Ci hanno chiesto: «Ma c’è un posto dove poter commentare L’Armata dei Sonnambuli tra noialtri che l’abbiamo già finito, senza freni, facendo tranquillamente spoiler?» Prego, accomodatevi pure in questo thread. Nella credenza trovate caffè, caffettiera e tazzine.
N.B. Discussione riservata rigorosamente a chi ha già terminato la lettura.
Ecco, a proposito di infusi e tazzine, ho una curiosità riguardante il *Caffè Meccanico* di cui parlate nel libro: il ‘700 è stato il secolo d’oro degli automi e del caffè, ma volevo sapere se il locale è esistito veramente nella Parigi di quel tempo o se invece il vostro riferimento è frutto dell’invenzione letteraria.
La prima che hai detto:
«Le café Mécanique s’installe au n°121 en 1785. Devant ce café s’agglutinent une foule de curieux pressés de voir d’un peu plus près ce curieux mécanisme qui fait monter de dessous la table, par un système de monte-plats, la boisson que l’on demande.
L’Almanach du Palais Royal nous décrit en 1786 plus précisément le mécanisme : « Les pieds des tables sont deux cylindres creux, dont le prolongement communique avec le laboratoire qui est sous la salle. Il suffit pour avoir ce que l’on désire de tirer sur un anneau adapté au-devant de chaque cylindre. Cet anneau répond à une sonnette qui avertit dans le laboratoire, alors s’ouvre sous la table une soupape pour recevoir la demande. Cette soupape se referme aussitôt et ne s’ouvre plus que pour laisser passer une servante à double étage ». Ce café fait faillite à la Révolution.»
http://www.paris-bistro.com/culture/histoire/palaisroyal3.html
su twitter ho letto che avete disseminato tra le pagine del libro delle speci di botole che rimandano ad altre cose; volevo chiedervi se pensate di rivelarne i contenuti.
Che senso avrebbe? Riferimenti, allusioni, citazioni, enigmi et similia si inseriscono perché il lettore o lettrice che li nota abbia un momento di eureka, stupore, soddisfazione e desiderio di approfondire. Se li indichiamo noi, a che pro averli messi?
[Spoiler] Salve a tutti. Io mi unisco alla richiesta, come vi avevo scritto su twitter
Senza la vostra imbeccata non avrei mai colto l’omaggio fatto a Perak (http://get-to-know-cz.tumblr.com/post/53292593701/perak-first-and-probably-last-czech-superhero), e sarebbe un peccato non poter conoscere altre citazioni e riferimenti. Però si, magari dovrebbe essere un lavoro di noi lettori e non degli autori.
Ne approfitto per farvi i complimenti per come avete gestito la presa di coscienza di Laplace come antesignano del fascismo, con tanto di progressiva escalation di Concetti in Maiuscolo. E’ un libro che va riletto e meditato.
[Spoiler] «Però si, magari dovrebbe essere un lavoro di noi lettori e non degli autori.»
Ecco, appunto :-)
Buona sera! Sfido lo spoiler (son ancora attorno alle 600), fors’anche il ridicolo, ma questa curiosità, se già non è uscita in altra sede, me la devo levare…
Quanto ha influito la figura di Eymerich nel tratteggio del personaggio del “mesmerista/magnetizzatore” (nella sua duplice declinazione di D’Amblanc e del provvisoriamente nominatosi Laplace)? Soprattutto nella narrazione della missione in Alvernia, le assonanze mi son sembrate davvero molte (peraltro, estremamente gradite, a scanso di equivoci sulle intenzioni del commento)… Volendo rimaner sui lavori di Evangelisti, come non ricordare poi il connubio tra mesmerismo e Palo Mayombe in Black Flag, e il “suo licantropo” Koger (se non ricordo male, si trattava di una qualche forma di porfiria, in quel caso)… I rimandi transautoriali ingenerati dal confronto con i medesimi topoi mi han fatto venir fin d’ora voglia di rileggere l’AdS e tutto l’Evangelisti su cui riuscirò a metter le mani prossimamente..
Una seconda questione, sulle scelte di narratizzazione del mesmerismo e sulle ricadute potenziali nella costruzione dell’immagine dell’epigono “ipnosi” (molto alla lontana), a romanzo terminato (per non prendere troppi granchi in una volta sola pur massimizzando il potenziale di figura-di-palta, me la terrò per la presentazione di Padova assieme a Mario Galzigna).
In ogni caso, complimenti davvero per il lavoro: mi ero ripromesso di centellinarlo, e l’ho iniziato ieri sera…
à bientôt!
Finisci il libro :-)
Yes, Master :-P (me lo sentivo ch’avrei rimediato una figura barbina prima di notte, in un modo o nell’altro)… a tra pochi giorni! [tempo di finire, espiare, elaborare]
Scusate, probabilmente nelle tre righe di post siamo stati davvero poco chiari, quindi proviamo a spiegarci meglio.
Nei giorni scorsi qualcuno ha chiesto, anche qui su Giap, dove un lettore potesse dire la sua sul libro, quindi *compreso il finale*, comprese le sorprese e i colpi di scena e… compreso il quinto atto (puntualizzazione molto importante). Insomma, commenti sul libro e discussioni/recensioni tra lettori senza freni inibitori né timore di rovinare qualcosa a chi stava ancora leggendo.
Quindi, abbiamo aperto questo thread, che
1) è *rigorosamente* per chi ha già finito il libro;
2) non è un’intervista di massa agli autori sulle loro intenzioni al momento di scrivere questo o di scrivere quello :-)))
Altra cosa importante, a beneficio di chi segue Giap via Twitter: all’inizio di ogni commento scrivere
[Spoiler]
Esempio:
[Spoiler] Altra cosa importante, a beneficio di segue Giap via Twitter…
Così chi non ha ancora finito il libro non clicca e non si rovina sorprese.
