Oggi esce «Point Lenana». Prime recensioni e un’anteprima dal libro

Cecilia, Paul e Gideon

Alba del 27 gennaio 2010: WM1, Cecilia, Paul e Gideon sulla Punta Lenana del Monte Kenya. Foto di Roberto Santachiara.

[Point Lenana esce oggi e in rete cominciano ad apparire commenti e recensioni. Segnaliamo in particolare l’articolo di Luca Barbieri «Point Lenana, le vette della razza». Qui sotto, un brano in anteprima, tratto dalla prima parte del libro, «La scoperta, il cammino (2009-2010)». Oggi presentiamo il libro a Trieste, domani a Genova, l’8 maggio a Bologna, il 9 a Mogliano Veneto, il 10 a Belluno, l’11 a Treviso e si prosegue fino a ottobre. Qui il calendario completo delle presentazioni di maggio e giugno, le altre seguiranno.]
Karen Blixen

Karen Blixen

Durante le notti seminsonni sulla montagna, ogni tanto mi era tornata in mente la femmina di camaleonte vista alla casa-museo di Karen Blixen. Pensavo a quel laccetto bianco che le impediva di diventare parte dell’ambiente, di fuggire cambiando colore. Come mai quell’immagine mi era rimasta tanto impressa?

Nelle narrazioni incentrate sul «mal d’Africa», sulla nostalgia coloniale o neocoloniale, c’era una pulsione utopica molto vicina a quella dei racconti di alpinismo. Il continente nero aveva una connotazione simile a quella della montagna: in Africa l’europeo viveva un tempo piú fluido, piú disteso, e spesso il ricordo struggente era associato all’altura, al «verso su», alla sconfinatezza del cielo, allo sguardo che abbracciava un panorama nitido e puro.
In un celebre passaggio di La mia Africa, Karen Blixen aveva scritto:

Il tratto piú caratteristico del paesaggio, e della vita lassú, era l’aria. Ricordando un periodo passato sugli altipiani d’Africa, si ha la sensazione sconcertante di essere vissuti nell’aria. Il cielo era di solito celeste pallido o violetto, solcato da nubi maestose, senza peso, in continuo mutamento, erte come torri; ma aveva in sé un tale vigore d’azzurro da colorare anche i boschi, e le colline accanto, di una tinta fresca e profonda.
Nel pieno del giorno l’aria, in alto, era viva come una fiamma: scintillava, ondeggiava e splendeva come acqua che scorre, specchiando e raddoppiando tutti gli oggetti, creando grandi miraggi. Lassú si respirava bene, si sorbiva coraggio di vita e leggerezza di cuore. Ci si svegliava, la mattina sugli altipiani, e si pensava: «Eccomi, questo è il mio posto».

Solo che il «suo» posto erano tremila ettari di terra rubati ai Gĩkũyũ, di cui trecento coltivati a caffè. Certo, Karen era magnanima coi suoi fittavoli, curava di persona i malati, aveva aperto una scuola per bambini Gĩkũyũ. Meglio essere squatter sul «suo» terreno che su quelli di altri. Ma i suoi scritti sull’Africa erano permeati di senso di superiorità: anche se ne deplorava i risvolti piú «antipatici», Blixen non metteva mai in discussione la gerarchia presuntamente «naturale» tra bianchi e neri, l’ordine sociale e razziale che giustificava il «peccato originale» del furto di terra, quello che nessuna condotta filantropica avrebbe mai potuto compensare.
Nella prefazione a Facing Mount Kenya, Jomo Kenyatta si era scagliato contro

Jomo Kenyattaquegli «amici professionisti dell’africano» pronti a mantenere la loro amicizia per l’eternità, come un sacro dovere, a condizione che l’africano continui a far la parte del selvaggio ignorante, affinché loro possano monopolizzare il compito di interpretare la sua mente e parlare per lui.
Per gente cosí, un africano che scriva un saggio come questo sta violando il loro territorio. È un coniglio divenuto bracconiere.

Spessissimo Blixen paragonava gli indigeni ad animali, selvaggi o domestici che fossero. Il villaggio indigeno sembrava «un grappolo di tane da talpa»; i bambini Gĩkũyũ «se si cerca di rompere il loro guscio fanno come le formiche quando si infila uno stecco nel formicaio»; Kamante, il cuoco ragazzino, era bravo a badare ai cani perché «riusciva a identificarsi con essi», tanto che egli stesso serviva a tavola «come certi cani civilizzati, abituati alla compagnia dell’uomo, depongono dinanzi all’ospite un osso come un gran regalo». Piú volte la baronessa paragonava il suo amore per gli indigeni a quello per gli animali, affermava che i rapporti con gli indigeni erano piú facili se si conosceva il comportamento delle bestie selvagge eccetera. Forse, per lei, anche insegnare a leggere e scrivere era come ammaestrare un animale per poter dire agli amici: «Visto quant’è intelligente? Bravo, Fufi!»

Del resto, anche imparando a leggere e scrivere, piú in là di tanto i Gĩkũyũ non sarebbero potuti andare. In Ombre sull’erba, pubblicato nel 1960 mentre la decolonizzazione era già in corso, Blixen aveva scritto:

I Kikuyu, i Kawirondo e i Wakambo, le genti che lavoravano con me alla fattoria, nella prima infanzia erano molto piú avanti dei bambini bianchi della stessa età, ma all’improvviso si fermavano a uno stadio corrispondente a quello di un bambino europeo di nove anni. I somali erano andati piú in là e avevano la mentalità che ha la nostra razza fra i tredici e i diciassette anni.

Dunque, anche la baronessa Blixen aveva un laccetto bianco intorno alla zampa. Una specie di memento, come un nodo al fazzoletto. Grazie a esso poteva parlare coi Gĩkũyũ, lavorare coi Gĩkũyũ, curare i Gĩkũyũ, ricordandosi di non superare mai la linea del colore, di non confondere beneficenza e uguaglianza, di non mettere mai in crisi la gerarchia.
Quando Karen era arrivata in Kenya, nel mondo dal quale proveniva i valori aristocratici erano in crisi da un pezzo, ma in Africa si poteva ancora essere baronesse, e non solo di nome, ma di fatto. Il «mal d’Africa» di Blixen era nostalgia per un’Arcadia dove si era superiori al proprio prossimo senza inceppi né sensi di colpa, permettendosi anche il lusso di esser «buoni» con gli inferiori. Era nostalgia per lo status di parasite in paradise.

Ngugi wa Thiong'o

Ngugi wa Thiong’o

Da tempo gli scrittori e intellettuali keniani avevano iniziato a decostruire l’immaginario di Blixen. Ngugi wa Thiong’o aveva definito La mia Africa «uno dei piú pericolosi libri sull’Africa mai scritti», proprio perché era un bel libro, pieno di immagini e di sogni. Proprio perché Blixen era stata una brava scrittrice. Ngugi era andato a dirlo a Copenaghen, nel tempio della santa, in una conferenza che aveva fatto scalpore. E Dominic Odipo aveva scritto: «I danni che Karen Blixen ha arrecato all’immagine dell’Africa agli occhi degli stranieri sono incalcolabili», per poi aggiungere:

Il nome «Karen» sulla mappa della nostra capitale ci rende piú ridicoli ogni giorno che passa. Se una donna keniana fosse vissuta in Danimarca e avesse offeso i danesi nello stesso modo elaborato e insensibile in cui Blixen offese noi, Copenaghen non le avrebbe intitolato uno dei suoi piú importanti sobborghi.

Se queste fossero esagerazioni oppure no, stabilirlo non spettava ai bianchi.

La mattina del 28, dopo una marcia rilassata di appena tre ore, interamente su strada sterrata, arrivammo al Naro Moru Gate. I portatori ci fecero l’applauso, noi lo facemmo a loro. James, il cuoco, mi prese in disparte e mi disse: – You made it. I saw many people comin’ here thinkin’ they could do it and gettin’ sick. This was the first time for you and you did very good. Almost unbelievable.
Quando lo riferii a Roberto, commentò cosí: – Ha ragione. Sai quanti vengono qui con la spocchia, senza rispetto per la montagna e per la gente, e se ne vanno scornati?
Dopo la foto di gruppo, tutti sul matatu e via, verso il Naro Moru Lodge. Lungo la strada accompagnammo i portatori, uno alla volta, alle loro case. Baracche di legno col tetto di lamiera. Ad accoglierli davanti all’uscio, ragazze con pargoli in grembo, fratelli minori, madri nemmeno anziane. La montagna dava da vivere a tutti loro.
Mike ci lasciò al Naro Moru Lodge, dove pranzammo e riposammo un paio d’ore, poi tornò a prenderci, per portarci alla riserva di Ol Peteja.
La visita durò quattro ore. Conoscemmo Baraka, il rinoceronte nero cieco e senza corno. Lo accarezzai su una guancia, pensando a quando la mia bimba avrebbe visto la foto. Contemplammo la coolness di un ranger sdraiato sull’erba, mani giunte sotto la testa a pochi centimetri dalle zampe anteriori di un rinoceronte bianco che brucava. Ammirammo zebre, occhi e orecchie di ippopotami sul pelo di acque torbide, gazzelle di Thompson, scimpanzè che giocavano nel loro brefotrofio. Mike accompagnava spesso nostri connazionali, e conosceva il nome italiano di ogni specie: – Look, a facocero!
Macchie di alberi visti fin da piccolo in film e documentari, reminiscenze di esotismi anni Settanta e il cielo che sembrava tutto zenith, con nuvole in arco sulle nostre teste (una era identica alla Nuova Guinea), e già prima del tramonto una luna splendida e dai bordi taglienti. Sapevo di aver contratto il mal d’Africa, sapevo che ne avrei sofferto. Sí, bastava una settimana o poco piú. E la nostra settimana era stata intensa e piena come un fagotto, piena di anni e di vite. […]

Naro Moru Gate

E dunque, che razza di libro è questo?
È un racconto di tanti racconti. Parla dell’Africa (di tante Afriche) e delle Alpi Giulie, parla di Italia e «italianità», di esploratori e squadristi, di poeti e diplomatici, di guide alpine e guerriglieri. Attraversa i territori e la storia di quattro imperi.
È un racconto di racconti di uomini che vagarono sui monti. Uomini che in pianura e in città indossavano elmi, cotte di maglia, armature da ufficio, e solo in montagna si sentivano finalmente leggeri, finalmente sé stessi. La montagna era tempo liberato, rubato al dover vivere, conquistato con unghie, denti e piccozza. Quando scendevano – perché prima o poi tocca farlo – la vita li riafferrava, la gravità li tirava giú e tornavano a essere, come scrisse uno di loro che poi si tolse la vita, «i falliti». Lo furono anche nella buona sorte: qualcuno ebbe successo nella professione, girò il mondo, fece piú di una bella figura in società, poté contare su una famiglia che lo amava… Eppure, nulla di tutto ciò rimpiazzava una salita in montagna, una notte in bivacco, uscire dal rifugio e assistere in marcia al sorgere del sole.
Tutti i giorni sognavano. Sognavano il cameratismo della cordata o la pace concentrata e acuta dell’ascesa in solitaria. Tutti, senza eccezioni, sognavano il vento che sferza naso e guance mentre lo sguardo si perde dalla vetta, rivivevano l’istante prima della discesa, l’ultimo languore che precede la tristezza, la mancanza, il congedo dal mondo che non conosce il dover vivere.
Qualcuno ha detto: la vita è quel che che ti accade mentre cerchi di fare altro. Quei «falliti» siamo noi, noi che mal sopportiamo le interruzioni. «Fallito» è chi scrive queste righe: che siamo alpinisti o scrittori (e a volte siamo entrambe le cose), artisti o viaggiatori, noi non riusciamo a farci comprendere, abbiamo la testa scoperchiata e il cielo dentro, vorremmo disertare il dover vivere, chiedere asilo nel mondo alternativo che ogni tanto visitiamo, ma non si può, perché la vita è altro, la vita è quel che irrompe e spezza il filo dei pensieri, dei sogni a occhi aperti.
Per riafferrare quel filo la prossima volta, o illuderci di poterlo fare, noi scriviamo. Scriviamo appunti, resoconti, lettere, a volte romanzi.
Tra i «falliti» di cui racconteremo, la montagna fu male divenuto cura: bacillo inoculato in tenera età, tornò utile per lenire i traumi dell’educazione rigida, della corazza da «veri uomini» (quelli che non piangono e non si perdono in mollezze!), del lungo viaggio attraverso il fascismo e la guerra e, per alcuni, di una lunga prigionia, un difficile ritorno, un impossibile riadattarsi.
Quei traumi li accompagnarono per tutta la vita. Non si liberarono mai dell’armatura, ma sui monti vissero momenti di intensa gioia, sincera autocoscienza, incorazzata lucidità. Noi lo sappiamo perché ne scrissero.
Nella scrittura e solo in essa, quegli uomini furono senza difese, e anche dove cercarono di difendersi con piccole reticenze e intenzionali lacune, affidarono ai lapsus calami le loro verità. Ci hanno raccontato il mondo alternativo e dunque, per contrasto, il mondo del dover vivere.
Da qui ripartiamo. Per far tesoro della spinta che supera la «bestiale acquiescenza all’immediato», e trovare noi stessi in quelle pagine.

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134 commenti su “Oggi esce «Point Lenana». Prime recensioni e un’anteprima dal libro

  1. Point Lenana: assalto alla letteratura di montagna. Sul blog Altitudini, Lorenzo Filipaz intervista Wu Ming 1
    http://www.altitudini.it/?p=12580

    Wu Ming e il Nord-Est alla guerra coloniale. Sul Messaggero veneto, Luciano Santin intervista Wu Ming 1
    http://messaggeroveneto.gelocal.it/cronaca/2013/04/29/news/wu-ming-gia-luther-blisset-e-il-nord-est-alla-guerra-coloniale-1.6973197

  2. “Qualcuno ha detto: la vita è quel che che ti accade mentre cerchi di fare altro. Quei «falliti» siamo noi, noi che mal sopportiamo le interruzioni. «Fallito» è chi scrive queste righe: che siamo alpinisti o scrittori (e a volte siamo entrambe le cose), artisti o viaggiatori, noi non riusciamo a farci comprendere, abbiamo la testa scoperchiata e il cielo dentro, vorremmo disertare il dover vivere, chiedere asilo nel mondo alternativo che ogni tanto visitiamo, ma non si può, perché la vita è altro, la vita è quel che irrompe e spezza il filo dei pensieri, dei sogni a occhi aperti”.

    Vabbé, qui tra John Lennon e tutto quanto c’è poco da commentare; sottoscrivo e basta.

  3. Questa cosa dei benefattori colonialisti, oggi declinata in volontariato e *turismo umanitario*, è ancora bene presente. Poco tempo fa mi è capitato di leggere questo post in proposito:
    http://www.ondaliberamagazine.it/840-il-volontario-neo-colonialista-in-africa-2/

    • naturalmente continuare ad occupare da parte mia, spazio per un infinito batti e ribatti con wu ming o altri sulle varie questioni sarebbe inappropriato, visto che qui sono solo un ospite-lettore di passaggio. Ma non posso fare passare l’implicita accusa di razzismo che punto_fra mi rivolge, in un altro successivo post, senza conoscermi, senza sapere la mia storia, e basandosi solo su contrapposte opinioni storiche. E’ un’accusa che è mio dovere respingere decisamente. Io non ho detto che la guerra di aggressione coloniale fascista, è stata giusta o ha fatto poche vittime. Mi sono limitato a sottolineare che come regime dittatoriale, il fascismo non è stato dello stesso livello repressivo di altri regimi come il nazismo, e questo non vuol dire giustificare qualcosa. E’ solo un dato storico, sarà pure un fatto che il tribunale speciale fascista commino’ ante guerra, circa 7 ergastoli e 5 o 6 condanne a morte. sono sempre tante ma non paragonabili ai dati di altri regimi (i vari attentatori di Mussolini per esempio furono condannati massimo a 30 anni di carcere, pensate che Hitler avrebbe fatto lo stesso?) Quanto ai migliaia di morti tra il 20 e il 22, vittime dei fascisti, che qualcuno cita, il dato non risulta da nessuna ricostruzione storica obiettiva. E con questo non voglio salvare nè il fascismo, nè il razzismo, nè la guerra. Tutte e tre sono cose orribili, ma voglio sentirmi libero di discuterne magari cambiando idea, ma senza l’ansia di potere essere accusato di connivenza da una visione, ribadisco, manichea, confermata del resto dagli insulti che leggo su Pansa. Altro è non essere d’accordo, o sostenere che la sua ricostruzione dei fatti è parziale o sbagliata, nell’ambito di un dibattito civile, e non fanatico. In ogni caso, la mia visione sarà errata (come dice Wu ming1.. la sua però mi sembra molto poco obiettiva ed ancora esasperata dal fantasma fascista che tanto piaceva evocare negli anni 70), ma non sono certamente razzista e questo mi premeva dirlo. Amen. Non interverrò piu’ e con buona pace di wu ming, continuerò a leggere i suoi libri, perchè scrive bene ed a me piace la buona letteratura, compreso d’annunzio (magari qualcuno dovrebbe rileggersi la pioggia sul pineto prima di definirlo un poeta da strapazzo..)

      • Nell’opera Squadristi di Mimmo Franzinelli – che è praticamente lo stato dell’arte sull’argomento – c’è l’elenco delle vittime documentate della violenza squadrista. Le consiglio di procurarselo, caro Carbone.

        Quanto al Tribunale speciale (nome “tecnico” per un organo governativo che amministrava una parodia di giustizia, senza diritto di difesa per gli imputati, e comminava sentenze sommarie), dal ’27 al ’43 processò 5.619 imputati (tra i quali 697 minorenni). Ben 3898 erano operai o piccoli artigiani, più 592 contadini.
        I condannati furono 4.596.
        Gli anni totali di prigione inflitti furono 27. 735.

        Furono comminate 42 condanne a morte, di cui 31 eseguite, più 3 ergastoli.

        Dei 31 “giustiziati”, ben 26 erano sloveni (Bidovec, Marusic, Valencic, Tomazic, Kos, Vadnal, Ivancic, Bobek, Vinci, Cekada, Hrescak, Rust, Srebot, Frank, Kaluza, Bele, Dolgan, Grzina, Hrovatin, Rojc, Vicic e Zefrin) e croati (Gortan, Milos, Blecic e Grahalic).

        Angelo Sbardellotto fu condannato a morte e ucciso perché aveva *pensato* di uccidere il Duce, senza far nulla per passare all’atto pratico.

        La poesia di D’annunzio si chiama “La pioggia nel pineto”, non “sul pineto”.

      • @giacomocarbone

        “Dal ’23 al ’41 furono licenziati o trasferiti in altre province del regno 739 insegnanti sloveni e croati (650 tra il ’23 e il ’31).
        Pavel Stranj, “La questione scolastica delle minoranze slave nella Venezia Giulia tra le due guerre”, in Storia contemporanea in Friuli, a. XVII, n. 18, 1987, p. 125.

        “Nell’autunno 1927, libri slavi, presi nel saccheggiato Club sloveno di S. Giovanni di Guardiella e portati in processione per le vie di Trieste, furono bruciati sulle piazze dai fascisti.[…] Nel 1927 e ’28, venti casi di diffusione di libri slavi furono portati dinanzi ai tribunali nei distretti sloveni di Tolmino, Comeno, Aidussina e Castelnuovo d’Istria. Gli imputati furono condannati a multe fino a 400 lire, ed uno di essi fu tenuto in prigione per due mesi. Quest’ultimo, Slavko Tuta di Tolmino, era colpevole di detenere numerose copie di Prvi koraki, libretto per la prima elementare, pubblicato due anni prima col consenso delle autorità fasciste. […] Dopo che egli ebbe scontato la pena, la Corte di Appello lo assolse per mancanza di prove, ma la Commissione provinciale lo confinò per tre anni all’isola di Lipari. […] Durante il novembre e dicembre del 1928, i carabinieri del distretto di Gorizia perquisirono le case private e confiscarono più di 15.000 libri slavi.”
        Gaetano Salvemini, Il fascismo e il martirio delle minoranze, pag 40.

        “Nel primo decennio successivo alla grande guerra gli sloveni e i croati persero in Italia 488 scuole elementari, circa 400 circoli ed altrettante sedi e biblioteche, tre partiti politici, 31 testate periodiche, e gradualmente anche 300 tra cooperative e istituzioni finanziarie. Con l’italianizzazione obbligatoria dei cognomi e dei nomi, imposta a tappeto, la popolazione slovena e croata perse anche il diritto personale e sociale alla propria identità nazionale, mentre la lingua veniva bandita da ogni locale pubblico.”
        Milica Kacin-Wohinz e J. Pirjevec, Storia degli Sloveni in Italia, pag. 55.

        Nel 1929 Livio Ragusin Righi, nel pamphlet Politica di confine, giunse ad affermare che al confine orientale non esisteva alcuna minoranza nazionale, ma soltanto gruppi sparsi di “allogeni”, di popolazione “che non ha una propria storia né è legata ad alcuna civiltà, come non ha un proprio sentimento di nazionalità e non ha una cultura nazionale; essa è costituita da raggruppamenti rurali e vi si nota subito l’assenza di una classe intellettuale e della più modesta istruzione. […] Privi di una propria convinzione e di qualsiasi coscienza nazionale, essi sono sempre guidati o con la forza e l’intimidazione oppure con le lusinghe e le illusioni. E così le cose dovrebbero restare anche in futuro”
        Citato in: Milica Kacin-Wohinz, Le minoranze sloveno-croate sotto il fascismo, in “Fascismo Foibe Esodo. Le tragedie del confine orientale. Atti del Convegno organizzato dall’Associazione nazionale ex deportati politici e dalla Fondazione Memoria della Deportazione” a conclusione del XIII Congresso dell’ANED tenuto all’interno della Risiera di San Sabba.

  4. Mi sono accorto solo leggendo questo articolo che, fra le altre cose, questo libro si inserisce perfettamente anche nel percorso di ricerca di temporalità diverse, da voi (Wu Ming) esplorate da qualche anno a questa parte. La montagna come luogo in cui compiere uno scarto verso altri tempi, diversi dalla quotidianità del lavoro e più in generale del cosiddetto “byt”, è un tema che mi affascina molto e spero venga affrontato anche nel corso delle presentazioni.
    Aggiungo anch’io che la citazione di Lennon è la ciliegina sulla torta.

