Arriva in libreria #Diariodizona di Luigi Chiarella (Yamunin). Ecco le prime pagine. #QuintoTipo

Luigi Chiarella

Luigi Chiarella aka Yamunin

[Finalmente arriva «nelle migliori librerie» il titolo n.1 della collana Quinto Tipo diretta da Wu Ming 1 per le Edizioni Alegre: Diario di zona di Luigi Chiarella (Yamunin). Una storia di storie di lavoro, psicogeografia e resistenza nella Torino degli anni Dieci. Una storia di storie cresciute giorno dopo giorno per le strade, sul blog Satyrikon e su Twitter. Eccovi le primissime pagine.]

Autunno

Apro la finestra su via Verdi, giù di sotto il solito passaggio di persone fra le bancarelle. Visto dall’alto è tutto un brulicare di colori, suoni, etnie. Una brezza leggera porta zaffate di incenso. Guardo in su, il sole illumina ancora la Mole. Cerco di individuare il nido del falco pellegrino fra le colonne del secondo terrazzino della guglia che si allunga nel cielo, non lo vedo. Faccio scivolare lo sguardo lungo il profilo della cupola. Come faccio? mi chiedo guardando le lastre di pietra di Luserna che riflettono il sole.
Respiro ma non come vorrei, impossibile respirare con il peso che sento sullo stomaco, con questo incenso che appesta l’aria. L’aria pesante di Torino.
Come faccio senza lavoro?
Rientro in casa, riavvio il computer e accedo alla pagina internet della banca, mi trema la mano, lo vedo dalla freccetta del mouse.
Pago l’affitto e quanto ho guadagnato con l’ultimo spettacolo si è volatilizzato. Ultimamente ho avuto solo contratti da comparsa, la qualità di lavoro richiesta però è da professionista. Ma i soldi scarseggiano e perciò si taglia, e cominciano a tagliare dal basso: niente contratti da mimo. Ti chiamano proponendoti di fare il provino come comparsa, così hanno la stessa qualità ma a prezzi stracciati. Farlo notare non è servito a niente. Prendere o lasciare.
Manca il lavoro e mi manca il senso di continuare a fare teatro a queste condizioni.
Respiro e chiudo la pagina dopo aver salvato la ricevuta del bonifico.
Un mese di lavoro a ridosso dell’estate, ora il vuoto.
Niente.
Va bene, mi dico, devo darmi da fare e trovare un altro lavoro al più presto.
A Torino ad agosto.
Va bene un cazzo.

Vaffanculo!
Lo dico mentre stampo decine di curriculum, e li infilo in una busta di plastica.
Mi rado la barba, prendo un libro e infilo tutto nella borsa. Vado in cantina e tiro fuori la bicicletta, le do una pulita rapida e comincio a pedalare per la città. Il caldo è atroce, il peso nello stomaco è un po’ diminuito, pedalare mi fa bene.
Supero piazza Castello e prendo via Garibaldi.
Svolto in via San Francesco d’Assisi, lego la bicicletta in piazza Palazzo di Città e mi inoltro nelle vie del quadrilatero.
Entro in ristoranti, pizzerie, gelaterie a lasciare curriculum, parlo con i gestori. Forse a settembre, mi dicono, adesso siamo al completo.
Pranzo con un gelato, il telefono resta muto.
Chiamo io, ho voglia di sentirla, di sentire mia moglie:
– Come va?
– Così… tu?
– Così… hai trovato?
– Ancora no.
– Devi trovare qualcosa, mi hanno chiamato…
– Cosa dicono?
– Che ha cestinato il plico col nostro progetto senza neppure aprirlo.
– …
– Ci sei?
– Sì.
– Mi hanno detto che mentre lo buttava ha detto “cosa credono di fare questi?”.
– Stronzo.
– Come facciamo?
– Troverò qualcosa.
Di tanto in tanto lo incontro, lo stronzo, sotto i portici di via Po, col solito sorriso da pubbliche relazioni, e mi piacerebbe tanto togliermi un sassolino dagli anfibi e dirglielo che “ne sai una sega di teatro, amigo, una sega”. Però intanto è il nostro progetto a essere stato cestinato, i suoi progetti pare viaggino bene.
Mi siedo, apro il libro che ho nello zaino, La Rivoluzione teatrale di Mejerchol’d:

