Un convoglio di esuli istriani dileggiato dai ferrovieri «rossi». Un episodio ambientato nel 1947, ma che non ha riscontro in nessuna fonte dell’epoca e ha preso la sua attuale forma soltanto nel XXI secolo.
di Nicoletta Bourbaki *
INDICE
1. Filmati falsi fatti con l’IA e vecchie fantasie di martirio
2. Giornali, questura, prefettura: negli archivi nessuna traccia
3. Pola 1947
4. 1957, «il PCI contro il treno degli esuli!!1!»
5. 1991, Magris traghetta la storia nel mainstream
6. 2004, arrivano i sassi e il latte versato
7. Sempre più dettagli, sempre più incongrui, persino Vivoda smentisce
8. Wikipedia: Different Trains
9. Discorsi istituzionali e para-istituzionali: Meloni, Cristicchi & Co.
10. Un articolo mai esistito e la reale posizione del PCI
Flash forward: 2 agosto 1991
1. Filmati falsi fatti con l’IA e vecchie fantasie di martirio
Da alcune settimane circola un video intitolato «Il treno della vergogna». Lo si può reperire facilmente su YouTube ma preferiamo descriverlo, riportando in corsivo il testo letto dalla voce narrante.
Il video si apre sulle note di una musica drammatica, sembra un quartetto d’archi. Scorrono uno dopo l’altro vari filmati “d’epoca”. Un treno a vapore arriva in una stazione. Una voce impostata, mesta ma decisa, comincia subito a raccontare:
18 febbraio 1947: un treno merci arriva a Bologna, sotto il gelo dell’inverno. Dentro, donne, bambini, anziani. Si vedono donne, bambini e anziani sulla paglia dentro un carro merci.
Sono italiani, in fuga dall’Istria, dalle foibe, dalla fame. Un filmato mostra una famiglia che abbandona a piedi una città in fiamme.
Hanno affrontato un viaggio disperato. Li aspettano pasti caldi preparati dalla Croce rossa. Stacco su una cucina da campo.
Ma ad accoglierli c’è l’odio. Nuovo stacco, carrellata su un picchetto operaio. Un cartello compare per un momento in primo piano. C’è scritto:
«TO NOO TCNCOCTNJ INC NNDWAI DOWINO FACCISTS! FAFIASTI INNIFACAS».
Dai microfoni voci sindacali minacciano lo sciopero. Li chiamano fascisti. Dai marciapiedi volano sassi, pomodori. Gente scende dal treno sotto una gragnuola di sassi.
Il latte per i bambini versato con disprezzo sulle rotaie. Un tizio versa del latte sui binari da una grande bigoncia di alluminio. Zoom sulla mezza figura di una madre dal volto disperato.
Il treno riparte, umiliato. Solo a Parma troveranno assistenza. Quel convoglio è passato alla storia come il treno della vergogna. Un treno parte dalla stazione. Sulla fiancata, a caratteri cubitali, c’è scritto: «VERGOGNA».
Perché l’Italia quel giorno voltò le spalle ai suoi figli.
Fine.
Il video utilizza immagini e filmati generati digitalmente in modo da sembrare “autentici”. In questo caso l’utilizzo dell’IA è dichiarato mediante una scritta, e il lavoro è grezzo, come dimostrano le scritte senza senso sui cartelli. Tuttavia, l’estrema facilità e rapidità con cui, grazie all’IA generativa, si possono confezionare falsi storici – non dichiarati e ben più convincenti di questo – pone enormi problemi alla storiografia di oggi e ancor più ne porrà a quella di domani.
Lo scrisse già Marc Bloch ormai più di ottant’anni fa: «tra tutti i veleni capaci di viziare una testimonianza, l’impostura è il più virulento». E quanto a carica virale, rispetto al 1940-43 l’impostura ha fatto passi da gigante.
È necessario attrezzarsi, senza lasciarsi travolgere, senza ansie. «Quando tutto accade veloce, impara a essere lento», diceva il personaggio di un romanzo. Sulle sfide che ha di fronte il metodo storiografico nell’epoca dell’IA stiamo riflettendo fittamente e coi nostri tempi ne scriveremo.
Ma andiamo ora al contenuto del video in questione, alla storia che la voce fuori campo ci narra.
2. Giornali, questura, prefettura: negli archivi nessuna traccia
L’episodio, prima di ridursi a un prompt da far processare a un software, era già diventato nel corso dei decenni uno degli eventi canonici della narrativa sull’esodo istriano.
In questa storia, tuttavia, l’unica cosa di cui è possibile trovare un riscontro documentato da fonti coeve è la sosta a Bologna, il 18 febbraio 1947, di un treno che trasportava diverse centinaia di profughi istriani in viaggio da Ancona a La Spezia.
Su L’Avvenire d’Italia, quotidiano cattolico stampato a Bologna – in seguito sarebbe diventato semplicemente l’Avvenire – il 20 febbraio compare un trafiletto che riporta la seguente notizia:
Transitati da Bologna altri 2200 profughi di Pola.
Ieri sono passati dalla nostra Stazione diretti in varie città circa 2200 profughi di Pola. Accolti sempre dalla Commissione Pontificia e ristorati con vivande calde hanno proseguito il loro viaggio. Tutti sono gratissimi della accoglienza che loro riserva il Posto di Ristoro della Pontificia Commissione Assistenza. È sempre pressante l’invito per aiuti al Posto di Ristoro della Commissione Pontificia per poter dare ai fratelli di passaggio una accoglienza degna del loro grande sacrificio.
