
Julien Auguste Hervè, «Ritratto di donna con mal di denti», olio su tela, 1900 circa.
[Mentre scrivevo la seconda parte del mio “portolano” Trecentonovantaquattro giorni (la prima è qui), alcune riflessioni su luoghi, corpi e scrittura hanno fatto reazione con recenti polemiche su letteratura e intelligenze artificiali. Quelli che dovevano essere due capoversi si sono allungati e sono diventati un testo a parte, fatto perlopiù di appunti, che vanno presi come tali, ma che ritengo utile pubblicare. A questo punto, la seconda parte di Trecentonovantaquattro giorni uscirà nei primi giorni del nuovo anno. Buona lettura. WM1]
«Quando restituisce un corpo, ecco: è poesia.»
Ottavio Fatica, Lost in translation
«Il capitale è il cancro di cui la specie rischia di morire prima di cominciare a vivere realmente. In questo senso, la rivoluzione è biologica»
Giorgio Cesarano, Manuale di sopravvivenza*
«Mentre l’intelligenza artificiale iper-appiattisce la cultura di massa, qualunque cosa mostri evidenze di umanità diventa qualcosa a cui aspirare.»
ANU, Aspirational Humanity
Qui potrebbero arrivarmi accuse di «antropocentrismo», balzane ma in voga tra gli apologeti dell’attuale modello di IA. Gente che quando va “bene” dà letture riduttive degli enormi problemi ecologici e climatici che quel modello esaspera, e quando va male – quasi sempre – li rimuove proprio dal quadro**.
La critica all’antropocentrismo è imprescindibile, ma ha senso solo se declinata in termini ecologici, a difesa degli ecosistemi viventi. L’antropocentrismo non è altro che specismo, ideologia del primato dell’Homo Sapiens sulle altre specie. Criticarlo, dunque, serve a riconoscere il vivente oltre l’umano.
Se invece si adotta una postura anti-antropocentrica per difendere un’entità non-vivente, una pseudosoggettività inorganica – in pratica, marxianamente, lavoro morto – intorno a cui si è costruito con tracotanza un modello industriale fra i più energivori, sperequatori di risorse ed ecocidi mai esistiti nel capitalismo, a sua volta il modo di produzione più ecocida mai esistito… Beh, qui si abusa della postura.
«Evidenze di umanità» lo intendo come: manifestazioni di resistenza del vivente. Di una corporeità che, a dispetto della sua fragilità o forse proprio grazie a essa, continua a rappresentare un limite, ma che per essere davvero un limite dovrà includere corporeità non umane. Per cominciare a vivere realmente, la nostra specie – come dice il dottor Stegagno – deve finalmente pensarsi come tale, cioè specie tra le altre. L’Homo che avrà fatto questo salto e avrà piena esperienza della comunanza tra specie è quello che Jacques Camatte chiama Homo Gemeinwesen. Gemeinwesen, essere comune, è un altro termine marxiano.***
È vero che le accuse di «antropocentrismo» trovano facili bersagli nel dibattito corrente sull’IA, quasi sempre mal posto e peggio sviluppato. Gli umanisti si stracciano le vesti: che ne sarà dell’Autore se l’IA può ormai «trarre in inganno» imitando lo «stile» di chiunque, anche del più geniale premio Nobel?
Ah, l’Autore, questo eroe di un suprematismo dentro il suprematismo… La sua sacra ispirazione che l’IA dissacra… Le sue res gestae così importanti…
La preoccupazione, naturalmente, è più venale: e se un giorno lettrici e lettori preferissero i libri scritti dalle IA a quelli scritti da esseri umani, e gli editori non avessero più bisogno di questi ultimi? Insomma, una sfilza di premesse sbagliate, false questioni e fallacie logiche, alimentate da un articolo uscito pochi giorni fa sul New Yorker.