  5. Oggi, sulla prima pagina di Repubblica, di fianco al box pubblicitario di Point Lenana, c’era questa notizia qui:

    http://www.repubblica.it/esteri/2013/04/29/news/simone_moro_ferito_nepal-57671373/

    • Aggiungo due link che ci siamo scambiati con MrMill su twitter.
      La versione di Ueli Steck: http://t.co/6AaYEWCZgY
      La versione di Simone Moro: http://t.co/RFYBuVCxBp

      • L’alpismo dall’avere avuto un tempo spazio e interesse da parte della stampa “popolare”, oggi trova spazio solamente quando si sfiora la cronaca nera o per imprese “bislacche”. Questa brutta storia svoltasi sull’Everest ha coinvolto uno dei più conosciuti alpinisti italiani, anche fra i più “forti”, in compagnia di Ueli Steck che non è da meno. Certo bisognerà aspettare il racconto degli sherpa, al momento quel che si intuisce – anche dalle parole di Moro nell’intervista – è che uno screzio, fosse anche frutto di un fraintendimento, ha fatto saltare il tappo della condizione in cui vivono e operano gli sherpa. Una condizione non nuova, ma che sicuramente oggi è molto più critica e foriera di contraddizioni, che consegue a quel che anche Moro dice nell’intervista: “Oggi l’Everest è troppo business e troppi eroi…”

        Aggiungo una cosa sull’anticipazione di Point Lenana qui gentilmente offerta: la torta, la torta da cui è stata tagliata questa fetta qui proposta è succulenta e molto densa, i riferimenti e le citazioni che io vi leggo sono più di uno, ma vorrei scriverne con calma. La ciliegina di Lennon però non la colgo, ma ora mi avete incuriosito e di questa torta non vorrei perdermi nemmeno la ciliegia. Quindi, @salvatore_talia o @dovic, me la indicate? :)

    • Pensavo proprio alla mentalità neocolonialista, mentre frugavo la rete cercando di capirci di più sulla faccenda della rissa ad alta quota. La ricostruzione predominante – i cattivi sherpa che assalgono i bravi occidentali – mi suonava strana. E pare proprio che lo sia.

      In molti media occidentali si dice che i tre sono rimasti feriti, uno in modo abbastanza serio tanto da dover essere trasportato a valle. L’Himalayan Times di ieri riportava invece che:
      A trio of European climbers has made peace with a group of Nepali guides working on Mount Everest after a ‘terrifying’ high-altitude brawl that sparked a police investigation, officials said today. e “Both parties apologised to each other and ended the meeting amicably,” Surendra Sapkota, an official at Nepal’s Tourism Ministry told. “The three men have decided to resume their ascent,”
      http://bit.ly/YaXjvu

      Poi c’è questa opinione di Adrian Ballinger, guida himalayana, che mi pare illuminante:
      To me, the bottom line is that multiple mistakes were made by both sides. On Everest, the professional climbers (even when attempting new routes) also benefit from fixed ropes, trails broken, and rescue caches placed, primarily by the Sherpa. The professional climbers involved could have and should have chosen somewhere else to acclimatize on this day, instead of solo climbing above the rope fixing team. Everyone knew about the rope fixing effort, and other teams that would have liked to be climbing where the incident occurred respected the rope fixing effort and stayed off the Lhotse Face. Even if no rock or ice actually was knocked off by the professional climbers, and even if no rope-fixing Sherpa was injured, there was still a perception of disrespect for the effort. As part of past rope-fixing efforts on Everest, I can attest to the importance of not having other climbers pushing the team from below, or putting the team at risk from above.
      http://bit.ly/YaY0VC

      E comunque, non vedo l’ora di leggere Point Lenana. Lo comprerò cartaceo, sono all’antica. :)

      • “Proprio qui dovete venire a giocare con quel pallone? Non vedete che stiamo lavorando? Sciò!”

        Scherzi a parte, da quando l’alpinismo ha smesso di essere Lotta con l’Alpe e intorno agli anni ’70 si è trasformato in un gioco, vissuto come tale anche dai c.d. Professional Climbers (Messner stesso ammette senza problemi questo aspetto, e molti altri ne fanno orgogliosamente una bandiera) si direbbe che gli occidentali abbiano qualche difficoltà a percepire la montagna anche come un luogo dove si può lavorare e non solo come un terreno di gioco o una palestra, tanto più quanto è lontana e quanto costoso andarci.
        Si fatica a concepire che ciò che è esotico per noi è invece quotidiano, al limite banale, per quelli che ci vivono. Anzi loro stessi diventano esotici. Ma non c’è bisogno di andare fino in Nepal: bastano le nostre valli in una qualsiasi domenica di luglio, traslando gli “occidentali” in “cittadini” e i nepalesi nei nostri montanari.
        Mr Mill aveva già introdotto l’argomento qui:
        http://www.wumingfoundation.com/giap/?p=7008&cpage=1#comment-11131 (libro fondamentale).
        Probabilmente ciò che è successo da parecchio tempo nelle alpi sta succedendo in questi decenni extra Europa.

        Apro una parentesi: nell’attesa di Point Lenana ho ripreso un vecchio volume di Messner, “Il limite della vita”, non so ancora bene in base a quale associazione mentale.
        Verso l’inizio ammette di essersi posto la domanda se l’alpinismo sia anche una malattia. I termini in cui la pone sono quelli psicologici, individuali. Questa storia degli sherpa mi induce a chiedermi se la stessa questione possa essere posta in termini sociologici.

  6. “It’s been a long strange trip”. Più di quattro anni fa proprio a Trieste WM1 rilasciava ad Alberto Custerlina una delle ultime interviste prima di scalare Punta Lenana?
    http://bora.la/2010/01/01/il-mondo-intero-vacilla-incontro-con-wu-ming/

  7. Grazie a tutt* per l’intensa, partecipatissima, multietnica presentazione di Point Lenana ieri a Trieste. Se il buon giorno si vede dal mattino, sarà un buon giorno.

    • Grazie a te, per aver sacrificato il compleanno alla causa :-), e buon proseguimento a Genova! Grazie al solerte Dušan Jelinčič, 1h e 1/2 il Tg Rai regionale in lingua slovena trasmetteva l’evento “in prima pagina” subito dopo il governo Letta ( http://www.rai.tv/dl/RaiTV/programmi/media/ContentItem-eaa4e421-e042-46b9-9ef6-23625c0657ee.html#p=0 WM1 si vede solo di striscio – il sevizio parte dopo 11’54” – e poi dai, si tratta solo di una trasmissione locale, nessun tabù violato!). Purtroppo, a riprova del simpatico clima cittadino, non c’è nessuna collegialità con la redazione italiana, che non ha citato la presentazione nemmeno nella rubrica culturale (presente una speaker della redazione italiana, ma per puro interesse personale, e perdipiù appartiene alla comunità slovena!).

  8. Non amo la montagna, preferisco il mare. Ma… grazie :-)
    Nota.- Il mio commento finiva qui, ma il sistema me l’ha rifiutato perché troppo breve. Sono sintetica di mestiere, ma questo non significa che non dia importanza alla questione. Anzi, mi sono sorbita tutta la trafila dell’iscrizione, ovviamente sbagliando un paio divoltr, per poter ringraziare gli autori. Se adesso il sistema mi chiede perché sono così grata, potrei rispondere fatti miei, ma posso dire che è perché, anche in poche righe, ho sentito rappresentato, espresso chiatamente, un certo mio disagio. Cos’altro posso dire… salutatemi Luca che non vedo da decenni e scusate i refusi, il tablet mi tradisce ancora.

  9. La mazza masai che WM1 ha mostrato durante la presentazione genovese di #PointLenana si chiama “orinka” (in masai) o “rungu” (in swahili). E’ una mazza da lancio, viene scagliata fino a 100 metri di distanza:
    http://images.huffingtonpost.com/2013-01-31-rungu.jpg
    Con un colpo di rungu si può abbattere un toro. Il “bulbo” termina con un piccolo spunzone:
    http://img.auctiva.com/imgdata/9/0/7/8/9/3/webimg/638888321_o.jpg
    Un colpo calato con decisione ha un effetto devastante.

    • Purtroppo dovevo prendere l’ultimo treno e non sono rimasto fino alla fine. Spero che la mazza stavolta sia solo stata mostrata…

      Un commento/domanda che mi è venuto in mente ripensando alla presentazione e leggendo la prima parte del libro. Il punto, che possiamo dire fondamentale, in cui Benuzzi si rende conto che la «azione concentrata» non esiste o non ha senso, mi sembra importante non solo per lui ma anche per Wu Ming. Ci ritrovo il nocciolo della riflessione post-Q e post-G8 che avete fatto già anni fa. E mi sembra una bella cosa.

  10. segnalo la recensione di giglioli sul corriere:

    http://www.giugenna.com/2013/05/04/point_lenana/

    uhm, il commento e’ troppo breve, quindi ne approfitto per scrivere: smrt fašizmu – svoboda narodu.

  11. Un libro scritto bene ma che lascia una sgradevole sensazione. Le pagine sono avvincenti, la ricostruzione storica risulta interessante, ma resta incomprensibile l’emergenza che sembra permearlo. Lo spunto è una vicenda emozionante e bellissima, un impresa quasi eroica di tre prigionieri italiani. Ma per gli autori, essere soltanto degli italiani, durante la II guerra mondiale, sembra essere una colpa. Dal libro emerge ossessivo, l’intento di abbattere qualsiasi motivo nazionalista o simbolico che possa essere minimamente essere sotteso a quell’impresa. Ed allora le pagine si risolvono nel preordinato annientamento di qualsiasi sottointeso patriottico. C’era bisogno mi chiedo? Bastava scrivere un libro sulle nefandezze del colonialismo, del fascismo, del Maresciallo Graziani, passando per una presunta irrilevanza dei foibe, giusto per non farsi mancare nulla, senza necessità di scalare il Monte Kenia e ruminare sulla scalata di Benuzzi e compagni. Forse gli autori hanno ammirato i nostri eroi inizialmente, ma poi quella bandiera tricolore piantata in vetta non l’hanno digerita proprio. Bè allora avrebbero potuto cambiare storia, ma questa, alla fine, risulta essere sviata e distorta senza alcuna ragione apparente. (Giacomo Carbone)

    • “Forse gli autori hanno ammirato i nostri eroi inizialmente, ma poi quella bandiera tricolore piantata in vetta non l’hanno digerita proprio.”

      Forse abbiamo letto due libri diversi perché per quel che ho capito io il processo è stato esattamente l’inverso…

    • la ragione c’e’, ed e’ pure “apparent”: lasciare una sensazione sgradevole a chi ritiene che si possa essere “soltanto degli italiani”. direi che lo scopo e’ stato raggiunto :-)

      • Ma i tre che salgono sul monte ci vanno soltanto da italiani, quindi non c’era bisogno di prendere spunto dalla loro storia, per ricordarci che si deve essere anche altro. Che poi anche dei semplici italiani, possano avere compiuto un atto coraggioso e patriottico (in senso positivo), capisco possa irritare una certa storiografia, ma non c’è bisogno di costruirci un libro storico (sicuramente ben scritto) per tentare di dimostrare che quell’atto ha valore soltanto se nel compierlo, i protagonisti accettano una diversa visione del mondo. Ogni qualvolta di distorce un fatto in favore di un’idea, sia essa anche giusta, la sensazione sgradevole resta e lo scopo, hai ragione, così è stato raggiunto.

        • in che senso il fatto sarebbe stato distorto?

          che cos’e’ un “semplice italiano”? ammesso e non concesso che esista “il semplice italiano”, cioe’ l’uono (o la donna) che non possiede altre qualita’ oltre all’essere italiano/a, in che senso benuzzi sarebbe un “semplice italiano”? uno che nasce a vienna, cresce bilingue e biculturale, si sposta a trieste – quella trieste – attraversa il fascismo senza porsi troppe domande, ma poi sposa un’ebrea tedesca e si trasferisce in a.o.i. per sottrarla alle leggi razziali… cosa c’e’ di “semplice”? cosa c’e’ di “semplicemente italiano”? a me pare che sia tutto il contrario. mi pare che benuzzi non sia ne’ “semplice” ne’ “italiano”, e che proprio per questo, raccontare e leggere la sua storia imponga di assumere un punto di vista ne’ italocentrico ne’ italocentrato, un punto di vista che obbliga a guardare in certi coni d’ombra della nostra storia.

          che cos’e’ il patriottismo? che cos’e’ la patria?

          • ecco un aspetto che finora e’ stato toccato poco: questo libro rompe i coglioni. cio’ e’ bene, molto bene.

          • Vero, personaggio complesso Benuzzi, difficile definirlo, ma certamente uno che evade da un campo di prigionia per piantare la bandiera dell’Italia su un monte e poi riconsegnarsi alla prigione, patriottico lo era certamente. Altrimenti poteva lasciarci un bigliettino con il proprio nome sulla vetta e non il tricolore. Difficile poi definire il concetto di patria in poche parole senza intrappolarsi in retoriche datate. Patriottico era Gandhi, lo erano i vietcong, lo sono i palestinesi, non lo sono piu’ gli italiani, se non quando gioca la nazionale di calcio. Meglio cosi’? Forse si, forse…

            • “Patriottico lo era certamente”

              E infatti nel libro è descritto come tale, lo si cita quando si definisce tale, e si rintracciano le origini del suo amor di patria – espressione più volte utilizzata – nell’irredentismo del nonno.

              Solo che non ci siamo fermati a questo, ma abbiamo *problematizzato* e *contestualizzato*, abbiamo esaminato cosa significasse l’amor di patria (non solo il suo) in Italia e in quella temperie, e quale e quanta realtà servisse a occultare la retorica sulla “italianità”, sulla patria “proletaria” che meritava “un posto al sole” etc.

            • in che modo, in che modi, sono stati patriottici “gli italiani”? era patriottismo quello che spingeva i soldati a farsi falciare dalle mitragliate sul sabotino? o era grappa? erano patrioti i partigiani? erano patrioti i “ragazzi di salo'”? era (solo) patriottismo quello che spense benuzzi a scalare il kenya, o era (anche) qualcos’altro, qualcosa di cui si si rese conto solo dopo? perche’c’e’ sempre un dopo, l’ “impresa” non si esaurisce in se’, e questo e’ benuzzi stesso a dirlo.

          • Secondo me “semplici italiani” è un ossimoro. La nazionalità non è mai un concetto “semplice”, il peccato originale di ogni nazionalismo è sempre cercare di definire la nazionalità come un atomo, come un quid elementare indefinibile, come la casella di un modulo che può assumere solo alcuni valori discreti. È il rettangolino “razza” del foglio di immigrazione, dove Einstein scrisse “umana”.
            Avere una nazionalità è sempre un problema complesso, che per essere raccontato richiede appunto di problematizzarne la complessità. Chi vuole libri semplici che parlino di semplici italiani rischia di trovarsi in mano libri semplicistici e sempliciotti. Forse è facile sapere “come muore un italiano”, i nazionalismi amano occuparsi solo di nascite e di morti; ma c’è anche della roba in mezzo piuttosto interessante, che sfugge un po’ agli schemi, ed è la vita.

        • Caro Carbone,

          certamente lei rimarrà sulla sua posizione, cioè penserà che noi abbiamo “distorto” il senso dell’impresa di Benuzzi, Balletto e Barsotti, e noi rimarremo sulla nostra, cioè convinti che la nostra ricostruzione della vita di Benuzzi e Balletto prima e dopo (noi l’impresa in sé non la raccontiamo: raccontiamo quel che c’è intorno) sia basata sull’interpretazione di ciò che essi stessi hanno scritto.

          Sia chiaro: il patriottismo di Benuzzi nel nostro libro è raccontato con dovizia di dettagli, ricostruito nel suo divenire personale e storico; ma è egli stesso a scrivere che il tricolore portato in vetta, oltre che essere un vessillo patriottico, simboleggiava un più vasto desiderio di libertà e riscatto umano.
          Ed è sempre Benuzzi, nel suo libro in inglese, a ricorrere all’understatement e all’ellissi per togliere un un po’ d’importanza al tricolore a vantaggio di altri aspetti della vicenda e della narrazione. A dimostrazione che non era il tricolore il fulcro della vicenda, ma il desiderio di libertà e di recupero di una dignità lesa dalla prigionia (a sua volta conseguenza della guerra fascista).

          Cosa significhi essere “semplici italiani” non mi è chiaro: Benuzzi non era in Africa da “semplice italiano” ma da funzionario del governatorato generale di Addis Abeba, dipendente del ministero dell’Africa italiana. Questa è la premessa storica e logica della sua presenza a Nanyuki nel 1942-43, della sua prigionia e della sua fuga.
          Dato che il nostro scopo era contestualizzare quella vicenda per poi interrogarla partendo dai piccoli accenni che Benuzzi sceglie di non sviluppare, era assolutamente necessario spiegare cosa fu l’Africa Orientale Italiana, come gli italiani giunsero ad Addis Abeba e come e perché dovettero lasciarla.

          Solo descrivendo l’orrore delle due guerre che fanno da premessa alla vicenda di “Fuga sul Kenya” (la guerra d’Etiopia e la seconda guerra mondiale) si può comprendere appieno il rifiuto della guerra che è presente in ogni riga del libro di Benuzzi.
          Faccio altresì presente che il disprezzo per Graziani che trasuda da Point Lenana era condiviso da Benuzzi stesso. E che la sua presa di distanza dal fascismo è un dato di fatto: dopo l’8 Settembre cooperò con gli Alleati, e nello scritto “Quattro, quattordici o mai” descrive il fascismo senza mezzi termini come “dittatura” e “totalitarismo”.

          Ancora: solo descrivendo la fascistizzazione dell’alpinismo associato negli anni ’30 si capisce la radicale differenza tra il modo in cui Benuzzi racconta la sua impresa del ’43 e la pesante retorica della scrittura di montagna dell’epoca. Retorica alla quale Benuzzi rimase in gran parte immune grazie all’influsso di Julius Kugy.

          Analogamente, solo descrivendo l’italianizzazione forzata della Venezia Giulia si capiscono bene il contesto in cui Benuzzi crebbe e lo sguardo retrospettivo che, da vecchio, gettò sulla propria infanzia in “Più che sassi” (con tanto di considerazione sull’essere cresciuto col paraocchi “come i cavai de Dreher”).

          A conti fatti, in Point Lenana non c’è nulla che non abbiamo sviluppato a partire da quel che abbiamo trovato negli scritti di Benuzzi (accenni criptici da decodificare, ricordi iniziati e non conclusi, nomi che si richiamano etc.)

          Se a un libro lei chiede l’ennesima celebrazione acritica del “bravo italiano” che pur nella sorte avversa, con tenacia e arte d’arrangiarsi, esce dalla situazione in cui altri lo hanno cacciato etc. etc., sono tanti i titoli sul mercato. Rivolgendosi a noi, doveva aspettarsi di trovare altro.

          Ad ogni modo, quel che trovo significativo è che, nonostante la “frizione” ideologica e il giudizio politico negativo, lei non abbia potuto fare a meno di trovare il libro avvincente, e abbia ripetutamente lodato la nostra scrittura. E’ indice di un alto potenziale di… penetrazione.

          • Caro Wu Ming 1, La ringrazio innanzitutto per la sollecita ed approfondita risposta. Non ho difficoltà a ribadire, da umile ma accanito lettore, che il libro, dal punto di vista letterario è un gran bel libro, che si legge con estremo piacere. Ma non equivochi il senso delle mie obiezioni, che non era certo quello di difendere Graziani e compagnia varia. Le assicuro però che accanto alle tante celebrazioni acritiche del bravo italiano travolto dagli eventi, ci sono , e soprattutto ci son state, innumerevoli celebrazioni del concetto di patriottismo come foriero assoluto, sempre e comunque, di crudeltà, dittature spietate e razzismi indiscriminati. Bene, se questo paese è cosi minato dall’affarismo, dalla mancanza di etica e morale pubblica, dall’evasione fiscale, lo dobbiamo anche all’annientamento miope di tutto ciò che è connotato al sentimento di patria, e che non è solo negativo. Giusto per spiegare meglio le mie parole, se sono un’amministratore pubblico, sarò meno facilmente corruttibile,se ho dentro un sentimento di devozione ed affezione verso il mio paese, e non di indifferenza assoluta. Ribadisco, come in un precedente commento, a loro modo Gandhi, Mandela, i vietcong, i palestinesi,i curdi, i mau mau, o tanti altri, sono esempi di patriottismo. Insisto, il suo libro è intessuto di una volontà pervicace di raccontarci quanto siamo stati brutti e cattivi, ma non trovo il nesso con l’impresa di Benuzzi, se non nella paura che raccontare quell’impresa, poteva significare celebrare le idee fasciste e coloniali. Per me resta una paura ingiustificata e che rischia di distorcere la vicenda. Giudizio naturalmente personalissimo che non mi impedisce di complimentarmi ancora per il valore della sua scrittura, aldilà di ogni schermaglia “patriottica”.

