gregorio ci resta male.

          Cristicchi ha detto tante di quelle castronerie, che ho perso il conto.

          Però secondo De Gregorio, chi lo fa notare fa parte di “una certa sinistra”, e in questa “certa sinistra” ci mette i Wu Ming e Antonello Venditti.

          Antonello Venditti… confessatelo, avete fatto quel bel post sul desert blues, e le chitarre come armi, solo per confondere le acque, per fare disinformacija.

          • Ti ricordi quella strada?
            Eravamo io e te.
            E la gente che correva,
            e gridava insieme a noi…

            • Io però me lo sono perso Venditti che criticava Cristicchi. Quand’è successo?

              • Ma figurati se Venditti si mette a criticare Cristicchi. Can no magna can. Soprattutto in “una certa borghesia romana”. Venditti ha solo fatto una battuta durante un concerto da queste parti, qualcosa tipo: “Non parlero’ di foibe, alla gente queste cose non interessano, bisogna guardare avanti”.

              • E ti pareva che, per una volta nella vita, potesse aver avuto ragione su qualcosa? :-/

              • Ma da quanto ho capito io ha fatto ancora meno, giusto una battutina tipo “immagino sarete stufi di sentire parlare delle foibe”

              • beh comunque alle polemiche sulla sua frase triestina ecco come ha replicato il 12 febbraio 2014 sulla sua pagina facebook
                “Noto con disgusto che il fascismo mediatico non è morto, al contrario è vivo e vegeto e detta le sue luride leggi.
                Il Comunismo invece è morto da tempo, perché nelle sue forme più aberranti è diventato puro fascismo.
                Io sono un uomo libero e penso di essere molto lontano dall’uno e dall’altro: il mio concerto ne è la mia testimonianza più pura.
                Credo che sia assurdo il solo pensare che una persona come me possa negare il dramma delle Foibe che sono il risultato e l’effetto di un modo di pensare vigliacco e assassino. Non mi sono soffermato su questo dramma perché il mio concerto è ricco di parole, di concetti di libertà e solo per parlare delle Foibe avrei dovuto spendere certamente più delle quattro ore di concerto che ho dato al mio pubblico.
                Dando per scontato l’assoluto disgusto verso quel dramma vissuto da tutto il popolo Istriano, il solo pensare che io possa essere dalla parte dei carnefici mi fa sentire parte di un paese ancora molto distante da qualsiasi forma di pacificazione.
                Io porto la pace e la libertà nel mio cuore, libertà per la quale ho lottato, in nome della quale vi chiedo di chiudere questa stupida e strumentale polemica.
                Onore ai Martiri delle Foibe e un abbraccio forte alla città di Trieste.
                Un Italiano libero
                Antonello”

                per la cronaca questo suo commento ha avuto 2.611 mi piace,240 condivisioni e 517 commenti …

              • Se Venditti scrive “ onore ai martiri delle foibe”
                una mia riflessione incazzata e dovuta ove riporto anche una lettera dell’anpi del 2010 che ben spiega perchè non si deve usare il concetto martiri delle foibe:
                http://xcolpevolex.blogspot.it/2014/03/se-venditti-scrive-onore-ai-martiri.html

        • La cosa triste è che ai ragazzi del liceo presenti in studio (che avevano letto il libro) le vicende di quella fase storica sono state presentate in quel modo.

          • La cosa più triste è il paragone coi boat people di Lampedusa alla fine. Perchè Cristicchi fa finta di non sapere che l’Italia ha pagato prima Gheddafi, e poi non si sa chi, per costruire dei veri e propri lager nel deserto, pur di tenere quei “negri di merda” lontani dai sacri confini della patria. Col voto favorevole del PD. E mentre Concita De Gregorio dirigeva l’Unità.

    • Ah sì, Fiume. Che io sappia, apolidi erano diventati gli ebrei di Fiume dopo l’emanazione delle leggi razziali nel 1938…

      http://www.annapizzuti.it/fiume/

      • Ho dato un occhio all’archivio, ma oltre a quello ho trovato il consolato italiano a fiume, che da indicazioni in linea con la legge italiana e non fa eccezioni di apolidismo…

        http://www.consfiume.esteri.it/Consolato_Fiume/Menu/I_Servizi/Per_i_cittadini/Cittadinanza/

        anzi, dal 2006 la cittadinanza su tutti i territori pare sia facilitata e concessa anche a chi l’aveva prima del trattato, previa dimostrazione di discendenza.

        http://www.normattiva.it/uri-res/N2Ls?urn:nir:stato:legge:2006;124

        per la precisione:
        ” … alle persone di lingua e cultura italiane che siano figli o discendenti di soggetti che siano stati cittadini italiani, già residenti nei territori facenti parte dello Stato italiano successivamente ceduti alla Repubblica jugoslava in forza del Trattato di pace firmato a Parigi il 10 febbraio 1947″

        Sul sito della città di Fiume nulla.

        Forse la signora confondeva il fatto di avere una cittadinanza con l’avere la cittadinanza italiana.
        A meno che non parlasse di qualche parente ebraico che mi son perso….
        mah…

        • Ma infatti quello che dicevo io non ha niente a che fare col dopoguerra, riguarda invece la situazione in cui si trovarono gli ebrei di Fiume dopo il ’38 e soprattutto dopo il ’43. Essendo apolidi, furono i piu’ esposti alla deportazione in Germania. Non mi sorprenderebbe se la signora in sala d’aspetto attribuisse anche questa cosa ai comunisti jugoslavi, visto che la centrifuga della “storia condivisa” ci ha restituito una questura di Fiume che amorevolmente proteggiava gli ebrei e li mandava in villeggiatura in Campania, assistiti dallo zio prevosto di Palatucci.

