Il libro dei bambini, di A.S. Byatt – Recensione di Wu Ming 4

«I fabiani e gli scienziati sociali, gli scrittori e gli insegnanti videro, in modo diverso dalle generazioni precedenti, che i bambini erano persone, con identità, desideri e intelligenze. Videro che non erano né bambole, né giocattoli, né adulti in miniatura. Videro, in molti casi, che i bambini avevano bisogno di libertà, avevano bisogno non solo di imparare, e di essere buoni, ma anche di giocare e di essere selvaggi.» [Pag. 442]

Premessa: ho lasciato trascorrere i mesi prima di scrivere una recensione del romanzo di A.S. Byatt, Il libro dei bambini. Ho dovuto lasciarlo sedimentare, aspettare cosa sarebbe affiorato, quasi per selezione naturale, da un testo denso, lungo, popolato da moltissimi personaggi, le cui biografie intrecciate sono narrate attraverso un quarto di secolo.
Sì, perché se ogni romanzo è un’impresa, allora Il libro dei bambini è una di quelle da far tremare i polsi. Perfino leggerlo non è una passeggiata. E infatti forse non è come un romanzo che andrebbe letto questo tomo di settecento pagine, ma piuttosto come il racconto poetico di due generazioni di inglesi, uno spaccato di vita d’altri tempi che improvvisamente si fa vicina. E come una crudele elegia.
Che l’Inghilterra sia un posto strano è un dato di fatto. Un luogo in cui la Camera dei Lord convive con il punk rock; in cui la monarchia è un’istituzione indiscussa nonostante sia stato il primo paese dove il popolo ha tagliato la testa al re e dove oggi gli studenti tirano pietre contro la Rolls Royce dell’erede al trono… ecco, diciamo che un posto così dà quanto meno da pensare.
Il romanzo di A.S. Byatt parla indirettamente anche di questa stranezza, e lo fa scegliendo un momento specifico e un ambiente specifico nella storia sociale britannica. Le date che racchiudono la trama parlano da sole: 1895-1919. Venticinque anni, lo spazio di una generazione, che hanno cambiato la faccia dell’Europa, traghettandola dalla Belle Epoque al secolo di ferro.
Il milieu prescelto è il più bizzarro agli occhi di un europeo continentale: l’illuminata borghesia fabiana, i cui numi tutelari furono intellettuali come William Morris, George Bernard Shaw, Virginia Woolf, ma alla lontana anche Marx, Freud, Kropotkin; una variegata compagine di uomini e donne distanti dal dandismo di Wilde ma capaci di onorarne l’umanesimo anche dopo la caduta (il cameo del grande irlandese è un momento commovente del romanzo). L’idea che li dominava era quella di un graduale avvicinamento a una società più giusta, attraverso l’educazione al bello e a una vita relazionale emancipata dal cupo vittorianesimo; ma anche attraverso la pratica della filantropia nei confronti dei meno abbienti e la riscoperta del rapporto con la natura, col corpo, con le arti manuali. Quegli uomini e quelle donne credevano nella realizzazione dell’umanità attraverso l’arte e l’artigianato “morrisiano”, ma anche il teatro, la narrazione, e senz’altro il viaggio (bellissime le due puntate fuori dalla metropoli vittoriana e dal paesaggio agreste del Kent: una all’Esposizione Universale di Parigi e l’altra nella bohème dei cabaret di Monaco).
Si può dire che ognuno di questi aspetti abbia il proprio filone narrativo nel romanzo-mondo della Byatt. Al centro di tutto, però, si colloca l’invenzione dell’infanzia da parte di quella generazione, soprattutto attraverso la nascita di un certo tipo di letteratura, che in Inghilterra ebbe senz’altro la sua culla: Il libro dei bambini, appunto. Carroll, MacDonald, Barrie, Tolkien, e molti altri, fanno capolino da ogni pagina del romanzo.

