“T’î pròpi un muntanèr!” – Wu Ming 2 incontra Guccini & Macchiavelli

[In occasione del Festival Letteraltura di Verbania, Wu Ming 2 ha incontrato Francesco Guccini e Loriano Macchiavelli per parlare di Appennini, vita in montagna, Resistenza, memoria, No Tav… Il risultato della chiacchierata è in questo lungo articolo, pubblicato ieri, 19 giugno 2011, sulle pagine de “La Domenica di Repubblica”.]

«I montanari sono come i marinai: girano il mondo, ma poi, quando viene il momento, tornano a casa». Parola di Francesco Guccini, che dalla storica via Paolo Fabbri 43, nel quartiere Cirenaica di Bologna, ormai da una decina d’anni si è trasferito a Pàvana, sull’Appennino pistoiese, vicino al mulino di famiglia di tanti libri e canzoni. Ci ho messo del tempo per trovare l’avita dimora, perché il numero civico che mi hanno indicato sta di fianco al vecchio portone, invisibile dalla strada, mentre sul cancello d’ingresso ce n’è un altro, tutto diverso. Che sia un’antica trappola per scoraggiare i forestieri?
Giù in città c’è chi sarebbe pronto a scommetterci, perché la montagna, vista da sotto, pare sempre un rifugio da eremiti, un nido d’aquila per misantropi e solitari, mentre nei sei romanzi che Guccini ha scritto con Loriano Macchiavelli, l’Appennino è sempre un luogo di incontri, una società complessa e nera quanto quella di pianura. Anche Macchiavelli ha vissuto l’infanzia da queste parti, poi è sceso in città e solo molti anni dopo è tornato a vivere in quota.
«A Bologna», racconta, «quando discuto con gli amici, va sempre a finire che mi dicono “T’î pròpi un muntanèr!”, dove per montanaro si intende conservatore, testardo. Ma io ormai non mi offendo più». Ci accomodiamo nella grande cucina con camino di casa Guccini, intorno a un lungo tavolo di legno, con una brocca d’acqua di fonte a riempire i bicchieri e la gatta Menica che ci zompa sulle ginocchia. Lo spunto iniziale della chiacchierata sono i luoghi comuni sulla vita in montagna, l’idea che avvicinarsi ai crinali significhi allontanarsi dalla società, ritirarsi in un guscio tranquillo fatto di boschi e solitudine.
Anche di Tiziano Terzani si sente spesso dire che «si ritirò all’Orsigna», a mezza giornata di cammino dalla Pàvana di Guccini, ma quando lo incontrai da quelle parti, non mi sembrò affatto un uomo ritirato. Si faceva chiamare Anam, cioè senza nome in sanscrito, ed eravamo per questo quasi omonimi (Wu Ming significa senza nome in cinese mandarino). Il vestito e la barba bianca erano quelli di un eremita, ma poi ti sedevi con lui a bere e ti rendevi conto che il grande giornalista era tutt’altro che lontano dal mondo. Ricordo un partigiano che aveva combattuto nella valle del Senio e quando parlava di quei mesi in montagna mi diceva che sì, sembrava di essere un gruppo di monaci guerrieri, in uno strano romitaggio fatto di rifugi e imboscate, però lo sapevi bene che stavi combattendo una guerra mondiale e che dal tuo angolo di montagna, grazie alla conoscenza del territorio, avresti dato una mano a buttare il fascismo nella pattumiera della Storia. «Qui a Pàvana», racconta Guccini, «la Resistenza c’è stata pochissimo. Gli americani sono arrivati nell’ottobre del ’44 e giù al mulino avevano messo quattro carrarmati. La mattina scendevano, sparavano qualche colpo e poi tornavano su, come se fossero stati in ufficio. I bossoli erano belli grossi, d’ottone: un paio li hanno pure intagliati e adesso servono come vasi sull’altare della chiesa».