  30. Assurdo è che la De Gregorio metta sullo stesso piano una battutina en passant di Venditti e la solida ricostruzione storiografica di Giap, firmata da uno storico che ha dedicato anni e anni allo studio di queste terre, creando con questi due elementi lontanissimi una categoria fittizia: la famosa “certa sinistra” (sai com’è, s’è fatta ‘na certa…) mentre sullo sfondo scorrono le immagini delle scritte teppistiche sulle foibe, come se fosse tutt’un cazzo… tutta una certa che non vuole occuparsi di quelle porzioni oscure di Storia, detto da due figuranti di una presunta sinistra di cartapesta, come Cristicchi e la De Gregorio, che per una vita hanno ignorato la storia del confine orientale e ora si riempiono la bocca con versioni di quarta mano di propaganda missina… e soprattutto detto a chi ci ha scritto sopra libri e ci riflette pubblicamente da molti anni – quando ancora Cristicchi voleva essere Biagio Antonacci, anzi da ben prima.
    Nella trasmissione vengono ripetuti tutti i topoi più marci del cristicchismo: Stella ritira fuori l’odioso falso storico della pulizia etnica, di Magris si recupera un’intervista del ’97 evitando per bene di mostrare le critiche che successivamente ha rivolto alla manipolazione e al “chiasso” sulle foibe; Cristicchi risfodera il suo personalissimo concetto di critica teatrale secondo il quale un’opera può essere giudicata solo dal punto di vista della messa in scena e non da quello della ricostruzione storica… ma il tutto viene incorniciato dai toni soft e pacati del format buonista della De Gregorio (che nella puntata precedente aveva parlato di “un grande italiano” – parole sue – “Italo Balbo”…), inculcando ancora più a fondo nel pubblico (rappresentato dagli allievi di un liceo) l’assunto secondo il quale l’operazione Magazzino 18 sia una doverosa riscostruzione umana “di sinistra” della storia dell’Istria.
    Ragazzi, l’ho detto fin dall’inizio: tutta questa operazione mediatica è molto più grave e pericolosa della mistificazione de “il cuore nel pozzo”.

    • Sì, secondo Concita De Gregorio noi Wu Ming facciamo parte di “una certa sinistra” che “non vuole affrontare quella parte di storia”.
      Peccato che noi la affrontiamo da anni in libri, articoli, conferenze pubbliche, discussioni on line, approfondimenti continui.
      Bah.
      Comunque ha ragione Lorenzo: la storia strumentalizzata e riscritta pro-“Larghe intese” somiglia molto alla storia come l’hanno raccontata per sessant’anni e passa i neofascisti, ma è peggio, perché di quest’ultima rappresenta lo sdoganamento e la riverniciatura “di sinistra buona” (cioè moderna, educata ecc.)

  31. Faccio molta fatica a seguire i commenti e le diramazioni perchè sono “ricchi” di allusioni e di “rimandi” che ognuno da per scontati e che sono poi i suoi postulati (indiscutibili) personali.
    Cristicchi si creda un artista (e forse le è ), una antenna sociale capace di captare le vibrazioni della società (in questo caso ha captato le peggiori possibili) e vuole essere giudicato per questo. Giudizio negativo. Cerco di circondarmi di cose belle e non ho intenzione di vedere il suo spettacolo.
    La De Gregorio “allude” ad una “certa” sinistra aprendo tutta una serie di molteplici precisazioni altrui che porteranno il dibattito a Gaber e Bobbio – su cosa è la sinistra e cosa è la destra ? –
    Per il momento destra e sinistra sono soli i posti dell’emiciclo parlamentare dove poggiano il culo i “rappresentanti” dei cittadini “nominati” dai partiti.
    Poi arrivano gli storici, che pretendono una storia univoca o condivisa, oppure una storia di controinformazione vittimista. Ecco spuntare dalla cassetta degli attrezzi i “vecchi arnesi” delle ricostruzioni, i matematici delle tragedie della storia, coloro che danno un senso alle loro vite denunciando le distorsioni altrui da almeno quaranta anni – senza successo alcuno. Questi vecchi arnesi non hanno mai compreso la gravità e la serietà terribile delle affermazioni di Mao su morti che pesano come piume e morti che pesano come montagne.
    Tele Sarajevo aveva prodotto il film “Gluvi Barut” sui comunisti e la guerra partigiana di Liberazione della Jugoslavia, ve lo consiglio, in tutto il film non si vede un nazista e nemmeno un soldato tedesco….
    Esiste un sistema per fare un po’ di chiarezza come si propongono di fare i Wu Ming senza dover rispolverare “vecchi arnesi” e parlare di Venditti. Forse si potrebbe raccontare come sono andate le cose, affermare con un po’ di coraggio che la verità è rivoluzionaria e ripartire da qui senza aggiungere pesi al nostro camminare.
    Un vecchio compagno, ora morto, sorridendo di una delle tante scissioni della sinistra comunista ( con relativa diatriba legale sulla proprietà delle sedi) mi raccontava di aver visto altre scissioni nella sua vita, mi raccontava che per notti aveva presidiato la sede della sua sezione, con la pistola in tasca, per impedire che la frazione avversaria ne prendesse possesso.
    Proviamo a sorridere.