In tutto il mese di febbraio nessun giornale locale riporta notizie di disordini alla stazione di Bologna. Non c’è niente su l’Avvenire d’Italia, né sul Progresso d’Italia e nemmeno sul Giornale dell’Emilia, nome provvisorio, adottato in attesa che si calmassero le acque, del Resto del Carlino, testata troppo associata al collaborazionismo filonazista.
L’Avvenire d’Italia del 7 febbraio riporta in prima pagina la notizia di uno sgarbo dei ferrovieri di Vercelli, che non hanno permesso l’apposizione di striscioni di benvenuto ai profughi presso il punto di ristoro allestito nella stazione dalla Pontificia commissione di assistenza.
È dunque molto probabile che, se a Bologna si fossero svolti episodi analoghi o addirittura più eclatanti, il giornale ne avrebbe parlato. A maggior ragione ne avrebbe parlato l’anticomunista Giornale dell’Emilia.
È poi addirittura certo che, se vi fossero state contestazioni violente – o anche pacifiche – nei confronti dei profughi, ve ne sarebbe traccia negli archivi della Questura e della Prefettura, dove invece non risulta nulla.
I giornali dell’epoca li abbiamo consultati direttamente, mentre per le ricerche d’archivio in Questura e Prefettura facciamo riferimento alla tesi di laurea magistrale di Alberto Rosada intitolata The reception of the Istrian-Dalmatian refugees between history and memory, compilata sotto la supervisione della professoressa Giulia Albanese, che ci ha fornito molte conferme e ulteriori spunti per l’indagine.
La storia del «Treno della vergogna», raccontata proprio come nel video descritto sopra, è ritenuta praticamente da tutti un fatto storico acclarato. Talmente acclarato che quasi nessuno ha ritenuto di dover cercare riscontri nelle fonti coeve.
Ovviamente il cantante Simone Cristicchi l’ha inserita nel suo show Magazzino 18, insieme ad altri eventi “canonici” in cui la fantasia ha abbondantemente sopperito alla mancanza di fonti storiche.
Eppure, di quella storia non esistono tracce anteriori al 1957. Nemmeno nella pubblicistica di nicchia dell’associazionismo esule. E nel mainstream nazionale compare per la prima volta soltanto nel 1991.
Per ricostruire la genesi di questo mito dobbiamo fare un salto indietro nel tempo e spiegare per sommi capi cosa stesse accadendo a Pola nel 1947.
3. Pola 1947
Dopo la liberazione dal nazifascismo, avvenuta il 5 maggio 1945 ad opera dell’Esercito Popolare di Liberazione della Jugoslavia, Pola fu amministrata fino al 12 giugno dai poteri popolari instaurati dal partito comunista jugoslavo.
In seguito agli accordi di Belgrado tra jugoslavi e angloamericani, la città passò sotto il GMA, Governo Militare Alleato, insieme a Gorizia e Trieste.
Dopo l’arrivo degli alleati, nel giugno del 1945, fu fondato il CLN, Comitato di Liberazione Nazionale di Pola, di cui facevano parte democristiani, socialisti, liberali e azionisti, in contrapposizione ai comunisti che partecipavano invece all’UAIS, Unione Antifascista Italo-Slava, di orientamento filo jugoslavo.
A un lettore italiano l’espressione CLN richiama alla mente la lotta al nazifascismo nel periodo tra l’8 settembre 1943 e il 25 aprile 1945, ma quando ci si riferisce all’Istria la risonanza è fuorviante. Il CLN di Pola non nacque nella lotta contro il nazifascismo, ma solamente dopo la liberazione, in contrapposizione alla linea filojugoslava dei comunisti.
L’amministrazione angloamericana durò fino al 1947, quando fu firmato (10 febbraio) ed entrò in vigore (15 settembre) il trattato di Pace di Parigi, che assegnò Gorizia all’Italia e Pola alla Jugoslavia, e istituì il Territorio Libero di Trieste, sottoposto alla sovranità dell’ONU e diviso in due zone, una amministrata dagli angloamericani e una dagli jugoslavi.
Ricordiamo en passant che nei Balcani l’Italia aveva perso la guerra che essa stessa aveva cominciato insieme alla Germania nel 1941, invadendo la Grecia e la Jugoslavia. Aveva perso anche la guerra dichiarata a Francia e Regno Unito nel 1940, quella dichiarata all’Unione Sovietica nel 1941 e quella dichiarata agli USA sempre nel 1941. A Parigi dunque si presentò alle trattative da paese sconfitto, e in quanto tale subì perdite territoriali sia sul confine occidentale sia su quello orientale, e perse tutte le colonie.
A Pola il biennio 1945/47 fu un periodo torbido, ben descritto da Gaetano Dato nel suo libro Vergarolla 18 agosto 1946. Gli enigmi di una strage tra conflitto mondiale e guerra fredda, ed. LEG, 2014. In città si fronteggiavano a viso scoperto i militanti filoitaliani e quelli filojugoslavi, e a viso coperto i servizi segreti angloamericani, jugoslavi e italiani. Erano inoltre presenti sul territorio diversi gruppi armati: ex partigiani comunisti, antifascisti italiani antijugoslavi e/o anticomunisti, e fascisti irriducibili.

Il generale di brigata Robert de Winton, assassinato all’età di 38 anni dalla fascista Maria Pasquinelli.