Vsevolod Ėmil'evič Mejerchol'd (1874 - 1940)«Nel lavoro dell’attore è particolarmente importante che esista un ponte lanciato verso il futuro. Se non siete in grado di rendervi conto dell’evoluzione che sta compiendo in questo momento l’umanità, se non siete capaci di scorgere e di raggruppare a destra i capitalisti e a sinistra i lavoratori, se non vi sentite ispirare dalle strabilianti conquiste della scienza e della tecnica, già oggi in grado di farci capire che stiamo lavorando indefessamente alla creazione di valori nuovi, allora in generale non dovete recitare. Se nel recitare la parte che vi verrà assegnata non ricorderete tutto questo, se non verserete nei vostri successi la fiamma di tutti gli immensi successi che gli operai raggiungono nel mondo intero, sarà meglio che non recitiate.»

Chiudo il libro, in testa mi spunta il pensiero sovvertire il fallimento del presente. Dove l’ho letto? Da dove comincio? Mi guardo intorno, le strade sono vuote, pochi turisti in giro. Trovo un lavoro per mantenere la famiglia e nello stesso tempo lavoro ai progetti teatrali che abbiamo in sospeso, mi dico. Non è facile.
Ma che altro posso fare?
Mi lascio il centro alle spalle, pedalo fino al Lingotto e ancora più in giù: ancora pizzerie, librerie, gelaterie, negozi di giocattoli.
Raggiungo la sede di un paio di distributori di libri scolastici, consegno il mio curriculum, mi chiedono se ho mai lavorato nel settore dei libri scolastici. Me lo chiedono anche se la risposta la possono leggere sul foglio che gli consegno. Rispondo di sì, certo. Conosco il lavoro, ne conosco i ritmi folli.
Mi dicono che, nel caso, c’è da lavorare dalle sette di mattina fino alle sette di sera davanti al banco, poi alla chiusura si fa inventario fino a quando non si è finito. Mi dicono anche che si deve lavorare veloci e precisi, senza discussioni che fanno perdere tempo.
E quanto sarebbe la paga, nel caso? Chiedo. Mi dicono che la paga è sui cinque euro l’ora.
Mi faranno sapere, e mentalmente li mando affanculo.
Mi fermo su una panchina in riva al Po, parco del Valentino, guardo il fiume e lascio scorrere un paio di lacrime.
Torno a casa, ceniamo in silenzio.
– Hai trovato qualcosa?
– Ancora no.
– Entro quando?
– Fine mese.
– Dai.

MajakovskijAl mattino non riesco a prendere neppure una tazza di caffè, ho l’inferno in pancia. Ci manca solo il caffè, mangio un paio di biscotti.
Mi preparo in fretta, stampo altre copie del mio curriculum rivisto e corretto e le infilo nella borsa. Mi porto dietro anche una raccolta di poesie di Majakovskij, anche se so che non avrò tempo per leggere. Il suo peso mi rassicura. Prendo la bicicletta dalla cantina e riparto.
Domani è ferragosto.
Be’, vaffanculo.
Prendo il telefono, scorro la rubrica e chiamo persone che non sento da mesi. Chiamo per un lavoro, cerco di non far trapelare l’ansia, la paura che ho di perdere tutto. Recito la parte di chi tutto sommato sta bene. Come se.
– Ciao Turi.
– Oh ciao, come va?
– Tutto sommato bene, e te?
– Sì, bene, dimmi.
– Ehm, scusa se ti chiamo così, è che sto cercando lavoro e…
– Uhm, da me non c’è niente, il magazzino è al completo. Mi puoi mandare il curriculum, lo giro a una persona che conosco.
– Sì, ok.
– Ti farò sapere.
– Grazie Turi, grazie mille.
– Figurati, ciao.
– Ciao.
Metto il telefono in tasca, mi stendo sulla panchina a guardare il cielo fra le foglie e i rami. Respiro e mi tiro su, afferro il manubrio e monto in sella. Pesto sui pedali e percorro la strada interna del parco del Valentino. Supero la zona dei locali, le stalle dei cavalli della polizia, il castello, tiro dritto e aggiro il borgo medievale. Mi fermo e mi avvio verso il fiume che scorre poco più in là. Mi siedo e guardo l’acqua. Alcune canoe scivolano leggere sull’acqua. Guardo e un brivido mi corre per la schiena.
“Una brutta situazione non può che peggiorare”.
Dov’è che l’ho letto?
Non ci finisco giù, ma neanche per il cazzo.
Torno a casa.