  32. Purtroppo ormai siamo abituati a episodi di italiani banali e scontati, come se il sentire comune fosse un obbligo da seguire e non un pensiero contro cui combattere. Occhio ai commenti del genere: <> e <> che spesso mi è capitato di sentire. Infatti, finchè ci saranno persone come voi, cari Wu Ming e Purich, questi pseudo-intellettuali non faranno altro che dimostrare la propria ignoranza e quella dei discorsi che si divertono a fare non appena apriranno bocca.

    -OmniaSuntCommunia-

  33. è un’osservazione banale ma è tutto il giorno che mi ronza in testa: riuscite a immaginare un Cristicchi tedesco che fa uno spettacolo come questo sui tedeschi dei Sudeti dedicando ai crimini nazisti cinque minuti cinque? Io no.

    • Eh. Infatti io proprio non mi riconosco in quel che scriveva Emiliano Rossi qua sopra. Io in Germania ci ho vissuto due anni, e seguo ancora un po’ quel che succede nella “mia” Rostock. In Germania ho trovato molto, ma molto più antifascismo che in Italia, senza tentativi di autoassoluzione. Parlo degli ambienti di sinistra, ovviamente, ma di una sinistra che va dagli autonomen fino ai falken, e persino ai giovani della spd. La cosa che mi ha sempre colpito e’ che questioni come l’antifascismo, l’antirazzismo, persino l’anticapitalismo, che in Italia ormai sono considerate roba da estremisti, in Germania possono unire, nella teoria se non proprio nelle pratiche, ampi settori che vanno appunto dall’antagonismo fino alle organizzazioni giovanili di partito.

      • Mi scuso, mi rendo conto ora di non aver spiegato bene il mio pensiero: sono d’accordo con te, Tuco, e anche con Paolo1984.
        La mia compagna, la sua famiglia, gli amici, fanno tutti parte di quella sinistra antifascista, antinazista, antirazzista (etc) che é molto più compatta, consapevole (e credo più numerosa) che in italia.
        Sopra rispondevo a Jackie.Brown che sosteneva che il fascismo non lo riguardava.
        Tentavo di mostrargli qualcosa che vedo in ogni momento nella mia vita “tedesca” (e di rimbalzo nella mia vita “italiana”), cioé che quel che ha fatto si che Mussolini fosse tedesco e Hitler italiano (il contrario sarebbe completamente assurdo) fa tuttora parte di noi e dei tedeschi.
        Basti guardare le figure di Bossi Grillo e Berlusconi, trascinatori di folle: impensabili in germania.
        I tedeschi (a volte occorre generalizzare), di destra e di sinistra, seguono i propri leader o la propria ideologia come un soldato tedesco, che crede nei motivi della guerra e che esegue ordini.
        Non che sia esattamente così, ma si respira quel sentore di assoluto, di corretto a prescindere, di qualcosa che piove dall’alto.
        Il sentire degli italiani è quello di seguire i propri leader o le proprie ideologie di pancia (nei casi che ritengo negativi) o di cuore, di passione.
        Non che queste due caratterizzazioni-estremizzazioni siano da prendere alla lettera, ma spero chiariscano il senso della principale differenza psicologica (pure “storicamente”) tra italia e germania.
        Queste differenze hanno portato al verificarsi di pensieri ed eventi bellissimi.
        e tremendi.
        l’antifascismo.
        e il fascismo (per restare in tema).
        Sia in germania che in italia.
        Per questo dicevo a Jackie.Brown che il fascismo lo riguardava assai, altrimenti non potrà riconoscerne i focolai.
        Fuori e dentro di noi.
        Spero di essermi spiegato meglio.

        ps. uno come Cristicchi qui potrebbe al lmite avere successo tra le 15enni. e solo in quanto cantante.

  34. Andai in Istria e a a Fiume nel 1974, era ancora vivo Tito. A Fiume fui invitato a casa sua da Fulvio Damiani, vicedirettore de “Il Popolo d’Italia”. Parlammo a lungo. Alla fine potrei trarre una conclusione molto semplicistica e tagliata con l’accetta: il confine orientale era una zona culturalmente ed etnicamente mista (germanici, slavi, latini, magiari). Chi riusciva nel corso della Storia a prevalere con la forza – giusto o sbagliato che fosse – poneva il suo tallone sul collo degli altri. La Jugoslavia, dal 1943 al 1945, pose il suo sugli Italiani, ripagandoli con abbondanti interessi. E’ la legge del più forte. Così va il mondo, che non si muove – non si è mai mosso, né mai si muoverà – secondo etica e giustizia, ma solo in base all’interesse e alla potenza. Diego Verdegiglio dv52@libero.it

  35. Nella sua replica Cristicchi ha scritto una cosa che mi ha fatto capire come non abbia capito un klinc di tutto il discorso critico sulla “memoria condivisa”.

    “Quanto al discorso delle memorie ci ricolleghiamo semplicemente – ancora una volta – a quanto dicono gli storici degni di tale nome. E cioè che è semplicemente impensabile una memoria condivisa, poiché è impensabile e assurdo che la memoria degli sloveni e dei croati vittime del fascismo italiano (come appunto il citato Lojze Bratuž) possa mescolarsi con quella degli italiani vittime del comunismo jugoslavo (di cui parla principalmente il mio spettacolo).”

