Classici sulle barricate. Uno speciale su Einaudi.it

[Poesia e rivolta in Tunisia. Poesia e rivolta in Egitto. Il “Book Bloc” del dicembre scorso. Il motto “Se non ora, quando?”. Tanti “attraversamenti” in questo speciale militante sul sito dello Struzzo. Con un’intervista a noialtri. Riportiamo l’inizio.]

Quando all’inizio di gennaio i tunisini sono scesi in piazza in quella che sarà ricordata come «la rivolta dei gelsomini», c’era una frase a scandire la protesta:

Se un giorno il popolo vorrà vivere, il destino dovrà fargli strada.

È un verso del poeta Abu’l-Qasim Ash-Shabbi, tunisino, morto nel 1934 – a soli 25 anni. La sua opera fu ignorata o aspramente criticata quando era in vita, e dopo la sua morte ci furono decenni di oblio. Fu negli anni Sessanta, quando nei paesi arabi cominciò la lotta contro il colonialismo e l’imperialismo, che Ash-Shabbi fu riscoperto, e consacrato come poeta politico. Eppure non era un rivoluzionario. Era stato persino accusato di sfruttare a suo vantaggio il dominio francese, di non avere rispetto per il popolo arabo.
Il fatto è che l’opera di Ash-Shabbi, e pure la sua figura, si prestano a diventare simbolo. Non importa il contesto in cui le sue poesie sono state scritte, e non importa quali fossero, allora, i referenti reali. Negli anni Sessanta le sue parole diventarono il simbolo della lotta all’imperialismo.
Oggi i popoli del Medio Oriente lottano per conquistare la democrazia, e i versi di Ash-Shabbi si vestono di nuovi significati.
Dopo la Tunisia, il 25 gennaio le strade del Cairo si gonfiano di manifestanti, e a suggellare la nascita di una rivoluzione ci sono, ancora una volta, le parole di Ash-Shabbi.

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8 commenti su “Classici sulle barricate. Uno speciale su Einaudi.it

  1. […] This post was mentioned on Twitter by eveblissett and Francesco, Wu Ming Foundation. Wu Ming Foundation said: Classici sulle barricate. Uno speciale su Einaudi.it: [Poesia e rivolta in Tunisia. Poesia e… http://goo.gl/fb/bwYJp […]

  2. bellissimo.
    questo per chi vuole indurci a credere che solo facebook e twitter possano essere le armi delle persone che si ribellano nei paesi musulmani.

  3. Ogni barricata ha avuto i suoi libri. Che fossero quelli di Eugène Sue (sovrainterpretati, come insegnava qualcuno) e di Victor Hugo o quelli, clandestinamente riscoperti o tradotti, che segnarono la rinascita morale e spirituale della sinistra dei GUF, e portarono molti giovani cresciuti in divisa da balilla a mettere in discussione il regime da cui erano stati educati.
    Pensando al ciclo decennale di movimenti che fu aperto dal ‘68 e chiuso dalla marcia dei quarantamila, mi viene in mente il ricorrere di alcuni titoli, che tracciavano costellazioni di senso all’interno del quale si individuavano specifici percorsi (Marcuse, Lacan e Mao non evocano le stesse sfere di senso, ça va sans dire). Ognuno di quei libri era, a suo modo, un manifesto: ora prevale la cassetta degli attrezzi fai-da-te, la possibilità di creare e rivendicare il proprio canone – un’eredità del post-colonialismo, ma anche delle dimensioni più profonde e liberatorie di un certo post-modernismo (non tutto, ma penso ad esempio al ruolo liberatorio che esso ha avuto per la scrittura delle donne).
    Noto inoltre che accanto alla critica (pochi nomi, Agamben, Foucault, Derrida) prevalgono le grandi letture di narrativa, forse a segno che alle possibilità operative schiuse dal metodo, si preferisce l’infinità dei mondi possibili della finzione.
    E ancora: alcune tipologie ricorrenti, l’insistere su opere-mondo, fabbriche della lingua oltre che del proprio narrare (Satyricon, Decameron); oppure l’importanza attribuita all’eroe eponimo (a volte con palesi forzature e semplificazioni, come nel caso di Bartleby), quasi venuta a sostituire la funzione-autore.
    La riflessione più significativa tra le tante che proponete è, comunque, quella sul termine di «narrazione». Non solo perché completa e compie una serie di ragionamenti su come superare l’inflazione postmoderna dello storytelling e, in area tutta italiana, l’ideologia baricchiana della narrazione, ma anche perché segnala il vero rischio di questa seconda inflazione: l’auto-referenzialità (che poi è stata la tomba delle avanguardie, e il punto della rottura tra scrittori e società). Se a un mito si oppone un altro mito, non se ne esce. Ci vogliono altri strumenti.