Ammesso e non concesso che questi siano problemi, nell’elenco di problemi causati dall’IA starebbero parecchio in fondo: combustibili fossili e persino centrali nucleari ad hoc per produrre l’abnorme energia necessaria; guerre e stupri dei territori per accaparrarsi terre rare e minerali critici; chilometri quadri di suolo consumato da sterminati centri dati; colossali quantità di acqua per prevenire surriscaldamenti; gli ecosistemi dei dintorni devastati, ecc. Per fortuna c’è una risposta, in mezzo mondo proliferano le lotte contro i centri dati – e vincono pure, persino negli USA.

Saragozza, 27 settembre 2025, manifestazione contro molteplici progetti di centri dati in Aragona.
Ad ogni modo, ponderiamo la questione. Io penso che le vere domande siano: cosa cerchiamo nella letteratura? E cosa ci dà? E quanta discrepanza c’è tra quel che cerchiamo e quel che ci dà?
Parliamoci chiaro: esiste da parecchio una produzione – sia romanzesca sia saggistica – che pare scritta da macchine, perché prodotta a nastro da umani ridotti a funzionare come macchine. Gran parte di quel che vediamo nelle vetrine di certe librerie di catena avrebbe potuto scriverlo un’IA, ed è così da molti anni. Per fare qualche nome, «James Patterson» può anche corrispondere a un tizio in carne e ossa, ma in pratica è una macchina. E lu l’è ‘ncora viv, che dire di «Robert Ludlum», che continua a “co-firmare” nuovi titoli anche se è morto nel 2001? Anche la recente elefantiasy di romance e di romantasy fa pensare a creazioni di menti artificiali.
Se alla letteratura chiediamo roba tutta uguale, allora sì, ben presto non serviranno umani per scriverla. Ma a quel punto non serviranno nemmeno editori per pubblicarla: chiunque potrà generarsela da sé. E se a ciò non corrispondesse un immane, inimmaginabile sperpero di risorse verrebbe da dire: che facciano.
C’è poi la questione, anch’essa mal posta, dello «stile». Un approccio sbagliato alla lettura e al rapporto col personaggio-scrittore, unito alla costante pressione di imperativi commerciali, ci ha fatto credere, e pretendere, che un autore o autrice abbia uno stile, uno solo, il suo e di nessun altro. Se compriamo un libro di, poniamo, Zsigmond Hátszeghy – nome che ho inventato pochi secondi fa – ci aspettiamo ogni volta un libro scritto «alla Hátszeghy». Se non è scritto così ci restiamo male: ma come? Ebbene, per quello c’è l’IA: «Scrivimi qualcosa alla Zsigmond Hátszeghy.»****
Chi scrive non ha per forza sempre lo stesso stile, se per stile si intende la “voce”, il fraseggio, il ricorso frequente a certe tecniche e figure retoriche. A meno che i singoli libri non siano episodi di un unico grande libro o avventure di un unico personaggio, chessò, Montalbano, Henry Chinasky… Ma fuori da questa serialità, ogni libro richiede una propria voce, un proprio stile. Lo disse molto bene Gabriel Garcia Marquez:
«Non si sceglie lo stile. Si può indagare e cercare di scoprire qual è il miglior stile per un tema. Ma lo stile è determinato dal tema, dall’animo del momento. Se si cerca di utilizzare qualcosa che non è adeguato, semplicemente non funzionerà. Poi i critici costruiscono teorie attorno a questo e vedono cose che io non avevo visto. Io rispondo solamente sul nostro stile di vita, la vita del Caribe.»
L’ultima frase non è solo una battuta: illumina il malinteso. Si confonde lo stile – che può variare a seconda dei progetti e delle esigenze espressive – con il mondo di un’autrice o autore, con la sua Umwelt, cioè, parafrasando il biologo Jacob von Uexküll, «il fondamento biologico che sta nell’esatto epicentro della comunicazione e del significato dell’animale-scrittore» (Uexküll diceva «animale-uomo»). Insomma, l’universo soggettivo di un’autrice o autore, che resta nel suo corpo, permane anche nel variare delle tecniche adottate e non si può desumere da una sola frase imitata da un’IA, come nell’esperimento riportato dal New Yorker.