    Cristicchi non ha proprio capito che il problema non e’ quello di una impossibile “memoria condivisa” tra italiani, sloveni e croati. Il problema *vero* è quello di un’altrettanto impossibile “memoria condivisa” *tra italiani*, che poi è quella che il suo spettacolo pretende di contribuire a costruire. Perchè tra le varie cose che Cristicchi dimentica c’è anche il fatto che negli stessi anni (tra il ’43 e il ’45) in Italia – sì, in Italia! – c’è stata *anche* una guerra civile, e subito dopo (tra il ’45 e il ’54) in Italia – sì, in Italia! – c’è stata Portella della Ginestra, c’è stata la repressione di Scelba…

    “Così dal 1948 al 1954 si ebbero 148.269 arrestati o fermati (per motivi politici) di cui l’80 per cento comunisti, 61.243 condannati per complessivi 20.426 anni di galera (con 18 ergastoli) di cui il 90 per cento a comunisti. Nello stesso periodo in sole 38 province italiane vengono arrestati 1697 partigiani, dei quali 484 condannati a complessivi 5806 anni di carcere. Ma l’azione repressiva andava ben oltre: dal 1947 al 1954 in scontri di piazza tra forze di polizia e dimostranti, si contano almeno 5.104 feriti di cui 350 da armi da fuoco, un numero imprecisato di contusi e 145 morti […], questi ultimi compresi in ottantuno episodi distribuiti su tutto il territorio nazionale.”

    http://web.tiscalinet.it/dplarivista/ANNO%20I%20-%20NUMERO%201/TESTI/articolo%20scelba.htm

    Anche di questo bisogna tener conto, quando ci si lamenta per il brutto trattamento che gli istriani ricevettero a Bologna e altrove: erano percepiti – e di fatto lo erano già diventati – come massa di manovra della Democrazia Cristiana (e dei suoi referenti anglo-americani) nella sterilizzazione del conflitto sociale.

  36. Imbarazzante, preoccupante e inutilmente furbesca la tesi di Cristicchi secondo la quale: “il mestiere dell’artista non è fare politica (…) è quello di raccontare delle storie”.

    Ogni narrazione implica responsabilità e consapevolezza: dall’idea di trattare un tema piuttosto che un altro, al punto di vista usato per raccontarlo, fino alle scelte specifiche su estetica, stile, eccetera.

    Infatti, nell’articolo di Purini e in alcuni commenti ci sono riferimenti molto precisi a tempi e modi con cui vengono affrontati alcuni passaggi nello spettacolo. È giusto che il dibattito si sviluppi su questi dettagli artistici, che inchiodano in maniera chiara e mirata Cristicchi alle sue responsabilità.

    Cristicchi non può sperare di cavarsela con una frasetta come quella di cui sopra. Volente o nolente (a mio parere volente e consapevole dei ritorni commerciali) si è inevitabilmente infilato in un dibattito politico di cui adesso deve rispondere, pena continuare a fare figuracce come quella appena citata.

  37. Sono di Trieste, e di parenti esuli ne ho in abbondanza: non sei un vero triestino se non hai parenti di oltre confine. Ma per sentir parlar del prequel all’esodo devo venire qua, ché di certi argomenti a Trieste non se ne parla (e quando lo si fa era meglio se si stava zitti, vedi TLT e menate simili). Insomma, grazie e basta.

    • Se ne parla anche a Trieste, dai. In fondo, l’autore di questa recensione è uno storico triestino e come lui ce ne sono tanti altri che sul »prequel all’esodo« hanno scritto diversi libri. Il problema, semmai, è che a Trieste di questi argomenti non si discute proprio negli ambienti in cui ce ne sarebbe maggiormente bisogno.
      Se non lo hai ancora letto, ti consiglio questo libro di Marta Verginella: http://www.donzelli.it/libro/1753/il-confine-degli-altri. Una lettura poco impegnativa, breve e (si spera) indolore.

      • Se ne parla ma poco, appunto.Per quanto riguarda me, a scuola e in famiglia non ne avevo mai sentito parlare – se escludiamo qualche accenno al fascismo e al cambio dei cognomi.

  38. VANTAGGI DEL (E PROFITTI DAL) VITTIMISMO: UN CASO DA MANUALE

    Ormai si è appiccicata al muro la panzana che qualcuno avrebbe impedito a Cristicchi di esprimersi.
    «Io, vittima dello squadrismo rosso»
    http://www.huffingtonpost.it/2014/03/22/cristicchi-contestazioni-squadrismo-rosso_n_5012485.html?utm_hp_ref=italy

    Sul farsi certificare vittima per esercitare un’egemonia incriticabile, consiglio il recente Critica della vittima di Daniele Giglioli. Il suo libro precedente, Senza trauma, non mi era piaciuto, ma questo è puntualissimo. Leggendolo, è difficile non pensare a Cristicchi come vero e proprio caso da manuale, esempio perfetto.

    Chiaramente, grazie a questo status di vittima, per l’establishment dell’informazione Cristicchi è ormai una figura indiscutibile. Se lo critichi sei uno squadrista.

    I media, compatti, continuano a descrivere come “aggressione squadrista” un volantinaggio fatto a Scandicci prima dello spettacolo.

    Dopo il volantinaggio, lo spettacolo andò in scena regolarmente – come tutte le altre quaranta volte, e come avverrà nelle centocinquanta volte che seguiranno – ma è passato che quella sera a Cristicchi fu “impedito di esprimersi”.

    A Firenze, pompare la finta aggressione è servito alla “larga intesa culturale” PD – Fratelli d’Italia.

    Pochi giorni fa, il consiglio comunale ha approvato la mozione di un consigliere Fratelli d’Italia-Alleanza Nazionale per inserire Magazzino 18 nei percorsi educativi proposti dal comune di Firenze.
    Ovviamente sono stati fondamentali i voti del PD e l’appoggio dell’assessora all’istruzione di stretta osservanza renziana Cristina Giachi.

    Unico intervento critico, quello dei consiglieri Tommaso Grassi e Ornella De Zordo (rispettivamente SEL e lista Perunaltracittà).