Kenneth Grahame

Uno dei personaggi principali, forse il più centrale dell’intera vicenda, Olive Wellwood, è una madre di famiglia giovane ed emancipata, scrittrice di favole fantastiche ispirate e dedicate ai propri numerosi figli. La sua figura unisce elementi tratti dalle biografie di due grandi autori coevi, fondatori del genere, Edith Nesbit e Kenneth Grahame, e in parte anche da quella di Emmeline Pankhurst, la grande suffragetta, leader del movimento per i diritti delle donne.
Intorno a lei e ai suoi cari vorticano le vite di altre famiglie, intrecciandosi in modi diversi, celando e smascherando i propri segreti più profondi, che vengono alla luce mano a mano che gli anni passano e la vicenda procede. Rapporti di coppia aperti, disinibizione, naturismo, emancipazione delle donne, vanno a cozzare con una società ancora impreparata a quella fuga in avanti, e producono spaesamenti e colpi di scena che finiranno per ridefinire la composizione di interi nuclei famigliari e per mescolare genitorialità “naturale” e “acquisita”. Nel suo racconto la Byatt è bravissima a mettere in scena il potenziale liberatorio di quel mondo nuovo in nuce (o forse “in vitro”), quanto a mostrarne le contraddizioni e i danni collaterali prodotti dall’impatto con il vecchio mondo non ancora rivoluzionato. Ci racconta di come certe pioniere dell’emancipazione sessuale si ritrovarono “inguaiate” per mano di maschi emancipatori poco attenti (o troppo lenti), ai quali lo sguardo dell’autrice non fa alcuno sconto. E ci racconta anche di come alcuni di quei bambini, destinatari delle favole che li vedevano anche protagonisti, dovettero scoprire e farsi una ragione del fatto di avere molti padri e madri, oppure di non averne affatto. La scoperta che i confini famigliari non sono poi così netti e che quelli che ritenevi fratelli in realtà sono fratellastri o addirittura cugini, provoca reazioni diverse nell’animo di quei giovani lettori e ispiratori delle meravigliose favole narrate davanti al camino o in un teatro di burattini. E’ quella seconda generazione, appena uscita dall’infanzia, che dovrà fare i conti con la storia del nuovo secolo, portando con sé il bagaglio di un’eredità libertaria in gran parte incompatibile con il presente, ma anche armata della grande potenzialità visionaria della narrativa che i genitori le hanno lasciato in dote.
Byatt ripropone senza semplicismo il problema della fantasia come fuga dalla realtà o piuttosto invece come capacità di immaginare altro, un mondo diverso, migliore, in cui i rapporti umani siano liberati dalle sovrastrutture sociali.
Alcuni da questa contraddizione rimarranno schiacciati, incapaci di conciliare fantasia e durezza della vita, fino al disadattamento e alla psicosi, fino a negarsi la vita stessa. Altri invece sapranno reagire e portare a conseguenza ciò che hanno respirato durante l’infanzia, anche e soprattutto mettendo in discussione l’idealismo bucolico dei genitori. Perché il conflitto non può essere rimosso, nessun passaggio da una fase all’altra della vita, come della storia, potrà mai essere indolore. Bisogna essere disposti a perdere qualcosa per guadagnare qualcos’altro e ogni volta si tratterà di una scommessa capitale.
Ma è soprattutto il rasoio spietato della storia, nel 1914, a metterli tutti quanti alla prova, a demolire sogni e a radicalizzare coscienze. La Prima Guerra Mondiale spazza via l’idea della gradualità, imponendo lo stesso trauma a tutti quanti, non ultimi i figli di quella borghesia progressista che aveva immaginato di cambiare il mondo con l’esempio morale e le buone pratiche.
La guerra decima le famiglie senza distinzione, e alla fine restano i sopravvissuti, raccolti dalla forza d’animo delle donne che non sono finite al fronte, già con una terza generazione da crescere.