Il giorno stesso della firma del trattato di pace il generale Robert de Winton, comandante delle forze britanniche a Pola, fu ucciso a colpi di pistola da Maria Pasquinelli, un’ex agente dell’intelligence della X MAS. Di lei e del suo ruolo nel raccogliere e diffondere leggende nere sulle foibe del 1943 abbiamo scritto a proposito del caso di Norma Cossetto.
Già nella tarda primavera del 1946 era ormai chiaro a tutti che la città sarebbe passata alla Jugoslavia, e il governo italiano, di concerto con il CLN di Pola e con la Pontificia Commissione di Assistenza, cominciò a organizzare l’evacuazione della componente italiana della città.
Non indagheremo qui le complesse dinamiche sociali, politiche, economiche e anche psicologiche che portarono alla partenza da Pola di quasi 30mila abitanti – quasi tutti italiani – sui circa 40mila totali. A chi fosse interessato ad approfondire l’argomento, consigliamo di cominciare dal volume Storia di un esodo. Istria 1945-1956, Istituto regionale per la storia del Movimento di liberazione nel Friuli-Venezia Giulia, Trieste 1980.
Riteniamo però importante sottolineare che non si trattò di una fuga rocambolesca di persone incalzate da un nemico in armi, come suggerisce il filmato fake che abbiamo descritto all’inizio di questo post. Si trattò invece di un’evacuazione ordinata, organizzata dal governo italiano – prima le masserizie e poi le persone –, con partenze regolari di grosse navi e liste di imbarco a cui i cittadini che volevano partire dovevano iscriversi.
Il grosso delle operazioni si svolse nei mesi di febbraio e marzo. I trasbordi di massa cominciarono già prima della firma del trattato di pace, e si conclusero con largo anticipo rispetto al passaggio di consegne tra angloamericani e jugoslavi, che avvenne solo in settembre.
Quasi metà dei profughi furono trasportati in Italia sul piroscafo Toscana, che compì in tutto dieci viaggi, sette da Pola a Venezia e tre da Pola ad Ancona. Altri profughi furono trasportati a Trieste sulle navi Pola e Grado, e altri ancora si mossero su navi più piccole o con mezzi propri.
Nel periodo che interessa a noi, quello tra il 15 e il 21 febbraio, il Toscana fece due viaggi: il 16 febbraio trasportò circa 2200 profughi ad Ancona, e il 21 febbraio trasportò circa 1000 profughi a Venezia.
L’episodio del passaggio del treno alla stazione di Bologna il 18 febbraio si riferirebbe ai profughi che partirono da Pola il 16 mattina e arrivarono ad Ancona la sera di quel giorno.
4. 1957, «Il PCI assaltò il treno degli esuli!!1!!»
Abbiamo appurato che sulla stampa locale bolognese di qualsiasi orientamento politico, in tutto il mese di febbraio (e marzo) non c’è il minimo riferimento a episodi di contestazione nei confronti degli esuli. Abbiamo dunque consultato l’Arena di Pola, giornale che all’epoca esprimeva le posizioni del CLN di Pola e successivamente divenne giornale di riferimento delle associazioni degli esuli.
Nell’edizione cartacea del giornale da febbraio a settembre 1947 non abbiamo trovato nessuna traccia dell’episodio in questione.

Lino Vivoda (1923 – 2022), sua l’unica testimonianza diretta riguardante il «treno della vergogna».
Le annate dal 1948 in avanti sono tutte digitalizzate e consultabili online. Utilizzando il motore di ricerca interno abbiamo trovato il riferimento più antico all’episodio della stazione di Bologna: si tratta di un articolo di Lino Vivoda apparso il 13 febbraio del 1957, nel decennale del trattato di pace.
Vivoda è stato per decenni uno dei principali animatori dell’associazionismo esule. L’articolo è notevole, perché l’autore esprime un sostanziale apprezzamento per il gesto di Maria Pasquinelli – l’assassinio del generale de Winton – rammaricandosi solo del fatto che si fosse trattato di un disperato gesto individuale a cui non seguì la necessaria ribellione generalizzata. Scrive Vivoda:
«Fu così che la mattina del 10 febbraio 1947 Maria Pasquinelli, mentre a Parigi si preparava la cerimonia della firma del trattato di pace con la Italia, sparava contro il Brigadier Gen. De Winton comandante la 13.a Brigata inglese di fanteria uccidendolo davanti alla truppa schierata per l’ispezione. Parecchi erano disposti prontamente a rispondere a quel rabbioso gesto tendente ad attirare l’attenzione mondiale sull’infame baratto che si stava perpetrando; altri giurarono di far sì che al momento della consegna agli slavi della città non rimanesse che un cumulo di macerie. Ma la polizia anglo-americana vigilava e prima col coprifuoco immediatamente imposto, poi con minacce, ricatti, allontanamenti a viva forza dei sospetti la resistenza che s’andava organizzando fu stroncata nè alcun successo potevano avere atti singoli che l’organizzazione di una qualche resistenza se non coordinata da un’unico comando non poteva avere alcun successo come era stato ampiamente dimostrato dalla guerra appena conclusasi.»
Più avanti Vivoda prosegue:
«Intanto in Italia ci attendeva l’ostilità delle orde social-comuniste aizzate dai capicellula secondo le direttive del partito e fuorviate nei nostri confronti da quella che era la realtà delle velenose corrispondenze dello inviato dell’Unità milanese Tommaso Giglio.»