    • Questo vittimismo piagnucoloso non ricorda un po’ certi atteggiamenti tipici di Pansa?
      È un’attitudine davvero insopportabile.

  39. Giovanardi, De Felice, Menia… il mirabolante avvocato Sinagra… Il direttore della fondazione Ugo Spirito…
    …E adesso Cristicchi:
    http://www.editfiume.com/lavoce/politica/5408-cristicchi-socio-onorario-della-societ-di-studi-fiumani

    Non serve scomodare l’insiemistica per spiegare come tutto stia procedendo nella direzione più logica e prevedibile.

  40. Secondo me, nella discussione pro/contro «Magazzino 18» si sono alzati troppo i toni. Del resto, l’argomento interessa/brucia (628 post su Bora.la, credo un record assoluto).
    Sempre secondo me, Cristicchi ha saputo denunciare atrocità italo-fasciste, che normalmente non passavano e non passano sui giornali italiani, ma, d’altra parte, ha fatto propria una versione dei fatti cara al nazionalismo diciamo ‘moderato’. Finendo ad esempio per accreditare il numero di 350.000, la ‘famosa’ e tanto dubbia testimonianza dell’Udovisi ed alcuni (non tutti, per fortuna) particolari della morte della povera Cossetto etc..
    In alcuni passaggi, lo spettacolo mi è sembrato anche un po’ confuso (si mescolano i fatti dell’autunno 1943 con quelli della primavera 1945).
    Condivido quasi tutta l’analisi critica di Purini, ma non ne approvo la forma (una sorta di j’accuse) e soprattutto la sua (e di altri; ad esempio Cernigoi) insinuazione per cui Cristicchi sarebbe in malafede o inconsapevolmente manovrato.
    Quando si oltrepassa il limite del fair play, può accadere di tutto. Credo non giovi a nessuno.
    Dicevo di Purini; questo suo passaggio mi è sembrato non felice: «gli scomparsi del maggio ’45 finiti effettivamente nelle voragini carsiche sono stati una minoranza: qualche decina di persone. Gli altri furono deportati in quanto appartenenti a forze armate che avevano combattuto contro l’esercito jugoslavo, al pari di quanto accadde agli italiani catturati da inglesi, francesi, americani e russi. Le condizioni della prigionia non erano certamente delle più facili (ma i soldati catturati in Russia o in Africa non ebbero condizioni migliori); va detto però che buona parte di chi non aveva responsabilità personali riuscì a tornare». Direi che le cose andarono peggio di così. Per il resto, ripeto, condivido molto; ad esempio questo passo: «Cifre analoghe a quelle dei morti negli ultimi giorni di guerra a Genova, a Torino o in Emilia. Dove però mai nessuno è stato ucciso “in quanto italiano”. Mi sembra dunque che questi numeri siano la riprova numerica del fatto che in queste terre le esecuzioni del maggio ’45 non hanno risposto ad una logica di pulizia etnica, bensì siano state la – purtroppo – fisiologica resa dei conti di un conflitto che era stato atroce e fortemente ideologico».
    Se non sbaglio, Cristicchi però non ha dato credito alle strumentalizzazioni dei molti nazionalisti italiani, che cercano di alimentare l’odio etnico convincendoci che si ammazzavano le persone “in quanto italiane”.
    Non dimentichiamo, infine, che abbiamo a che fare con un’opera teatrale, non con un saggio storico. Cristicchi si era dato un obiettivo molto ambizioso e lo ha (secondo me) raggiunto solo in parte, con qualche scivolata sul terreno, sempre infido, non tanto del “noi buoni italiani”, ma del “loro, slavi scesi dai monti”.

    • “Se non sbaglio, Cristicchi però non ha dato credito alle strumentalizzazioni dei molti nazionalisti italiani, che cercano di alimentare l’odio etnico convincendoci che si ammazzavano le persone “in quanto italiane”.”

      Beh no, alla base del lavoro teatrale di Cristicchi-Bernas c’è il libro di Bernas “Ci chiamavano fascisti, eravamo italiani”, cioè proprio l’assunto dell’accanimento sugli italiani in quanto italiani. Nel libro di Cristicchi poi c’è scritto che per i partigiani jugoslavi la lotta contro il fascismo era un pretesto per espandersi a ovest. Sono le solite tesi dell’ANVGD. Ma come in un gioco di матрешки, questo guscio contiene il nocciolo della questione, cioè la negazione del fatto che dal ’43 *in Italia* ci fu *anche* una guerra civile. Per questo motivo, secondo me, l’obiettivo di tutta questa operazione è esclusivamente interno. Nessun neo-irredentismo: piuttosto il (reiterato) tentativo di un compattamento della nazione dietro la bandiera dei suoi “martiri”. E la contrattazione tra i partiti delle “larghe intese” dietro le quinte del Rossetti è lì a dimostrarlo.

    • Cristicchi ha saputo denunciare atrocità italo-fasciste, che normalmente non passavano e non passano sui giornali italiani, ma, d’altra parte, ha fatto propria una versione dei fatti cara al nazionalismo diciamo ‘moderato’

      Magazzino 18 per cosa si contraddistingue? Per la coraggiosa denuncia delle atrocità italo-fasciste? È questa una tesi sostenibile?

      non ne approvo la forma (una sorta di j’accuse) e soprattutto la sua (e di altri; ad esempio Cernigoi) insinuazione per cui Cristicchi sarebbe in malafede o inconsapevolmente manovrato.