Il 31 agosto l’ho passato in silenzio.
Pochi giorni fa ho fatto l’ultimo colloquio, Turi è stato gentile, ma il suo conoscente ha dato uno sguardo al mio curriculum e mi ha liquidato con “ti terrò presente, vedremo se riparte qualcosa a ottobre”. Eravamo in un ufficio su corso Galileo Ferraris, ero arrivato lì in bici con calma ascoltando Mr Beast dei Mogwai. Ero in anticipo e mi sono fermato davanti all’ingresso della Gam, l’ultima mostra a cui siamo andati è stata quella dedicata a Carlo Mollino, dopo mesi passati dentro il teatro Regio ero curioso di vedere le altre opere dell’architetto, le foto, i progetti. Fermo davanti all’ingresso del museo ripesco dalla memoria le immagini delle scrivanie, del tavolo vertebrato, delle sedie, i prototipi delle auto da corsa; le foto viste al museo di Rivoli, i bellissimi ritratti femminili soprattutto.
Dopo venti minuti di attesa entro nell’ufficio, le finestre danno sul monumento a Vittorio Emanuele II, mi accoglie sorridente e avviamo il colloquio, breve. Poi i saluti con tanto di in bocca al lupo e ci risentiremo a ottobre.
Ma non ho tempo per arrivare a ottobre.
In casa c’è meno tensione ma nello stomaco ho un piccolo inferno. Di giorno parliamo appena del lavoro, solo vaghi accenni, di notte ci addormentiamo in un abbraccio che dà sollievo.
Non è ancora successo niente ma non mollo. Non cedo. Esco sul balcone e guardo la Mole. Mi dà sollievo il suo profilo: la base solida, il resto slanciato e la guglia che punta il cielo fin lassù.
Mi arriva una telefonata:
– Ciao.
– Ti disturbo?
– No, figurati.
– Senti, so che ti stai sbattendo in giro per un lavoro, qua da me stanno cercando letturisti.
– Letturisti?
– Sì, per fare le letture dei contatori dell’acqua. Ti andrebbe?
– Sì, sì, certo che sì.
– Ok, segnati il numero del responsabile e prendi un appuntamento. È una brava persona, si sbatte un sacco, se tutto va bene cominci subito.
– Leo…
– Sì?
– Grazie.
– Ma figurati.
– Che la forza sia con te, cognato jedi.
– Che tu sia con la forza. Dai.

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13 commenti su “Arriva in libreria #Diariodizona di Luigi Chiarella (Yamunin). Ecco le prime pagine. #QuintoTipo

  1. Ciao!
    Sapevo poco o nulla di questo interessante progetto…ho letto con interesse le note scritte qui su GIAP e quindi i testi direttamente su Satyrikon..
    oggi ho letto l’incipit del libro e in pausa pranzo mi sono fiondato a comprarlo in libreria.
    Sono chiuso in ufficio e me lo divoro che è un piacere.
    Complimenti all’autore e a tutti voi per questa iniziativa!

    p.s. magari può essere interessante per l’autore..ho provato a cercare il libro prima sui desk delle novità in bella vista..quindi tra gli scaffali che ospitno la *Narrativa Italiana*..nulla…alla fine ho chiesto ed era sistemato nella sezione *Sociologia* (sfortunamente non era tra le novità d’area..ma messo di taglio per ordine alfabetico…l’ho preso a Roma..da Feltrinelli). A presto.

  2. Grazie per la segnalazione,
    nella sezione “Sociologia”… Andrò nella Feltrinelli di Torino a chiedere e proporrò di creare uno scaffale in cui possano essere sistemati gli UNO. :)
    Buona lettura!

  3. Bella là Yamunin. Parafrasando Böll: sono un clown, faccio collezione di … diari di zona. Me ne ordino un po’, amic* a cui passare belle storie non mancano mai.
    Congratulazioni.