Se chiedi a un’IA un testo «alla Marquez», dovrebbe risponderti con una domanda: «Quale Marquez?» L’autunno del patriarca, per dire, è scritto in uno stile diversissimo da quello di Cent’anni di solitudine. Nondimeno, l’universo soggettivo è il suo. Quello che, semplificando, ha chiamato «la vita del Caribe». Nota bene: non la biografia individuale, di cui chi legge i romanzi potrebbe anche ignorare i dettagli; no, «il nostro stile di vita», c’è un noi, un essere comune. L’essere comune che Marquez si è portato dentro per tutti i suoi giorni. La sua versione di quell’essere comune.

Stoccolma, 8 dicembre 1982. Gabo si presenta alla cerimonia per il Nobel indossando un liqui liqui, abito tradizionale colombiano. Cioè indossando la sua Umwelt di scrittore. Nella sala è il più elegante, e non è un caso.
Questo Gemeinwsen una macchina non può riprodurlo, perché appunto è un fondamento biologico, è esperienza vissuta, mentre la macchina – è bene non scordarlo mai – è non-viva. Tuttalpiù può imitare, produrre simulacri, ma che ce ne frega? Se sono simulacri e imitazioni a interessarci, siamo conciati male. Chiedere al primo pappagallo robot nei paraggi di fare il verso a un autore che abbiamo amato? Se il nostro rapporto con la letteratura è tanto degradato, allora il problema, prima del pappagallo, siamo noi.
Vale non solo per i romanzi, ma anche per i saggi. Quando nel marzo scorso uscì Ipnocrazia, firmato da un tale Jianwei Xun ma in realtà scritto da un’IA “imbeccata” da Andrea Colamedici, che l’autore cinese non esisteva lo capimmo subito, l’esperimento ci incuriosì poco e – benché molti ci tirassero in ballo, citandoci a sproposito – decidemmo di non scriverne. Come noi capì subito anche Bifo, che invece ne scrisse, e sul suo bollettino Il disertore pose la questione in un modo che trovai impeccabile:
Volto generato da un’IA e attribuito all’inesistente Jianwei Xun.
«Xun descrive la superficie comportamentale della mutazione linguistica e cognitiva, ma non compare mai, neppure una volta, se non vado errato, la parola: “corpo”.
Perché Xun non sa nulla del corpo? Mi sorge quasi il sospetto che non parli mai del corpo perché non ne sa nulla. Probabilmente non ce l’ha. Ma chi è allora Xun se non possiede un corpo? Nel libro non troviamo mai né la parola sensibilità, né la parola dolore […] nel libretto di Xun, mi dispiace doverlo dire, manca il mal di denti. L’automa linguistico sa tutto del mal di denti, intendiamoci, vi può offrire una bibliografia completa sull’argomento, e anche l’indirizzo di un buon dentista vicino a casa vostra. Ma il mal di denti non sa cosa sia, e se per disgrazia vi viene il mal di denti tutta la perfezione ipnocratica di cui parla Xun va a farsi fottere. E il mal di denti non è il peggiore dei mali di cui l’automa sa tutto ma non esperisce niente. Allo stesso modo l’automa non esperisce né la solitudine né la violenza, né la fame né il freddo, né la guerra. Per questo il libro di Xun ci spiega tutto ma non ci serve a niente.»
Si torna dunque all’inizio. Se alla letteratura chiediamo evidenze di umanità, cioè tracce del fatto che è scritta col corpo, con l’interazione dei corpi, con le memorie dei corpi; se le chiediamo la festa dei neuroni specchio, che si attivano quando vediamo – o, leggendo, immaginiamo – altri umani compiere azioni in cui possiamo immedesimarci; se le chiediamo congiunzioni invece che connessioni*****; se le chiediamo di riempire di ulteriore senso i luoghi, che non sono meri spazi e men che meno spazi virtuali…
Se è ancora questo che chiediamo, è probabile che quella letteratura continuerà a darcela gente che ha un corpo e vive, come noi.