Ma se in altri paesi d’Italia l’arrivo degli americani durante la Seconda guerra mondiale viene ancora ricordato come una specie di sbarco alieno, a Pàvana gli yankee erano già di casa: «Molti pavanesi sono finiti negli Stati Uniti a fare i minatori di carbone, e hanno fatto figli che noi chiamavamo Edi o Eri, ma poi scoprivi che i veri nomi erano Eddie e Henry. Gente che non aveva mai messo il naso fuori dal paese andava a imbarcarsi a Napoli, Genova, Le Havre». Guccini non lo dice, ma in questo profilo da emigrante è facile riconoscere lo zio Merigo di Cròniche Epafàniche, ovvero l’Amerigo della nota canzone, quello che «probabilmente uscì, chiudendo dietro a sé, la porta verde». E in effetti una porta verde c’è, affacciata sulla corte dove abbiamo parcheggiato, anche se «quella era la falegnameria di un cognato dei miei, bruciata dai fascisti. La porta di Amerigo stava giù al mulino, ma dire che era verde è come dir nulla, perché qua le porte erano tutte verdi, e quelle che non lo sono più, è per via del tempo o dei restauri».
«Appena arrivati in America», continua Guccini, «gli emigranti di Pàvana si compravano un revolver, tutti quanti, e spesso entravano nelle fila di un’associazione anarchica, la “Giordano Bruno”. Poi, quando il lavoro finiva, tornavano qua, e l’avventura oltreoceano la mettevano da parte, come un capitolo chiuso. Giusto il revolver, gli restava, e qualche soldo in tasca».
Eppure, a guardare i numeri, molti di questi montanari giramondo hanno voltato le spalle per sempre ai loro luoghi d’origine: dal 1911 a oggi, il comune di Sambuca Pistoiese, dove si trova Pàvana, è passato da 7.400 abitanti a poco meno di 1.500. «Mia sorella», commenta Macchiavelli, «quando venimmo via da Pioppe di Salvaro per andare a Bologna, disse che lassù non voleva più metterci piede. Aveva un odio viscerale per quella vita scomoda. Poi, col salto di un paio di generazioni e il riscaldamento a gas che è arrivato dappertutto, molte famiglie si sono decise a tornare». Negli ultimi tempi, infatti, altri comuni appenninici registrano un saldo demografico positivo e una febbre edilizia più contagiosa che in pianura. Coppie giovani, immigrati, professori col posto in provincia, invertono la tendenza allo spopolamento dei monti. come già fecero gli Elfi, a Sambuca, ristrutturando antichi borghi abbandonati, in cerca di un’esperienza di vita comunitaria e autosufficiente. «Sono passati trent’anni», racconta Guccini, «eppure la gente diffida ancora. “Eh, ma chissà i bimbi di chi son figli. Eh, le droghe. Ma poi non muoiono mai? Forse li seppelliscono e non li denunciano, come i cinesi…” È che i montanari, per quanto abbiano viaggiato, restano sempre guardinghi nei confronti dei forestieri. Pensa che di là dal torrente Limentra, una volta ci abitavano dei contadini, gente che coltivava la terra per sopravvivere, ma questo già li rendeva strani, agli occhi dei montanari, perché qui c’erano i castagni e di là le viti. Era gente più riservata, più raccolta: i contadini sì, che si attaccano alla terra. E infatti gli avevano pure affibbiato un soprannome dispregiativo, “gli spinaioli”, perché tra un campo e l’altro, su quel versante crescevano gli spini, i rovi, mentre nei castagneti si tiene tutto pulito, per facilitare la raccolta».
Faccio notare che allora c’è del vero, nell’icona popolare del montanaro scontroso, che non ama gli intrusi e le novità. «Dalle nostre parti», risponde Macchiavelli «quelli che arrivano dalla città li chiamano “becca aria”, perché hanno il culto dell’aria buona, vogliono respirare meglio, però gli manca la cultura della montagna. Il motto dei becca aria è vengo, vedo, compro, faccio come mi pare. Si costruiscono ville che sembrano transatlantici. Luci dappertutto, fari, allarmi e novanta chilometri al giorno in auto, per fare i pendolari con Bologna».