Poi si lancia in una concione con toni dichiaratamente da guerra santa:
«Ognuno di noi, come un novello crociato con la sua sola presenza contribuiva alla missione di disintossicare l’Italia dal veleno comunista. E fummo ancora noi che per primi rialzammo il tricolore, noi che portandolo stretto al collo quando ancora il rosso predominava nelle contrade di Italia dove ci disperdemmo, e fu un bene nella sventura perchè così tutti poterono constatare che l’esodo non era propaganda ma dolorosa realtà, gridammo in faccia a tutti che alla Patria non si rinuncia.»
Infine, ecco il riferimento cercato:
«Allora, quando le masse rosse di Ancona accorrevano al molo dove attraccava il Toscana per fischiarci e le truppe erano schierate non per renderci un qualche saluto ma per proteggerci; allora, quando il treno merci sul quale viaggiavamo veniva smistato sui sperduti binari delle grandi stazioni affinché nessuno si accorgesse di noi ed a Bologna dove la P.C.A. aveva preparato qualche bevanda calda per ristorarci, di fronte alla minaccia di uno sciopero per causa nostra, fummo fatti proseguire in fretta e furia senza alcuna sosta, e si viaggiava già da una ventina di ore sulla paglia, noi, travagliati dalle nostre peripezie ed angosciati dal ricordo dei focolari abbandonati, di fronte allo spettacolo che ci si presentava, ed allo stato in cui era ridotta l’Italia disperavamo dell’avvenire. Né si pensava che un giorno avremmo potuto dire con fierezza: il nostro sacrificio non fu vano, perdemmo la nostra amata città, ma contribuimmo a salvare l’Italia!»
Osserviamo subito che non si parla di pietre e uova lanciate contro il treno, né di latte versato sui binari. Si parla solo della minaccia di uno sciopero e di una sosta mancata.
Come si nota, l’Avvenire d’Italia smentisce indirettamente anche quest’ultima circostanza, riferendo invece di una regolare sosta del treno a Bologna e di una calorosa accoglienza dei profughi con bevande calde da parte della Pontificia commissione.
Quanto alle truppe schierate sul molo di Ancona per proteggere i profughi dalle «masse rosse», la circostanza non trova nessun riscontro né sulla Voce Adriatica (giornale di Ancona), né sul Giornale dell’Emilia, né sulla stessa Arena di Pola, che riferiscono invece di un’accoglienza quasi trionfale per i profughi al momento dello sbarco, con le autorità ad attenderli in prima fila.

La Voce Adriatica, quotidiano di Ancona, 22 febbraio 1947. Sull’Arena di Pola di quattro giorni prima il titolo era: «Ancona marinara abbraccia con fervore / i fratelli di Pola italianissima». Non il minimo riferimento a «masse rosse» accorse al molo per «fischiare» gli esuli e tenute a bada dalla «truppa», Vivoda introdurrà questi elementi nella narrazione solamente dieci anni dopo.
Fino alla fine del ventesimo secolo Vivoda risulta essere l’unico testimone diretto dell’episodio di Bologna.
Dopo l’articolo del 1957 torna a scriverne altre due volte sull’Arena, il 25 settembre 1982 e il 7 febbraio 1987, senza aggiungere dettagli significativi.
5. 1991, Magris traghetta la storia nel mainstream
La storia del «treno della vergogna» arriva nel mainstream solamente negli anni Novanta.
A fare da traghettatore, nell’estate del 1991, è lo scrittore triestino Claudio Magris, nella veste di corsivista del Corriere della Sera.
Il momento è particolare: si è da poco conclusa la prima guerra del golfo, l’Unione Sovietica è appena stata sciolta da Boris Eltsin e la Jugoslavia sta precipitando rapidamente verso la guerra civile, mentre tutti i paesi europei, Italia compresa, si preparano ad affondare voluttuosamente le mani nelle sue frattaglie.

31 agosto 1991, l’articolo con cui Claudio Magris traghettò la storia del «treno della vergogna» nel mainstream giornalistico italiano.
Il 31 agosto Magris scrive sul Corriere della Sera uno strano articolo intitolato «Quando le foto parlano d’infamia». L’articolo analizza tre episodi, ma è corredato da due foto soltanto. Il primo episodio è appena avvenuto: si tratta dell’umiliazione inflitta da Eltsin a Gorbaciov dopo il fallito golpe ordito dalla vecchia guardia del PCUS contro il padre della Perestrojka. Una delle due foto si riferisce proprio a questo episodio.
Il terzo episodio analizzato da Magris è la morte di Libero Grassi, ucciso dalla mafia nell’estate del ‘91 perché si era rifiutato di pagare il pizzo. L’altra foto che accompagna l’articolo mostra il corpo dell’imprenditore riverso a terra.
Il secondo episodio, incastrato a forza tra gli altri due e, a dispetto del titolo, privo di foto che lo illustrino, risale invece al 1947: è l’episodio del «treno della vergogna». Scrive Magris:
«FEBBRAIO ’47. La nave Toscana compie più di un viaggio attraverso l’Adriatico per trasportare gli italiani di Pola che abbandonano in massa, con un esodo pressoché totale, la loro città occupata dagli jugoslavi, in un clima di intimidazione, di vendetta e di violenza nazionalista che li spinge a lasciare tutto e a prendere la via dell’esilio e dei campi profughi.»