    Nota conclusiva: un fatto da discutere è che questo dibattito stia sul sito della Einaudi. Si tratta di un ritorno a una funzione civile da parte dell’editore, per me e’ un segnale importante. Ma aspettatevi critiche di ogni tipo su un possibile uso “marketing” dei classici da barricate. Quanto a me, io temo più che altro l’effetto “smemoranda”.

  4. Come ricordate voi, c’e’ il pericolo che si disconnetta simbolo e oggetto, e lo spazio in mezzo divenga trappola. O, per dirla con Jameson a proposito delle Black Panthers: “Spatial discontinuities, however, are more devious and dialectical, and they are not overcome in any of the most obvious ways. Such discontinuities, in fact, returned on the Detroit experience as some ultimate limit before which it collapsed. What happened was that the jet-setting militants of the league had become media stars; not only were they becoming alienated from their local constituencies, but, worse than that, nobody stayed home to mind the store. Having acceded to a larger spatial plane, the base vanished under them;”

    NOBODY STAYED HOME TO MIND THE STORE! I love this guy…

  5. Maurizio, a beneficio di chi non conosce l’argomento (cioè, immagino, la stragrande maggioranza di chi visita queste lande), potresti tradurre o parafrasare il brano del compagno Jameson, e spiegare meglio la sua posizione sugli errori del BPP?

  6. “Discontinuita’ spaziali, in ogni caso, sono piu’ dialettiche ed insidiose, e non ci sono maniere ovvie di superarle. Tali discontinuita’, infatti, si sono ripercosse sull’esperienza [della Lega delle Black Panthers] di Detroit come estremo limite di fronte al quale e’ collassata. Cio’ che e’ successo e’ stato che i maggiori leader della lega, come affascinati dalla mondanita’, erano diventati stelle dei media; non solo si stavano alienando dai loro bacini di riferimento locali, ma, peggio ancora, nessuno e’ rimasto a casa a badare al negozio. Avendo avuto accesso ad maggiore piano spaziale, la base e’ svanita sotto di loro.”

  7. L’ultima frase manca di “un” tra “ad” e “maggiore”. Chiedo venia.

  8. Jameson sta riassumendo la vicenda della League of the Black Revolutionary Workers (pardon), a Detroit, citta’ operaia quanto nessuna negli States. Negli anni’60 divenne forte nelle fabbriche, e quasi riusci’ a far eleggere sindaco della citta’ un loro rappresentante. Era pero’, dice FJ, una strategia che poteva valere solo in spazi piccoli, come appunto una citta’. Quando la lega cerco’ di esportare il modello ad altre citta’, accadde quella frattura spaziale che, combinata con la “jet-setting infatuation” (espressione mia, non di FJ) l’ha portata a fallire. Cioe’ non avevano capito che la loro strategia aveva funzionato perche’ era locale, e non poteva semplicemente essere traslata sul piano nazionale. Ecco perche’, FJ proponeva, nell’ormai lontano 1991, una mappatura cognitiva che tenesse conto della formulazione ideologica (Althusser) e dell’analisi spaziale delle strutture sociali (Kevin Lynch).