Sylvia Pankhurst

Viene da chiedersi dunque se questa sia la storia di una sconfitta ideale e generazionale, di un sogno infranto contro il muro della realtà, a cui spetti soltanto una sopravvivenza sottotraccia, tra le pieghe della storia. La risposta è senz’altro no. Perché da quel milieu, da quelle relazioni, ipotesi, utopie, affetti vissuti in modo nuovo, nonostante tutto emerge un personaggio disposto a sancire la rottura che i genitori avevano pensato di evitare. E’ una figura apparentemente collaterale, appena una bimba all’inizio della storia e una ragazza alla fine. Invece di farsi mettere incinta da un principe azzurro liberatore, Hedda abbandona il temporeggiare fabiano per diventare una suffragetta, spostandosi su posizioni molto più radicali della madre (come fu appunto per una delle figlie di Emmeline Pankhurst, Sylvia, che divenne socialista) e precipitando l’utopia sociale in una concretissima battaglia universalista. Una battaglia che continua ancora oggi, come ogni battaglia che si rispetti, perché dopo l’eguaglianza di diritto viene la dignità di fatto, che come si sa è ancora più dura da conquistare e più delicata da difendere. Il gesto simbolico di rivolta di quella ex-bambina, con tutte le feroci conseguenze che comporta – incarcerazione, sciopero della fame, alimentazione forzata, etc. -, proietta il mondo incantato dei favolosi fabiani oltre se stesso, nel corpo a corpo con la storia.
In un certo senso la recensione potrebbe anche finire qui. Ma c’è dell’altro, qualcosa che concerne l’applicabilità allegorica da parte del lettore, in questo caso il sottoscritto, e che avvicina questa storia a una parte della generazione nata negli anni Settanta. E’ l’assonanza tra quei lontani idealisti fabiani e i nostri genitori baby-boomers, sessantottini e post-sessantottini, non più stalinisti, già libertari, che diedero l’assalto al cielo della storia e immaginarono la fantasia al potere. Almeno una parte della mia generazione può sentire aria di famiglia nella pedagogia libertaria e nell’esperimento avanzato dai protagonisti del libro della Byatt. Molti potrebbero riconoscersi in quei bambini e perfino nel loro shock. Certo a noi non è toccata in sorte la partenza per il fronte Occidentale, non un trauma così terribile, ma nondimeno abbiamo dovuto fare i conti con la radicale discrepanza tra la cultura in cui si è stati cresciuti e la storia che ha camminato a passo di gambero, rimangiandosi molte delle promesse contratte con la generazione precedente.
Quei genitori, proprio come quelli de Il libro dei bambini, hanno cresciuto i figli nell’idea dell’illuministico diritto alla libertà e alla felicità, conciliato con un forte senso etico del vivere sociale, ma senza mettere in conto la sconfitta. Che si trattasse di un mondo gradualmente migliorato, come volevano i fabiani inglesi, o radicalmente rivoluzionato, come volevano i loro più recenti omologhi, il progresso sociale e culturale avrebbe trionfato sull’oscurità. Così però non è stato. Nessun sole dell’avvenire è comparso all’orizzonte, mentre è diventata più spessa la notte attorno a noi, e più forte la minaccia incombente sull’eredità dei genitori, a volte proprio per mano di quelli tra loro più smemorati o compromessi (talmente realisti da ritrovarsi dalla parte del re, proprio come accadde a molti fabiani).
Nessuno ci aveva preparati a questo, come nessuno aveva preparato i bambini della Byatt all’impatto con la spietatezza della guerra e del capitalismo. Nessuno aveva pensato che avremmo dovuto confrontarci col male. Non già la guerra guerreggiata in prima persona, che per fortuna non c’è toccata in sorte, ma il male altrettanto immanente rappresentato dalla sconfitta dei progetti di trasformazione di sé e del mondo, dall’imbarbarimento sociale, dall’individualismo, dalla paura. Mentre le conquiste e le idee della generazione ribelle lasciavano spazio al peggio, e tanti di quei genitori utopisti si ritrovavano imbrigliati o conniventi – o semplicemente la vita ci metteva davanti ai suoi drammi -, a noi è rimasto l’anelito alla felicità, ma sciolto dalla forza morale. Sciolto cioè dalla consapevolezza che in certi momenti si può e si deve resistere alla marea, e che quella felicità può realizzarsi solo se ci si impegna in un’azione collettiva.
Alcuni a quell’ondata sono rimasti sotto. Altri hanno galleggiato come potevano, incapaci di trovare il coraggio per stare fuori dal gregge (il coraggio che, nel romanzo della Byatt, il vecchio fabiano vorrebbe invano trovasse uno dei suoi figli per sottrarsi al ricatto morale dell’arruolamento). Altri ancora, con difficoltà, come Hedda Wellwood, sono riusciti a tenere all’asciutto una scintilla di rabbia e di speranza, ancora utile per incendiare la prateria.