Facciamo notare che nel febbraio del 1947, e fino al settembre dello stesso anno, Pola non è occupata dagli jugoslavi, ma dagli angloamericani. Magris prosegue:
«La nave li sbarca ad Ancona ed essi, ancora storditi dalla calamità che li ha divelti, vengono caricati su un treno con le famiglie, i loro vecchi e i loro bambini, le masserizie che sono riusciti a portarsi dietro. A Bologna, alla stazione, è stato preparato per loro, da qualche opera assistenziale religiosa, un ristoro. I ferrovieri comunisti, mobilitati insieme ad altri militanti dalle organizzazioni di partito, impediscono a quella gente raminga di scendere dal treno e di mangiare qualcosa, minacciando di bloccare con uno sciopero il più importante nodo ferroviario d’Italia se il treno si fermerà troppo a lungo nella stazione.»
Infine Magris conclude parlando di fischi ad Ancona:
«Già allo sbarco ad Ancona, come poco dopo a Bologna, quei fuggiaschi senza tetto erano stati accolti con fischi, insulti e qualche rissa. Agli occhi dei loro aggressori erano fascisti, perché lasciavano il Paradiso in Terra, un paese comunista, e quindi, come Adamo ed Eva scacciati dall’Eden, dovevano avere buoni motivi per esserne colpevolmente indenni. Appena ventiquattro ore dopo, alla stazione di Parma, arrivarono alcune provviste portate dai militari.»
Si tratta sostanzialmente del racconto di Vivoda, scritto un po’ meglio. Non si parla ancora di sassate, né di latte versato sui binari. Per quello bisognerà attendere il nuovo secolo.
6. 2004, arrivano i sassi e il latte versato
Nel settembre del 2004 Gian Aldo Traversi pubblica un articolo intitolato «Il treno della vergogna» nel dossier Il tricolore a Trieste, supplemento del Quotidiano Nazionale, uscito in occasione del cinquantesimo anniversario del «ritorno di Trieste all’Italia».
Scrive Traversi:
«[…] A ricordarlo è uno di quei profughi, Lino Vivoda, allora quindicenne, che s’era imbarcato con i genitori sul piroscafo “Toscana”. Una delle tante storie di addio a una terra amata e cancellata per sempre vissuta da chi, a guerra finita, scelse l’esilio per continuare a sentirsi italiano. “Ad Ancona l’impatto fu tremendo. C’era un cordone dell’esercito a proteggerci e tanta gente che scendeva dalla parte alta della città. Noi, dal ponte della nave, agitavamo le mani in segno di saluto, con le bandiere al collo, anche perché faceva freddo, nevicava. E loro rispondevano col pugno chiuso”.»
Par di capire che Traversi stia riportando parole pronunciate da Vivoda. Il racconto prosegue così:
«Da lì partimmo con un lungo treno di vagoni merci la sera di lunedì 17 febbraio, sdraiati sulla paglia, attraverso l’Italia semisepolta dalla neve. Dopo innumerevoli soste in stazioncine secondarie arrivammo a Bologna. Era martedì, poco dopo mezzogiorno. La Pontificia Opera di Assistenza e la Croce Rossa Italiana avevano preparato un pasto caldo, atteso soprattutto dai bambini e dai più anziani”. Ma dai microfoni “rossi” una voce gridò: “Se i profughi si fermano, lo sciopero bloccherà la stazione”. Poco prima il convoglio, che i ferrovieri chiamavano il “treno dei fascisti”, era stato preso a sassate da un gruppo di giovanissimi che sventolavano le bandiere con la falce e il martello. Ci fu perfino chi, per eccesso di zelo, versò sui binari il latte destinato ai bambini già in grave stato di disidratazione. Il treno scomparve nella nebbia con il suo carico di delusione e di fame: la meta finale sarebbe stata una caserma di La Spezia. I pasti della PCA nel frattempo vennero trasportati a Parma con automezzi dell’esercito e distribuiti dalle crocerossine.»
Non è chiaro se sia sempre Vivoda a parlare, ma notiamo che compaiono qui per la prima volta – a quasi cinquant’anni di distanza dai presunti fatti – le sassate contro il treno e il latte versato sui binari.
Questa non è l’unica novità introdotta da Traversi nella narrazione. Più avanti, infatti, sembra fornire dettagli precisi su quelle che Vivoda nel 1957 aveva chiamato «velenose corrispondenze dello inviato dell’Unità milanese Tommaso Giglio»:
«C’era chi istigava all’odio anche dalle colonne dei giornali. Tommaso Giglio che allora scriveva per l’edizione milanese dell’Unità e che poi diresse l’Espresso, in quei giorni firmò tre articoli. In uno titolò “Chissà dove finirà il treno dei fascisti?”»
Dall’articolo par di capire che questo dettaglio sia stato riferito a Traversi da Guido Rumici. Tra le altre cose consulente storico del film Red Land, di lui abbiamo scritto qui.
7. Sempre più dettagli, sempre più incongrui, persino Vivoda smentisce
Nel ventunesimo secolo si moltiplicano le testimonianze e le contraddizioni.
C’è chi colloca l’episodio nel 1949, chi addirittura nel 1956. Qualcuno lo colloca a Verona, e qualcuno lo colloca a Bologna, ma durante un viaggio da Udine ad Altamura. Qualcuno si spinge a dire che tutti i treni di profughi transitati per Bologna furono presi a sassate. Sul sito dell’Istituto Storico della Resistenza di Torino si può consultare una raccolta di testimonianze orali, tutte rilasciate dopo il duemila.