            • se l’identita’ nazionale italiana si e’ costruita (anche) sulla prevaricazione degli altri, questa cosa va sviscerata. se l’identita’ nazionale non e’ allo stesso tempo coscienza critica dell’ identita’ nazionale, allora il patriottismo diventa veramente l’ultimo rifugio delle canaglie.

              p.s. non e’che un amministratore pubblico di idee luxemburghiste sia piu’ corruttibile di un nazional-alleato, eh :-D

        • “i tre che salgono sul monte ci vanno soltanto da italiani” è un’affermazione per me ancor più incomprensibile del tuo primo “essere soltanto italiani”, proprio non riesco a capire cosa tu voglia intendere. Sicuramente i tre hanno compiuto un’azione coraggiosa, ma gli elementi – non pochi – fornitici in Point Lenana (ma anche da Benuzzi in Fuga sul Kenya) ci suggeriscono che di patriottico ci fosse poco, pochissimo in quell’azione. Non si distorce nulla, si documenta anzi, si scava partendo dalle tracce disponibili nella storia personale, nella cultura e nel blocco sociale in cui la personalità di Benuzzi si è formata; soprattutto lo si fa per offrire un quadro che renda la complessità di singole vicende umane inserite negli ingranaggi della storia. Tu dici che è un fatto che “i tre che salgono sul monte ci vanno soltanto da italiani”, io credo che questa tua sia un’interpretazione ideologica, cioè una lettura fatta attraverso una lente – non palese – che attribuisce a un fatto un determinato significato. E lo fai in poche righe, mentre WM1 e Santachiara lasciano al lettore la possibilità di farsi una propria idea in seicento e rotti pagine, colme di fatti.
          Se Point Lenana ti ha lasciato una sgradevole sensazione, se vuoi discuterne con altri lettori, forse dovresti rimettere tutto a fuoco e riprovare a farti capire…

          • caro Mr Mill, non posso certo pretendere di avere 600 pagg a disposizione per spiegarmi, mi sembra scontato che debba utilizzare le poche righe a commento, e ci ho provato soprattutto nella risposta all’autore del libro. Ma lungi da me qualsiasi interpretazione ideologica o di volere in questa sede confutare i tanti dati storici del libro. Ribadisco, se uno va su un monte a piantare una bandiera italiana, trovo incomprensibile la motivazione di un libro che parta da quell’episodio per raccontarci quanto il concetto di patria italiana abbia fatto male al resto dell’umanità. Resta una mia umile opinione personale e non voglio convincere nessuno di nulla, nè essere fautore di idee o ideologie. Ma non posso fare a meno di cogliere occasione in questa risposta, per rappresentare all’altro commentatore che si firma Tuco, che se pensa che i ragazzi che si facevano falciare dalle mitragliatrici austriache, erano soltanto dei poveri ubriaconi di grappa, egli è molto lontano dalla realtà della storia. Io ci ho parlato con molti di quei ragazzi quando ormai erano degli indifesi vecchietti, avevano si maturato l’orrore per la guerra, ma le motivazioni che li avevano spinti a resistere alle mattanze degli assalti alla baionette, non erano certo dettate dall’incoscienza dei distillati friulani.

            • certo, c’era anche il plotone d’esecuzione.

              sai com’e’, mia nonna ci viveva sulla linea del fronte, e le cose le ha viste e poi le ha raccontate. pare che la memoria olfattiva sia la piu’ duratura: l’odore di grappa e di merda che si sentiva dopo gli assalti non lo ha mai dimenticato.

              • da “uomini contro” (francesco rosi, 1970)

                http://www.youtube.com/watch?v=9vLEKgTXl7Q

                « Per Uomini contro venni denunciato per vilipendio dell’esercito, ma sono stato assolto in istruttoria. Il film venne boicottato, per ammissione esplicita di chi lo fece: fu tolto dai cinema in cui passava con la scusa che arrivavano telefonate minatorie. Ebbe l’onore di essere oggetto dei comizi del generale De Lorenzo, abbondantemente riprodotti attraverso la televisione italiana, che a quell’epoca non si fece certo scrupolo di fare pubblicità a un film in questo modo. »

    • Invece secondo me questo libro poteva partire solo dal tricolore piantato da Benuzzi e Balletto sulla punta Lenana. La sgradevole sensazione che indubbiamente si avverte non è imputabile al libro e ai suoi argomenti quanto al nodo irrisolto del “patriottismo istituzionale” italiano che fin quando non riuscirà ad abiurare con nettezza il passato fascista e i suoi crimini (sarebbe impensabile per il patriottismo tedesco rivalutare Himmler, per dire, alla stregua di certi presunti patrioti italiani che rivalutano Graziani), fin quando non riuscirà a slegare l’amor di patria dal revanscismo neoirredentista (quello che parla di foibe come di genocidio, per intenderci, al di fuori di qualunque verità storica), rimarrà maleodorante e… alquanto sgradevole!
      I Mau Mau erano patrioti, è indubbio, così come lo furono i partigiani italiani e pure quelli dell’osvobildna fronta, così come lo fu Benuzzi. Ma il patriottismo di costoro, il patriottismo degli oppressi non ha nulla a che vedere con il presunto patriottismo di Ruggero “Fauro” Timeus, Rodolfo Graziani o Cesare Maria De Vecchi, quel patriottismo che si esprime “a scapito di altre patrie” che purtroppo continua ad essere celebrato in Italia. Ve la immaginate la Merkel a sostenere gruppi che rivendicano Danzica, la Slesia e la prussia orientale? è inconcepibile, non in Italia, dove il cosiddetto “patriottismo” è ancora legato mani e piedi al revanscismo, al neo-irredentismo e al revisionismo storico quando non al negazionismo.
      C’era proprio bisogno di Benuzzi e del suo patriottismo, un patriottismo che può associarsi ad un anelito personale di libertà, che può associarsi ad una ferrea condanna di fascismo e colonialismo e che può convivere con il cosmopolitismo (innegabile in Felice), per mettere in evidenza questo nodo occultato da quella che io chiamo “falsa coscienza nazionale”, quella che qui a Trieste, per esempio si esprime oggi contro la civica benemerenza assegnata a Boris Pahor http://ilpiccolo.gelocal.it/cronaca/2013/06/10/news/trieste-civica-benemerenza-allo-scrittore-boris-pahor-1.7228399 In un paese moderno, civile, patriottico quanto si vuole, questa falsa coscienza non avrebbe diritto di cittadinanza e non le sarebbe consentito di orientare il discorso nazionale. Anche perché essa impedisce di studiare la storia, mettendo in luce ad esempio la violenta lotta politica che si scatenò sul confine orientale all’indomani della 2° G.M , che tuttavia nessun storico serio si sognerebbe mai di associare alle deportazioni di massa e agli eccidi che gli italiani inflissero a sloveni e croati nel corso della guerra. Finchè il “patriottismo” italiano non riconoscerà i propri crimini contro l’umanità (mai visto un presidente della repubblica recarsi ad Arbe per esempio http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2003/10/30/quando-gli-italiani-uccidevano-parlano-superstiti-del.htmlhttp://www.linkiesta.it/campo-concentramento-italiano-rab-dimenticato ) e i propri macellai, come Graziani, Roatta, Robotti e tanti altri, continuerà a risultare “sgradevole”. Aver “liberato” questo “fetore” è sicuramente uno dei meriti extraletterari maggiori di Point Lenana.

      • bè se non altro ne è scaturito un bel dibattito. Continuo a non capire cosa c’entri il tricolore piantato da Benuzzi con il fetore dei crimini descritti da Lo.Fi. Chi ha compiuto crimini quel tricolore lo ha tradito, e quindi non c’è nessuna connessione. Quanto all’abiura del fascismo, mi pare che questa repubblica lo abbia abiurato abbondantemente, visto che ricostituirlo sarebbe pure un reato previsto dalla costituzione. Quanto ai crimini contro l’umanità, certo è sempre urgente un riesame storico per ricordarne gli autori, sia di quelli “italiani” sia di quelle compiuti da altri popoli. Non so se le foibe siano state un genocidio, e non sto a contare i morti, comunque c’entrano nulla con benuzzi, comunque sono stati crimini anche quelle

        • Già, il punto è proprio che Benuzzi non c’entra nulla, vallo a spiegare a Il Giornale http://pointlenana.tumblr.com/post/52399866904/il-giornale-batte-libero-sulle-vette-dellepica

        • @giacomo carbone

          mi pare che tu ti stia contaddicendo. tu affermi che il tricolore piantato da benuzzi sul point lenana non e’ lo stesso che sventolavano i “ragazzi di salo'” (by the way: che espressione idiota!) quando rastrellavano partigiani, ebrei e slavi. bene, sono d’accordo. ma questa affermazione va dimostrata e argomentata, ed e’ precisamente quello che viene fatto nel libro: per far capire che non e’ lo stesso tricolore, bisogna ben spiegare che cos’era quell’altro tricolore.

          p.s. troppo comodo dire che i criminali di guerra tradirono il tricolore. in quel periodo storico il tricolore significava esattamente quello: guerra e sopraffazione. tutta quella merda, il colonialismo, il fascismo, eccetera, e’ endogena, e’ merda nostra, e’ un prodotto del modo in cui si e’ costruita l’identita’ nazionale. riconoscerlo e’ un passo non evitabile, se si vuole ri-semantizzare quella bandiera.

          • allora provo nuovamente a chiarire. Io credo che esista un sentimento di patria e di identità nazionale italiana che va aldilà dal dato politico. Questa identità è stata combattuta, salvo poche eccezioni, dalla nostra storiografia, sia di natura marxista che di stampo cattolico, entrambe geneticamente votate ad una visione che deve prescindere e superare il concetto di popolo nazionale. Ma Benuzzi pianta un tricolore sul monte Kenia, è un gesto altamente simbolico che connota la sua impresa in nome dell’Italia e per l’Italia. Precisare che per riconoscere il coraggio di quel gesto occorre estraniarlo non solo dalle idee fasciste del tempo ma anche dal sentimento di patria, resta una forzatura ideologica e straniante. Io mi sento italiano, e non ho bisogno di dovere premettere che rinnego questo o quello, per affermarlo e per affermare che sono commosso che un’impresa cosi’ coraggiosa come quella di Benuzzi, sia stata compiuta da un italiano ed anche in omaggio alla mia patria. Ma mi rendo conto che tutto ciò ancora continua a dare fastidio e si continua erroneamente a confondere la patria, con la mistica fascista e quella roba là. La patria e la bandiera tricolore, non sono esclusiva di nessuno, nè dei fascisti nè dei socialisti, nè dei partigiani, ma appartengono a tutti gli italiani che le avvertano come tali. Cosi come le sopraffazioni e le violenze nelle terre di confine, gli italiani le hanno compiute è vero, ma ne hanno anche subite terribili dai nostri vicini, ed anche in tempi ben precedenti all’avvento del fascismo. P.s. Se dovessi narrare l’assedio Stalingrado e l’eroismo della resistenza del popolo russo che difendeva la propria patria, secondo la vostra impostazione, per riconoscerlo dovrei per forza precisare che però Stalin aveva compiuto massacri a iosa, era antiebraico ed un tiranno crudele, si era alleato gioiosamente con Hitler per annettersi con brutalità la Finlandia, etc etc?

            • Ciao Giacomo, qualcuno diceva “Togli prima la trave dal tuo occhio e allora ci vedrai bene per togliere la pagliuzza dall’occhio del tuo fratello”. L’errore che stai facendo è quello di vedere Point Lenana come un libro scritto dai comunisti con il fine di denunciare i crimini fascisti, piuttosto dovresti vederlo sopratutto come un libro scritto da italiani che riflettono sulla storia del proprio Paese, o della propria Patria se così preferisci, e infine sfatano il falso mito degli “italiani brava gente”. Quindi qui il paragone con Stalingrado e Stalin è un po’ fuoriluogo, è un lavoro che puoi chiedere a qualche romanziere russo no ai Wu Ming.
              Noto che non hai apprezzato in sé il contenuto del libro, io trovo invece che limitare a puro patriotismo, così come lo vedi tu, il gesto di Benuzzi sarebbe stato davvero troppo superficiale. Infatti il pregio di Point Lenana è quello di contestualizzare l’intera vicenda, che la storia degli italiani in Africa sia caratterizzata da massacri e dal genocidio è un dato di fatto, non è una lettura personale degli scrittori.
              Non si può capire fino in fondo l’impresa di Benuzzi e compagni, se prima non si capisce in che contesto è avvenuta, Point Lenana aiuta a capire il significato più profondo di quella scalata, compreso il tipo di patriotismo proprio del Benuzzi.
              Infine, e qui chiudo, il fatto che il romanzo si sia avvalso della collaborazione di Stefania Benuzzi e figlie, che penso di aver capito abbiano approvato in toto l’opera (o sbaglio?), sia un punto in più per il modo in cui sia stato costruito.

              • basta leggere il mio primo commento e la risposta all’autore, per vedere che io il libro comunque l’ho apprezzato

              • Ovviamente ho letto i tuoi commenti prima di rispondere, ho fatto riferimento alle tue critiche
                “senza necessità di scalare il Monte Kenia e ruminare sulla scalata di Benuzzi e compagni”
                Ruminare sulla scalata di Benuzzi e compagni è proprio la sostanza dell’opera.
                Poi ovviamente avrai avuto altri motivi per apprezzare il libro ma il discorso non è questo.

            • esatto.

              http://www.wumingfoundation.com/giap/?p=6524&cpage=1#comment-10363

              p.s. la forzatura ideologica e’ la tua, e consiste nel considerare l’identita’ nazionale come “qualcosa che va al di la’ del dato politico”, cioe’ qualcosa di trascendente e di monolitico.

              • ovviamente il mio commento era rivolto a giacomo carbone.

                ora scrivo qualcos’ altro per non farmi cassare il commento dal perfido sistema.

            • lo dico con parole mie. se si vuole scrivere di stalingrado, se si vuole restituire la dimensione epica di quella battaglia, bisogna spiegare perche’ i tedeschi erano arrivati a stalingrado. e quindi bisogna parlare delle purghe e di cosa fu lo stalinismo. e bisogna fare piazza pulita della retorica stalinista della “grande guerra patriottica”, che guarda caso piace tanto ai rossobruni.

            • @giacomocarbone

              Ma se dal concetto di patria italiana togliamo qualunque riferimento storico e concreto, non è che non resta niente?

              Il tricolore è una bandiera francese modificata, quindi inizialmente ci parla della Rivoluzione Francese. Poi ci appiccicano sopra lo stemma di quelle carogne dei Savoia. Poi i fascisti per un paio d’anno ci mettono l’aquila e il fascio. Poi c’è il referendum e restano solo le tre fasce colorate come nel Risorgimento. Si può distillare un “tricolore chimicamente puro” che non abbia niente a che vedere con i giacobini, con Napoleone, coi Savoia, col fascismo e col referendum?

              La rivista dell’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia si chiama “Patria”. Il simbolo dell’ANPI ha due bandiere tricolori e in mezzo un misterioso rettangolo rosso: che cos’è quel rettangolo rosso? Durante la guerra partigiana c’era chi usava il tricolore con una stella rossa in mezzo; un amico mio lo portò una volta a una commemorazione resistenziale e un vicesindaco leghista col fazzoletto verde nel taschino gli disse che era illegale modificare la bandiera nazionale!

              In Spagna alle manifestazioni di sinistra la bandieraccia monarchica (rosso-giallo-rossa) è bandita, si usa quella della Repubblica Spagnola (viola-giallo-rossa). Sono due bandiere che alludono alla stessa patria? o sono due patrie diverse?

              I nazisti dicono che la bandiera della Germania non è quella attualmente in uso, nera-rosso-oro, quella del 1848 e della Repubblica di Weimar, che fu usata anche dalla DDR. Loro usano la bandiera imperiale, rosso-bianco-nera, e secondo loro la patria include anche l’Austria e mezza Europa orientale. In Austria i neonazisti cantano “Germania, patria nostra”, in un certo senso rinnegano la loro nazione austriaca.

              Non si può imporre un ordine artificiale a questo guazzabuglio se non al costo di semplificare così tanto da arrivare a parole vuote, che non significano un cazzo. La storia non “sporca” i valori astratti e puri della patria, la storia *crea* quei valori, e spesso se li inventa di sana pianta.

              Ho visto un pacchetto di sigarette bosniache; c’è scritto “Il fumo provoca impotenza” in “tre lingue”: in serbo, in croato e in bosniaco. Il serbo e il croato si distinguono essenzialmente per l’uso di due alfabeti diversi, ma la pronuncia delle parole (almeno in questo caso) coincide; in Jugoslavia a scuola si scriveva un giorno in latino (croato) e l’altro giorno in cirillico (serbo). Ma la cosa più grottesca è il “bosniaco”, lingua inventata durante la guerra: è *identico* al croato, stesse lettere, stessi segni diacritici, tale e quale. La stessa frase ripetuta due volte. E allora non solo il fumo, anche scontrarsi di fronte a una follia simile dà un senso di grande impotenza.

            • @giacomocarbone

              A parte che secondo me non esiste niente che vada “aldilà del dato politico”, nemmeno mettersi le dita nel naso, dal momento che PL è anche un libro di alpinismo provo a buttarla un po’ da quella parte, e mi tengo sul facile.
              Reinhold Messner è italiano? Nato e cresciuto in una valle dove si parla praticamente solo tedesco, italiano studiato nelle scuole alte, parlato più che bene ma vissuto come noi possiamo vivere la lingua inglese, libri pubblicati normalmente prima in tedesco che in italiano, mai piantato (se non ricordo male) nessun tricolore da nessuna parte, diventato famoso “nel bene e nel male” come specialista di alte quote partecipando a una spedizione austriaca. Al di là delle strumentalizzazioni che fanno comodo ai media, e che il soggetto ha sempre cercato di scrollarsi di dosso, e al netto del cospicuo aiuto da due importanti sponsor italiani a inizio carriera, dove risiede l’italianità (o la non-italianità) del primo uomo che ha scalato tutti i quattordici ottomila?
              Spero che sarai così gentile da esprimerti in merito. Grazie.

              • io non so se Messner si sente austriaco , italiano o tedesco o altro. Credo siano fatti suoi. Benuzzi si sentiva certamente italiano, ed infatti ha piantato un tricolore sulla vetta del Kenia. In ogni caso prendo atto di avere scatenato una piccola sollevazione di scudi, che mi conferma che il concetto di patria italiana è per molti piuttosto irritante, come non accade in nessun altra nazione del mondo. E’ purtroppo uno dei motivi di decadenza di questo paese (opinione personale). Certo inizio, in questo blog, a sentirmi un po’ solo contro tutti, ma come diceva Oscar Wilde “Ogni volta che la gente è d’accordo con me provo la sensazione di avere torto”. Quindi meglio così..

              • Più che un’alzata di scudi hai dato vita a una bella discussione, è un peccato se tu la dovessi abbandonare così.
                Anche perché non hai dato risposta a un quesito a cui sei stato sollecitato sopra: cosa intendi tu per patria ed essere patriottico?
                Io posso considerarmi patriottico nella difesa del patrimonio artistico, culturale e paesaggistico. Tu puoi considerarti patriotico nel “salviamo i nostri marò”. Si hai sollevato un tema spinoso ma è normale visto come è stato strumentalizzato il concetto nella storia italiana.

              • @giacomocarbone
                Non mi sono spiegato bene, ci riprovo partendo da una tua frase:
                “il concetto di patria italiana è per molti piuttosto irritante, come non accade in nessun altra nazione del mondo. E’ purtroppo uno dei motivi di decadenza di questo paese”.
                Personalmente non sono nella posizione che descrivi. Non è la patria italiana (che come concetto non esiste) che mi irrita, ma il concetto di patria a prescindere. Per me tutte le bandiere hanno lo stesso valore, nella migliore delle ipotesi sono simpatici cromatismi, nella peggiore sono asciugapiatti un po’ buzzurri. Tutte le patrie per me sono soprusi, quella alla quale sono iscritto mio malgrado mi pesa esattamente come mi peserebbe qualsiasi altra. Le patrie sono strumento di sopruso e di morte, sono pretesti per organizzare gli sfoghi dei pistoleri e stabilire frontiere fasulle. Le frontiere che contano non sono mai verticali, di qui/di là, ma è sempre e soltanto una sola orizzontale: sopra/sotto. Mi pare che mai prima d’ora nella storia questo fatto sia stato tanto evidente su scala planetaria.
                Inoltre non credo, come tu sostieni in termini malinconici, che in Italia siamo più refrattari a questa distorsione mentale: dal mio punto di vista significherebbe che gli italiani sono più furbi e per assurdo dovrei darti ragione.
                Forse siamo d’accordo su Wilde: ognuno di noi due pensa di appartenere a quella minoranza un po’ snob che non è d’accordo con nessuno. Peccato che Wilde non fosse italiano. Dai, facciamoci una risata ;-)

  12. cmq questo non c’entra nulla con la discussione sul libro, nè intendo essere accumunato ai vari de lorenzo.

    • invece c’entra, eccome. sulla grande guerra, sui motivi per cui e’ scoppiata, sul modo in cui l’italia ci e’ entrata, sul modo in cui e’ stata combattuta, ci sono cumuli di retorica da rimuovere. non e’ una faccenda che riguarda solo l’italia, ovviamente. in francia “orizzonti di gloria” di kubrick fu proiettato per la prima volta nel 1975, diciassette anni dopo l’uscita in usa. in questi giorni in uk si sta discutendo molto aspramente su come ricordare il centenario della guerra nel 2014. tutto questo c’entra con point lenana, sia perche’ le prime escursioni di benuzzi furono quelle sui monti della grande guerra, sia perche’ quella guerra e’ ancora un tabu’, uno snodo della nostra storia che emana tossine a cento anni di distanza.

    • Sono d’accordo che sulla vicenda della grande guerra ci siano cumuli di retorica da rimuovere, e non entro nella discussione sul libro che ancora purtroppo non ho letto per questione di tempo ( ma passerò domani in libreria a prendermene una copia ).

      Io non so se il pensiero di Giacomo Carbone rispetto a Point Lenena sia appropriato; se mi sembri tale o meno lo saprò solo dopo la lettura.
      Mi intrometto un attimo solo in questa divagazione un po’ OT, per dire che le sue riflessioni non finiscono di convincermi, c’è un taglio nel suo discorso sul tema della patria diverso da quello che gli darei io e che non comprendo a pieno, ma nello stesso tempo le sue argomentazioni neanche mi sono estranee.