Chissà se i becca aria esistono anche sulle Alpi. Il fatto è che l’Appennino genera meno rispetto, mentre le Alpi, con le loro cime aguzze, incutono timore. La differenza tra gli animali totemici dei due territori parla da sé: quello dell’Appennino è il cinghiale, una specie di porco con le zanne che grufola nel fango, mentre le Alpi hanno la nobilissima aquila, il leggiadro camoscio. Le Alpi toccano il cielo, sono iperuranie e spirituali. L’Appennino è più basso, terragno, spurio.
Sarà anche per questo che sulle Alpi, in Val di Susa, il treno ad Alta Velocità non riesce ancora a sfondare le proteste e gli scudi umani, mentre sull’Appennino Tosco Emiliano lo scavo delle gallerie è andato avanti senza grandi opposizioni, finché non ci si è trovati di fronte a danni irreparabili. Strano, per una montagna la cui storia è legata a doppio filo con la Resistenza, che in quei boschi trovò l’arma in più per combattere il nemico. Del resto, solo una retorica da quattro soldi dipinge i valsusini come montanari ottusi, egoisti, che vogliono essere «padroni a casa loro». In realtà, la forza del movimento No Tav sta nella competenza diffusa e nell’aver saputo coinvolgere anche la gente di pianura. Nulla di simile è accaduto tra Bologna e Firenze, perché le due città voltano le spalle all’Appennino, lo considerano un ostacolo alla viabilità e semmai un luogo di villeggiatura “minore”, per anziani in fuga dal caldo. I bolognesi hanno sempre preferito Cortina a Porretta Terme.
«A interessarci di questi paesi siamo giusto un paio di sciagurati», osserva Guccini. «Abbiamo recuperato il dialetto, ma quello vivo non lo parla più nessuno. Questa è una zona di intrecci, di scambi e immigrazioni. Da bambino io non me ne accorgevo, ma molte pavanesi, in realtà, erano sarde, perché i nostri montanari andavano in Sardegna a fare i carbonai e poi tornavano a casa con queste donne, che si vestivano con sottanoni mai visti e per dire “chiudi la porta” dicevano “tanca sa janna”».
«Quando sono andato a stare a Montombraro», aggiunge Macchiavelli, «c’era un’anziana che era la memoria del borgo. Ci raccontava storie che davano un senso ai luoghi. Non c’entra la nostalgia o il culto del tempo andato: solo se ricordi puoi difendere un territorio, perché sai cosa significa. Nel 1325, a Zappolino, dove inizia la salita per Montombraro, ci fu una grande battaglia tra modenesi e bolognesi. Gli storici dicono che fu la più cruenta e sanguinosa di tutto il Medioevo, e il luogo si chiama ancora Prato dei morti, ma adesso ci stanno costruendo tre villaggi: con la banca, con il supermercato, e hanno potuto farlo perché nessuno ne sa più nulla».
Mi viene da pensare a Luciano Bianciardi, che negli anni Cinquanta si entusiasmava per la marcia vittoriosa della città contro la campagna e non sopportava le ubbie passatiste degli storici locali e degli archeologi eruditi, con i loro cocci e i loro buccheri. Mi chiedo se oggi, dopo la vittoria definitiva dell’urbanizzazione, non sarebbe disposto anche lui a rivalutare la memoria dei luoghi, non come tradizione da mettere sottovetro, o da evocare a scopo elettorale, ma come antologia di storie, ibrida e cosmopolita, resistente e cocciuta come certi montanari, che dopo aver girato il mondo ritornavano, con i loro figli ormai stranieri, ai castagni dell’Appennino.
«Ma io sono tornato tardi», conclude Guccini mentre si avvicina l’ora di cena, «e tante cose che facevo d’estate, non le faccio più. Da ragazzino, appena arrivavo, subito mi mandavano a tagliare il grano, in canottiera, e mi prendevo certe scottate che poi bisognava metterci sopra l’albume d’uovo sbattuto con l’olio. Adesso, uno dice l’orto, l’orto, ma l’orto me lo devono fare gli altri, perché la terra è bassa e l’età è alta, oramai. Come le montagne».