Di fronte a questo proliferare di apocrifi, nel 2009 Vivoda si sente in dovere di ribadire la sua versione. Lo fa in un volumetto dal titolo Quel lungo viaggio verso l’esilio. Pola-Ancona-Bologna-La Spezia. Nell’introduzione scrive:
«Purtroppo nel citare l’episodio molti lo arricchiscono di particolari non corrispondenti alla realtà, come ad esempio il lancio dei sassi contro i finestrini del treno, cosa impossibile dato che si viaggiava su vagoni bestiame privi di finestre. Inoltre che a Bologna furono versati i bidoni del latte. Altra inesattezza: non si fecero vedere ferrovieri o civili comunisti intorno al treno fermo. La carognata la commisero i capi comunisti che ordinarono l’annuncio con l’altoparlante, atto squalificante che dimostra di che consistenza intellettiva, accecati dalla faziosità politica, fossero forniti.»

Roberto Spazzali. In un suo libro, senza produrre alcuna fonte, aggiunge una sottotrama monfalconese alla storia del «Treno della vergogna».
Lo storico triestino Roberto Spazzali evidentemente non aveva letto le precisazioni di Vivoda quando ha scritto il libro Pola. Città perduta: L’agonia, l’esodo (1945-47), uscito nel 2022. Nel libro riporta l’episodio di Bologna raccontando ancora di bidoni del latte versati sui binari.
Spazzali aggiunge anche un nuovo dettaglio: nel suo racconto l’azione contro il treno dei profughi avviene su istigazione dei comunisti di Monfalcone, che sarebbero andati appositamente a Bologna prima dell’arrivo del treno per distribuire volantini in cui i profughi erano etichettati come fascisti.
Spazzali non cita nemmeno una fonte a sostegno di questa sottotrama.
Tale pressapochismo “orientato” non ci stupisce: di Spazzali avevamo già scritto nel 2016 e consigliamo di rileggere quel post, perché affronta molte questioni strettamente collegate alla vicenda che stiamo trattando.
8. Wikipedia: Different Trains
Nella nostra disamina non possiamo tralasciare la pagina dedicata al «treno della vergogna» su Wikipedia.
Si tratta di una pagina parecchio dozzinale, corredata da foto casuali di treni e di binari pieni di persone – in un caso incongruamente sorridenti – e didascalie che dicono platealmente il falso. In una delle foto si intravvede dietro il treno il cofano di una moderna monovolume.
Per quanto riguarda il testo, la pagina è costruita mettendo insieme tutti i clichés che abbiamo descritto finora. Inoltre stabilisce un nesso tra l’episodio del treno e un altro classico delle echo chambers dell’associazionismo esule, l’articolo di Piero Montagnani pubblicato sull’Unità di Milano il 30 novembre 1946.
Ne avevamo parlato nel 2019. Si tratta di un falso, prodotto cucendo insieme pezzi di frasi estrapolate dall’articolo, in modo da ottenere un’invettiva contro gli esuli che «sono fascisti e non meritano la nostra solidarietà».
Come abbiamo dimostrato per tabulas, Montagnani non diceva affatto che gli esuli fossero dei «fascisti che non meritano la nostra solidarietà». Diceva invece che a differenza dei fascisti e dei criminali di guerra in fuga, che «non meritano la nostra solidarietà», i profughi provenienti dall’Istria «sono dei veri fratelli nostri» e che «la loro tragedia ci commuove e ci fa riflettere».
Montagnani sosteneva inoltre che l’esodo si sarebbe potuto evitare se il governo italiano invece di assecondare le fantasie revansciste del CLN di Pola avesse intavolato trattative col governo jugoslavo, allo scopo di ottenere garanzie e tutele per le comunità italiane dell’Istria.
9. Discorsi istituzionali e para-istituzionali: Meloni, Cristicchi & Co.
Rileviamo infine che negli ultimi anni la storia del «treno della vergogna», nella sua versione più hardcore, ha trovato ampio spazio in diversi discorsi istituzionali. La ministra Calderone ad esempio ha sostanzialmente accusato il PCI e la CGIL di aver organizzato un pogrom contro il treno degli esuli.
L’intervento della presidente del consiglio Meloni in occasione del giorno del ricordo del 2024 è stato solo un pochino più paludato:
«Quando quel treno si fermò nella stazione di Bologna, venne preso a sassate. Il latte che era destinato ai bambini, che erano già in stato di disidratazione, venne buttato sulle rotaie. Gli esuli vennero insultati, fu impedito loro di scendere da chi aveva come patria un’ideologia e considerava un tradimento preferire la propria appartenenza nazionale a quella ideologia.»
Partita nel 1957 da una sgangherata filippica di Lino Vivoda, sdoganata nel 1991 da un articolo di Magris, questa storia fumosa e priva di riscontri è oggi parte integrante della liturgia civile repubblicana del XXI secolo.
Come abbiamo detto altre volte in casi simili – valga per tutti il nostro libro sul caso Giuseppina Ghersi – si spacciano per resoconti storici racconti e dicerie, che passando di bocca in bocca si arricchiscono di particolari a seconda delle epoche, delle circostanze, del contesto sociale e politico. Un fenomeno reso possibile anche dalla pigrizia e dal conformismo della classe intellettuale di questo paese.
Una storia come questa è molto comoda nel nostro cupo presente. Permette ad esempio al già citato Cristicchi, cantore dei peggiori stereotipi sull’esodo istriano-dalmata, di darsi un tono impegnato dicendo cose come:
«In fondo fra quanti rovesciarono a Bologna il latte destinato ai bambini del “treno della vergogna”, quello che trasportava i profughi istriani in fuga, e quanti avrebbero sparato sui barconi in arrivo a Lampedusa non c’è differenza».