Note
* Il fatto che la rivoluzione debba essere biologica non implicava, in Cesarano, un rigetto di quella che altri hanno chiamato «la Tecnica». Ecco cosa scrive in questo stesso libro, che è di oltre cinquant’anni fa:
«L’uomo ha sempre creduto di trasformare la natura, adeguandola ai suoi fini. Le ha imposto effettivamente violenze profonde, ma non ne ha potuto trasformare le leggi di equilibrio dinamico, che ora trova innanzi a sé come l’imperativo insuperabile, al quale è obbligato o ad adeguarsi o a morire. Ciò che spetta all’uomo, è la conquista di sé nella natura, della sua collocazione coerente nel processo naturale. Scienze e tecnologie, questi miti operanti dell’esserci, queste mediazioni tra il farsi della specie e la resistenza opposta dalla materia, se fin qui hanno rappresentato soltanto, e con una miseria di cui stiamo tirando le somme desolanti, un’intelligenza del mondo di là da venire, e fabbricato un “mondo” illusorio di contingenza e di copertura, mentre di fronte al fallimento planetario devono estinguersi come tali – come scienze e tecnologie del fittizio e dell’illusorio – di sé lasceranno all’uomo realizzato quel poco fondamento efficiente sul quale hanno fin qui sorretto la loro relativa efficacia prammatica. L’uomo signore di sé e senza schiavi non sarà né “selvaggio” né “animale”: ma cesserà definitivamente di esserlo realmente. Cibernetica e automazione, sottratte al dominio del fittizio (e del profitto, che ne e il risultato storico più concretemente astraente) appaiono già fin d’ora come un ponte non troppo fragile gettato tra la fine delle false scienze e l’inizio della vera gnosi.»
** Un esempio di rimozione è nell’argomento che così riassumo: «ci preoccupavamo anche dei videoregistratori, e prima ancora della tv stessa, e se andiamo ancora più indietro c’è sempre stato un panico ideologico legato all’affermarsi di un nuovo medium e in generale di una nuova tecnologia, poi sono entrati nelle nostre abitudini e oggi certe argomentazioni ci sembrano ridicole e infondate».
Il punto è che alcune lo erano, altre no.
La fallacia, qui, consiste nel dare per inteso, addirittura per assiomatico, che tutti i timori mediatici del passato fossero sbagliati. È un bias cognitivo: se qualcosa si è affermato cambiando le nostre abitudini… allora era buono. Le nostre abitudini sono buone, o comunque innocue. Va tutto ben, madama la marchesa. È la solita apologia dell’esistente, basata sulla rimozione di ogni «costo esterno» – ambientale e sociale – dello sviluppo capitalistico, sull’indifferenza a tutto ciò che certe vittorie e abitudini costano e costeranno al mondo.
In filosofia sarebbe hegelismo d’accatto: tutto ciò che oggi è reale è razionale, e se è razionale va accettato.
In psicologia è il «pregiudizio di sopravvivenza»: pensare che le informazioni rimaste disponibili dopo un processo di selezione – anche violenta, anzi, il più delle volte violenta – siano più valide di quelle non più disponibili. Chi denunciava, nella sempre maggior personalizzazione dell’offerta mediatica, il pericolo del cocooning, dell’imbozzolarsi domestico, dell’isolamento, ha chiaramente, platealmente perso, e sulle macerie delle argomentazioni che portava si è sparso il sale.
Eppure da sotto quel sale qualcosa torna a crescere: la consapevolezza che «you can’t post your way out of fascism».
*** Per un’introduzione al pensiero di Camatte consiglio: Michele Garau, Lo scisma da un mondo che muore. Jacques Camatte e la rivoluzione (Machina Libro, Derive Approdi, Bologna 2024).
Dentro il Luther Blissett Project si leggevano autori come questi: Cesarano, Camatte, l’Amadeo Bordiga degli scritti su terra e ambiente… Non ricordo, almeno nella colonna bolognese, alcuna facile apologia della tecnologia, dello sviluppo, della velocità dei flussi. Piuttosto, ricordo il contrario, ed è uno dei motivi per cui non ci “guantavamo” bene con Decoder, rivista che trovavamo tout court tecnofila e perciò ingenua. In un comunicato blissettiano del 1996, ad esempio, si legge:
«Nel cyberspazio tutto è troppo visibile e (pre)vedibile: ci sono troppi Lumi! Luther Blissett usa [Internet], ma ha anche bisogno di coni d’ombra, di strade lunghe e accidentate, di dicerie che cuociano la cultura di massa a fuoco lento. Quindi non aspettatevi da Luther le solite banalità hi-tech […] e poi, Luther non intende assolutamente “abbandonare il corpo”».