      Tu, tuco, citi giustamente Orizzonti di Gloria e l’impatto che ha avuto sulla Francia, dove il film è stato a lungo proibito.
      Anche io ho visto quel film e l’ho molto apprezzato, e capisco perchè i francesi, che hanno un forte sentimento nazionale, abbiano accolto male quel film.
      Ma penso fosse anche giusto dar loro una scossa, proprio su quell’argomento; perchè anche se quella guerra alla fine la vinsero, anche se erano stati aggrediti dai tedeschi, ad un popolo che ha sempre avuto un sentimento nazionale al limite anche un po’ troppo forte ed una tendenza anche un po’ militarista ( e colonialista, imperialista, ricordiamo quindi anche La battaglia di Algeri di Pontecorvo e il culo monumentale che il generale Giap ha fatto ai francesi a Dien Bien Phu ) era opportuno ricordare che la prima guerra mondiale venne condotta con una tattica “macinauomini” non solo da parte di Erich von Falkenhayn, il capo di stato maggiore tedesco che aveva preceduto nello stesso ruolo Hindenburg e von Ludendorff e che era autore e primo responsabile della strategia di guerra di “attrito” applicata a Verdun ( la più alta concentrazione di morti ammazzati/metro quadro nella storia dell’umanità ) e “condita” con fosgene ed Yprite.
      No, avevano ragionato ed agito nello stesso modo anche i comandi francesi, e senza tanti scrupoli.
      E forse non è stato per caso che uno dei generali francesi che hanno adottato la prassi macinauomini, sia poi stato 30 anni dopo capo di un governo collaborazionista rispetto al nazi-fascismo.
      E del resto a dirla tutta era grossolonamente tattica macinauomini anche il susseguirsi degli undici inutili massacri dei tentativi di avanzata sull’Isonzo comandati da quel criminale di Cadorna ( cui tutt’oggi sono intitolate piazze, strade, vie e stazioni, facendomi salire il sangue agli occhi ogni volta che passo davanti ad una di quelle targhe ).

      E però sai tuco, ciascuno è figlio del proprio paese nel senso più ampio, ma soprattutto della propria storia familiare, cui poi si somma il proprio personale percorso culturale.
      Io, nato nel ’78, ho avuto una fortuna che non tutti hanno: conoscere un bisnonno, che nella mia famiglia è oltretutto ricordato unanimemente come una figura un po’ leggendaria.
      E ho avuto la fortuna di fare in tempo a conoscerlo bene, di parlarci insieme tante volte, perchè arrivò perfettamente lucido quasi alla fine, e quando arrivò la fine io ero già da tempo grande abbastanza per capire tante cose e lui aveva visto 3 secoli, perchè era il 2002, e il nonno era nato nel 1898.
      Cavaliere di Vittorio Veneto.
      Cavaliere, scritto con la lettera maiuscola.
      E Socialista. Scritto anche questo con la lettera maiuscola; Socialista che qualche anno dopo, alla fine del 1924, come gesto di sommo disprezzo per il regime che si era appena piazzato, registrò all’anagrafe il proprio primo figlio come “Giacomo Matteo”.
      Ah, ne prese tante di bastonate, e a secchiete gliene fecero bere di olio di ricino, i ratti fascisti.
      Ma una cosa da lui l’ho capita.
      Che non era soltanto la grappa e nemmeno soltanto i fucili spianati in seconda linea dei carabinieri imboscati pronti a sparare nella schiena a chi per paura faceva un passo indietro, il motivo per cui stavano li a rischiare di prendersi una raffica di mitragliatrice austriaca.
      E del resto il puzzo di alcool e merda delle nostre trincee, così ben raccontato anche da Lussu in Un anno sull’altipiano, non era diverso da quello da qualsiasi altra trincea.
      Non è il concetto di Patria il problema, è la presunzione che proprio la tua patria sia meglio delle altre.
      E certo da un sentimento di amor di patria alla presunzione che essere italiano sia meglio che esser pincopallino, il passo può effettivamente essere breve, e la retorica falsa e marcia dei fascisti su questo ha sempre prosperato.
      Però è falsa.
      E’ una retorica falsa lo stesso, anche se riconosco che il passo può essere breve. Ma è un passo che si può non fare, basta capire come non cascarci, liberandosi dalle retoriche false.

      Remarque è stato un altro grande scrittore che ha raccontato la grande guerra vista dal punto di vista di un altro fronte, dal punto di vista dei soldati tedeschi nelle fiandre.
      Tutti conoscono Niente di nuovo sul fronte occidentale, ma secondo me per disintossicare la narrazione di facile strumentalizzazione che di quel conflitto è stata fatta dalle destre nazionaliste un po’ in tutti i paesi, quello che veramente bisogna leggere è il suo secondo libro, La via del ritorno.

      Il sentimento di totale indifferenza per la vita dei propri subalterni da parte degli ufficiali, spesso aristocratici o comunque ricchi borghesi, mentre la carne da cannone e trincea era normalmente carne proletaria, è lo stesso raccontato in Lussu.
      Tutti i fronti erano uguali, in una guerra che rappresentava molto molto bene non solo e non tanto una contrapposizione frontale tra paesi ma piuttosto una stratificazione sociale con strati impermeabili l’uno a l’altro verso l’alto e verso il basso, ma in realtà permabilissimi in orizzontale, attraverso le frontiere ed attraversando le trincee ( per capire meglio questo fatto va invece vista La grande illusione di Jean Renoir ) .
      Soprattutto, però, ne La via del ritorno, Remarque ci racconta dal suo punto di vista di studente dell’equivalente delle nostre scuole magistrali ( racconta di sé e dei suoi “camerati” – non fascisticamente intesi ma chiamati sempre in questo modo – sopravvissuti, e a volte mutilati nel corpo e sempre nello spirito, che tornano dal fronte, danno l’esame di abilitazione e vengono mandati in una scuola di campagna a fare i maestri elementari ), l’odio per i professori di scuola che li avevano plagiati e istigati ad andare volontari al fronte a difendere la patria dei poeti, dei filosofi e degli eroi e che poi, dopo la guerra durante la quale si erano imboscati, si riappropriavano del loro dolore e del senso di fratellanza che avevano maturato nel comune dolore al fronte, montando la retorica dell’esercito che era stato sconfitto dai politici ma mai sul campo di battaglia.
      Scrisse quel libro e poco dopo andarono i nazisti al potere.
      Ci fu il rogo dei libri, e i suoi furono tra i primi libri bruciati, ma lui non era già più in patria.
      Accusato di “disfattismo” fu costretto ad andare esule e fu per tutta la vita un convinto antifascista ed un convinto pacifista ( anche se forse è una forzature dire che fosse di sinistra, non credo lo fosse ).
      Però in quel libro, raccontando del suo odio per chi prima li aveva plagiati e poi ne aveva distorto e strumentalizzato i sentimenti per montare un nuovo nazionalismo e una nuova violenza, dice anche, e le parole le ricordo quasi testualmente, che “ci mandarono al fronte a farci ammazzare per i loro ideali, con la parole patria sulla bocca, poi siamo tornati a casa a capo chino ma la Patria l’avevamo nel cuore”.

      Si su quella guerra c’è molta retorica tossica da smontare, a tutt’oggi, dopo 100 anni.
      Ma c’e anche molta “retorica dell’antiretorica” da smontare, che secondo me è non meno tossica, perchè no, non era solo la grappa a tenerli li insieme.

      Il nonno tornò a casa dopo Vittorio Veneto e si fece la sua vita, da socialista, in anni in cui non era facile esserlo.
      Tornò a casa anche suo fratello ( che purtroppo non ho potuto conoscere, ma che in famiglia tutti ricordano con un particolare senso di amore e di rispetto ) che era di un anno più giovane, un ragazzo del ’99, e che era anarchico addirittura.
      Il nonno sopravvisse alla trincea per 84 anni ( 1918-2002 ).
      Quel che in famiglia si sa di quel che fece e vide in trincea viene tramandato dagli zii ( i figli ), che seppero dal loro zio ( il fratello del nonno ).
      In 84 anni di quel che fece e vide mentre era in trincea, il nonno, non raccontò mai NIENTE.
      84 anni DI SILENZIO.
      84 anni di silenzio che pesano come pietre e raccontano più che intere enciplopedie.
      Perchè certe cose che hai fatto e visto non le puoi neanche raccontare, e se non le hai fatte e viste a tua volta difficilmente le puoi capire.
      Il più pieno, completo e totale rifuto per la guerra e per le ragioni del fascismo e del nazionalismo in generale.
      In una casa di socialisti, comunisti ed anche qualche anarchico.

      Eppure, sembrerà strano, in quella casa si è sempre detto Patria con la P maiuscola.
      Perchè no, non era soltanto grappa.

      • ecco enea, la tue osservazioni sono proprio l’emblema di quanto io ho voluto contestare nella mia prima lettera. Tu giustamente celebri il ricordo del tuo bisnonno reduce dalla prima guerra, che aveva con se il concetto di Patria come valore, ma ti dilunghi a precisare quanto egli rifiutasse la guerra, il fascismo, e fosse socialista. bene io continuo a pensare che parlando di patria o di un gesto eroico compiuto in nome della patria, non c’è alcun bisogno di precisare e di distinguere. La patria è un valore assoluto, come vi sono altri valori assoluti come la democrazia, la libertà, l’eguaglianza, il pacifismo etc. Poi è chiaro ognuno è libero di non averlo con se’ tale valore, ma non puo’ alzare il ditino e dire io ti riconosco patriota o uomo coraggioso, solo se sei antifascista, pacifista, etc etc. etc. I vietcong, una volta giunti al potere, sono stati antidemocratici nel modo piu’ assoluto. E con questo? possiamo mettere indubbio il loro patriottismo o il loro coraggio? D’Annunzio era uno pseudofascista moralmente molto discutibile e guerrafondaio, ma in ogni caso resta un artista, un uomo coraggioso e un patriota a suo modo, e non si può negarlo solo perchè non era bravo, buono e pacifista.

        • Io trovo che leggendo Point Lenana, chi negli ultimi anni ha seguito post e conseguenti dibattiti su Giap, si sia trovato anche a misurare la risonanza fra il lavoro culturale quotidiano che i Wu Ming svolgono e quello che si trova – in forma distillata – nei loro libri. Pare banale, ma credo che non vada persa di vista questa relazione, una relazione che è di riflessività, in cui i due piani si influenzano a vicenda, per cui la ricerca segna e indirizza la produzione di un testo e, al contempo, il formarsi del testo influenza a sua volta il percorso di ricerca. Quindi – per stare a Point Lenana, dove spesso questo legame è esplicitato (pensiamo alla vicenda del vespasiano di Affile) – in alcuni casi è facile cogliere il legame fra questi due piani diacronici, registrare la loro relazione dinamica; in altri casi, forse, può sfuggire qualcosa. Per ognuno dei commenti di @giacomocarbone io ho pensato a Furio Jesi, che ho conosciuto soprattutto grazie e attraverso Giap, e alla sua concetualizzazione della “cultura di destra”: quella “cultura entro la quale il passato è una sorta di pappa omogeneizzata che si può modellare nel modo piú utile, in cui si dichiara che esistono valori non discutibili, indicati da parole con l’iniziale maiuscola”. Il pensiero di Jesi io l’ho trovato anche in Point Lenana, ed è già stato scritto che ogni storia narrata in PL è una storia partigiana, di chi parteggia, così come è chiaro che il punto di vista che dà forma al libro è un punto di vista situato, che non cerca di ammantarsi di presunta oggettività. Si può non tenere conto di tutto questo nel parlare di Point Lenana? In prima battuta anche sì, ma io credo che poi serva uno sforzo e una tensione per inserire il libro di cui si discute in un inquadratura più larga, disporsi per rapportarsi con la complessità e fuggire qualsiasi riduzionismo facile facile che ci offre un punto fermo a cui agrapparci, ma che non ci è utile nel volgerci al passato né per leggere il presente e il futuro… e io in tutta sincerità ho letto i commenti che @giacomocarbone indica come un’alzata di scudi proprio come l’ennesima affermazione di necessità di un approccio critico e non consolatorio alla realtà.

          Già che ci sono, ripescaggio [che vedo che altri nel frattempo hanno commentato, troppo dinamico Giap per le mie tempistiche ;) ]: “Il più odiato dai fascisti” http://www.wumingfoundation.com/giap/?p=10807

        • Giacomo Carbone a me invece interessano proprio quei distinguo, ovvero le vite che li hanno esplicitati, come quella di Benuzzi.
          Mi interessano le storie che che contraddicono le narrazioni ufficiali, o meglio, che mettono in discussione gli schemi entro cui l’ideologia del presente incasella la Storia per giustificarsi, con i suoi rapporti di forza e le sue rendite.
          Per esempio mi interessano molto i volontari fiumani al seguito di Alceste De Ambris che poi ingrossarono le file dell’antifascismo come Gabriele Foschiatti e che soprattutto non percepirono una discontinuità tra l’impresa di Fiume e la lotta contro gli squadristi.
          Mi interessano anche i mazziniani, i socialisti e gli anticlericali, persino anarchici, che abbracciarono la causa del Regno d’Italia perché scomunicato da Pio IX e quindi laico e liberale, e contrapposto alla cattolicissima e conservatrice Austria-Ungheria. (Questo tra l’altro spiega il perché dell’adesione massiccia degli ebrei italiani alla causa risorgimentale e anche poi al primo fascismo che se ne dichiarò il continuatore, salvo poi rimangiarsi l’anticlericalismo quando la Chiesa tornò utile al regime.)
          Queste vite dimostrano chiaramente come la patria non sia un valore assoluto ma è un valore che si attiva per derivazione come tutti i prodotti culturali, perché l’irredentismo di Foschiatti o Scipio Slataper che disertarono e si arruolarono nell’esercito italiano inseguendo un ideale di modernità e di libertà dei popoli fu ben diverso dall’irredentismo di Ruggero Timeus che si arruolò solo per spazzare via gli slavi dalla presunta Venezia Giulia (e dalla faccia della terra, a sentire lui). Ugualmente il pacifismo presunto dell’esercito italiano in Afghanistan, che come ben sappiamo si definisce in missione di pace, è ben diverso dal pacifismo di Tolstoj.

          La vita di Felice Benuzzi è una di quelle storie dove niente “torna” secondo gli schemi acquisiti. Evase nel febbraio del ’43 da un campo di prigionia inglese per piantare una bandiera italiana sul monte Kenya (in verità evase per scalare quel monte, prima di tutto!): dovrebbe essere un gesto fascistissimo, invece si scopre che Benuzzi era per 3/4 austriaco e addirittura viennese di nascita, che aveva sposato un’ebrea proprio quando l’Italia emanava le leggi razziali, che dopo il settembre del ’43 divenne un “cooperante” e che intrecciò anche legami profondi con gli inglesi, che in prigionia aveva portato con sé come unica lettura un libro di Julius Kugy, un suo concittadino arruolatosi volontario, ultrasessantenne, nell’esercito austroungarico all’indomani della dichiarazione di guerra dell’Italia e che soprattutto Benuzzi aveva scritto un libro ( o due, contando la versione inglese) per raccontare l’impresa dai toni totalmente antieroici, lontani dalla pura celebrazione patriottica. Ho il sospetto che certi cronisti amino parlare di Fuga sul Kenya come di un long-seller e di un classico che tutti conoscono, cosa che i dati di vendita non confermano, proprio per questo motivo: è un libro che si cita ma che non si legge, perché mette in crisi le categorie in cui si suole inquadrarlo, l’impresa di Felice, Giovanni ed Enzo raccontata per sommi capi può essere facilmente spacciata come puro atto nazionalistico, leggendo la narrazione che Felice ne diede questa facile connotazione ne risulterebbe problematica.

          Point Lenana scaturisce proprio da questi dettagli che non tornano (come anche perchè il libro vendette di più nei paesi anglosassoni che non in Italia) e che hanno indotto lo stesso Wu Ming 1 a fare qualcosa che “non torna”: di sicuro occuparsi di una storia in cima alla quale sventola la bandiera italiana non è quello che si aspettava il suo pubblico, come può vedere dai commenti alla sua perorazione patriottica. Il libro parte proprio da un perché, perchè il patriota Benuzzi non è stato celebrato dalla retorica patriottarda e ultranazionalista della sua città natale? Forse perchè, come ha fatto notare Luciano Santin, Benuzzi non è utilizzabile contro qualcuno… il suo patriottismo non è spendibile, Point Lenana narra proprio il perché non lo è stato, quindi quella che lei chiama “forzatura ideologica” è proprio la ragion d’essere del libro, senza quell’indagine sui distinguo che non tornano non avrebbe avuto senso scrivere Point Lenana, bastava Fuga sul Kenya-

      • pero’, enea, da quel che scrivi tu non e’ mica ben chiaro cosa fosse, questa patria.

        guarda, questa cosa di tuo nonno che non ha mai raccontato niente delle trincee e’ una cosa che conosco. infatti i racconti sulla grande guerra a me sono arrivati da mia nonna, che la grande guerra l’aveva vista e subita da bambina, prima a ridosso del fronte, e poi in campo di concentramento; non dai maschi della famiglia, che l’avevano combattuta.

        e’ proprio che patria e’ un’idea senza parole, per dirla con furio jesi.

        detto questo, se allarghiamo il campo, io vorrei capire come mai, a 100 anni di distanza, in italia non si sia ancora accettata l’idea che l’italia entro’ in quella guerra da aggressore, non da aggredito. come mai non si sappia che il 25 maggio, quando le truppe italiane entrarono in territorio austriaco, il comando fece fucilare *come traditori* (!?) il sindaco e altri quattro cittadini di medea, che avevano dato l’allarme al comando austriaco. italofoni, certo, anzi, furlanofoni, ma cittadini austriaci, patrioti anche loro, solo della patria sbagliata. nell’alto isonzo, gli italiani decimarono i *civili* di numerosi villaggi, per lo stesso motivo. ovviamente gli austriaci fecero lo stesso, su altri fronti, ma non e’ questo il punto. il punto e’ che la grande guerra non fu solo il piave, dove effettivamente l’esercito si schiero’ a difesa del paese. prima del piave ci fu l’isonzo, due anni in cui l’italia combatteva per *conquistare* territori. e dopo il piave ci fu l’occupazione militare della “venezia giulia”, e lo sgomento nello scoprire che dei 900mila abitanti dei territori conquistati solo poco meno della meta’ erano italofoni. era per questo che combattevano i soldati in trincea? non credo.

        che cos’e’ la patria?

        • Non solo da aggressore e invasore (dato che comunque è incontrovertibile: furono annessi anche territori dove non viveva un solo italofono, e da lì cominciò la persecuzione razzista degli “alloglotti”), ma anche da traditore. Il Regno d’Italia era da 30 anni nella Triplice Alleanza, cioè era amico degli imperi centrali (Austria e Germania) e vincolato alla solidarietà nei loro confronti. Da un giorno all’altro, in cambio della promessa di territori nell’Adriatico orientale e in Anatolia, violò il trattato della Triplice ed entrò in guerra contro i suoi alleati! Questo sollevò un’onda di riprovazione e sdegno anche tra gli italofoni dell’impero austro-ungarico. A Trieste (dove gli irredentisti erano una minoranza risibile) vi furono tumulti nei quali la cittadinanza *anche italofona* prese di mira e distrusse i simboli dell’Italia “regnicola” e dell’irredentismo cittadino. Questo in nome della patria tradita e aggredita, cioè l’Impero austro-ungarico. E stiamo parlando di italiani, che erano italiani non meno dei “regnicoli”, solo che non erano interessati a far coincidere l’Italia – intesa come koiné – con la formazione statuale sabauda. Non ritenevano che lingua, nazione, popolo e “patria” dovessero per forza coincidere.
          Tutte cose ampiamente documentate, ma che non vengono raccontate perché contraddicono il *mito* della prima guerra mondiale.

        • “La patria è un valore assoluto”. Ecco, questo è il nocciolo di giacomocarbone che per me è assolutamente incomprensibile.

          La mia famiglia era fedele suddita della Cacania: ciò non impedì al re-imperatore di vienna di caricarli in poche ore su un vagone merci e deportarli in Boemia per motivi militari (dove ebbero la sfortuna di incontrare la fame vera e il degasperi fedele esecutore degli ordini viennesi). Mio nonno invece fu richiamato dalla nobile attività di pulitore di ciminiere della Ruhr per combattere contro gli austriaci sul Carso. Nel 1915 subì una decimazione da parte dei carabinieri perché il suo reparto si era ritirato per 100 metri senza aver ricevuto l’ordine di farlo. All’attacco successivo nessuno si ritirò, morirono tutti, tranne mio nonno che, grazie alla conoscenza del tedesco, passò “col nemico”.
          Grazie a ciò conobbe mia nonna, profuga “nemica”.
          Nella mia famiglia queste storie si tramandano, ed è chiaro che non c’è alcuna patria da servire, né da amare o rispettare.
          Perché quando, non ti ordina di uccidere, ti uccide. Ed è la diserzione è l’atto nobile che di salva la pelle, non l’astrazione di una finta comunanza “patriottica”.

          Mia nonna vide il “rispettabile patriota” de gasperi nella sua funzione ufficiale di parlamentare autroungarico (allora si scontrava contro gli irredentisti), per ritrovarselo, qualche decennio dopo con suo genuino stupore, a rivendicare la sua “italianità” da palazzo chigi.

          Non voglio negare che ci possano essere persone che si sentono genuinamente “patriottiche”, ma non posso non considerarle alla stregua di sempliciotti obnubilati, quando non criminali o collaborazionisti con i criminali.

          In casa conservo un dono di nozze: un piccolo specchio con cornice intagliata da un prigioniero russo, amico e testimone di nozze tra una profuga austroungarica e un disertore italiano, avvenuto in Boemia nel 1918, quando i rispettivi paesi mandavano i giovani a massacrarsi l’uno contro l’altro.

          Alle elementari a mio figlio hanno fatto dipingere una bandierina italiana da sventolare all’uscita dall’ultimo giorno di scuola. Abbiamo provveduto immediatamente ad incrementare la differenziata.

          • @tonii

            Storia bellissima!

            Il finale mi ha fatto venire in mente questa scena: ero a casa di un compagno, basco e comunista; rientra in casa suo figlio agitando un bandierino italiano che gli avevano fatto fare a scuola. Mi guarda sconsolato: “Devo fargli un discorsetto”.

        • piccolo o.t.
          scopro adesso che su wikipedia il campo di internamento di wagna, quello dove fu portata mia nonna dopo il 9 agosto del 1916, viene definito campo di internamento *per italiani*. solo che mia nonna non era italiana, era mezza slovena e mezza furlana. per ristabilire un minimo di verita’ storica tocca andare qua:

          http://www.grandeguerra.ccm.it/scheda_archivio.php?goto_id=1169

          “Una seconda ondata di profughi, parte dei quali (circa 1.600) sloveni, giunse dopo la caduta di Gorizia facendo risalire per un certo tempo la popolazione oltre i 18.000 abitanti.”

          la costruzione del *mito* tossico della grande guerra passa anche per questi “dettagli”, chiamiamoli cosi’.