Questa dichiarazione risale all’ottobre del 2013, ai giorni del naufragio di Lampedusa, in cui morirono 368 profughi in fuga dall’Eritrea, vittime della politica di difesa della fortezza Europa dalla presunta «invasione dei migranti».
Invasione, peraltro, ossessivamente denunciata dalla stessa parte politica che applaude e osanna Cristicchi e diffonde a tutto spiano narrazioni tossiche. Come, ad esempio, quella del «treno della vergogna».

Simone Cristicchi, fra i principali propagatori della storia del «treno della vergogna».
10. Un articolo mai esistito e la reale posizione del PCI
Una volta appurata l’inconsistenza di questa storia è doveroso verificare quanto di vero ci sia nelle ripetute accuse rivolte al PCI di aver aizzato le folle contro gli esuli dalle colonne dell’Unità, in particolare ad opera di Tommaso Giglio.
Abbiamo consultato l’Unità, sia l’edizione nazionale che quella dell’Italia settentrionale, stampata a Milano, e abbiamo verificato che anche tali accuse sono del tutto prive di riscontro.
Nel febbraio del 1947 Tommaso Giglio scrive tre articoli sull’esodo da Pola, e nessuno di questi è intitolato «Chissà dove finirà il treno dei fascisti?».
Il primo articolo esce il 5 febbraio nell’edizione di Milano col titolo «L’incubo della foiba per fare di Pola una terra bruciata» e nell’edizione nazionale col titolo «Terra bruciata a Pola per volontà degli alleati». Nell’edizione nazionale c’è un occhiello che si chiede: «Perché c’è l’esodo», e un sommario che spiega: «Asportazione di macchinari per seminare il panico – Una battaglia e un funerale a via Dignano – Lavoratori sotto processo». Il riferimento alle foibe nel titolo dell’edizione nord è fuorviante. L’articolo accenna di sfuggita alle foibe solo in un brevissimo passaggio:
«[…] la stampa di destra scorge agenti dell’OZNA in ogni angolo della città e li indica come elementi incaricati direttamente da Tito di “infoibare” tutti gli italiani nel momento stesso in cui avverrà il passaggio di Pola alla Jugoslavia.»
Il contenuto dell’articolo è lo stesso in entrambe le edizioni. La tesi sostenuta da Giglio è che gli alleati, che amministrano la città, stiano smantellando il sistema produttivo di Pola per spingere i cittadini a partire verso l’Italia e per creare tensione tra italiani e jugoslavi, secondo la tipica logica coloniale del divide et impera.
Giglio riferisce di uno sciopero contro lo smantellamento di un mulino industriale, e degli spari della polizia alleata contro la folla, che lasciano a terra due morti e numerosi feriti. Giglio ritiene che i partiti politici riuniti nel CLN di Pola stiano assecondando la politica degli angloamericani
«perché sperano di poter speculare sulla miseria e sulle sventure di coloro che essi stessi costringono ad abbandonare la propria città.»
Il secondo articolo esce il 7 febbraio sia nell’edizione nazionale, col titolo «La fabbrica dell’esodo», sia in quella milanese, col titolo «Quanti saranno i profughi da Pola?». Giglio vi sostiene che, nonostante le pressioni esercitate dal CLN, i cittadini di Pola non stanno (ancora) abbandonando in massa la città. Per la precisione, Giglio si riferisce al fatto che nel primo viaggio del Toscana si sarebbero effettivamente imbarcati solo 750 polesani dei 3000 che si erano prenotati. Il tono dell’articolo è vagamente sarcastico, ma il sarcasmo è ancora una volta rivolto ai politici del CLN di Pola, definiti «improvvisati ragionieri delle disgrazie altrui».
Giglio riprende poi la tesi del suo articolo precedente: lo smantellamento del sistema industriale della città è perseguito in modo sistematico dagli alleati, allo scopo di lasciare agli jugoslavi una città ridotta a guscio vuoto.
Ovviamente Giglio aveva preso una cantonata riguardo alla consistenza dell’esodo, visto che di lì a poco la città sarebbe stata abbandonata dalla quasi totalità dei suoi abitanti italiani. L’Arena di Pola non aveva perso l’occasione per rinfacciarglielo in un corsivo uscito il 18 febbraio, che si concludeva così: «Al compagno Giglio due sole parole schiette all’istriana vogliamo dire: fai schifo!»
Questi erano i toni della quotidiana polemica che si svolgeva a Pola sulle pagine dei giornali di opposto orientamento, cioè tra quelli vicini al CLN e quelli vicini all’UAIS. Nelle strade le cose non andavano meglio, tra risse, spari e attentati. Il giorno dell’omicidio del generale de Winton, ad esempio, due bombe colpirono la sede dell’UAIS e quella del suo quotidiano di riferimento, Il nostro giornale.
Il terzo articolo di Giglio esce il 12 febbraio solo nell’edizione milanese dell’Unità, ed è intitolato «Bruceremo Pola». Si tratta di un attacco frontale alla retorica del CLN, che in quei giorni proclama iperbolicamente che Pola una volta abbandonata dovrà bruciare, affinché agli jugoslavi non resti in mano niente. L’articolo si conclude così:
«Messi di fronte a una simile tragedia i polesi pensano con angoscia che coloro i quali hanno saputo arrivare fino a questo punto potrebbero non fermarsi più e allora il grido di “bruceremo Pola” arriva fino al loro sangue e li sconvolge. Che cosa è vero, che cosa è falso, di tutto quello che dicono? È possibile, in un simile clima di panico, distinguere tra la certezza e l’incertezza? È difficile, molto difficile. E allora uno, a un certo momento, pensa che è meglio levarsi di mezzo, è meglio sfuggire in qualsiasi modo questo disastro, e sale sulla nave mentre ancora si sente promettere che costruiranno una città tutta per lui e lo alloggeranno negli alberghi di lusso.»