      Tralasciando il personaggio Cristicchi e la sua coscienza personale o la sua levatura morale (affari suoi), possiamo affermare che una produzione teatrale come Magazzino 18 sia estranea alla politica? Possiamo magari discutere e ragionare sulla natura di questo legame, ma è possibile non tenerne conto?

      Cristicchi però non ha dato credito alle strumentalizzazioni dei molti nazionalisti italiani, che cercano di alimentare l’odio etnico convincendoci che si ammazzavano le persone “in quanto italiane”.(…) Cristicchi si era dato un obiettivo molto ambizioso e lo ha (secondo me) raggiunto solo in parte, con qualche scivolata sul terreno, sempre infido, non tanto del “noi buoni italiani”, ma del “loro, slavi scesi dai monti”.

      Chiedo scusa ma secondo me la seconda proposizione contraddice la prima. Sono d’accordo però su una cosa: Magazzino “18” è molto “anguillesco”, se mi si passa il termine, sguscia tra gli slogan nazionalistici e vittimistici evitando di stabilire collegamenti diretti limitandosi a suggerire i legami tra i contenuti. Abbiamo così tratteggiata la “barbarie slava” e la sofferenza degli italiani, senza esplicite dichiarazioni di odio etnico. La domanda è: possiamo noi farci prendere per il culo da simili espedienti retorici di bassa lega, negandoci la natura del messaggio finale che filtra dallo spettacolo?

      Secondo me, nella discussione pro/contro «Magazzino 18» si sono alzati troppo i toni

      Già, ma chi li ha alzati? Posto che il diritto di critica lo riteniamo tutti sacrosanto, chi ha insultato – e pesantemente – la controparte? Chi ha accusato di essere il mandante morale di atti teppistici? (peraltro uno schema cognitivo comune a quello di MTL riportato nella colonna a destra di questo sito) Vogliamo anche parlare dei rapporti di forza in gioco? Tra chi critica a mezzo blog e chi risponde a mezzo RAI c’è equilibrio?

      P.S. qui il mio nome e cognome, ma era una battuta vero?

  41. @Sirovich
    A parte che tu il nome non ce lo metti, vedi se può bastarti questa citazione.
    “I partigiani slavi agli ordini di Tito…..arrestano i “nemici del popolo”. Chi sono? Squadristi, gerarchi locali, Rappresentanti del Partito Fascista…. E fin qui…potrebbero essere vendette verso i fascisti….Processi sommari ed esecuzioni di massa non risparmiano nemmeno cattolici, antifascisti e persino comunisti…Ma perché colpire anche donne, maestri, postini, antifascisti, gente che con la politica non c’entra niente? Forse semplicemente perché gli italiani sono un ostacolo… A cosa? Al Sogno di Tito …. di realizzare …. una sola grande Jugoslavia” pag. 63 del testo dello spettacolo pubblicato dal teatro stabile “Rossetti”. Basta?
    Quanto al nazionalismo moderato, citare canzoni degli Hobbitt (“anche le pietre parlano italiano”), che credo tu sappia chi sono, non mi pare proprio moderatissimo, ma forse mi sbaglio. Come non mi pare proprio tanto moderato fare affermazioni tipo “non si può vivere senza essere italiano” (forse poteva chiedere a quel 99 e passa % della popolazione mondiale che non è italiana e che evidentemente è viva per miracolo). Ma forse sbaglio ancora.

  42. Non vorrei rigirare il dito nella piaga, ma ho appena finito di sentirmi in streaming Melog, la trasmissione radio di Gianluca Nicoletti (a volte mi piace, ultimamente meno).
    Ospite… Pansa!
    Con tutto il ricettario di informazioni, presumo vere, raccontate non come parti inevitabili di una guerra, di una reazione popolare (come tra l’altro dice egli stesso ad un certo punto) ma come esclusivo paradigma di interpretazione dei partigiani “comunisti” (i partigiani comunisti avevano altri fini dallo sconfiggere i fascisti, dice, lasciando intendere che combattessero invece per il governo dell’Italia, togliendo quindi di mezzo i partigiani “bianchi).
    Per quel che riguarda me, mi basta pensare per un attimo a Pertini per sentire le parole di Pansa, e soprattutto il suo tono, completamente fuori luogo.

    Tra le varie, Nicoletti, sollecitato da una telefonata di un ammiratore di Pansa, cita come al povero Cristicchi sia stato impedito di rappresentare la sua opera.
    Allora… da quel che ho capito io, qui, ciò non è mai avvenuto.
    Siccome Nicoletti la mena sempre sulle panzane della rete e dei media, sul sapercisivi muovere intelligentemente etc. etc., mi piacerebbe qualcuno gli comunicasse via Facebook o via Twitter (non ho entrambi) che pure lui abbocca.
    Magari, fosse onesto (come a me sembra), vi potrebbe fare su pure una puntata del suo programma.
    Non so se abbia senso o meno raccogliere il mio invito…io intanto l’invito lo faccio.

    • dimenticavo: la trasmissione di Golem interessata è quella di ieri, 27 Marzo.
      […] e visto che non mi passa il commento in quanto troppo breve, aggiungo a tutti una buona serata.