          • visto che si parla di storie: la famiglia di mia nonna riusci’ a sopravvivere a wagna soprattutto grazie all’aiuto di un commerciante ebreo, anche lui sfollato dalla zona dei combattimenti. mio bisnonno, oltre a essere un contadino, era il custode del cimitero ebraico di rožna dolina, valdirose in italiano, sobborgo sloveno di gorizia, “dietro il castello”.

            i discorsi sulla patria proprio in queste zone – che poi sarebbero le zone su cui si e’ costruita la mitologia della patria – quando vengono messi a confronto con la realta’, dimostrano tutta la loro inconsistenza.

      • Grazie Tuco! Che cos’è la patria? Davvero possiamo paragonarla a democrazia, libertà, pacifismo ed eguaglianza?
        Enea, oltre alle esperienze della tua famiglia (grazie del racconto) hai citato diversi libri e autori, tra questi Emilio Lussu. Da Un anno sull’altipiano però non traspare un filo di orgoglioso patriottismo, e c’era davvero poco da esserlo nel vedere l’equipaggiamento fornito dalle alte schiere militari: armature d’età medievale.
        Lussu è sardo come me, posso metterci la mano sul fuoco che tra quei tanti ragazzi sardi che finirono massacrati su al Nord, la grande maggioranza si sentiva prima di tutto sarda, più che italiana, di che patriottismo stiamo parlando adesso? Alla luce del fatto che ancora molti qui, prima che italiani si sentono sardi (se sia giusto o meno è un altro discorso).
        Inoltre nel 15-18 non era passato poi così tanto tempo da che l’Italia era stata unificata, quanto si sentivano italiani i ragazzi che nel Sud scappavano sui monti, per evitare l’arruolamento, dandosi al banditismo?
        Il concetto di patria è quanto mai controverso, negli ultimi vent’anni il Paese è stato governato dalle forze più patriottiche della politica, risultato: Pompei crolla a pezzi con la nostra storia e come il settore dell’istruzione, di contro sono aumentate le spese militari. Allora mi dico, essere patriota coincide con la conquista? Come la conquista dell’italianissimo K2?
        A proposito di montagna, ancora oggi mi fa uno strano effetto vedere i campioni di sci e sport invernali italiani, la maggiorparte parla a stento l’italiano, sembrano più che altro tedeschi. Che cos’è la Patria per loro?

        • E’ una discussione molto difficile e faccio fatica a trovare i concetti e le parole.
          Però forse, un po’ alla volta, sto capendo meglio il senso di una differenza di punti di vista tra loro molto distanti.

          Ad esempio ero partito col dire che Giralamo Carbone dava alla questione un taglio che non finiva di convincermi, molto diverso da quello che gli avrei dato io. Adesso questa cosa mi è molto più precisa e son convinto che la differenza di taglio dato al concetto sia piuttosto profonda.
          Perchè se da un lato non credo che il concetto di patria sia un’esclusiva fascista, ed un concetto fascista in sé, e ritengo con convinzione che la connotazione politica che il concetto ha per ciascuno dipende dal quadro d’insieme di valori nel quale lo si incornicia, ed altrettanto vale per il concetto di identità nazionale, io in ogni caso non me la sentirei mai di dire che al sentimento di identità nazionale, che pure per me è importante, darei un valore assoluto.
          Altrettanto non me la sentirei affatto di di dire che un D’Annunzio fosse un coraggioso patriota, anche se era discutibile per molti altri versi.
          Perchè quei “molti altri versi” costituiscono la cornice che inevitabilmente, necessariamente, inficia il valore di tutto il resto.
          D’Annunzio, come gli altri fascisti alla Pavolini o come tanti repubblichini che in nome di un distorto e deviante concetto di onore e di patriottismo, negavano l’evidenza di essere dei criminali alleati ad altri criminali. Negavano di fare i conti coi propri crimini anche a guerra chiaramente persa, rifiutavano di incamminarsi su un strada di “processo alla propria coscienza”, e si mettevano alla ricerca della “bella morte” perchè disprezzano la vita, perchè non erano capaci di provare veramente rispetto per il valore della vita, in ultimo neanche per la propria vita.
          E questo manda a puttane tutto il resto, costituisce un quadro d’insieme inaccettabile.

          Qualcuno diceva che il primo dovere d’un guerrigliero è mantenersi vivo, perchè solo in questo modo potrà essere utile anche domani, alla propria causa e alla propria gente.
          Questo guerrigliero può anche pensare che valga di più morire in piedi che vivere in ginocchio, come diceva un’altra comunista che ha avuto una qualche importanza nella storia, ma non disprezza mai la vita, neanche quella dei suoi nemici; può uccidere perchè ha un buon motivo per farlo, ma senza alcun compiacimento. In ogni caso non si metterà mai alla ricerca di una “bella morte”. “L’estetica” nella fine della vita per via violenta è disprezzo per l’umanità, è distillato di fascismo.
          Questo lo sapevano molto bene anche i viet cong, non lo sapevano invece i fascisti.
          E per questo dal mio punto di vista i viet cong erano dei bravi patrioti, mentre i fascisti erano soltanto fascisti.
          No, per me non è un valore “assoluto”, anche se gli do molta importanza personalmente; per me è un valore importante ma dipende da tutta la cornice nella quale lo inserisci e alla fine quel che è importante è il quadro d’insieme.

          Se quindi mi sento molto distante da chi tratta il sentimento di identità nazionale di chi lo prova alla stregua di una colpa, mi sento comunque molto, molto distante, da chi scinde il concetto di patria da tutto il resto per farne un ideale “assoluto”.
          Diciamo che al momento non abbiamo una contrapposione, ma i tre vertici di un triangolo.

          Un po’ di cose da chiarire: credo tutto sommato che ai contadini mandati a farsi ammazzare in trincea sul carso non gliene fregasse veramente un cazzo delle fanfaronate dei loro ufficiali di carriera, nobili e ricchi borghesi del regno sabaudo.
          Del resto l’unificazione italiana era stato un aborto, proprio perchè ai Savoia alla fine gliene importava solo di ampliare territori e metter le mani su risorse ( che poi non a caso han gestito in modo predatorio ) che gli interessano soltanto per far più grande il loro Piemonte.

          Però in quelle trincee, anche se c’erano stati mandati per una motivazione certamente non sottoscrivibile ( che fossimo li a combattere una “guerra giusta” non l’ho detto e non lo penso ) si è anche creato e cementato un sentimento di comunità importante. Persone che venivano da realtà tanto diverse e che parlavano dialetti molto diversi, che spesso avevano alle spalle tradizioni contadine molto radicate e tra loro distanti, scoprirono comunque in mezzo a quella gigatesca ( e non lo nego, anche molto colpevole per il ruolo giocato dall’Italia ) tragedia di avere anche molto in comune e da condividere.

          Altro esempio, quando Filippo dice che nel libro di Lussu non traspare un filo di orgoglioso patriottismo, secondo me sbaglia in parte il bersaglio.
          Di certo Un anno sull’altipiano non fa neanche lontamente “l’apologia della patria” e racconta della meschina crudeltà, anche un po’ spicopatica nella figura del generale Leone, di comandi che non avevano nessuno rispetto per la vita degli uomini che stavano morendo per le loro fanfaronate vuote.
          Però il sentimento di comunità, di esser parte di qualcosa di più grande di sé, magari non era solo una fanfaronata vuota.
          E se questo sentirsi parte di qualcosa di più grande, per Ottolenghi, era la “classe” ( politicamente intesa ), e per Avellini non a caso piemontese e militare di carriera sabaudo per tradizione familiare era la patria, per il protagonista era comunque la patria, anche se intesa in un’ottica parecchio diversa da quella del militare di carriera Avellini, cui comunque voleva bene anche perchè rispettava i propri soldati e non li mandava allo sbaraglio per una medaglia in più da appuntarsi sul petto.
          Della patria non c’è né l’esaltazione né la retorica, anzi, c’è lo smontaggio pezzo a pezzo della retorica della patria.
          Io però in tutto questo vedo e leggo anche dell’amore per un sentimento non fasullo, non retorico, non strumentalizzato dal potere, del sentimento di condivisa identità che comunque in tanti soldati c’era.
          E Marrasi non viene descritto come un modello da seguire, anche se in un certo senso viene “compreso”, in parte giustificato.
          Sta di fatto che quando tradì furono gli altri soldati a cominciare a sparargli alla schiena senza bisogno di aspettare che arrivasse l’ordine da un ufficiale.

          Poi ribadisco, un sentimento patriottico c’era eccome ne La via del ritorno di Remarque, ma era incompatibile con la montatura patriottica nei nazisti che per quel libro lo avrebbero voluto morto se non fosse riuscito in tempo a scappare esule.

          Filippo dice anche di essere sardo, come era sardo Lussu, e ricorda giustamente che tanti giovani della brigata Sassari son morti ammazzati per l’Italia quando in realtà si sentivano sardi.
          Del resto Lussu fondò il Partito Sardo d’Azione.
          Un movimento autonomista ed indipendentista.
          Evidentemente sentivano, queste persone, di essere parte di una “nazione sarda”, di una comunità nazionale come popolo sardo, con proprie specifiche caratteristiche e peculiarità.
          Io non riesco a vedere qualcosa di male in questo; nazionalismo sarebbe stato se avessero avuto la pretesa – che mi pare proprio invece non abbiano mai avuto – di affermare che sardo è meglio che lombardo o marchigiano ( con tutto quel che può conseguirne ).

          E quindi non sei anche tu, come lo era lui, un bravo patriota sardo?
          Non è un sentimento di identità nazionale che hai dentro, inteso in senso buono, perchè non hai la pretesa di dire che esser sardo sia meglio che essere pincopallino, eppure ad essere ed a riconoscerti sardo ci tieni?
          Quindi io, rispetto ad una questione sicuramente problematica e delicata, un po’ mi domando e soprattutto vi domando: siamo proprio sicuri che lavorando sul quadro d’insieme non valga la pena di “defascitizzarlo”, il sentimento che una persona può provare di sentirsi parte di una identità nazionale e di considerare questa una cosa importante?

          Mauro prima ha convenuto nel riconoscere il fatto che avere una nazionalità è sempre un problema complesso, e direi che proprio qui e proprio adesso stiamo in piccolo sperimentando quando lo sia, cercando di precisare il concetto.
          Poi però pone anche un’altra domanda: chiede in forma retorica se “dal concetto di patria italiana togliamo qualunque riferimento storico e concreto, non è che non resta niente”?

          Potrei provare a rispondere a questa domanda dicendo che io cerco proprio a priori di sfrondare il senso di identità di cui mi sento parte, e che reputo per me importante, dalla sovrapposizione che potrei farne a fatti storici e/o politici.
          Non è una decontestualizzazione; è la ricerca di un valore in positivo non strumentalizzabile per finalità che non potrei condividere, che mi lasci libero di sentirmi italiano ed al contempo di poter condannare con la massima durezza necessaria l’operato di altri italiani.
          Se la mia identità dovesse essere un identificarmi in fatti storici/politici, nello sforzo di dare a questa identità un valore in positivo, mi ritroverei a fare degli scivoloni molto sbagliati e pericolosi; finirei appunto, per tornare in tema, ad annaspare per cercare giustificazioni ipocrite per tutto ciò che abbiamo fatto da invasori e da criminali, finirei a giustificare i Savoia che han cercato di prendersi terra che non era loro sottraendola ad altri popoli o Graziani che ha dato un impero a questo paese bombardando con l’yprite dei poveri cristi che non ci avevano fatto niente di male.
          Ma scusami Mauro, scusatemi tutti, siamo sicuri che questa identità non possiamo invece fondarla su basi culturali, invece che sulla continuità rispetto a fatti storici/politici?

          Una volta chiacchieravo con un mio caro amico che ha la doppia nazionalità, italiana e tedesca, sul fatto che l’aria sta per molti versi diventando pesante nel nostro paese e che tante volte viene la voglia di schiodare ed andarsene, cosa che per me in fondo non sarebbe stata neanche tanto difficile qualche anno fa ma che ho lasciato subito perdere perchè la mia compagna ha uno di quei titoli di studio che all’estero non valgono niente ( ogni paese ha il proprio diritto e le proprie leggi ). Dicevo a lui e a sua moglie che è psicologa “a voi invece non ci sono problemi di lavoro e di studi da non buttare alle ortiche vi trattengano”.
          E mi spiegò la moglie del mio amico che anche il suo titolo e il suo mestiere non avrebbero avuto nessun valore via da qui, perchè puoi anche parlare inglese fluentemente, ma non puoi lavorare sul pensiero di una persona che è di madrelingua inglese se tu pensi in italiano. Poco importa quanto bene parli inglese. Se lavori, ipotesi, sulle riabilitazioni neurologiche lavori sulle sfumature, sottilissime sfumature, e non risolvi tutto con una risonanza magnetica del cervello.
          Per capire se un danno neurologico da curare c’è devi capire, parlando con una persona, dalle piccole sfumature del suo linguaggio, se il problema è banalmente semantico o se invece, dietro, il problema sia neurologico. E non ci cavi le gambe, se il tuo paziente pensa in italiano riesci a curarlo solo se a tua volta pensi in italiano, altrimenti le sfumature non le cogli.
          Questo non vuol dire che non si possa capirsi perchè la madrelingua è diversa, che non si possa andar d’accordo e stimarsi su mille cose diverse della vita, ma restano lo stesso delle diversità profonde. Diversità che potremmo anche amare, che son convinto possano assolutamente convivere – dando anzi in questo modo un motivo di interesse in più all’esistenza – ma che non ha senso negare. La differenza c’è e resta.

          Noi non pensiamo in maniera assolutamente astratta, pensiamo attraverso le strutture linguistiche della nostra lingua di nascita, pensiamo attraverso il nostro linguaggio, ed ogni lingua ha strutture tra loro anche molto differenti.
          Il tedesco ad esempio ha una struttura grammaticale e sintattica molto elaborata e complessa, rigida, ed ha un vocabolario estremamente ampio e ricco ( quasi quanto l’italiano ). Per questo è una lingua che permette di precisare molto bene i concetti che vuoi esprimere, perchè ha tante parole per poterlo fare, e nello stesso tempo però ti obbliga a dire le cose in uno ed un solo modo, perchè la frase ha una struttura di forma predeterminata e non modificabile.
          Il soggetto deve stare in un posto e non nell’altro, ogni complemento ha la propria posizione, e poi i casi, la punteggiatura che si può usare solo così e non cosà etc. etc. etc.
          Per questo motivo è la lingua della filosofia e di una caterva di grandi filosofi: permette di parlare di concetti anche estremamente astratti e genrali in maniera assolutamente precisa ed univoca, e quindi comprensibile.

          L’inglese ha meno vocabolario e strutture grammaticali e sintattiche più semplici. E’ una lingua estremamente concreta e diretta.

          Non potremmo pensare che il fatto di pensare tedesco o di pensare inglese, si traduca anche nella condivisione, se non proprio generalizzata almeno molto diffusa, di una medesima forma mentis, come popoli?
          Non potremmo pensare che questa differenza di potenzialità – tra loro diverse – delle due lingue, non sia alla base di una contrapposizione filosofica che è durata molto a lungo tra idealismo tedesco ed empirismo inglese?
          Che il fatto di pensare tedesco permetteva di poter essere tremendamente più astratti senza per questo ritrovarsi a sproloquiare del nulla, e che chi invece usa una lingua più semplice ed estremamente concreta non potesse che indirizzarsi verso un ben più concreto empirismo?
          Ma se una simile diversità linguistica magari può determinare anche una differenza di forma mentis, e quindi attitudini che si indirizzano in modo diverso, non può questo avere anche ripercussioni nella forma di comportamenti sociali diversi? ( magari no, ditemelo voi, a me però sembra di si e non riesco a vedere niente di reazionario nel pensare che possa essere così )
          Se la nostra lingua madre diventa anche forma mentis, allora questo è anche un elemento di IDENTITA’, con degli effetti nel senso comune di un popolo nell’approcciarsi alla vita, spesso simile, anche se questo non esclude affatto la possibilità di avere idee politice anche molto diverse l’uno dall’altro all’interno dello stesso gruppo.

          Estensivamente poi uno può anche sentirsi orgoglioso di far parte dello stesso popolo del Caravaggio o di Leonardo, il che certamente non mi permette di dimenticarmi di far parte anche dello stesso popolo del duce, di Graziani, e dei milioni che gli son andati dietro entusiasti.
          Ma nel dare dei criminali a questi ultimi, italiani quanto me ma inumani delinquenti, mi resta anche una radice culturale che non è automaticamente causa di quelle scelte politiche ed è una radice nella quale c’è anche tanto di grande e di bello.
          Senza nessuna pretesa, per questo, di andare a spadroneggiare a casa di chi alle spalle non ha altrettanta storia.

          Io a queste cose do molto peso e non riesco a capire perchè, da sinistra, questo debba per forza essere guardato con sospetto ( ad andare bene ).

          Un’altra cosa della quale una volta parlavo con Mauro rilevando una grande differenza, tra lui che è “cittadino” da generazioni e me che sono di estrazione contadina.
          La mia estrazione mi fa sentire molto legato alla mia terra. Quando torno a trovare mia nonna che ha sempre fatto la contadina e vive ancora nella casa colonica col campo e l’orto intorno, che ancora zappa le proprie patate etc. etc. io torno in un posto dove sono nato ma non ho vissuto, perchè ho sempre avuto la residenza dove lavorava mio padre da prima che nascessi, a 400 km di distanza.
          Però li fin da bambino ho sempre passato le estati, insieme ai nonni, facendo quello che facevano loro, aiutando nel campo, dando da mangiare agli animali di casa, assorbendo certe abitudini ed insieme anche un certo tipo di approccio alla vita, certe tradizioni, tutte cose che nell’insieme costituiscono una identità. ( e che magari su scala ancor più vasta potremmo sentire come un senso condiviso della patria )
          Quando lascio la pianura padana e rivedo quelle colline, anche se ho vissuto molto più tempo in pianura tra l’Adda e il Po, io mi sento tornato a casa. Mi basta vederle e sono contento.
          E quando è morto papà la coperta e i pigiami che usava all’ospedale e che ne avevan viste troppe di cose brutte, appena siamo andati dalla nonna, io e mia madre abbiamo acceso un fuoco li abbiamo bruciati nel camino. Come han sempre fatto con le cose dei propri morti i contadini di li. Che saranno anche simboli, cose di nessun valore concreto, ma se ci cresci in mezzo son cose che lo stesso fanno parte di te e che hanno un significato profondo anche se fai fatica a spiegarle.
          E anche questa è identità.
          Nel senso più ampio, andando a vedere le cose che gruppi di persone possono avere in comune, anche in termini di mentalità ed approccio alla vita, magari tutto questo potremmo definirlo “patria”.

          Ma il fatto che io mi senta molto legato ad una terra e a certe tradizioni di origine contadina, che magari potremmo anche definire arcaiche, non vuol mica dire che io sia interessato o disponibile o accondiscendente rispetto all’ipotesi di leggere le cose del mondo e della vita, o peggio ancora della politica, attraverso la chiave di lettura del “blut und boden”!

          Lo so che mi incarto, non è per niente semplice.
          Il problema è che ci sono tutta una lunga serie di distinzioni in ballo che a me vengono perfattamente naturali, direi istintive, e che vedo che invece spesso nella storia e nella cultura della sinistra, di cui pure mi sento assolutamente parte, vengono considerate innaturali ( o potenzialmente devianti ).

          Perchè?

          • “Noi non pensiamo in maniera assolutamente astratta, pensiamo attraverso le strutture linguistiche della nostra lingua di nascita.”

            “Ma se una simile diversità linguistica magari può determinare anche una differenza di forma mentis, […] non può questo avere anche ripercussioni nella forma di comportamenti sociali diversi? […]
            Se la nostra lingua madre diventa anche forma mentis, allora questo è anche un elemento di IDENTITA’, con degli effetti nel senso comune di un popolo”

            Sulla prima affermazione sono molto d’accordo: tranne il fatto che la lingua sia quella appresa dalla nascita. Mi riferisco al bilinguismo e ai casi di cambio di lingua nei primi anni di vita (ma anche dopo: pensiamo a Alain Daniélou che da adulto parlò solo hindi e sanscrito per un ventennio).
            Anni fa rimasi folgorato dalla prima appendice del The Disputers of the Tao di Graham: in cinese classico manca un verbo “essere” così come lo conosciamo nelle lingue indoeuropee, ne consegue che le prove dell’esistenza di dio di Anselmo d’Aosta, se tradotte, divengono dei ridicoli nonsense. Cioè: quanto ha modellato la filosofia europea per qualche secolo in Cina sarebbe stato letteralmente inconcepibile. Abbiamo dovuto aspettare Kant per la confutazione.
            Dalla base linguistica quindi dipendono le idee, e François Jullien è da anni nella tempesta nella sinologia francese per aver puntato il dito sulle differenze profonde, proprio su ciò che sta sotto ἐπί +‎ ἵστημι la forma che assume il pensiero.

            Ma non concordo che ci sia una corrispondenza tra lingua e “popolo”. Il Brasile e il Portogallo condividono il popolo? Gli ainu, di contro, non sono giapponesi? E come la mettiamo con l’India? La Malesia? i Ladini?

            E dov’è il passaggio da “popolo” a “patria”?

            Mio figlio ha il passaporto italiano, pur parlando un italiano a dir poco saltellante, come struttura grammaticale e come vocabolario, mentre i suoi compagni di classe, che lo parlano perfettamente, non hanno diritto alla cittadinanza italiana.

            Di quale patria stiamo parlando allora? Direi che se cerchiamo di catturarla dalla coda della linguistica non andiamo da nessuna parte.

            “( o potenzialmente devianti ). Perchè?”

            per come la vedo io il concetto di patria è inutile, perché non spiega nulla, non fornisce alcun aspetto positivo che non possa essere spiegato dal “sentirsi comunità” (linguistica, di età, di religione, di corso di studi, e aggiungine a piacere). E queste potenzialmente infinite comunità a cui apparteniamo vengono ridotte a poca cosa, se ritagliate con la forbice del patriottismo (Prova ad immaginarti di una minoranza religiosa per una settimana e ascoltare così i telegiornali: scopriresti che in molti casi non saresti considerato italiano). Il patriottismo ha una funzione omologante, semplificante, ed essenzialmente sfruttabile solo in termini di propaganda e di potere.