Attribuire l’esodo da Pola esclusivamente alla pressione psicologica esercitata dal CLN è riduttivo. Si tratta di una forzatura dettata dalla difficile posizione del PCI, intrappolato tra la lealtà dovuta ai compagni jugoslavi e l’esigenza di accreditarsi in Italia come forza politica nazionale.
È una contraddizione che ha accompagnato il PCI fin dai tempi della lotta al nazifascismo nelle borderlands della marca giuliana. E però ancora una volta la polemica di Giglio è rivolta al CLN, cioè a un preciso soggetto politico che persegue una precisa agenda revanscista, non ai profughi che lasciano la città.
La leggenda del PCI che aizza le masse contro i profughi è appunto una leggenda. La cosa risulta ancora più chiara dall’articolo di Luigi Longo che compare il 14 febbraio sia sull’Unità nazionale che su quella milanese.
Longo è il vicesegretario del partito e gode di una popolarità e di una credibilità immense presso la base comunista, conquistate sul campo durante la guerra in Spagna e la lotta di liberazione in Italia. L’articolo si intitola «Chi ha ingannato i nostri fratelli di Pola?» e comincia con un attacco al CLN di Pola, al governo italiano, al Vaticano e agli alleati.
Secondo Longo questi soggetti hanno spinto i polesani ad abbandonare la città in massa, da un lato paventando un futuro nero per chi fosse rimasto, dall’altro promettendo casa e lavoro a chi fosse partito. Dopo questa premessa, Longo precisa che non ha senso recriminare, e che ora bisogna pensare ad aiutare i profughi, a trovar loro una sistemazione.
«Essi sono fratelli nostri doppiamente sventurati perché hanno abbandonato tutto quanto avevano di più caro e perché ora abbisognano di tutto. Essi devono incontrare la nostra affettuosa e fraterna solidarietà.»
La proposta di Longo per dare concretezza alla solidarietà è quella di destinare ai profughi di Pola gli alloggi precedentemente concessi ad altri “profughi”, quelli sì indesiderabili: i criminali di guerra fascisti, cetnici e ustascia fuggiti dalla Jugoslavia nel 1945.
Si tratta di 40mila individui, e a ricordarcelo è curiosamente proprio l’Arena di Pola il 3 aprile del 1947, in un trafiletto in prima pagina intitolato «A 40 mila ammontano i rifugiati jugoslavi in Italia». Il trafiletto affianca l’articolo di apertura del giornale, intitolato «Si inizia in Jugoslavia la lotta per la liberazione nazionale», con un occhiello che recita: «Qui radio Ravna Gora. Vi parliamo dalle montagne della libera Jugoslavia».
Quelli che l’Arena di Pola saluta come i futuri liberatori della Jugoslavia sono proprio i cetnici, i collaborazionisti serbi dei nazifascisti, che dopo la cattura e la fucilazione del loro leader Draža Mihajlović stanno cercando di riorganizzarsi nella diaspora e sulle montagne della Serbia centrale, nella zona di Ravna Gora.
Flash forward, 2 agosto 1991
Con la benedizione del Presidente della Repubblica Francesco Cossiga alcuni esponenti della destra italiana, tra cui Gianfranco Fini e Roberto Menia, volano a Belgrado per prendere contatti con gli eredi dei cetnici di Ravna Gora, in vista di un possibile intervento militare italiano a sostegno della Serbia contro la Croazia. In cambio chiedono la restituzione dell’Istria all’Italia.
Di lì a poco il Vaticano e la Germania imporranno la linea opposta, dalla parte della Croazia, e non se ne farà nulla. Il ritorno di fiamma del revanscismo invece inquinerà il discorso pubblico nei decenni successivi, fino a deformare la natura stessa della Repubblica nata dalla Resistenza.
Alla fine di quello stesso agosto Claudio Magris, senza la minima verifica, porta la storia del «treno della vergogna» sui grandi mezzi di informazione nazionali.
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* Nicoletta Bourbaki è un gruppo di lavoro sul revisionismo storiografico in rete, sulle false notizie a tema storico e sulla riabilitazione dei fascismi in tutte le sue varianti e manifestazioni. Il gruppo si è formato nel 2012 in seguito a una discussione su questo stesso blog e ha al suo attivo molte inchieste e diverse pubblicazioni.
Nel 2017 ha ideato e curato lo speciale «La storia intorno alle foibe» per la rivista Internazionale.
Nel 2018 ha pubblicato on line la guida didattica Questo chi lo dice? E perché?
Nel 2022 ha pubblicato per le edizioni Alegre il saggio d’inchiesta storiografica La morte, la fanciulla e l’orco rosso. Il caso Ghersi: come si inventa una leggenda antipartigiana.
Nel 2024 ha portato a termine la più completa ricerca mai realizzata sulla figura di Norma Cossetto, le circostanze della sua morte, le false notizie di stampo neofascista che la avviluppano.
Lo pseudonimo «Nicoletta Bourbaki» è un détournement di «Nicolas Bourbaki», maschilissimo gruppo di matematici francesi attivo dagli anni Trenta agli anni Ottanta del XX secolo.
Nicoletta Bourbaki è su Medium e su Telegram.