Ecco, adesso sì che la recensione è finita.

Quello che segue è invece un florilegio storico tratto dal romanzo. Un assaggio di come e a che prezzo le “rispettabili” gentildonne britanniche hanno ottenuto, tra le prime in Europa, i diritti universali.

«Nel 1906, quando si seppe che nel discorso del re non si faceva cenno al suffragio femminile, la Wspu [Women Social and Political Union] aveva tentato di manifestare dentro il Parlamento. Cento donne avevano invaso la Camera dei Comuni e lottato, con ombrelli e stivali, per entrare nell’aula. Vennero respinte dalla polizia – con notevole rudezza – e trascinate via, scarmigliate, lasciando sul terreno spille, forcine e cappellini. Dieci donne furono arrestate, e rifiutarono di pagare una multa. Vennero portate in carcere. Quando uscirono, furono festeggiate dalle altre donne. Hedda ne fu intensamente commossa. Ecco qualcosa che contava, una lotta, una causa, un modo di fare di se stessa un dardo guizzante e determinato.» [pag. 544]

«Nel novembre 1911 Lloyd George annunciò sciaguratamente di aver silurato il Conciliation Bill, che avrebbe riconosciuto il diritto di voto a un limitato numero di donne. Ci sarebbe stata invece la riforma del suffragio maschile. Per le donne, tanto le suffragette estremiste quanto le pacate e ragionevoli suffragiste, fu un’atroce delusione.
In febbraio, Emmeline Pankhurst dichiarò: ‘La vetrina rotta è l’argomento più efficace in politica’. Le donne avevano sconvolto la vita quotidiana della nazione, con astuzia e cattiveria crescenti. Le parole ‘voto alle donne’ vennero marchiate a fuoco sull’erba dei campi da golf e tracciate con rossetto scarlatto sulla carta assorbente del primo ministro. Rispettabili signore vestite di nero, sotto rispettabili cappelli neri, estraevano dalle loro grandi borse, pratiche e rispettabili, martelli da carpentiere e grosse pietre e percorrevano con decisione le grandi vie commerciali della città, mandando metodicamente in frantumi le vetrine dei negozi. Christabel Pankhurst, nei suoi vari travestimenti, cappello di paglia rosa, occhiali da sole azzurri, sfuggì ai cento detective che davano la caccia alla ‘dannata, elusiva Christabel’.» [pag. 631]