  43. Caro Livio (mi permetto di darti del tu, perchè Cime irredente è stato per me un libro fondamentale e questo mi dà una presuntuosa confidenza nei tuoi confronti…),
    non mi pare di aver oltrepassato il limite del far play nei miei scritti su Magazzino 18. Non ho mai usato termini scorretti, non ho mai avuto espressioni maleducate. Certo come da mia indole ogni tanto ho fatto qualche “witz” un po’ caustico, ma sempre con una forma decisamente urbana. Forse il mio pezzo ha una struttura da “J’accuse”, ma perchè no? Alla fin fine Cristicchi si è prestato ad un’operazione – secondo me – ambigua e come tale gli ho risposto. Se si parla di forma, ciò che invece mi lascia estremamente perplesso è il fatto che una personaggio pubblico come Cristicchi non riesca a rispondere entrando nel merito dell’argomento (se non dopo due settimane) e che invece la sua prima reazione sia quella di un sedicenne incazzato perchè qualcuno si arroga di mettere in discussione il ruolo di figo della classe che si è ritagliato.
    Comunque non è questo il punto. Scrivi che io (ed altri) insinueremmo che Cristicchi è in malafede o inconsapevolmente manovrato. Hai centrato la questione: a mio avviso il testo di Magazzino 18 effettivamente ricalca pedestremente la “vulgata” su foibe ed esodo, con tutte le banalizzazioni dell’argomento, i luoghi comuni, i vari miti che non possono essere messi in discussione, a meno di non essere etichettati con i soliti triti aggettivi di “riduzionista” o “negazionista”. Secondo me se uno abbraccia acriticamente questa vulgata, con i suoi dogmi e i suoi assiomi indiscutibili, senza nemmeno porsi domande sul se, sul perchè o sul come di determinati avvenimenti, o è uno a cui fa comodo sostenere determinate tesi, oppure è uno che viene utilizzato da altri a cui fa comodo che questa vulgata indiscutibile resti così com’è e diventi verità di Stato. Dunque effettivamente o Cristicchi è un inconsapevole strumento nelle mani di chi sta scrivendo la “memoria condivisa”, oppure, peggio, un propugnatore di ciò, perchè questo gli permette di avere una visibilità a livello nazionale e di accrescere la propria celebrità. Non vedo altre alternative, ma potei sbagliarmi.
    Sono contento che tu condivida buona parte della mia interpretazione, specialmente quella che sfata la “pulizia etnica” contro gli italiani confrontando il numero di vittime nella Venezia Giulia con quelle di Torino, Genova o dell’Emilia. Non riesco invece a capire che cosa secondo te non va nella parte riguardante i campi di prigionia, dal momento che anche questa mia conclusione si basa su un raffronto tra il numero dei POW italiani deceduti nei campi jugoslavi e in quelli russi e africani. Infine scrivi: “Se non sbaglio, Cristicchi però non ha dato credito alle strumentalizzazioni dei molti nazionalisti italiani, che cercano di alimentare l’odio etnico convincendoci che si ammazzavano le persone in quanto italiane”. Effettivamente mi pare che tu sbagli: Cristicchi dice chiaramente “Ma perchè colpire anche donne, maestri, postini, antifascisti, gente che con la politica non c’entra niente? Forse semplicemente perchè gli italiani sono un ostacolo…” Oppure: “Addirittura se parla de pulizia etnica degli italiani…”
    Concludo con una considerazione: è vero che Cristicchi ha fatto “solo” un’opera teatrale e non un saggio storico, ma è un dato di fatto che un’operazione del genere ha un bacino di utenza potenziale estremamente più vasto di qualsiasi libro di storia (specialmente dopo che lo spettacolo è passato per la Rai). Ciò che dice Cristicchi ha dunque un peso e una potenza divulgativa decisamente maggiore delle argomentazioni di qualsiasi storico. Le affermazioni presenti in Magazzino 18 dovrebbero essere quindi ancora più attente ed oculate, perchè finiranno in pasto a spettatori del tutto digiuni di quest’argomento e verranno digerite come verità più o meno assolute ed indiscutibili (lo spettacolo di Cristicchi è stato addirittura inserito nell’offerta formativa delle scuole primarie e secondarie del Comune di Firenze).
    Mi pare invece che da questo punto di vista non ci sia stata assolutamente nessuna attenzione, anzi: Magazzino 18 è già diventato una delle strutture portanti di una visione storica sempre più banalizzata, acritica, sempre più vicina alla propaganda di Stato e sempre più lontana da una corretta critica storica e da un visione scientifica degli avvenimenti.

    • Caro Piero,
      mi preme molto precisare subito che, quando accennavo al superamento del fair play su Cristicchi ed alle brutte conseguenze dei ‘dialoghi’ che scaturiscono in un’atmosfera aggressiva, NON mi riferivo a te; anche se non mi piaceva il taglio da j’accuse del tuo interessantissimo pezzo. Mi riferivo alle insistite accuse di malafede a Cristicchi (che non conosco) ed alla [secondo me] mancanza di pietas nei confronti ad esempio dei profughi istriani, che ho verificato in molti interventi alla conferenza in Via Tarabocchia 3 alle 18 del 18 febbraio (sede PRC e PdCI se non sbaglio).
      Non esistono solo “malafede”, “operazioni” etc.. Uno può fare uno spettacolo storicamente scadente per molti motivi. Ad es.: incapacità di sfuggire al cliche’ di un argomento prima sconosciuto; troppa fiducia in un amico presunto esperto; piaggeria nei confronti dei supposti gusti del pubblico; cialtroneria (diffusissima); quel po’ di nazionalismo che è un riflesso condizionato di molti noi italioti (vedi certe reazioni al “caso marò”); etc. e ancora etc..
      Ciao e cmq molte grazie. Livio

  44. Da Magazzino 18 a Sanremo e Foibe
    “libro Da Sanremo alle foibe”. Un libro che contiene interventi di:Andrea Martocchia e Tamara Bellone, Claudia Cernigoi,Sandi Volk, Piero Purini, Wu Ming, Francesco Cecchini, Paolo Consolaro, Gilberto Vlaic (Kappa Vu edizioni Collana Resistenza Storica) e che sarà la risposta a Magazzino 18
    qui, se ne avete voglia, per leggere una riflessione, ulteriore, complessiva, sulla società in genere…
    http://xcolpevolex.blogspot.it/2014/04/da-magazzino-18-sanremo-e-foibe.html#more