***

Wu Ming su Tiziano Terzani
da Giap del 2 agosto 2004

Francesco Guccini canta “Amerigo”
in Piazza Maggiore, a Bologna, nel 1992

Il Popolo Elfico della Valle dei Burroni
Quello di Sambuca Pistoiese, non quello di Tolkien…

I guai della TAV in Mugello
Pillole a cura dell’Associazione Idra di Firenze

 

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11 commenti su ““T’î pròpi un muntanèr!” – Wu Ming 2 incontra Guccini & Macchiavelli

  1. […] Ricordo un partigiano che aveva combattuto nella valle del Senio e quando parlava di quei mesi in montagna mi diceva che sì, sembrava di essere un gruppo di monaci guerrieri, in uno strano romitaggio fatto di rifugi e imboscate, però lo sapevi bene che stavi combattendo una guerra mondiale e che dal tuo angolo di montagna, grazie alla conoscenza del territorio, avresti dato una mano a buttare il fascismo nella pattumiera della Storia. […]

  2. ma precisamente a quale passo di bianciardi ti riferisci?
    posso immaginare ti riferisca al libro “il lavoro culturale”, in cui parla della promozione della cultura nella provincia italiana degli anni ’50.
    se non mi sbaglio, il riferimento ai buccheri era una critica al vecchio ceto culturale, non era certo un inno alla distruzione del territorio; ma posso sbagliarmi, è possibile che il giovane bianciardi abbia detto algo de parecido, forse infatuato dai grandi spazi di quell’america di cui amava i cantori, unitamente ad una legittima voglia di ampliare i propri orizzonti culturali.
    (il fatto che la mamma fosse insegnante di lettere potrebbe entrarci?)
    del corpus :) bianciardiano mi piace invece ricordare, ad esempio, una sua risposta ai lettori del guerin sportivo, in cui raccontava di aver invitato il proprio figliolo una domenica in campagna, a vedere gli animali,rimanendo basito di fronte alla domanda del figlio: “ma in campagna vedremo anche i leoni?”, sottolineando lo sconvolgimento che il progresso imponeva ai bimbi .
    insomma, io credo che bianciardi sia stato un grandissimo scrittore che ha narrato proprio il lato oscuro del boom economico dell’italia negli anni sessanta.
    e scrivo proprio perchè il suo nome, in un contesto del genere, mi è sembrato un po’ fuori luogo.
    in ogni caso, sono contento che ci sia ancora gente che lo ricordi.

  3. @carolingus
    Anche io amo molto Bianciardi e proprio per questo non credo si debbano fare sconti a certe sue provocazioni. Ovviamente un pezzo per “La Domenica” di Repubblica non era il luogo più adatto dove imbastire una discussione sul suo pensiero, che invece in questo spazio è decisamente benvenuta, quindi grazie per aver sollevato la questione.
    Il passo al quale mi riferisco è tratto dal capitolo Uno de “Il lavoro culturale” (1957). Eccolo qui:
    “Noi andavamo spesso a vedere crescere la nostra città, a vederla avanzare vittoriosa dentro la campagna, contro la campagna, a conquistare altro terreno. Si muoveva, si muoveva sensibilmente, a vista d’occhio, la nostra città; lanciava, come un drappello ardito, un gruppo di case nuove, che si lasciavano alle spalle, in una sacca, orti e prati, un po’ di verde ancora odoroso di campagna e di letame, che rapidamente intristiva e si seccava. Noi eravamo entusiasti di questa marcia vittoriosa, ed ogni sera ne parlavamo come di un fenomeno assoluto ed eccezionale. Il senso vero della città, proprio quello che sfuggiva a queste talpe di medievalisti eruditi, ed a quelle cornacchie di archeologi, eccolo qui: la città tutta perifieria, aperta, aperta ai venti ed ai forestieri, fatta di gente di tutti i paesi”

  4. Segnalo un lungo commento a latere di quest’articolo, scritto da Wolf Bukowski, grande conoscitore delle terre d’Appennino:

    http://walden.splinder.com/post/24750825/sangue-e-idrocarburi-zappolino-libia

  5. Un pezzo per un giornale come Repubblica nasce sempre più lungo del dovuto (specie se a scriverlo è uno come me, abituato alle praterie sconfinate del romanzo). Si tratta sempre di tagliar via qualcosa, che magari emerge già da un’altra parte, con altre parole. In questo caso, il brandello più lungo che ho sacrificato si trovava proprio in mezzo tra il discorso di Macchiavelli sulla battaglia di Zappolino e il riferimento a Bianciardi. Lo riporto, perché forse rende ancora più chiara la mia posizione rispetto alla memoria dei luoghi: come Bianciardi, sono contrario a una paesaggio-museo, contro Bianciardi, non posso entusiasmarmi per la marcia vittoriosa delle città sul territorio, dal momento che essa ha dimostrato di essere cieca tanto alle ragioni dei luoghi che a quelle degli abitanti.
    Ecco qua il passo non emendato:
    “[…parla Macchiavelli:]Nel 1325, a Zappolino, dove inizia la salita per Monombraro, ci fu una grande battaglia tra modenesi e bolognesi. Gli storici dicono che fu la più cruenta e sanguinosa di tutto il Medioevo, e il luogo si chiama ancora Prato dei morti. Adesso ci stanno costruendo tre villaggi: con la banca, con il supermercato, e hanno potuto farlo perché nessuno ne sa più nulla. Invece bisognava farci un museo, un luogo della memoria.
    Non so. A volte anche la memoria monumentale, i Parchi storici, i musei possono diventare strappi nel paesaggio, macchine per attirare turisti e non piccole enciclopedie per insegnare a leggere il territorio, a riconoscere quel che l’uomo e l’ambiente vi hanno scritto sopra a quattro mani, come su un libro. Un testo che bisogna conoscere non per conservarlo intatto a tutti i costi, ma per continuare a scriverlo senza fare strafalcioni.
    Viene da pensare a Luciano Bianciardi,” eccetera…