            Io ne sto alla larga proprio per questo.

            • “Mio figlio ha il passaporto italiano, pur parlando un italiano a dir poco saltellante, come struttura grammaticale e come vocabolario, mentre i suoi compagni di classe, che lo parlano perfettamente, non hanno diritto alla cittadinanza italiana.”

              aggiungo anche che quei bambini che parlano perfettamente l’italiano ma non hanno diritto alla cittadinanza, dal prossimo anno dovranno cantare l’ inno nazionale, e dovranno anche impararlo in fretta, e dovranno passare tutta la vita a dimostrare di essere dei veri patrioti, di commuoversi davanti al tricolore, perche’ al minimo tentennamento verranno considerati degli ospiti ingrati che sputano nel piatto in cui mangiano.

              • p.s. ecco, vedi, io sono di madrelingua italiana. il mio primo codice linguistico e’ proprio l’italiano standard. il dialetto e’ arrivato dopo. pero’ io non saprei come dire “sfracagnato” in italiano standard :-)
                per me “il freddo” e’ “zima”, come in sloveno. e “cucàr” non significa “prendere della figa”, come da voi in lombardia, bensi’ “guardare di nascosto”, come in tedesco. “cuccare” qua si dice “guantàr”. e cosi’ via. perche’ dico queste cose? perche’ la lingua qua a trieste invece di un’identita’ nazionale esprime piuttosto un’ identita’ composita e plurale. il fascismo qua cerco’ di mettere le grinfie anche sul dialetto, depurandolo dai termini slavi e tedeschi.

            • @ tonii: il tuo discorso è molto interessante, tantopiù che io ero rimasto molto colpito dalla considerazione della moglie del mio amico che descrivevo prima, un po’ per le conseguenza che ho pensato che potesse avere ed un po’ perchè è una cosa lontana dalla mia formazione e per me inedita e quindi mi fa piacere poterne discutere con un’altra persona che mostra di saperne parecchio più di me.

              Sulla questione della corrispondenza tra lingua e popolo ed esempio io ho riportato la questione come uno degli elementi che concorrono a stabilire una identità. Ci mettevo anche dentro le tradizioni contadine in mezzo alle quali sono cresciuto, il contesto dato dalla famiglia. Le componenti son tante. Di certo non ne basta una sola per stabilire corrispondenze automatiche.

              Proprio per questo, in effetti, hai ragione a dire che portoghesi e brasiliani non condividono il popolo soltanto perchè condividono la lingua.
              Ed altri esempi, sicuramente veri.
              Però ci sono anche altri esempi che vanno sempre in senso contrario.

              Siccome si parte da una storia che parla di una impresa in montagna per poi finire a discutere del senso e dell’abuso che tante volte si è fatto del patriottismo, prima si citava anche Messner. Ma si sente italiano? Lo è, eppure.
              Messner non lo so.
              Però io mi ricordo di una intervista rilasciata da Hans Kammerlander, anche lui italiano come Messner, che ne è stato il compagno di cordata nell’ultima parte della carriera sugli 8000, e in questa intervista Kammerlander diceva che nella sua valle di solito i ragazzi imparavano l’italiano perchè ci erano costretti quando lo stato li costringeva a fare il servizio militare, ma lui era il quarto di quattro fratelli quindi ne era stato esentato.
              Poi magari l’italiano l’avrà anche imparato, non lo so, ma è abbastanza chiaro che anche se sulla carta d’identità ha scritto “nazionalità italiana”, per lui, la sua identità, è “nazionalità altoatesina” o forse direttamente austriaca.
              Prima si citava anche il sentirsi sardi, più che italiani.
              Il fatto che il sardo sia in pratica più una lingua che un dialetto avrà pure il suo peso, no?
              Poi è certo che ci sono anche tante altre cose che hanno almeno altrettanto peso se non di più, quali ad esempio la separazione geografica essendo un’isola dalla quale il continente non è raggiungibile né con due bracciata a nuoto né con mezz’ora su un guscio di noce a vela.
              Però che sia una componente mi sembr chiaro.
              Una domanda ti faccio per capire meglio: rispetto all’esempio che cercavo di fare con le differenze tra il tedesco e l’inglese, e differenze nelle scuole filosofiche, tu escluderesti che il fatto di pensare attraverso determinate strutture linguistiche tenda a produrre delle forme mentis tra loro diverse e quindi estensivamente diversi tipi di approccio alla vita?

              Quanto all’esempio che mi fai sui bambini, su tuo figlio con passaporto italiano che parla una lingua saltellante e altri bambini che non hanno diritto alla cittadinanza pur parlando un italiano perfetto mi chiedi di quale patria stiamo parlando. Quello che posso dirti dal mio punto di vista è che stiamo parlando di una patria governata, e conseguente normata, imponendoci una legislazione incivile.
              Per me ogni persona ha diritto a cercare un presente ed un futuro migliore. Chi scappa da un altro paese, per guerra, per povertà, secondo me dovrebbe trovare le porte aperta e una possibilità in casa nostra, e credo che chi venga in Italia e lavori qui, sia compartecipe della vita di questa società, concorrà alla sua prosperità e paghi le tasse qua come ogni altro italiano dovrebbe da subito poter votare, dovrebbe poter accedere alla cittadinanza se la vuole senza che questo sia una tortura ad ostacoli, e penso che i suoi figli italiani dovrebbero esserlo automaticamente.
              Qua, sul tema dello ius soli, ne son convinto, si pone un discrimine di civiltà.

              Però vedi, a sinistra se dici certe cose fuori da quello che è uno schema tipicamente diffuso ( l’ideal tipo dell’esser di sinistra, passami questa definizione forzata ), già non vieni più preso in considerazione come persona di sinistra. E magari si passa al volo a pensare che per te un uomo nero sia invece “un negro” e che suo figlio non abbia diritto ad essere italiano pur essendo nato qui.
              Non avrai voluto intenderlo tu. Però qua stiamo cercando di sviscerare degli argomenti tabu, e dammi retta che tanti lo intendo così, e per me non è piacevole.

              Altro esempio.
              Io non ho bisogno di immaginarmi parte di una minoranza religiosa.
              Hai dato per scontato per quel che penso che dovessi fare lo sforzo di entrare in un certo tipo di ottica per capire che esistano delle discriminazioni inique.
              Ma io non sono cattolico.
              A dirla tutta non ho un’altra fede, semplicemente non ho una fede.
              Sta di fatto che, figlio di comunisti, cresciuto in un certo modo e avendo avuto una certa educazione, non sono stato battezzato, sono cresciuto in un ambiente del tutto a-religioso, a scuola ho sempre fatto l’ora alternativa. Da solo, in una classe di 25 bambini. In una scuola elementare con 5 sezioni dalla prima alla quinta dove in tutto eravamo in 3 a non farla. E i bambini sanno essere cattivi ( certo la colpa è di chi li ha educati in un certo modo, ma tant’è ) con la pecora nera che è sola ad esser diversa dagli altri, e te lo fanno pesare, eccome se te lo fanno pesare, e non credo che la bambina che invece era figlia di testimoni di Geova la trattassero diversamente ( meglio o peggio ) di come tante volte trattavano me.
              E a tutt’oggi, che un’altr età e di certe cose da bravo agnostico me ne sbatto bellamente, comunque mi girano i rognoni mica poco di vivere in un paese con una legislazione vergognosamente confessionalista, dove le persone che veramente ci tengono e ci credono e vanno regolarmente alle funzioni e si ttengono a quel che predicano, sono una minoranza esigua ma quasi non si riescono ad avere partiti politici che non siano ostaggio dei baciabalaustre.

              Per me la confessione religiosa non è parte della mia identità, ma trovo altro per sentire di averne una.

              Perchè a sinistra se ci tieni a sentirti parte non solo di una classe e compartecipe di un’idea ma anche di una identità nazionale, va a finire che ti ritrovi sempre a doverti giustificare su questi argomenti?
              Anche in Francia ci sono persone di sinistra, ma penso che non mi capiterebbe sempre questa cosa.

              Guarda anche l’altro esempio che fa tuco subito qua sotto.
              Io non ho figli, ma anche a me, nonostante come la penso, girerebbero generosamente i rognoni se a mio figlio imponessero a scuola di imparare e cantare l’inno di Mameli. Perchè considero le parole di quell’inno una schifezza, false, una retorica deviante.
              Non ci avesse messo sopra il cappello la Lega quanto mi sarebbe piaciuto se l’inno nazionale fossero state le note del Va pensiero.
              Si lo so che è il canto degli ebrei prigionieri di Babilonia nel Nabucco.
              Ma esprime bene il concetto, il sentimento per come credo sia il modo sano di viverlo, e per me alla fine non c’è un sentimento nazionale migliore di un altro, c’è il mio e c’è il tuo, o c’è il mio rispetto per il fatto che tu invece questo sentimento non vuoi coltivarlo.

              E però alla fine sempre li si cade.

              Si parte da un sentimento che tra le tante altre cose era anche patriottico, di Benuzzi, che però era vissuto e praticato al di fuori di schemi prestabiliti e stereotipati, e come tale non facilmente inquadrabile e strumentalizzabile da un potere fatto da canaglie, e se da sinistra dici che questo ti interessa molto perchè pensi di condividere qualcosa di simile che fa parte del tuo vissuto, pensi che possa esistere una idea di patria che meriti di essere defascistizzata e svincolata da questo tipo di associazione mentale automatica, ti ritrovi a devi spiegare che no, non sei di quelli che non vuole dare la nazionalità ad un figlio di immigrato nato qua che pensa che sputi nel piatto dove mangi se non canti quella schifezza fascistoide che dice che dobbiamo essere pronti alla morte ( morte per cosa e in che modo? che la bella morte sia fascismo l’ho precisato da principio ) e che dobbiamo sentirci “schiavi” ( e sticazzi ‘nce li metti? io un foglio vorrei educarlo a sentirsi libero non schiavo ) di questo o quell’altro.

              No, un’idea di identità nazionale penso sia fondabili su basi decenti, questa paccottiglia l’ho sempre rifiutata.

              • pero’ enea, abbi pazienza. due anni fa benigni ci ha sfracagnato le balle, le ovaie, e tutto l’apparato riproduttivo, con l’inno di mameli. e quella paccottiglia non l’hanno inventata i fascisti, l’ha scritta un “patriota vero” nel 1847 (lo dico senza ironia, giuro. chi combatte’ per la repubblica romana ha tutto il mio rispetto). pero’ quella paccottiglia viene da li’, e anche con questo bisogna fare i conti, nonostante la buona fede di chi l’ha scritta.

              • p.s. ecco, vedi, io sono di madrelingua italiana. il mio primo codice linguistico e’ proprio l’italiano standard. il dialetto e’ arrivato dopo. pero’ io non saprei come dire “sfracagnato” in italiano standard :-)
                per me “il freddo” e’ “zima”, come in sloveno. e “cucàr” non significa “prendere della figa”, come da voi in lombardia, bensi’ “guardare di nascosto”, come in tedesco. “cuccare” qua si dice “guantàr”. e cosi’ via. perche’ dico queste cose? perche’ la lingua qua a trieste invece di un’identita’ nazionale esprime piuttosto un’ identita’ composita e plurale. il fascismo qua cerco’ di mettere le grinfie anche sul dialetto, depurandolo dai termini slavi e tedeschi.

          • Da Lo Zingarelli 2004
            “Patria: Paese comune ai componenti di una nazione*, cui essi si sentono legati come individui e come collettività, sia per nascita sia per motivi psicologici, storici, culturali e sim.

            *Nazione: Il complesso degli individui legati da una stessa lingua, storia, civiltà, interessi, aspirazioni, spec. in quanto hanno conoscienza di questo patrimonio comune

            Patriota: Chi ama la patria e lo dimostra, lottando e sacrificandosi per essa”

            Enea, quando parli del forte sentimento che ci lega alla nostra cultura, alla nostra terra, io mi ritrovo nelle tue parole, ma non condivido il far coincidere tutto questo con l’essere patriottico. Come riportato dal dizionario stesso, il termine Patria è controverso e pericoloso davanti a una società multiculturale come la nostra.
            “Una stessa storia, una stessa lingua”, l’Italia non è mai stata un’unicità, ma sempre una pluralità fin dalla stessa età romana quando per la prima volta siamo stati uniti politicamente. Forzare il tutto in un’unicità porta alle porcherie realizzate in periodo fascista.
            A me l’Italia stessa piace per le sue molteplicità. Io sono legato alle mie origini, in esse trovo la mia identità, sentimento amplificato nel vedere tutte le differenze (nel modo di parlare, di pensare, nelle abitudini) rispetto a “voi continentali”, ma non mi sento superiore piuttosto trovo bellissimo il confronto, notare le differenze e riderci su (nel caso). Ecco nell’amare questo tipo d’Italia secondo il tuo ragionamento dovrei dirmi patriottico, ma vocabolario alla mano è una contraddizione in termini.

            Forse è arrivato il momento di ripensare i termini di Patria e Nazione? o Direttamente il momento di pensarne degli altri?

            • Aggiungo: si è parlato anche di D’Annunzio.. Una cosa che non mi sarei mai aspettato da Point Lenana è quella di avere avuto un’immagine di D’Annunzio del tutto edulcorata: diversa da quella di un fascista senza scusanti che mi ero fatto studiando e leggendo su di lui. Non so se è stata solo una mia impressione….

              • Mah, sinceramente, non mi sembra che D’Annunzio ne esca bene, da Point Lenana: lo descriviamo come un poetastro interessato solo a nutrire di steroidi il proprio ego, cantore delle guerre coloniali, apologeta dello sterminio per via aerea, spacciatore di veleni nazionalisti e narrazioni tossiche come la “vittoria mutilata” o Fiume “città olocausta”.
                Raccontiamo che dopo le sue “mattane” non solo la passò liscia (a differenza degli operai del Biennio rosso) ma visse una vecchiaia agiata all’ombra del regime, carico di onorificenze etc.
                Anche quando partecipa a un esperimento interessante come la Reggenza del Carnaro (che Gramsci guardò con grande interesse e la Russia di Lenin addirittura riconobbe come interlocutore), spieghiamo che lo fa “suo malgrado”, andando temporaneamente oltre se stesso, spinto da forze storiche che in fondo non capisce né capirà mai.

              • @WM1 grazie per la puntualizzazione

                Proprio il ruolo che ha assunto durante la Reggenza del Carnaro mi ha spiazzato, come se lo stesso D’Annunzio riconsiderasse tutte le sue esperienze politiche passate.
                Evidentemente mi è sfuggito quel “suo malgrado”..!

    • Molti sono stati commenti sul mio iniziale post. Cosi tanti ed alcuni cosi approfonditi che è impossibile replicare anche a quelli che mi tirano in ballo. alcune osservazioni sono molto interessante, anche quelle che non condivido, altre contengono dati storici inesatti e parziali, ed influenzati da cio’ che si vuole sostenere. In ogni caso ringrazio tutti, compreso l’autore del libro, al quale, per dovuto rispetto ed omaggio, devo un’ultima piccola replica: ma perchè gli italiani avrebbero dovuto sentirsi legati alla alleanza con l’austria se da anni ci combattevamo contro? Quanto alle nazioni ed i popoli, se si va a ritroso, è evidente che si cancella qualsiasi identità nazionale per qualsiasi stato, arriviamo ai romani, poi agli etruschi e cosi via, fino ad arrivare a centinaia di piccoli gruppi etnici che si combattevano tra loro. Lo sviluppo dell’umanità passa anche per la formazione del concetto di stato e quindi di identità nazionale e quindi di patria. certo molto spesso al prezzo di sangue e di quella cosa orribile che è la guerra. Ma la guerra fa parte purtroppo della storia dell’uomo, non della storia della patria o delle nazioni. Certo trovo comprensibile che molti avrebbero voluto che dopo la II guerra si affermasse un concetto di patria-antifascista, dove i tue termini dovevano essere indissolubilmente legati, ma ciò non è successo, bisognerebbe chiedersi le ragioni, e se tra queste ci sia il fatto che una grande parte dell’antifascismo non era per niente legato al concetto di patria, tutt’altro, cosi (errando) ostinandosi a svilirlo, e quindi regalandolo ad altri.

      • “ma perchè gli italiani avrebbero dovuto sentirsi legati alla alleanza con l’austria se da anni ci combattevamo contro?”

        boh, di solito si suppone che i patti vengano rispettati. come aveva ottenuto il “diritto” di conquistare la libia, l’italia? per gentile concessione di austriaci e tedeschi. a guerra gia’ iniziata, nel 1914, i militari italiani avevano gia’ preparato i piani per attaccare la francia e anche per invadere la tunisia. poi l’italia cambio’ fronte, diciamo cosi’. sia chiaro: per me non fa nessuna differenza, sarebbe stata un porcheria comunque, sarebbe stato comunque un mandare al massacro povera gente per ammazzare altra povera gente, per conquistare terra, terra, terra, lo spazio vitale, e tutta quella merda. solo che cosi’ l’italia ci ha anche rimediato una figura da patacca.

      • Mi sa che abbiamo tutti preso un grosso granchio farcito di fuffa caramellata con contorno di cazzate assortite

      • “ma perchè gli italiani avrebbero dovuto sentirsi legati alla alleanza con l’austria se da anni ci combattevamo contro?”

        “Da anni”? “Combattevamo”? A me risulta che l’ultima guerra contro l’Austria-Ungheria fosse finita la bellezza di quarantanove anni prima, nel 1866. Mi risulta anche che dal 1883, ossia da trentuno anni, il Regno d’Italia fosse *alleato* dell’Austria.

        A me dell’Austria e di Cecco Beppe non frega niente, faccio solo notare che il Regno d’Italia entrò in quel conflitto in modo canagliesco e meschino, violando un trattato che aveva firmato e ri-firmato. Quando queste cose le fanno gli altri, magari contro di noi, ci stracciamo le vesti. Quando le facciamo noi, vanno bene. Se c’è una cosa tipicamente italiana, beh, è proprio quest’atteggiamento.

        E poi, tu scrivi “gli italiani”. Moltissimi italiani, lo ripeto, vivevano nei territori dell’Austria-Ungheria, si consideravano sudditi fedeli dell’Imperatore, non si sentivano “irredenti” né ritenevano che i Savoia dovessero “redimerli”. Non avevano alcun interesse a diventare “regnicoli”. Nondimeno, erano italiani. Ed erano patrioti. Solo che la loro patria non era il Regno d’Italia.

        • Non era solo la terza guerra di indipendenza, ma tutto il Risorgimento aveva visto l’austria come principale nemica. Del resto l’alleanza con gli austriaci era, aldilà dei rinnovi formali, in crisi da anni. In ogni caso la I guerra l’ha iniziata l’austria attaccando la serbia, non l’abbiamo mica dichiarata noi. Se poi c’erano popolazioni che volevano restare sotto l’Imperatore, era naturalmente una loro legittima aspirazione, cosi’ come molti italiani legittimamente non avrebbero voluto stare sotto l’Austria o non avrebbero voluto finire sotto la dittatura titina dopo la 2 guerra

          • wait wait wait, l’italia era alleata dell’austria dal 1883, e grazie a questa alleanza aveva ottenuto la libia nel 1912. l’italia non era tenuta a entrare in guerra a fianco dell’austria, ma non era nemmeno tenuta a entrare in guerra *contro* l’austria (trattasi di understatement, n.b.). puoi rigirare la frittata quanto ti pare, ma i fatti sono fatti. l’italia e’ entrata in guerra da aggressore, dopo aver trattato a lungo su due tavoli per decidere da che parte stare.

  13. @giacomo carbone

    guarda, provo a spiegartelo cosi’, in modo obliquo, poi rinuncio. nel 1976 demetrio stratos, introducendo la versione dell’internazionale degli area, disse:

    “il ‘compagno’ ceausescu, primo ministro rumeno, si incazzo’ mortalmente per via dell’internazionale fatta da un gruppetto… evidentemente l’internazionale di ceausescu ha il volto della polizia, e’ una marcia militare. lui si tenga la sua internazionale, noi ci teniamo la nostra.”

    qui l’audio:

    http://www.youtube.com/watch?v=CIgl8Ur5rK8

  14. pero’ scusate, io tutto questo piagnisteo per lo scarso attaccamento alla bandiera degli italiani, in particolare dei politici italiani, non lo capisco. chi e’ andato a votare alle ultime elezioni, si e’ trovato davanti a questo tripudio tricolore :-D

    http://www.mondoinformazione.com/wp-content/uploads/2013/02/scheda-senato-piemonte-2.jpg

    • In mezzo al tripudio di rosso-bianco-verde molto retoricamente e fintamente patriottico, ci sono anche dei simboli che non si richiamano alla bandiera.

      Tra quelli dove non c’è la bandiera esplicitamente inserita nel simbolo, escludi PCL, M5S, forza nuova, pensionati e fare per accellerare il declino, io ho, pur travolto da un certo qual senso di schifo, votato per l’ultimo che resta senza la bandiera. E pazienza che si è preso il 2.2% e si è rimasti extraparlamentari ancora una volta.

      Però scusami, io ho cercato con tanta fatica e magari anche riuscendoci male perchè son concetti complessi, di parlare di forma e qualità di un bicchiere, sostenendo che secondo me non è automatico ed inevitabile che quel tipo di bicchiere debba necessariamente contenere robaccia fascista.
      Tu in pratica in questo modo mi rispondi non sul bicchiere, mi dici che non ti piace il vino e preferisci la birra, e che in ogni caso se non trovo nella sinistra abbastanza sincero sentimento di identità nazionale, posso sempre votare caccapound?

      Non mi sembra molto costruttivo come approccio…

      • @enea

        non era una replica al tuo post, che e’ lungo e complesso e merita una risposta meditata e articolata. era un witz, niente di piu’.

      • pero’ scusa, qua nessuno ha detto che il sentimento di identita’ nazionale debba per forza contenere robaccia fascista. si e’ detta una cosa diversa. si e’ detto che in italia il sentimento di identita’ nazionale deve fare i conti anche con la robaccia fascista che ha prodotto. non c’e’ solo quello, ovviamente, ci sono molte altre cose, parecchie rispettabili e anche piu’ che rispettabili, e altre deprecabili pur non essendo fasciste.