«Si scambiavano telegrammi in codice. ‘Lanugine, piume, cera, violette di catrame, polvere di papaveri’. Compravano e nascondevano fusti di paraffina e di benzina. Mettevano pepe di Caienna e piombo fuso nelle cassette delle lettere. Mentre il 1913 diventava 1914 si fecero più audaci e violente. Nei primi sette mesi di quell’anno furono messi a fuoco centosette edifici. Bruciavano i castelli in Scozia e attentavano al solido patrimonio culturale britannico. Nel 1913 lacerarono dipinti di valore a Manchester e distrussero la serra di orchidee nei Kew Gardens. Fecero esplodere la nuova casa di Lloyd George a Walton-on-the-Hill. Tagliavano cavi del telefono e infilavano pietre negli scambi ferroviari, per far deragliare i treni. Erano ogni giorno meno rispettose: vennero bruciate antiche chiese, mutilate bibbie medievali, bruciò la Carnagie Library di Birmingham. Come gli anarchici prima di loro, misero una bomba nell’abbazia di Westminster e inondarono d’acqua il grande organo della maestosa Albert Hall. Venivano picchiate, minacciate, umiliate dalla polizia e da folle inferocite. Colpite al seno e tirate per i capelli. Loro interrompevano il re e il primo ministro con arringhe decise e con l’inno delle suffragette, cantato sull’aria della Marsigliese […]
Si raccontava di brutalità in cella, di alimentazione forzata che di fatto era una tortura – morsi di legno tra i denti, o ganasce metalliche che li spaccavano, il terribile tubo infilato a forza, mentre i carcerieri tenevano la donna che resisteva per le orecchie, il seno, i capelli, le mani e i piedi. E il tubo serpeggiante poteva mancare l’obiettivo, penetrare in un polmone, forare budella – tutto ciò era risaputo, e raccontato, storie di donne eroiche che entravano in prigione dimostrando quarant’anni, e ne uscivano dimostrandone settanta. Sylvia Pankhurst aveva rifiutato di mangiare e di bere, ed era stata colpita con getti d’acqua e nutrita con l’immondo tubo. Si era messa a camminare. Giorno e notte, giorno e notte. I suoi occhi, aveva saputo Hedda, si erano completamente velati di sangue. Le gambe si erano gonfiate come cuscini. La notte, sognando quella figura macilenta con gli occhi rossi, sognando il suo ininterrotto su e giù, su e giù, Hedda si svegliava madida di sudore.» [pag. 638-639]

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11 commenti su “Il libro dei bambini, di A.S. Byatt – Recensione di Wu Ming 4

  1. Altro che consonanze con gli anni Settanta.
    Sembra quasi un’eco che riecheggia, come da un secolo all’altro, a ricreare la stessa effervescenza sociale o lo stesso delirio.
    Il Parco Lambro, il villaggio di tende, la città che ti respingeva, la gente che se n’è andata in campagna e ha provato l’esperienza della Comune. Tornati anche da lì, perchè la terra è bassa per chi inizia a zappare a vent’anni, e i contadini (quelli veri), capiscono che sei un piedidolci e tirano a fregarti.
    In uno dei miei romanzi ho scritto:
    “Eravamo programmati per l’Apocalisse”.
    E’ stata durissima rimettersi al passo della storia.
    Adesso la vedo diversamente: mi pare che comunità, comunione e comunismo siano tre cose diverse, che riguardano aspetti diversi dell’esistenza. Non credo che ciò che vale per i mezzi di produzione sia trasferibile ai rapporti sociali e agli affetti. E non so se era più confusione o più rigidità ideologica a produrre queste identificazioni troppo facili.
    C’è qualcosa di esclusivo e di assoluto nell’amore, di cui un ragazzo di vent’anni non sospetta nemmeno l’esistenza. E’ questa la radice della monogamia, non certo il sesso che è indifferente persino alla relazione personale (ci si può masturbare davanti a una foto), nè l’eros (che è allegramente poligamo), nè la gestione della prole (che ci guadagna e non ci perde da una famiglia allargata). No, è proprio l’amore, quello che ti fa scegliere e ti fa dire per sempre. Prima di questo, solo esperimenti, immaginazione sociale. Che esalta filosofi e utopisti, ma di fronte a cui il poeta rimane giustamente tiepido.
    Bella recensione Wu Ming4, il libro m’interessa.
    Non so perchè, ma mi viene in mente “La famiglia Winshaw” di Jonathan Coe. Non c’entra assolutamente un cazzo ma questi inglesi sono bravi, da Dickens in poi, a macinare storia dove fanno la parte dei pirati e a restituirtela in letteratura, dove riescono persino a commuoverti