  4. “Erranze” è una parola che mi è sempre piaciuta. Così, al plurale. Ha dentro il cammino e la diversione dal cammino, le molte possibilità del movimento. Qualche anno fa si parlava di “geografia emozionale”, era anche uscito un bel libro (Atlante delle emozioni, di Giuliana Bruno). Non so a che punto sia arrivata, l’erranza di questa definizione che, in fondo, diceva una cosa semplice: un territorio è fatto dall’esperienza di chi lo abita (temporaneamente, da sempre, per sempre) e, abitandolo insieme ad altri, lo modifica. I luoghi non sono astratti.
    Diario di zona è una mappa, una cartografia in movimento. Se dovessi disegnarlo, farei tante semirette che partono da un centro e vanno a colpire, incontrare, scontrare in molte direzioni. È la ruota di una bicicletta. Tutto si muove, in questa narrazione: l’acqua, le rotelline nei contatori, l’io narrante che deve leggerle e registrarle. Un movimento così rischia di diventare routine, abitudine, continua circolarità. Cosa lo cambia? Perché l’io narrante non è semplicemente un ozioso (o un nevrotico) camminatore, come ce ne sono tanti nella narrativa? Perché il suo sguardo, la sua attenzione, sono estroversi, rivolti verso fuori, non dentro. Verso le persone. Tutti gli incontri dell’io narrante disegnano la mappa del Diario di zona. E i dialoghi sono perfetti, scabri, puliti (anche quelli con le persone più sporche, più sgradevoli). E perché questo io narrante fatica, ha freddo, ha caldo, ma non si lascia vincere. Così, le canzoni canticchiate, i versi recitati, i libri letti, le targhe con i nomi dei partigiani sono tutti modi per far durare e dare spazio a quello che «inferno non è», come dice il Marco Polo delle Città invisibili di Italo Calvino. (Questa è la citazione per intero: «L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio»).

  5. #Milano 05/12 h.18:30 Presentazione di #Diariodizona da @dischivolanti, Ripa Ticinese 47, con @yamunin e @titofaraci #QuintoTipo

  6. […] questo link trovate la presentazione del testo sul sito di Alegre, qui invece un estratto del testo sul sito dei Wu […]

  7. [Nei giorni scorsi ho scritto a Yamunin alcune mail a proposito del Diario di Zona. Abbiamo deciso di riportare il nostro scambio anche qui su Giap.
    Questi sotto sono alcuni miei appunti. Ocio che parlo di alcune parti del libro, anche se non credo siano spoiler…]

    Nel libro emerge la tua esperienza in teatro, anzitutto per la costruzione dei dialoghi, che sono credibili (direi che gli scambi di battute sono uno dei punti di forza più saldi nell’ossatura del Diario). Resa accuratissima del parlato e dei diversi dialetti, dà vivacità e veridicità al racconto.
    Ho notato che soprattutto nelle prime pagine hai messo (quasi ti sentissi in dovere di farlo) molti verbi introduttivi o conclusivi del discorso diretto (dice, risponde etc), che nel proseguio si sono diradati. Per me le parti dialogiche più efficaci sono quelle dove i turni di battuta si alternano direttamente, magari anche a più di due voci, senza verbi a segnalare il passaggio; oppure gli slittamenti da io narrante a discorso diretto nel mezzo della frase, senza il “dice” conclusivo: ad es., il flashback in cui racconti del tuo incontro con un leghista juventino… Credo tu abbia fatto bene a passare ad un discorso diretto più sciolto, a far irrompere il parlato sulla pagina senza star troppo ad annunciarlo.
    Con il verbo dichiarativo si sente di più la cesura tra il momento in cui avviene il dialogo, e quello successivo in cui tu lo ricostruisci, lo adatti, lo reimmagini: senza, aumenta l’effetto presa diretta, che per me è un punto chiave di questo tipo di non fiction.
    Altra caratteristica che credo tu prenda dal teatro (e dalla lettura di Elmore Leonard, di cui siamo entrambi appassionati) è la simulazione di un copione, quando ci sono scene e dialoghi con più di due personaggi. Nome del personaggio – duepunti – battuta. Cogli uno scambio tra alcuni poliziotti e scrivi:
    pol 1: …
    pol 2: …
    pol 3: …
    Così facendo, inserisci un altro registro linguistico, che si aggiunge al tuo io narrante, alle voci delle persone che incontri, alle virate verso la prosa ritmica, il flusso di coscienza etc.
    L’articolo di Valentina Fulginiti e Maurizio Vito sul NIE evidenzia due caratteristiche degli UNO valide per il Diario di Zona:
    -una è la convergenza nel libro di materiali eterogenei, e magari originariamente nemmeno pensati per quella forma, ma successivamente riadattati e tenuti insieme da una cornice narrativa
    -l’altra è l’assenza di una trama in senso lineare classico: caratteristica questa che è quasi una scelta obbligata negli UNO di non fiction, come il tuo, che raccontano una porzione della vita dell’autore. Anche se a ben vedere, il Diario una struttura narratologica piuttosto aderente a quella del “viaggio dell’eroe” ce l’ha: mancanza, richiamo, passaggio della soglia, superamento delle prove…

    È giusto che le tante citazioni stiano dentro allo svolgersi del racconto, perché libri e canzoni sono un elemento narrativo della vicenda che racconti, esattamente al pari della geografia urbana, del tuo girare in bicicletta, dell’umanità varia che abita Torino.