  45. Scusi Sirovich, ma cosa c’entra la presunta mancanza di pietas nei confronti degli esuli istriani in una conferenza con la critica di Purini allo spettacolo pubblicato qui? Le critiche sulla presunta (sottolineo presunta) mancanza di pietas doveva farle eventualmente li, non qui. Mah…

    • Qui ci sono 166 commenti etc.. non mi è neanche chiaro di chi sia la [brutta] frase «Anche noi, finalmente, abbiamo trovato il tempo e lo stomaco di vedere Magazzino 18».
      Come già dicevo, non mi riferivo a Purini. Mi riferivo a varie reazioni, fra cui lo stesso [pessimo] fallo di reazione di Cristicchi con la frase sulla P’Urina [della quale ha poi chiesto scusa], al taglio di una gomma della sua auto etc. (sul quale episodio tanto meno c’entra questo blog). C’è comunque troppo astio nell’aria [secondo me].

  46. diventa sempre piu’ chiaro cosa intendano per memoria condivisa cristicchi e i suoi mentori delle basse intese:

    https://drive.google.com/file/d/0BzjzhLZ283LBQWdKcGtwM2trVUU/edit?usp=sharing

    la memoria condivisa e’ la memoria in cui l’antifascismo e’ scandaloso.

    per quanto mi riguarda va bene cosi’: e’ giusto che l’antifascismo torni ad essere scandaloso e rivoluzionario. i muschiatini se n’erano appropriati finche’ gli faceva comodo, e a suo tempo sarebbe stato meglio impedirgli di metterci sopra le loro grinfie.

  47. La settimana prossima Cristicchi reciterà un brano di Magazzino 18 alla Camera. Si tratta del suo contributo, come invitato ufficiale, alle commemorazioni della Strage di Vergarola (o Vergarolla). Qui il link con il testo dell’intervento: https://www.facebook.com/photo.php?fbid=10152253329258579&set=a.10150503286868579.379741.27323193578&type=1&theater
    Come si può vedere, anche per chi come me non è un esperto della storia del confine nord-orientale, la ricostruzione è emotiva, allusiva, finalizzata a dimostrare un clima di terrore da cui gli Italiani non vedevano l’ora di fuggire. Si tralascia di esplicitare chi avrebbe dovuto vigilare su tale “clima di terrore”, salvo con un fugace “in città ci sono gli inglesi” che rimane decisamente ambiguo. Soprattutto, si evita accuratamente di inserire il 18 agosto 1946 nella storia. La decisione di partire viene presa quel giorno. Punto. Prima e dopo, o durante in altri luoghi del mondo, non è successo nulla.

    • A Gorizia ho ascoltato al festival éstoria una versione sulla strage di Vergarolla significativa, il 13 giugno lo studioso Dato presenterà alla Camera dei Deputati, con la deputata Garavini, la sua versione su Vergarolla ed in quella sede si chiederà all’Italia di fare luce . Cosa ha detto Dato a Gorizia? In sostanza che l’esodo, in merito ai fatti di Vergarolla, è stato un fatto secondario, e sull’autore della strage le piste sarebbero diverse,quelle più significative: o gli jugoslavi «per bloccare l’insurrezione italiana in Istria in chiave anti-croata, tra l’altro sostenuta dallo stesso De Gasperi e dal generale Cadorna»( fonte il piccolohttp://ilpiccolo.gelocal.it/trieste/cronaca/2014/05/26/news/non-fu-l-esodo-il-movente-della-strage-di-vergarolla-1.9295710 ) o monarchici e neofascisti italiani sarebbero i veri autori della strage. «Il loro intento sarebbe stato quello di provocare una guerra tra Stati Uniti e Jugoslavia, della quale loro avrebbero approfittato per riportare il Re e la dittatura in Italia»

      Io in passato sono intervenuto con delle riflessioni su Vergarolla http://xcolpevolex.blogspot.it/2013/09/si-riapre-il-caso-della-strage-di.html concludendo in sostanza in questo modo ” Potrebbe essere che le indagini non hanno portato a nulla semplicemente perché chi doveva indagare doveva essere anche giudice di se stesso?” Guardando con sospetto, diciamo così, sulla responsabilità degli inglesi.
      La questione rilevante è che al festival “conservatore” come èStoria se si è messa in discussione, in modo mica tanto pacato, la correlazione dell’esodo alla strage di Vergarolla, non è una cosa da poco conto.
      Ed infine bisogna anche interrogarsi perchè da qualche mese è riesploso il caso di Vergarolla, così all’improvviso.
      mb

  48. #Trieste e la targa della “falsa” liberazione del 12 giugno 1945, alcune menzogne dei 42 giorni di Trieste…http://xcolpevolex.blogspot.it/2014/06/trieste-e-la-targa-della-falsa.html
    perché questo intervento(linkato)? Perché è stata rinnovata la promessa, da parte di alcuni esponenti politici locali, sinistra istituzionale inclusa,di voler realizzare una targa ,a Trieste, finalizzata a ricordare il 12 giugno del 1945 come giorno della liberazione della città…

  49. Giorno del Ricordo, proposto finanziamento per la Lega nazionale e proroga per individuare “vittime delle foibe”
    http://xcolpevolex.blogspot.it/2014/07/giorno-del-ricordo-proposto.html