  2. Recensione strepitosa, ultradensa: c’è tutta la tua conoscenza di questo periodo e dell’Inghilterra, l’amore per ciò che ha espresso/esprime all’interno delle sue contraddizioni e paradossi. Un viaggio culturale e politico, con un commovente tributo a lotte che devono farci bruciare di sdegno ancora più grande in questi giorni in cui in Italia le donne sono messe contro le donne, e si sputano addosso. Questo è il dolore più grande, e qualsiasi cosa che esprima una posizione del femminile diversa e solidale in questi giorni è fondamentale, per cui grazie di cuore per questa recensione, che rispetto al libro che non ho letto, sta comunque splendidamente a sé.

  3. […] This post was mentioned on Twitter by Umbe&Dona, Wu Ming Foundation. Wu Ming Foundation said: Il libro dei bambini, di A.S. Byatt – Recensione di Wu Ming 4: «I fabiani e gli scienziati… http://goo.gl/fb/OoREW […]

  4. @WM4
    Il tema, così come l’hai sviscerato, fa venire una gran voglia di leggere il libro. Gente che l’ha fatto, però, mi dice che la scrittura non è all’altezza del progetto e che il romanzo, in quanto tale, finisce per impantanarsi, laddove magari un saggio “poetico” sarebbe filato via liscio.
    Tu che dici?

  5. @ WM2

    In effetti ho scritto che leggere questo romanzo non è una passeggiata. Questo è soprattutto dovuto al fatto che considerazioni storiche e poetiche, del genere che ho riportato tra virgolette, si intervallano all’andamento della vicenda dei personaggi – tanti, forse troppi – seguita passo passo da distanza molto ravvicinata per 25 anni. Del resto, se quello sfondo storico non fosse stato inquadrato nella sua originalità sarebbe stato pressoché impossibile capire l’atmosfera dell’epoca e quei conflitti da un contesto extra-britannico (o anche solo dal presente). Detto questo a me non sembra che il romanzo della Byatt vada a impantanarsi, ma piuttosto che l’autrice abbia voluto tenere dentro troppe cose, seguire troppi fili. Tutti in realtà sono abilmente sviluppati, ma la verità è che anche un solo paio delle biografie in questione sarebbe stato sufficiente a raccontare quel mondo e quell’ipotesi. C’è in sostanza un eccesso di ingredienti, che però non sminuisce a mio avviso il valore dell’impresa.

  6. Mentre leggevo la prima parte della recensione mi sono partiti due pensieri. Il primo è stato una sorta di riconoscimento, di condivisione di un’atmosfera, il mondo dei fabiani, l’Inghilterra tra la regina Vittoria e la Prima guerra mondiale, con tutte le suggestioni che quel mondo ha sempre avuto per me (forse OT: ricordo uno sceneggiato tv trasmesso dalla rai quando ero ragazzina sulla storia della famiglia Pankhurst: lì ho scoperto Emmeline, Sylvia, e non le ho mai dimenticate). Il secondo, il vissuto della seconda generazione che per come l’hai descritto mi ha – con parecchi brividi – rimandato al mio essere “seconda generazione” di genitori troppi vecchi per essere anagraficamente “sessantottini”, ma libertari, appassionati, che hanno vissuto dentro una comunità politica e sociale che è stata la cifra della mia infanzia. E poi il crollo, la disillusione, il silenzio. Sono stati la nostra storia. Ricordo – e ancora adesso mi risento, incazzata, furiosa, impotente – una lite epocale con mio padre, agli inizi degli anni ottanta o forse poco più in là, lui che disperato diceva non c’è più niente, abbiamo sbagliato tutto, non era vero niente di quello in cui abbiamo creduto, vale solo il farsi strada da soli, gli altri non contano più, e io altrettanto disperata urlargli ma come, ma proprio tu, tu che mi hai cresciuta libertaria, appassionata, tu adesso mi dici che è tutto sbagliato, non puoi farlo, TU mi hai mandata nel mondo con quelle idee e ADESSO mi dici che è tutto sbagliato, e la sua risposta, a quel punto quasi sussurrata, quasi come un volerci chiedere scusa, a noi cresciuti così, lui mi ha risposto “e tu non credi che io senta il peso della colpa e della responsabilità ad averti cresciuta sbagliata?”. E quello è stato un momento di grande amore, comunque, con mio padre, e la sua generazione. Perchè adesso a me viene da dire che si, la storia ci ha camminato sopra con gli scarponi, ma quanta ricchezza ci è rimasta, di quella generazione? io credo tanta.
    Bellisima recensione, comunque.
    ciao