Poiché il LBP non era Uno ma molteplice, tra coloro che adottavano il nome ci sarà stato anche chi, durante o dopo, avrà manifestato altro tipo di smanie, ceduto a tutt’altre retoriche, ma la ricostruzione dell’americano Edmund Berger (Accelerazione. Correnti utopiche da Dada alla CCRU, Nero, Roma 2021), secondo cui il LBP rientrerebbe nella genealogia del cosiddetto «accelerazionismo», è da ritenersi erronea, basata sulla sovrainterpretazione di informazioni parziali, spesso indirette.
**** A scopo di ricerca l’ho chiesto a Chat-GPT e mi ha risposto: «Certo! Di seguito trovi un breve racconto ispirato allo stile di Zsigmund Hátszeghy». Era una roba di cui riporto solo l’incipit:
«Nel villaggio di Kisfalud, nascosto tra le colline verdi e il mormorio del ruscello vicino, viveva un uomo di nome András. La sua casa era isolata dagli altri, circondata da boschi che sembravano sussurrare storie dimenticate ad ogni alito di vento.»
E chissà, forse aver prodotto ‘sto capolavoro è l’equivalente di aver bruciato cento metri quadri di bosco. Mi viene da vomitare.
***** Per questa fondamentale distinzione rimando di nuovo a Bifo, che nella declaratio terminorum del suo libro più importante (E: la congiunzione, Nero, Roma 2021) scrive:
«Chiamo congiunzione una concatenazione di corpi e di macchine che può generare significato senza riconoscere e ripetere un disegno preordinato, senza rispettare una sintassi.
La connessione, invece, è concatenazione di corpi e di macchine che può generare significato soltanto seguendo un disegno intrinseco, e conformandosi a regole precise di comportamento e di funzionamento.
La connessione non è singolare, intenzionale o vibrazionale. Piuttosto è concatenazione operativa tra agenti di significato preventivamente formattati: menti e macchine che siano stati preventivamente sottoposti a un lavoro di uniformazione, ovvero che siano stai formattati secondo un codice.
La connessione genera messaggi il cui significato può essere decifrato soltanto da un agente (una mente corporea o una macchina) che condivida lo stesso codice sintattico che ha generato il messaggio.
Nella sfera della congiunzione l’agente di significato è un organismo in vibrazione […] La produzione di significato è l’effetto di singolarizzazione di una serie di segni: tracce, memorie, immagini o parole.
La congiunzione è la sintonia temporanea e precaria di organismi vibratori che scambiano significato. Lo scambio di significato si fonda sulla simpatia, sulla condivisione di pathos.
La congiunzione perciò può essere intesa come divenire altro. Le singolarità cambiano quando si congiungono, come l’amore cambia l’amante, o come la composizione congiuntiva di segni a-significanti provoca l’emergenza di un significato che precedentemente non esisteva.
Al contrario, nel modo connettivo della concatenazione ogni elemento rimane distinto e interagisce solo in maniera funzionale. Piuttosto che una fusione di segmenti, la connessione comporta un semplice effetto di funzionalità macchinica.
Perché la connessione si renda possibile i segmenti devono essere linguisticamente compatibili: la connessione presuppone quindi un processo attraverso il quale gli elementi che devono connettersi siano previamente resi compatibili […]
La congiunzione si può definire come l’incontro e la fusione di corpi rotondi e irregolari che continuamente cercano la loro strada senza precisione, senza ripetizione, senza perfezione.
La connessione come l’interazione puntuale e ripetibile di funzioni algoritmiche, di linee rette e di punti che si sovrappongono perfettamente e che si inseriscono o si disinseriscono secondo modalità discrete di interazione che rendono le parti differenti compatibili con uno standard prestabilito.»
N.B. I commenti verranno aperti dopo le feste. Le feste ci vogliono.

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