    Quando descrivi, lo fai tenendo tutti e cinque i sensi ricettivi. Chiaramente, per com’è fatto l’essere umano, la vista avrà sempre preponderanza, ma nelle tue descrizioni non è una preponderanza schiacciante: restituisci un ampio spettro delle sensazioni che provi nelle tue peregrinazioni: il gusto bruciacchiato del caffè, il dolore fisico provocato dalla ghisa ghiacciata o rovente, il puzzo soffocante dello smog, il clamore acustico delle strade trafficate. Insomma, non sono solo descrizioni visuali.

    Forse la mia scena preferita è quella in cui immagini un “Le déjeuner sur l’herbe” mutante: è una parte effettistica, in cui secondo me riesci a mantenere sorvegliatissima la scrittura, nonostante il grumo di figure retoriche e dunque il rischio (che eviti) di perdere il controllo.

    Immagino che tu sia andato volontariamente alla ricerca di elementi di ricorsività, sia per esigenze di ritmo, sia per concatenare e dare forma all’andamento rapsodico degli episodi, sia soprattutto per rendere la ripetitività del lavoro. Per “elementi di ricorsività” intendo le formule, come “pesto sui pedali”, e il succedersi delle targhe partigiane (“lungo Via X, noto per la prima volta la targa…”) che scandiscono i tuoi spostamenti.

    Un’altra cosa che mi sento di dire è che il Diario è una descrizione della società del controllo, raccontata nel suo dispiegarsi quotidiano, senza dover per forza tirare in ballo riferimenti teorici. La racconti per com’è, e tanto basta. Poi chi ha letto Foucault e Deleuze capirà che c’è dietro quella roba lì, ma questo è un livello innecessario alla comprensione del tuo racconto. E mi sembra che questo sia l’approccio con cui affronti tutti i nodi politici del libro. Prendiamo quello forse preponderante, il tav: leggendo, non si ha l’impressione che tu stia facendo né dando conto di analisi, inchieste o altro; fotografi il modo in cui se ne parla nei disparati contesti della quotidianità torinese. Il che naturalmente è un’analisi, ma non dà l’impressione di esserlo: e questo, per un narratore, direi che è un ottimo risultato. La lotta notav fa ingresso nella narrazione quasi timidamente, per cenni, e man mano esce dallo sfondo e si prende il suo spazio, viene citata con frequenza crescente.

    Però, la considerazione che soprattutto vale la pena di fare è che è evidente l’esigenza, o meglio l’urgenza che avevi di raccontare: ha ragione il Bot Stefano Jugo, quando sottolinea in particolare questa cosa.
    E poi, come dicevo sul tuider, il Diario è visceralmente noslot e antijuventino, cosa c’è di meglio?

  8. Sono entrato nella Feltrinelli di Ancona alla ricerca di qualcosa. Ma non sapevo cosa, finchè non mi sono imbattuto in “Diario di zona”. Sinceramente non ero li per scegliere un libro del genere, infatti l’ho scovato nella sezione Sociologia [sic!] (e da come ho letto nei commenti non sono il solo). Comunque l’ho preso, spinto dalla curiosità della collana quinto tipo. Il derby del bambino morto l’avevo già letto in altra edizione, cosi ho ripiegato su questo. E questo mi conferma quanto la scelta dei libri sia il più delle volte casuale.
    Solo poche altre volte ho ringraziato il caso come quel giorno. Il libro è veramente bello e indignato, dialoghi scorrevoli (e qui ho scoperto che c’ha messo lo zampino il teatro) e con una storia avvincente. Le borgate, il centro, i bar, le fabbriche dismesse, il precariato. Insomma tutta l’umanità racchiusa in queste pagine, viste con l’occhio di un compagno. Senza sermoni o elucubrazioni filosofiche, che poi la filosofia si fa nei bar e in strada aldilà di ogni retorica grillina e reazionaria.
    Questa non è lettura di contatori, questa è lotta di classe!