  7. Questo libro è formidabile. Grazie WM4 per questa recensione! Però leggetelo, è un affresco complesso che non stanca affatto, si segue volentieri, e ci sono le radici di idee e pratiche che riaffiorano continuamente! Hai ragione, serve alla vostra generazione, ma non solo…
    Vorrei dire una cosa, al momento: quel mondo di artisti e artigiani, era anche un mondo di genitori. Una delle cose che può fare un genitore del genere è trasmettere la visione di un mondo, di una utopia, tramite segni concreti: una storia, un vaso di ceramica, delle marionette. Ma non può mentire ai propri figli su se stesso, l’arte non è un alibi, né può ‘proteggerli’ da loro stessi e da una realtà che gli sfugge. Forse l’unica cosa che può fare è metterli in contatto con la fantasia, donare un esempio di apertura mentale, di voglia di sperimentare, e soprattutto mostrare il rigore e la fatica della ricerca nella realizzazione delle proprie opere. ‘Genio e sregolatezza’ è un bel mito da sfatare o da interpretare in altro modo.
    Mi sembra che la Byatt trasmetta il valore delle creazioni al di là del valore del creatore. E anche al di là del valore dei vari figli e figlie di creativi. La descrizione dei manufatti, di queste creazioni, è dettagliata e affascinante. Perché quegli oggetti sono frutto di un lavoro, non solo di un’idea.

  8. @ paola signorino

    Bellissima testimonianza “cuore in mano” la tua. Sono assolutamente d’accordo sul fatto che la generazione precedente ci abbia lasciato una grande ricchezza, a volte anche suo malgrado. Ma quella ricchezza abbiamo dovuto imparare a riconoscerla, a scavarla fuori dalla corrente della storia che marciava contro.
    Un esempio che si connette alle polemiche di questi giorni. Io ho passato le mie estati da bambino, negli anni Settanta e nei primissimi Ottanta, nelle spiagge dei nudisti, a fare campeggio libero (allora si poteva). Non in una comune naturista californiana, ma sulla riviera romagnola, in un contesto provinciale e assai poco radical chic (quelli sono arrivati dopo). Io ho visto le femministe mettere in crisi relazioni di coppia, rendite di posizione di genere, dinamiche patriarcali, etc. Ho visto esplodere le contraddizioni tra la cultura libertaria e libertina che i compagni professavano e il desiderio di coppia, l’amore, perfino l’ideologia della famiglia proletaria. C’è gente che all’epoca ha vissuto sulla propria pelle questi conflitti e ha provato ad affrontarli, anche malamente, anche a cazzo di cane, ma ci ha provato. Ha provato a reinventarsi, spesso fallendo miseramente, altre volte con successo. Chi ha portato avanti certe istanze di liberazione sessuale in Italia sono stati i compagni e le compagne della sinistra radicale, contro l’antica (falsa)dicotomia tra puttanieri e puritani catto-comunisti. E’ quella storia che oggi si vuole rimuovere, come parte integrante della rimozione del decennio maledetto, riproponendo un’altra falsa dicotomia, quella tra monachesimo femminista e liberazione al Drive In. Ecco perché diventa importante raccontare di nuovo la storia di chi ci ha preceduto, anche con tutti gli sbagli e le contraddizioni – e in questo il romanzo della Byatt è davvero prezioso. Per questo ho voluto riportare i passi in cui lei racconta l’epopea della lotta per il suffragio femminile, che vide signore “perbene” diventare “permale” e pagare un prezzo altissimo per guadagnare terreno sul patriarcato.