        • Messo in questi termini sottoscrivo.
          Come italiani siamo assolutamente tenuti a fare i conti senza autoassoluzioni col fatto che abbiamo anche prodotto fascismo.
          Per primo oltretutti, facendo da maestri ed apripista per Germania, Spagna, Portogallo.
          Colpa doppia.
          Una volta però che sia riconosciuto che la corrispondenza tra provare un sentimento di identità nazionale e strizzare l’occhio o essere accondiscendenti con quelle idee non sia automatico e necessario, per me sono completamente soddisfatti tutti i presupposti per un dialogo.

          • scusa Enea, ma l’italia i conti con la parte oscura della sua storia li ha fatti per anni e continua a farli, come si fa a negarlo? Poi che in giro ci possa essere qualche esaltato non cambia la questione. invece altre nazioni ed ideologie…, i conti veri non li hanno mai fatti e se ci provi a farli, ti viene risposto che ormai sono cose “passate”. Ti risparmio l’elenco..sarebbe particolarmente lungo………

            • Decenni di rimozione e negazionismo sui nostri crimini coloniali. Linciaggio mediatico e boicottaggio istituzionale nei confronti dei primi storici che scoperchiarono la fossa, a cominciare da Del Boca.

              Un manto di silenzio sui nostri crimini di guerra in Jugoslavia, Albania e Grecia. Non c’è mai stata una “Norimberga” italiana.

              Censura sui documentari (“Fascist Legacy”) e libri (“L’olocausto rimosso”) di autori stranieri che ne parlavano.

              Mai un solo criminale di guerra di quelli presenti sulla lista ONU consegnato alla giustizia dei paesi che ne chiedevano l’estradizione.

              Non c’è mai stata nemmeno l’epurazione. Vent’anni dopo la fine della guerra, la totalità dei prefetti, viceprefetti, questori e vicequestori proveniva dai ranghi del regime. Nessuno di loro aveva partecipato alla guerra di Liberazione. Per non parlare della magistratura, dei servizi segreti etc.

              Decenni di cultura di massa che ha esercitato un’azione edulcorante del fascismo, presuntamente “più innocuo” del nazismo, con meccanismi retorici perfettamente ricostruiti e analizzati da storici come Franzinelli. La premessa per quella rappresentazione era la rimozione dal dibattito pubblico dei nostri crimini coloniali e di guerra.

              Di contro, in queste settimane, il Regno Unito sta negoziando col Kenya un risarcimento di milioni e milioni di sterline per l’internamento dei Mau Mau, le torture e gli omicidi perpetrati per reprimere l’insurrezione degli anni Cinquanta.

              Ma queste sono tutte cose già scritte e spiegate, con esempi su esempi, in Point Lenana. Anche ignorare questo, e riattaccare ogni volta da capo con commenti zero-argomentati e privi di esempi è una forma di provocazione.

              • “Decenni di cultura di massa che ha esercitato un’azione edulcorante del fascismo, presuntamente “più innocuo” del nazismo […]”.

                Su questo punto ti segnalo un link relativo a una conferenza (svoltasi a Gorizia, in occasione del festival *èStoria*, il mese scorso) tenuta dal noto storico del nazismo Ian Kershaw. Ero presente tra il pubblico e avevo nello zaino Point Lenana. Mi ha fatto un po’ effetto sentire queste parole (minuto: 1.04.23) dell’interprete che traduceva (ovviamente do x scontato che la traduzione dall’inglese sia buona) in italiano l’intervento di Kershaw.

                Qui sotto il link

                http://www.youtube.com/watch?v=H_yRLBH8c6I&feature=c4-overview&list=UULOxGOgwZ9UMDyWOFxAwKEA

              • Ciao!
                ma secondo te evocare il modello Norimberga quando si discute di fare i conti con il fascismo rimosso non rischia di essere fuorviante e forse diventare parte stessa del problema?

                Norimberga secondo me ha infatti prodotto, sia in chiave storiografica che in chiave di dibattito pubblico, altrettanti e pericolosi meccanismi di edulcorazione e relativizzazione del nazifascismo (i.e. penso all’influenza di Nolte e alla sua scuola di pensiero sul dibatto storiografico e su quello più propriamente “pubblico”).

                • Constatare che non c’è stata una “Norimberga italiana” (il che è un dato di fatto) non significa fare l’apologia del processo di Norimberga, è solo un modo icastico e diretto di dire che qui non si è arrivati nemmeno all’insufficienza, cioè è mancato anche il livello *minimo* di consapevolezza che l’Italia aveva prodotto dei criminali di guerra. Se a nove italiani su dieci parli di “criminali di guerra italiani”, ti rispondono: “Eh?!”
                  Il fatto che i governi postbellici abbiano *protetto istituzionalmente* i criminali di guerra italiani non è una cosa da poco, e ha avuto un’influenza diretta sul processo di rimozione delle colpe nazionali, e di conseguente edulcorazione del fascismo.
                  Per dire, la Germania pagò risarcimenti di guerra alla Jugoslavia, l’Italia non lo fece mai. Parlo della Jugoslavia perché è il paese europeo dove istituimmo lager micidiali e dove commettemmo stragi tra le più efferate.
                  Da noi è considerato assolutamente normale che non ci sia stata nessuna epurazione nella macchina dello stato (in tutta Italia solo trecento persone furono rimosse dai loro incarichi e uffici). In fondo, a parte lo “scivolone” delle leggi razziali e la “svista” di entrare in guerra al fianco di Hitler, che aveva fatto di così cattivo il fascismo? Questa è la narrazione dominante in Italia, anche se è dominante in modo carsico, in alcune fasi si fa discorso pubblico conclamato, in altre si fa chiacchiera più discreta, ma non cessa mai di influenzare le menti.

              • @ Anna Luisa (ti chiedo scusa per l’involontaria scortesia di sovrapporre il mio commento che invece è una risposta al tuo, al quale però manca il pulsante Reply). Il punto di vista di Kershaw mi sembra piuttosto antiquato. In Italia anche la storiografia “mainstream” – Emilio Gentile, per dire uno storico nient’affatto di sinistra – ha ormai confutato il vecchio luogo comune del fascismo come “dittatura all’acqua di rose” contrapposto al “vero” totalitarismo dei nazisti. Il fascismo inventò il termine stesso di Stato totalitario; il progetto politico fascista di creare un “uomo nuovo” non fu affatto meno aberrante di quello nazista, al quale in realtà servì d’esempio.

                Anche la contrapposizione stabilita da Kershaw fra l’imperialismo fascista e quello nazista è molto artificiosa, per non dire peggio. I metodi erano gli stessi; che differenza fa se il fascismo li impiegò in Africa (ma anche nei Balcani, cosa che Kershaw dimentica) e il nazismo in Europa?

                Piuttosto l’osservazione da fare in proposito sarebbe un’altra, e mi pare che sia accennata in un passo di Point Lenana (non ho il libro sotto mano, poi andrò a cercarmi il riferimento esatto). E’ che ci fu una specie di effetto-boomerang: i crimini che il colonialismo fino ad allora aveva commesso appunto nelle colonie, col nazifascismo finirono per riapparire nel centro stesso dell’Europa.

                Anzi, il testo sembra suggerire che questa sia una legge storica generale, se non una legge karmica. Anche oggigiorno si verifica questo fatto, che le politiche sperimentate alla periferia dell’Impero finiscono poi per trovare applicazione al centro. Per dire, in questi anni in Europa ci siamo forse illusi che la “shock economy”, il liberismo estremo, sarebbe rimasto confinato a paesi come il Cile o l’Indonesia. E invece…

                • Salvatore, confermo, uno degli intenti di #PointLenana era proprio evidenziare quel che dici, partendo dalla famosa frase di Aimé Césaire che riportiamo (Hitler ha osato fare a bianchi europei quello che i colonialismi avevano già fatto ai popoli di “colore”).

                  Dirò di più: uno dei sottotesti del libro è che la resistenza antifascista italiana (ma in generale europea) sia parte di un ciclo più vasto iniziato anni prima, un insieme di guerriglie anticoloniali e poi antifasciste che comprende la guerriglia in Tripolitania e Cirenaica, la resistenza etiope (la storia di S. Giorgio e il drago, ambientata a Cirene, cioè in Libia!, e ripresa in modo allegorico dai combattenti abissini a Mai Ceu, allude a tale “passaggio di testimone”), la prima resistenza in “Venezia Giulia” (con gruppi come il TIGR, attivi fin dal 1928) etc.

                  Il concetto di “Resistenza antifascista”, solitamente eurocentrico e “secondaguerramondialecentrico” (al massimo si ingloba la guerra civile spagnola, finita poco prima della 2GM), va senz’altro esteso nello spazio, includendo l’Africa, e nel tempo, abbracciando la guerra di Libia e quella d’Etiopia, la lotta armata slovena e croata durante il Ventennio, e in Italia gli Arditi del Popolo, oltre a vari movimenti attivi in Europa negli anni ’20.

                  Anzi: in fondo la nostra Resistenza arriva buona ultima, quando per la legge “karmica” che si diceva, ci siamo ritrovati a subire per mano nazista e collaborazionista quello che slavi, libici ed etiopi avevano subito per mano italiana, e di conseguenza abbiamo messo su (in molti casi senza saperlo) i nostri corrispettivi degli eserciti guerriglieri di Mohamed Fekhini, di Omar Al-Mukhtar, di Ras Immirù, di Abebé Aregai etc.

                  Ci sono alcune figure che fanno da collegamento tra queste esperienze. Penso, ad esempio, a Ilio Barontini, che prima di essere un leader partigiano in Italia, era stato un istruttore militare inviato dal Komintern in missione segreta in Etiopia.

              • Due ultime osservazioni: lieto di scoprire che i commenti finiscono comunque in calce; e Ian Kershaw indossa una cravatta davvero inammissibile.

              • @wm1

                questo e’ notevole: anton ukmar, sloveno di trieste, ferroviere, comunista. bastonato dagli squadristi a genova, torna a trieste ed entra nel tigr. viene prosciolto nel primo processo di trieste ed espatria prima a parigi, poi a mosca. nel ’36 e’ combattente in spagna e nel ’39 e’ in etiopia a combattere contro gli italiani per conto del controspionaggio sovietico. nel ’43, attraverso la francia, entra in italia e si unisce ai garibaldini in liguria e in piemonte. nel ’45 torna a trieste e diventa comandante della polizia jugoslava nella zona b del tlt. infine nel ’55 e’ deputato al parlamento di lubiana.

                praticamente tutto il percorso che hai descritto, concentrato in una sola persona.

                • Infatti Anton Ukmar meriterebbe un oggetto narrativo non-identificato tutto suo. Solo che bisognerebbe saper leggere le fonti in sloveno e serbo-croato…

              • @ Salvatore Talia: “Il punto di vista di Kershaw mi sembra piuttosto antiquato. In Italia anche la storiografia “mainstream” – Emilio Gentile, per dire uno storico nient’affatto di sinistra – ha ormai confutato il vecchio luogo comune del fascismo come “dittatura all’acqua di rose” contrapposto al “vero” totalitarismo dei nazisti.”

                Condivido il tuo pensiero (sì, conosco i libri di E. Gentile). Ma, infatti, sono rimasta stupita di quell’intervento (ero seduta in prima fila eppure, per un attimo, ho pensato di non aver inteso bene le parole di I.K). Tra l’altro, in quei giorni, avevo le “antenne dritte” rispetto a certi temi: stavo leggendo Point Lenana, mi ero riletta da poco Del Boca e avevo appena terminato il saggio di Franzinelli *Il prigioniero di Salò* (che ti consiglio) dove vengono riportate frasi di Mussolini (spesso scambi epistolari con la Petacci, ma non solo) pesantissime per ciò che concerne il razzismo.
                Cose del tipo: “Adesso rabbrividisco al pensiero che truppe africane – per la prima volta nella storia – sfilino per Via dell’Impero, non più come nel 1937 da servi, ma da padroni; non più come vinti, ma come vincitori”.

                O anche: “E così a poco a poco tutta la mia, tutta la nostra Romagna, quella terra di cui eri innamorata, quella terra che ti stordiva col suo sole, il suo verde, i suoi profumi, la sua gente, il suo mare: quella terra è ora sotto il giogo odiatissimo dei negri, polacchi e simili bastardi. Ne soffro”.

                AH! Il razzismo accessorio e soft…

              • Règaz, Ian Cherscio è un noto cazzaro.

              • Salve. (Per prima volta su Giap, ma attento lettore).
                Il testo “L’olocausto rimosso” sembra introvabile. Su Google ho trovato questa notizia del 1992 dove si parla dei ritardi della sua pubblicazione dovuti alle proteste del prefetto Giovanni Ravalli, accusato dall’autore Michael Palumbo di “d’ una serie di nefandezze. Aver seviziato a morte un poliziotto greco di nome Isaac Sinagoglou. Essere solito stuprare le donne delle quali aveva fatto imprigionare i fratelli, i mariti o i padri. Aver autorizzato la tortura di settanta prigionieri greci (asportate porzioni di carne e versati olio bollente e sale nelle ferite).” http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/1992/04/17/quel-libro-non-si-stampi.html
                Sapete se questo libro venna alla fine pubblicato e se è ancora in circolazione?

              • @Anna Luisa: sì, “Il prigioniero di Salò” è un testo che andrebbe fatto leggere nelle scuole superiori. Demolisce, con documenti inoppugnabili, il mito di Mussolini costruito dalla propaganda di regime e perpetuato nel dopoguerra da una certa pubblicistica. Sono diventato praticamente un fan di Mimmo Franzinelli; questo libro in particolare l’ho comprato poco dopo aver letto la (tua?) bella intervista su Carmilla:

                http://www.carmillaonline.com/2013/03/18/il-prigioniero-di-sal-intervista-a-mimmo-franzinelli/

                Franzinelli è tornato sull’argomento con un’altra interessante intervista uscita sul “manifesto” circa un mese fa; se il link funziona, è questa:

                http://www.scribd.com/doc/143359170/Il-Filo-Nero-Che-Ci-Lega-Alla-Propaganda-
                Mussoliniana-Intervista-Con-Mimmo-Franzinelli-Il-Manifesto-24-05-2013

            • scopro ora che su anton ukmar c’e’ questo oggetto narrativo (cinematografico) non identificato:

              http://www.quasarmultimedia.it/quasarweb/index.php?option=com_content&view=article&id=67&Itemid=93&lang=it

              • Dinanzi a cotanto manicheismo provo a gettare ulteriori sassi pseudopolemici, dunque mi chiedo come devo considerare anton ukmar che è stato nel controspionaggio di una dittatura sanguinaria che nel 1939 era pure alleata di Hitler, e poi nella polizia e nel governo di una altra dittatura come quella titina, o mi chiedo se il vergognoso giudizio di mussolini sui “neri” non vada di pari passo alle leggi razziali che al tempo vigevano in molti degli stati uniti o nelle colonie inglesi, o se il giudizio sui polacchi non sia esecrabile come il massacro degli ufficiali polacchi compiuto dall’esercito sovietico, e mi chiedo ancora se è andata meglio a chi è rimasto aldiqua del confine a vivere in democrazia, o a chi è rimasto sotto la dittatura jugoslava, o tra chi dopo è andato lì illuso dal comunismo e finito in malo modo e chi da li è scappato, sia pure sotto le vergognose pernacchie dei ferrovieri emiliani. Certo dire che il fascismo fu una dittatura all’acqua di rose è una fandonia, ma paragonarlo al nazismo quanto a crudeltà e crimini è un falso storico. durante il fascismo, prima della guerra, le condanne a morte eseguite non superano il centinaio, certo dato orribile, ma che non è neppure paragonabile ai crimini nazisti o alle esecuzioni di altre dittature di tutte le colorazioni, da pinochet a mao, da quella sovietica a quella di polpot, dei militari argentini o dei vietcong. Voi dite che la storia non è stata esaustiva sui crimini italiani? forse, ma io so che a scuola i libri mi insegnavano una condanna netta e decisa del colonialismo italiano e del fascismo. peccato che gli stessi libri mi raccontavano un sacco di balle su altri “regimi”, tacendone gli orrori e le stragi compiute, salvo pochi accenni e dilungandosi sulle bellezze del socialismo reale. Per anni c’è stata solo una storiografia, che ha messo tutto il male da una parte, e il bene dall’altra, e voi mi venite a dire che c’è stato del negazionismo sui crimini fascisti. Ma che dite, ma se per decenni, chi provava a porre un dubbio sulla vulgata ufficiale antifascista veniva subito tacciato di fascismo e posto all’indice! Ma siate obiettivi su. La guerra è stata orribile (lo è sempre), il fascismo pure, il nazismo è stata la cosa peggiore prodotta dall’uomo, ma le porcherie in guerra le hanno commesse tutti, gli alleati in ciociaria, i croati contro gli jugoslavi (e noi le abbiamo fermate e non i titini..), e lo stesso è accaduto nelle colonie italiane o francesi che fossero, cosi come i crimini son continuati anche quando ce ne siamo andati. Mi si dice che nel dopoguerra ci volevano piu’ epurazioni? E come si sostituivano quei funzionari di prefettura o di polizia? Con i membri del CLN che erano in armi e la maggior parte dei quali voleva portarci sotto il giogo della dittatura sovietica? Doveva scoppiare un’altra guerra civile oppure dovevamo finire sotto una occupazione angloamericana a vita? E basta su, son passati sessant’anni e piu’, e devo ancora sentire gente che si esalta per uno che lavorava per il controspionaggio di un pazzo sanguinario come Stalin

                • Carbone, adesso ho la conferma definitiva che lei le argomentazioni e i fatti contenuti nel nostro libro li ignora completamente, altrimenti eviterebbe di scrivere la spettacolare idiozia: “durante il fascismo, prima della guerra, le condanne a morte eseguite non superano il centinaio”. In Libia il fascismo uccise oltre centomila persone, in pratica condannò a morte buona parte della popolazione del Gebel Achdar (Badoglio scrisse che bisognava procedere con gli internamenti “a costo di far perire l’intera popolazione della Cirenaica”). In Africa orientale gli storici si sono più o meno accordati sulle trecentomila vittime del colonialismo fascista. I telegrammi con cui Mussolini esorta Graziani a sterminare, sterminare, sterminare sono conservati all’Archivio di Stato e c’è poco da equivocare.
                  Tutto questo prima della seconda guerra mondiale.
                  Ma vorrei anche ricordare che il fascismo andò al potere con metodi terroristici. Nel periodo 1920-22 la violenza squadrista fece *migliaia* di vittime.
                  L’attenuazione del giudizio sul fascismo è conseguenza di una rimozione che ha prodotto deresponsabilizzazione, conformismo e ignoranza.
                  Solo a causa di questa rimozione si può dire che “noi” in Jugoslavia abbiamo “fermato violenze” contro la popolazione. In Jugoslavia, ed è tutto documentato, abbiamo aperto lager come quello sull’isola di Arbe, dove c’era lo stesso tasso di mortalità di Dachau, e abbiamo compiuto stragi. Per mano nostra, in Jugoslavia era Marzabotto tutti i giorni. Ma già, “il nazismo era peggio”. Questa è la narrazione autoconsolatoria che si è imposta: i tedeschi eran peggio, quindi non rompeteci i coglioni.

                  C’è un nome per un approccio come il suo: “benaltrismo”, che qui si presenta con l’argomento “Così fan tutti”. Che – per fare un esempio – consiste, se si parla di crimini di guerra italiani in Jugoslavia, nel dire: “E allora le foibe?!”, senza nemmeno rendersi conto che si sta invertendo l’ordine degli eventi e descrivendo a rovescio la reazione a catena. Se si parla della rimozione dei nostri crimini coloniali, si dice: “E allora gli inglesi?!” Come se la prima parte di Point Lenana non contenesse una durissima requisitoria contro il colonialismo britannico e i suoi orrori…
                  Fatto sta che “gli inglesi” i conti con i loro orrori coloniali li stanno facendo da anni, noialtri no.
                  Tra l’altro, e nel libro lo abbiamo fatto notare, per decenni ci siamo sentiti dire che il colonialismo italiano era meglio degli altri, oggi invece almeno si è abbassata la cresta e si dice che *faceva schifo come gli altri*, in ogni caso si tirano sempre in ballo gli altri, gli altri, gli altri… Tirare in ballo gli altri è lo sport nazionale. E così, se si parla di fascismo, la reazione è invariabilmente: “E i comunisti allora?!” E allora si dice che i partigiani volevano portarci sotto il giogo della dittatura sovietica. Poco importa che per il 90% di quei ventenni e meno-che-ventenni l’URSS fosse soprattutto Stalingrado e stessero combattendo non per la dittatura ma per la libertà.
                  Faccio notare che senza la resistenza e la controffensiva di Stalingrado il nazismo non sarebbe stato sconfitto. Quella controffensiva avvenne *nonostante* Stalin. Le sue purghe avevano decapitato e decimato l’Armata Rossa, e questo aveva avuto conseguenze devastanti, permettendo ai tedeschi di avanzare per lunghi mesi prima di essere bloccati dal Generale Inverno. Non solo l’entusiasmo per Stalingrado che esplose nell’Europa occupata dai nazisti non aveva niente a che fare con la volontà di instaurare una nuova dittatura, ma la stessa vicenda di Stalingrado, a studiarla e conoscerla, sfata molti luoghi comuni.

                  Io non la biasimo per il fatto che non conosce questo blog e le nostre posizioni in materia di stalinismo, socialismo reale etc. Uno non è obbligato a sapere che noi veniamo da una tradizione di sinistra critica e libertaria che dallo stalinismo è stata sempre e solo perseguitata. Quel che biasimo, in lei e in altri, è il ridurre tutta la storia del XX secolo a una narrazione fatta con la bilancia e con il righello, a cercare equipollenze ed equidistanze, e quindi a semplificare in modo puerile.