  9. P.s.:i rimandi a libri, teatro, canzoni sono delle vere e proprie perle che fanno del libro un dispensatore di consigli.

  10. ho giocato a scriverti una recensione, un abbraccio.

    #Diariodizona è tante cose, e può essere letto e interpretato in tanti modi, ma di sicuro è anche un viaggio, in bicicletta, dentro l’anima nera di una società abbrutita e disumanizzata; i protagonisti sono un popolo incattivito, impaurito, diffidente e soprattutto solo; solo con le personali difficoltà economiche e familiari, solo con i propri malanni, fisici e esistenziali.
    Torino è la città come tutte le città che producevano e non producono più, è la città come tutte le città che ha accolto lavoratori da tutta l’Italia e che adesso non vuole più nessuno; e il razzismo patito dai padri subisce una mutazione genetica e si trasforma nel razzismo perpetrato dai figli.
    Diario di zona è la vita agra di un attore/partigiano che combatte quotidianamente, ma che se potesse scegliere vorrebbe essere altrove, ed essere altro.
    Non è stato lui a cercare la battaglia, si sarebbe accontentato di un cantuccio appartato e sereno, semplicemente.
    Mi è venuto in mente Maggiani quando definisce l’ideale della gente semplice in Quel che ancora resta: “l’ideale. Che tutti possano vivere bene, semplicemente; e in pace, semplicemente, e in libertà, semplicemente, e nel giusto.
    Luigi lo scrive, lo anela, lo immagina: …. anziché andare a lavoro dovrei poter tornare davanti ad un camino acceso in una casa di montagna, per essere perfetto. Oppure no: semplicemente poter tornare a casa, che sia in un parco o abbia vicino un sentiero che si inoltra verso la collina da percorrere dove passeggiare con mia moglie, con i cani che si rincorrono fra gli alberi, camminare e poi tornare davanti ad un fuoco vivo pulsante e avere un libro da leggere e qualcosa da fare. Qualcosa di buono per me e che faccia del bene a chi sta intorno a me, a chi conosco e a chi non conoscerò mai. Lavorare con calma senza ansia senza sfruttare nessuno, me compreso ….
    Ma in altro luogo, nella sala dei bottoni, il governo mondiale dell’economia da sempre decide diversamente. L’errore di fondo è ritenere la lotta di classe sempre e solamente come la lotta della classe lavoratrice contro i padroni per la conquista di diritti e libertà. Le rivoluzioni ci sono state e ci saranno, ma la vera lotta quotidiana non è quella dei lavoratori lanciati all’assalto e alla conquista del palazzo; dalla notte dei tempi l’assalto è quello portato dai padroni che da sempre combattono per estorcere quel pluslavoro che sta alla base dei loro profitti. Dalla notte dei tempi è il padrone che ha bisogno delle braccia e del sudore degli altri uomini, che ha bisogno del tempo e della libertà dei lavoratori. E ancora, via dalle terre, dalle valli e dalle coste per dar spazio ai pascoli, alle industrie, al cemento e per tutti i loro traffici.
    Lo sfruttamento perenne e mai interrotto di tutto questo è alla base della loro ricchezza. La lotta perenne e mai interrotta per la conquista di tutto questo sta alla base dei loro patrimoni.
    Perenne e mai interrotto, ecco perché anche oggi hanno bisogno del tempo e della braccia di Luigi, ecco perché anche oggi hanno bisogno della terra della Val di Susa. Ma ancora non si accontentano, vogliono anche la tua mente e quotidianamente con ogni mezzo provano a convincerti della necessità e dell’ineluttabilità di tutto questo: i costi, i prodotti, la produttività, i tempi di lavorazione come mantra, come credo religioso, come idoli da adorare.
    L’unica alternativa la resistenza. L’unica alternativa essere partigiano.

    Ma poi Diario di zona è anche tante altre cose …. …. perché poi succede che si lega la bici, si entra nel parco e si va a piedi in salita su per la collina; e alla fine si raggiunge la meta, lì dove sta il santuario, e lo sguardo si perde nello spazio libero, e l’aria che si respira è leggera, e per un attimo si è liberi e si è forti. Ed è poesia per l’anima.

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