  6. La questione del territorio trasformato in macchina turistica è interessante. Non credo, però, che, a fini turistici, ci sia questa grande tendenza a conservare intatto (diciamo pure cristallizzato) l’ambiente. Al contrario, mi sembra che il trend sia quello di trasformarlo a misura di turista cittadino, come i villaggi descritti da Macchiavelli.
    Su Bianciardi (giusto perchè ho letto da poco “La vita agra”): non ho mai (ancora) letto “Il lavorco culturale” però, nella vita agra non mi sembra così entusiasta della città.

    p.s. @Wm2: ehm, guarda che c’è un’acca di troppo nella riga sopra “Ecco qua il passo non emendato:”:-)

  7. Grazie, Clettox, corretto il refuso.

  8. Questo articolo (suo malgrado) potrebbe diventare un caso di studio sugli effetti del framing, ovvero su come la cornice concettuale di un testo determina i suoi contenuti.
    Il pezzo nasce come chiacchierata a tre voci: le parole di Guccini e Macchiavelli sono virgolettate – e prima di pubblicarle le ho sottoposte alla loro approvazione – mentre le mie sono “sciolte”, dal momento che il pezzo è firmato WM2.
    Repubblica però ha titolato a tutta pagina su “Guccini, la ballata dell’Appennino” e così il testo, nella percezione di molti, si è trasformato in un “articolo su Guccini” (ho ricevuto diversi sms che lo definivano così). Non solo: per qualcuno è addirittura un articolo di Guccini, e tutte le affermazioni in esso contenute si possono attribuire al noto cantautore. Nascono così false notizie sul genere “Guccini si schiera coi No Tav”:

    http://goo.gl/aOeNc
    http://goo.gl/gqTjK

    Notizie che, tra l’altro, potrebbero trasformarsi in un boomerang per il movimento stesso, visto che Guccini potrebbe pure incazzarsi e sconfessare tutto, dal momento che nel corso della nostra chiacchierata non ha mai detto una sola parola, favorevole o contraria, sulla linea ad Alta Velocità in Val di Susa.

  9. Si tratta di un framing tipico dei giornalisti.
    In uno dei due link citati, poi, è divertente il passaggio secondo il quale WM2 e Guccini concordano sul movimento No Tav etc. Quando, in realtà, è una considerazione solo di WM2.
    Per Repubblica -non ho visto in cartaceo, però- potrebbe pure essere una questione di spazio per il titolo.
    Una cosa tipo:

    – redattore:” Wu Ming 2, Macchiavelli, Guccini: la ballata dell’Appennino”, va bene come titolo?
    – caporedattore: mmmh…no,troppo lungo…e poi, Wu Ming 2 non si capisce, Macchiavelli pensano siano morto nel ‘500, lascia solo Guccini. E metti la virgola al posto del punto!”
    – redattore: Ok!

  10. @WM2
    ecco, appunto. non avendo i suoi libri davanti, non ho potuto controllare, ma immaginavo che ci fosse scritto qualcosa del genere.
    sono totalmente d’accordo sul non fare sconti ai propri beniamini, e posso immaginare che se avesse potuto vedere il futuro, se la sarebbe risparmiata.
    una boutade del genere è tipica del periodo grossetano, una volta arrivato a milano cominciò a detestarne la modernità e a registrare la corrosione del tessuto sociale. non a caso, prima di morire tornò in campagna, lontano dalla modernità in giovinezza agognata.
    si può pensare che il giovane bianciardi, nella maremma, desiderasse l’avvento della città perchè affascinato da quegli autori americani che poi avrebbe tradotto in italiano, le highways di tal Jacques Querouaques che lo anticipò di un soffio, come si lamentava nella Vita Agra.
    sono molto contento che si possa parlare di lui, e spero che si ravvivi l’interesse dopo che alcune assurde operazioni editoriali non sono riuscite nell’intento.
    @clettox
    hahaha! immagino che le cose non siano andate troppo diversamente dalla tua ricostruzione…

  11. @carolingus
    concordo sull’evoluzione del pensiero di Bianciardi tra Il lavoro culturale e La Vita Agra. Proprio per questo, nell’articolo, ci ho tenuto a mantenere un riferimento temporale: “negli anni Cinquanta”. Detto questo, credo che il fastidio del Nostro per “storici locali” e “archeologi eruditi” sia rimasto costante nel tempo, ma è solo un’impressione, non ho pezze d’appoggio per dimostrarlo. Condivido tale fastidio, quando si tratta di scavare a caccia di memoria e vasellame per poi mettere tutto sotto vetro, non sono d’accordo, invece, quando lo storia locale diventa risorsa per capire il paesaggio e per tutelarlo come antologia.