                  Ragion per cui, uno come Ukmar, membro di una comunità che il fascismo tentò di spazzare via in nome di un’idea di superiorità razziale, che ebbe amici e parenti perseguitati e fu egli stesso picchiato dagli squadristi per poi passarne di cotte e di crude, uno che decise di combattere il fascismo ovunque fosse possibile, ed ebbe una vita complessissima, diventa semplicemente… un funzionario di una dittatura. Tutto viene schiacciato e trasformato nella solita poltiglia che intasa il discorso pubblico e rende impossibile capire il Novecento.
                  La parabola di vita di Ukmar e i punti che la sua esistenza ha collegato forniscono l’incarnazione di una vicenda ampia e transnazionale, mai raccontata davvero nella sua molteplicità e complessità, con tutte le contraddizioni, le lacerazioni, le scelte su cui è troppo facile trinciare giudizi ex-post. Noi scriviamo che ci vorrebbe un “oggetto narrativo non-identificato” per gettare luce su quella vita, e lei blatera di “manicheismo”… Per poi concludere con la solita, stolida chiosa di sempre: “Su, son passati sessant’anni e più”.
                  [Anche questo fa parte dell’edulcorazione: pensare che il fascismo, i fascismi, siano una cosa del passato. Intanto in Europa si rischiano bruttissime derive, basti vedere cosa succede in Ungheria, o la totale collusione tra Alba Dorata e forza dell’ordine in Grecia… Intanto i neofascisti sprangano e pugnalano, a Parigi come a Velletri, e spesso uccidono (lei ha mai sentito parlare di Davide Cesare, di Nicola Tommasoli…?). Ma già, è solo “qualche esaltato”. Anche Breivik, pure lui era solo un esaltato…]

              • @wm1

                sì capisco cosa intendi quando dici “non siamo arrivati nemmeno all’insufficienza” però ecco mi chiedevo se anche i soli procedimenti giuridici e/o amministrativi possano contribuire un minimo, a livello qualitativo, a mettere in discussione il proprio passato, ad una presa di coscienza qualitativamente utile. che in germania, a livello giuridico, nell’immediato non si sia andati per il sottile è un dato di fatto – anche se paradossalmente, sul lungo periodo, i molti nervi scoperti di Norimberga hanno dato più di uno spunto per relativizzare e minimizzare il nazismo chiamando in causa gli stessi giudici che lo condannavano. ma lo stesso processo di de-nazificazione nella repubblica federale è stato, per quanto riguarda i gangli burocratici/amministrativi/culturali della repubblica federale, altrettanto impressionante per inazione e carenza. così su due piedi mi viene in mente il libro di wahl su rizzoli uscito anni fa che parlava in modo approfondito di questo aspetto; e parallelamente anche la francia post-vichy, se nell’immediato è andata con passo spedito nel processare e mettere al muro i suoi “figli di stronza”, tuttavia nel lungo periodo ha iniziato a sperimentare ugualmente problemi di “convivenza” con quello stesso passato che aveva cercato, anche in modo monitorio (cfr. la messa a morte di brasillach), di mettere alla sbarra (vd tra gli altri i casini di mitterand e le accuse di connivenze con vichy, o il processo a barbie che diventa un boomerang che si ribalta sulla francia “democratica” ai tempi della guerra d’algeria). quindi ecco, mi chiedevo se il motivo per cui in certi paesi il nazifascismo è “meno rimosso” che da noi sia dovuto in modo esclusivo e determinante alla problematizzazione culturale e politica del problema.

                permettimi di prenderla un po alla larga – il caldo non aiuta- però mi vengono da fare un paio di considerazioni sugli attegiamenti schizofrenici che, secondo me, da sempre hanno caratterizzato il dibattito pubblico e storico sul tema del fascismo e antifascismo da noi, rispetto magari ad altri contesti europei coevi.

                è vero gli ex fascisti vengono sostanzialmente ri-immessi nella macchina statale, schematizzando: la DC assicura la continuità tra il prima e il dopo, e la maggior parte di questi ex fascisti ripuliti trovano un nuovo referente politico nella nuova “era repubblicana”. però paradossalmente concorre a questo piano di riassorbimento pure il PCI che, e forse è anche peggio, non è che li riassorbe in funzione “tecnica” per assicurare una continuità funzionale tra prima e dopo ma li riassorbe con un preciso intento egemonico culturale senza però problematizzare questo assorbimento, senza chiedersi cosa potrebbe comportare per l’antifascismo questo fenomeno. ora lasciamo da parte i motivi addotti da Togliatti sulla necessità di una “concordia nazionale”; Il Migliore sappiamo benissimo che non si è mai mosso senza un preciso calcolo di opportunità e/o necessità – e i compagni polacchi e spagnoli ne sapevano qualcosa – e difatti inizia subito una campagna “acquisti” verso tutti i giovani ex fascisti o gli ex sindacalisti fascisti che chiama a sè nel partito o nella cgil. tra gli altri ne parla molto di questa cosa buchignani in “fascisti rossi” dove descrive proprio questo travaso di ex X MAS verso il PCI (tra l’altro una cosa nemmeno fatta tanto di nascosto visto che nel dopoguerra togliatti e longo decidono di utilizzare alcuni momenti di riflessione pubblica in occasione di ricorrenze come il 25 aprile per aprire un “confronto” sulle pulsioni [ed eventuali similitudini] rivoluzionarie tra partigiani e saloini. e memorabile rimane il giorno in cui Rauti va ad una sezione del PCI di roma e gli ex partigiani lo accolgono così” ok i capi hanno detto che dovete parlare. e va bene. però voi entrate, parlate alla svelta e ve ne andate di corsa. o finisce male”).

                e contemporaneamente a questo la sinistra antifascista inizia poi a elaborare un paradigma su cosa è stato il fascismo che fino ai ’70 diventa un vero e proprio dogma che difficilmente viene messo in discussione: il fascismo come moloch unico che nasce e resta grossomodo uguale a se stesso dal 22 al 45 senza soluzione di continuità: una semplice maschera calata sul volto bifronte del capitale agrario e industriale, una mera facciata che di volta in volta mostra le tipiche manifestazioni aggressive e omicidiarie del capitale imperialista. punto. un dogma che difficilmente viene messo in discussione da quell’area politica – tipo il pur socialista De Felice per iniziare a impostare il problema, a livello storiografico, da coordinate diverse paradossalmente deve fare riferimento inizialmente al pubblico extra-italiano perchè lo tacciano di essere “amico dei fasci” – e che si sviluppa di pari passo con una schematizzazione e vulgata resistenziale che dipinge il movimento resistenziale come una omogenea lotta di popolo – ogni riferimento alla lotta di classe è bandita- di una maggioranza di italiani compatti contro il regime e i suoi alleati .evitando, per ovvie e comprensibili ragioni, di sviscerare le ragioni per cui la maggior parte di quel popolo – sia lavoratore che intellettuale – ha aderito, anche con spirito rivoluzionario a quella stessa avventura che da metà anni 30 in poi combatte (un esempio di microstoria per rendere l’idea: per anni nel mio paese noi nipoti di ex partigiani abbiamo ricevuto ritualmente in prossimità di ogni 25 aprile/ 1 maggio, e prima di noi i nostri babbi, “un popolo alla macchia” di Longo, ritenuto l’alfa e omega sull’argomento). Perchè nessuno spiega e parla degli appelli degli anni 30 ai “fratelli in camicia nera”? perchè nessuno spiega e parla di quelli che come bilenchi, pratolini, vittorini e tanti altri come loro prima sono entusiasti fascisti rivoluzionari e poi si trovano a combattere sul fronte opposto ma confermando che l’impeto rivoluzionario che li animava anche prima era il medesimo( e senza scomodare queste famose penne mi vengono in mente diversi partigaini delle mie parti..prima entusiasti rivoluzionari del GUF poi vibranti rivoluzionari comunisti)? perchè nessuno spiega il perchè in quegli anni (anni 30) le lettere che arrivano al centro estero della concentrazione antifascista in francia dicono sostanzialmente “guardate che qui in italia non ci si inculano di pezza. sono tutti sostanzialmente favorevoli al regime o al limite afascisti ma potenzialità di rottura non se ne vedono” (cfr. le lettere a milano di giorgio amendola). tutto questo a me porta a dire che il fascismo è stato rimosso perchè i primi a parlarne secondo prospettive dogmatiche ,immobili e riduttive sono stati spesso gli stessi appartenenti a quell’universo culturale che va sotto il nome di antifascismo; e comprensibilmente dico io, non mi aspetto da chi è stato emotivamente coinvolto in un fenomeno storico di dare giudizi o interpretazioni che prescindano dal proprio vissuto. tuttavia questa cristalizzazione che è perdurata nel tempo e che si è accompagnata ad una mancata problematizzazione del problema ha inevitabilmente comportato, nel lungo periodo e con l’approsimarsi del riflusso degli anni ’80, quella crisi dell’antifascismo e che arriva poi a trovarsi difronte a mostri come vespa e pansa proprio in ragione dei tanti spazi di discussione lasciati “aperti al nemico”.

                p.s. perdona la prolissità. devo ancora prendere familiarità con lo strumento ” blog “

                • Sono più o meno d’accordo con buona parte delle tue asserzioni, con alcuni distinguo su cui però al momento soprassiedo. Sono d’accordo per il semplice motivo che sono cose che abbiamo scritto e detto tante volte anche noi, le scelte di Togliatti, la vulgata pciista sulla Resistenza, la narrazione interclassista da mausoleo, gli spazi “lasciati aperti al nemico”… Ci abbiamo scritto sopra un libro (Asce di guerra) e ci abbiamo fatto sopra svariati interventi pubblici… Quanto al GUF, quello che scrivi lo scriviamo anche noi *quasi testuale* in Point Lenana!

                  Il punto di forza, comunque, è che adesso quella vulgata non esiste più. Se di quell’assenza negli ultimi vent’anni ha approfittato soprattutto la destra, la sfida ora è approfittarne da sinistra. Oggi si può ricostruire una narrazione della Resistenza fuori dalle gabbie di quella realpolitik d’antan che “smacchiava” tutto, e che tante colpe ha anche nella mancata epurazione (già in due libri ce la siamo presi con l’amnistia di Togliatti).

                  Tra l’altro, già da anni la storiografia di sinistra che la destra descrive come “ortodossa” ha prodotto analisi e ricostruzioni molto lontane dalla vecchia vulgata, con notevoli elementi di complessità. Già un quarto di secolo fa Claudio Pavone, che a sentire certi stronzi sarebbe il decano dei trinariciuti, ha scritto un’opera capitale che a tutt’oggi, con tutte le critiche che vogliamo fare a questo o quel passaggio, resta una miniera, e che tra l’altro ha il merito di aver reintrodotto la categoria della “guerra di classe” tra quelle usate per descrivere la lotta partigiana. Ma a parte Pavone, penso a una plètora di storici più giovani, che nella precarietà accademica o nel circuito degli istituti storici portano avanti ricerche che rendono di nuovo *fluida* la narrazione della Resistenza.

                  A conti fatti, non credo che stiamo ripartendo da zero, e dirò di più: forse il tempo dei Pansa e mistificatori vari è già finito.

              • “In Libia il fascismo uccise oltre centomila persone” ecc.

                vabbuò ja ma quelli so negri oppure arabi, che poi è la stessa cosa…

                Scusa giacomocarbone, tu sostieni di conoscere il colonialismo italiano e nonostante questo metti nella conta dei morti pre-guerra solo gli italiani? A casa mia questo si chiama schifoso razzismo.

              • il risultato di questa rimozione:

                “Nel nostro Paese a dicembre i rifugiati erano 64.779: una cifra sicuramente significativa ma ben lontana dalle immagini catastrofiche proposte negli anni scorsi. In realtà l’Italia è al sesto posto fra gli Stati europei, ben lontana dalla Germania, che ha accolto 589.737 rifugiati, e dalla Francia, che ne ospita 217.865. Anche il Regno Unito (con 149.765), la Svezia (92.872) e la piccola Olanda (74.598) hanno fatto di più, aprendo le porte a perseguitati e fuggiaschi.”

                http://www.repubblica.it/solidarieta/immigrazione/2013/06/19/news/rapporto_unhcr-61387635/?ref=HREC1-8

              • A proposito di #ItalianiBravaGente , di creazione di falsi miti e martiri sul confine orientale , fresco fresco di giornata oggi arriva questo http://www.repubblica.it/esteri/2013/06/21/news/lo_schindler_italiano_collaborava_con_i_nazisti-61538511/ chissà che tra un po’ non si accorgano anche che le decine di migliaia di vittime delle foibe sia una deliziosa, certosina, puttanata?

              • @Lo.Fi
                questa storia di Palatucci può diventare un caso di studio sul modo di procedere di certa storiografia italiana e su quanto le tossine possano influenzare il nostro modo di valutare il passato e il presente.
                Qualcuno racconta una “storia”, la storia si fissa e diventa “documento” da cui partono le successive narrazioni (in questo caso: celebrazioni). Ma basta che qualcuno decida di rifare il percorso a ritroso, basta che qualcuno decida di tornare in archivio, e la storia cambia, la prospettiva muta…
                (aggiungo: http://www.corriere.it/cultura/13_giugno_21/palatucci-giusto-yad-vashem_d8eb59e0-da38-11e2-9d67-b685cbe4cbd5.shtml)

              • @Danae
                Secondo me la storiografia non c’entra, nel senso che le viene proprio sbarrato l’accesso, come se su certe vicende strategiche fosse affisso un cartello

              • è partito il commento prima di averlo finito, sorry… dicevo come se fosse affisso un cartello QUI LA STORIA E I SUOI STRUMENTI DI CONTROLLO DELLE FONTI NON POSSONO ENTRARE – aggiungo che delle ambiguità e delle zone d’ombra di Palatucci si sapeva già, ma il suo caso riguarda istituzioni non italiane e solo la notizia delle defenestrazione del suo nome dal museo dell’olocausto di Washington e il riesame da parte di altri istituti lo pone oggi sotto i riflettori.

              • @Lo.Fi
                sì, e l’apposizione dell’aggettivo (diminutivo) “certa” andava nella direzione che dici tu.
                Proprio ieri, con uno storico che si occupa prevalentemente di antichità riflettevamo sul fatto che qualcosa che ci può sembrare lapalissiano, evidente, noto, può non esserlo altrove. E che quando, dopo gli scavi negli archivi, viene fuori qualcosa di nuovo, è difficile comunicarlo, perché nella mente delle persone si sono fissate idee e immagini (anche concrete: monumenti, lapidi, beatificazioni, liturgie laiche e religiose) difficili da scardinare.

              • A proposito di Palatucci, mi dicono che ieri su Radio Popolare lo storico Michele Sarfatti contestava le accuse di collaborazionismo, dicendo che gli articoli usciti sul NYT e altri giornali hanno preso fischi per fiaschi. Sarfatti è uno degli storici che, documenti alla mano, hanno smontato il mito delle “migliaia di ebrei salvate dallo Schindler italiano”, dice che Palatucci non salvò nessuno, ma non per questo fu un collaborazionista. Morì a Dachau perché filo-alleato. Preciso che sto riportando queste dichiarazioni di seconda mano, non ho sentito la trasmissione e in questo momento non ho il tempo per cercare riferimenti in rete, fate vobis! Grazie a @MicheleFrost1 per la segnalazione.

              • «i vivi ricordano i morti nel modo che è utile ai vivi».
                Michele Sarfatti intervistato dall’HuffPost: http://www.huffingtonpost.it/2013/06/20/giovanni-palatucci-intervista-sarfatti-prove-ebrei_n_3472699.html?utm_hp_ref=italy

              • P.S. Immagino che Sarfatti intendesse dire “non più collaborazionista di altri” o “un collaborazionista non particolarmente zelante”. In quanto alto funzionario della questura di Fiume durante l’occupazione nazista, difficilmente avrebbe potuto NON collaborare coi tedeschi… E’ un fatto oggettivo. Stiamo parlando, poi, di un dirigente della polizia del regime fascista, quella polizia che dal ’38 si occupava di applicare le leggi contro gli ebrei. Se poi viene fuori che materialmente non salvò nessuno, come scrive Natalia Indrimi qui:
                http://it.wikipedia.org/wiki/Discussione:Giovanni_Palatucci
                beh, insomma, il quadro cambia.

              • @Danae, ci siamo incrociati.

                Ho letto l’intervista a Sarfatti.

                Questa storia di onorificenze e commemorazioni che arrivano prima della ricerca storica è una cosa che Claudia Cernigoi, Alessandra Kersevan e altri ripetono da anni a proposito della “foiba” di Basovizza (in realtà un pozzo minerario) proclamata monumento nazionale. Per dire.

              • assumiamo che palatucci non abbia collaborato attivamente alla deportazione dei 480 ebrei fiumani.

                il meglio che si possa dire di lui a questo punto e’ che fu un funzionario del kuestenland che cerco’ di passare con gli alleati.

                resta un dato molto grave: per 60 anni si e’ fatto credere che palatucci fosse un coraggioso salvatore di ebrei, e a trieste gli si e’ dedicata la via in cui si trova la risiera. il mito di palatucci a trieste svolge un ruolo importantissimo nella costruzione della “perfetta simmetria” risiera-foibe. quella simmetria che serve a proiettare fuori dalla citta’ l’origine di qualunque male, e a rimuovere dalla coscienza collettiva i 18 mesi dell’adriatiches kuestenland e della collaborazione attiva dei fascisti giuliani direttamente con lo stato nazista tedesco, senza nemmeno il “paravento” di salo’.

                qua ne parlava galliano fogar:

                http://archivio.eddyburg.it/article/articleview/5965/0/20/

              • questo si’ che si chiama tempismo!

                16 giugno 2013 Ultimo aggiornamento alle 18:48

                Polino: una piazza intitolata a Giovanni Palatucci che sacrificò la vita per salvare migliaia di ebrei

                Il sindaco Matteucci: «In tempi caratterizzati da episodi di razzismo e lesivi dei diritti della persona, è giusto ricordare un esempio di altruismo estremo»

                http://www.umbria24.it/polino-una-piazza-intitolata-a-giovanni-palatucci-che-sacrifico-la-vita-per-salvare-migliaia-di-ebrei/183714.html

              • questa l’hanno inaugurata addirittura oggi, a pordenone!

                (AGI) – Pordenone, 21 giu. – Inaugurata stamane a Pordenone la nuova sede della Questura e quella della Polizia Stradale nella piazza cittadina che, nell’occasione, e’ stata intitolata a Giovani Palatucci ultimo questore di Fiume, deportato e morto nel campo di concentramento di Dachau nel 1945, medaglia d’oro al merito civile.

                http://www.agi.it/trieste/notizie/201306211400-cro-rt10156-sicurezza_inaugurata_a_pordenone_nuova_sede_questura

                ROFL (ma anche no)

              • c’e’ anche un articolo su rinascita – quotidiano di sinistra nazionale (i nazimaoisti di gaudenzi, per capirci), che no linko perche’ el me fa škifo, in cui si fanno le triple capriole per confutare le ricerche degli storici del centro primo levi di nyc.

  15. @wm1

    http://www.youtube.com/watch?v=xm2Lkey_VOA

    “Nel febbraio 2012 uno di noi si suonò in testa quella musica, vedendo un autotreno
    capovolto da una bora a 170 chilometri orari, sulle Rive, proprio di fronte a Piazza Unità.
    Quello stesso giorno, lo scrittore marciava controvento sul colle di S. Giusto. Aveva
    appuntamento con uno storico dell’alpinismo e tuo conoscente. La bora urlava e a ogni
    passo in avanti ne seguivano due indietro. – Speriamo non sia una metafora delle ricerche
    per questo libro! – pensò lo scrittore. Nel mentre, faceva un gesto apotropaico,
    afferrandosi il cavallo dei pantaloni.”

    “Incontrai Santin in un bar di Roiano/Rojan, il rione che dalla stazione centrale si
    innalza verso Opicina. Era inverno, e in quei giorni tirava una bora priva di ritegno. Il resto
    d’Italia era sotto la neve, ma a Trieste il vento non le permetteva di posarsi. In compenso, il
    Molo Audace era interamente lastricato di ghiaccio.”

  16. Eccomi, non trovavo il thread e quindi con WM1 ne abbiamo scritto su twitter. A me la responsabilità di scrivere eventuali cazzate:

    ieri su Radio Popolare nella trasmissione Panama (la seconda parte, quella dopo il gr) il conduttore si è occupato della questione di Palatucci, intervistando Michele Sarfatti (direttore del Centro di documentazione ebraica di Milano e uno degli studiosi che hanno smontato la storia); in sostanza la sua tesi era:

    non c’è nessuna prova che Palatucci abbia salvato nessuno;

    è comunque morto a Dachau dove è finito per “intelligenza col nemico” alleato, ossia per aver collaborato con gli inglesi;

    non ci sono prove che abbia collaborato coi nazisti nei rastrellamenti nè in altre attività contro gli ebrei.

    Il conduttore ha segnalato che lo zio di Palatucci era vescovo in zona, e forse ha messo in moto lui il processo ecclesiastico che l’ha fatto dichiarare “servo di dio” (?)… ma su questo Sarfatti non si è pronunciato.

    L’intervista all’Huffington che ha linkato danae e che anche io ho trovato nel frattempo e rigirato su twitter, dice le stesse cose.

    Nell’edit war sulla voce di wikipedia it, ha scritto anche Natalia Indrimi, che viene dal Primo Levi center di NY, ossia da quelli che hanno commissionato lo studio su Palatucci. Almeno da qualche parte, wikipedia it la tengono d’occhio.

  17. @ Salvatore Talia: scusa per il ritardo con cui ti rispondo, ho visto solo ora la tua replica (e in più ho dei problemi tecnici con alcuni dei commenti su Giap più recenti: non sempre riesco a vederli). Replico qui, al di fuori del commento nidificato divenuto lunghissimo.
    Sì, l’intervista su Carmilla a Mimmo Franzinelli è la mia e sono contenta che ti abbia spinto a leggere il suo saggio. Quel libro merita davvero di essere letto. Come dici tu, sgretola completamente il mito di Mussolini utilizzando, tra l’altro, fonti “di parte” (prodotte, all’epoca, dallo stesso ambiente nazifascista). Franzinelli è davvero un ottimo storico (leggerò il link che mi hai indicato). Anticipazione: nel prossimo saggio di M.F. (argomento: Mussolini e le donne) credo che proseguirà il processo di erosione dell’immagine edulcorata e soft del dittatore. Se ho ben capito, infatti, Franzinelli è riuscito a trovare documenti inediti con resoconti piuttosto pesanti inerenti al tema portante del libro. Termino qui, non voglio andare troppo OT.