    @ paola di giulio
    grazie di avere posto l’accento sull’importanza che il lavoro artistico/artigianale ebbe per il milieu fabiano e che non a caso nel romanzo della Byatt ha un’importanza centrale e viene fatto riverberare con il lavoro narrativo. In effetti è un discorso che oggi andrebbe ripreso (qualcuno, nel suo piccolo, ci prova da anni…). Come direbbe Tolkien, il lavoro artistico è “sub-creazione” di mondo, attività peculiare dell’umanità. Quella che Marx avrebbe voluto vedere liberata dall’alienazione.

  9. Sì, WM4 mi interessa molto l’argomento lavoro artistico/artigianale! Sono cresciuta con 2 genitori artisti, che hanno pagato un certo prezzo per non essersi omologati al loro ambiente borghesissimo, prima che il ’68 aprisse delle porte. Mia madre era di origine belga, con riferimenti quindi ad una cultura diversa dalla nostra, che non dimenticò mai. Da piccola in estate ci faceva fare il bagno in un tino con l’acqua scaldata al sole e le foglie degli alberi dentro. Ci faceva abbracciare gli alberi, prati e boschi erano mondi abitati, non solo dagli animali… Almeno fuori città eravamo sempre molto liberi, una libertà molto ampia, senza orari, e mal giudicati da altre madri preoccupatissime – era la fine degli anni ‘50. I miei leggevano sempre, adoravano il teatro – mia madre era scenografa, e giocavamo con i teatrini e le marionette. Ma soprattutto dovevo imparare a ‘creare’ i miei teatrini e le marionette: e pure andare a ricercare nel passato, nelle esperienze altrui, sui libri o nei musei, la cura e l’attenzione nel fare manuale. Molte cose erano diverse: dalle favole nordiche (ma di Tolkien nemmeno l’ombra) alla colazione (fiocchi d’avena e latte – ma che sei un cavallo? mi dicevano a scuola) . L’impatto col libro della Byatt è stato quindi abbastanza micidiale! ‘Acci…e quel mondo dove stava? A nord, ti pareva.
    Con molto sconcerto hanno assistito alla nostra vita negli anni ’70, non ce la facevano a capire tutto, a veder buttar via allegramente il bambino con l’acqua sporca. La loro ribellione al sistema era stata semplicemente una radicale e sistematica alterazione delle priorità, e noi figli avevamo bisogno di qualcosa di più rivoluzionario, ma in fondo di meno ‘anarchico’. Di una cosa sono grata: per tutta la vita mi hanno additato artisti ed artigiani, di qualunque genere, come grandi lavoratori, intransigenti e rigorosi creatori del quotidiano, umili e generosi, intuitivi e lungimiranti. E mi hanno insegnato a ringraziarli, perché come dicevano, a tutti fa piacere sapere di aver fatto un buon lavoro. Ecco, ho fatto outing, scusate, era per dire che una vita intera può essere spesa credendo che ‘creare un altro mondo’ sia fondamentale, e farlo bene.

  10. […] nota. C’è una recensione da non perdere, con annessa discussione, su Il libro dei bambini di Antonia Byatt, fatta da Wu Ming […]

  11. […] This post was mentioned on Twitter by Federico Simonetti, Einaudi editore. Einaudi editore said: Wu Ming 4 recensisce AS Byatt IL LIBRO DEI BAMBINI http://www.wumingfoundation.com/giap/?p=3163#more-3163 […]