[Spoiler] Lou Palanca 2 ha fatto la sua tesi di laurea, nel mesozoico ormai, su Marc Bloch, quindi il riferimento alla “scrofola” e ai Re Taumaturghi lo ha fatto sobbalzare sulla sedia!
SUL QUINTO ATTO DE L’ARMATA DEI SONNAMBULI
[Spoiler] A questo punto parlerei dell’Atto quinto de “L’armata”, perché quelle ultime trenta pagine – una porzione quantitativamente irrisoria se riferita al volume complessivo del romanzo – sembrano operare un rovesciamento delle strategie narrative.
Dell’Atto quinto, allora. O di “Come va a finire”. E già il titolo è una spia che dovrebbe catturare l’attenzione. Viene indicato chiaramente come il lettore non si trovi davanti a un’appendice che illustra le fonti su cui si è sviluppato il lavoro di costruzione finzionale, bensì come stia per affrontare le conclusioni delle diverse parabole narrative e alcuni esiti storici dei processi narrati. Tuttavia, questo finale-dopo-il-finale si presenta – a prima vista e a tutti gli effetti – come un catalogo di fonti.
Il sospetto nasce quando – man mano che si va avanti – ci si rende conto che l’esistenza di tutti i personaggi titolari delle principali parabole narrative, e perfino dei comprimari o di comparse di rango, è praticamente attestata da fonti documentarie.
Di solito, nei romanzi di Wu Ming, la finzione cresce nei coni d’ombra della Storia. La lacuna, il non-detto, lo sfondo dell’affresco, il non-inquadrato o l’appena-inquadrato costituiscono gli interstizi in cui liberare il gioco dell’immaginazione. Il rapporto tra documenti e finzione segue una precisa dialettica legata all’uso romanzesco della Storia.
Ne “L’armata” sembra che succeda il contrario. Cioè che gli autori abbiano di certo colmato dei vuoti, ma ancor di più che abbiano legato tra loro storie *vere* attestate da fonti. Insomma tutto va a incastrarsi come in un puzzle e l’incastro non è solo la cucitura paziente operata dalla fantasia, ma sta dentro l’archivio.
Arrivato in fondo, ho trovato l’ultima *citazione*, quella che chiude il romanzo o – a questo punto – l’oggetto narrativo non identificato. È tratta da l’”Histoire de la Commune de 1871″ di Hyppolyte-Prosper-Olivier Lissagaray e opera uno sfondamento in avanti intorno alla figura del *folk hero* Scaramouche, legando gli eventi della Rivoluzione francese a quella comunarda. Con Lissagaray la verifica della fonte veniva facile visto che posseggo il libro (degno, peraltro, di una ripubblicazione). Il confronto tra la citazione riportata da Wu Ming e il testo originale de l’”Histoire” attesta che ne “L’armata” c’è un’interpolazione finzionale sulla fonte del 1876. In altre parole è il documento che viene “aperto” con l’introduzione di un elemento frutto dell’immaginazione.
Ora provo a buttare giù qualche riflessione di pancia, quindi poco precisa:
1) L’Atto quinto opera uno scarto tra uso romanzesco della Storia e *non-fiction novel* indicando una nuova prospettiva d’intervento. Tra la finzione che scorre nelle pieghe del documento e la fonte utilizzata attraverso tecniche narrative, si fa strada un approccio terzo.
2) Varrebbe la pena verificare quali fonti, nell’Atto quinto, sono *davvero* documentarie, quali finzionali – benché confezionate nella forma del documento – e quali hanno subito, come nel caso di Lissagaray, un “trattamento” immaginativo.
3) L’esperimento richiama – tra le mille altre cose – quello di un mockumentary storiografico, per così dire. Cioè il gestire la finzione attraverso un ricalco dello stile delle fonti. Nella narrativa (anche non romanzesca) italiana contemporanea questo tipo d’intervento non ha ancora acquisito una centralità paragonabile a quella che si è faticosamente guadagnato il *non-fiction novel*.
4) Lo strumento impiegato per gestire questa relazione mobile tra vero e falso è la figura retorica della parodia: ovvero, l’imitazione di uno stile. Sia rispetto alle eventuali fonti fittizie sia in relazione agli inserimenti apocrifi in testi esistenti. Qui, il discorso si potrebbe allargare al valore cruciale che – tra i tanti stili impiegati ne “L’armata” – assume il registro comico, con le sue molteplici forme. Una roba serissima e per nulla riducibile ai piani della farsa o del grottesco
5) Di certo la costruzione finzionale di una fonte documentaria è attestata da esempi. Di solito con valore di “prologo”: artificio del “manoscritto ritrovato” o – nel caso del cinema horror – stratagemma del ritrovamento del video terrorizzante che restituisce il soprannaturale nella cornice del documento. Ne “L’armata” tutto questo ragionamento è catapultato nell’ambito dell’epilogo.
6) Esiste anche una genealogia interna alla fiction narrativa che attesta questo tipo di cortocircuito tra vero e falso: recensioni di libri finti, il tropo della biblioteca o quello del labirinto, biografie di personaggi inesistenti, e via dicendo.
7) Nel caso di Wu Ming, questo tipo di pratica sposta in avanti – o altrove – quella tensione a tenere “aperto” il testo, a presentarlo come big bang di universi potenzialmente in espansione. Lo sforzo è noto ed evidentemente attestato dalle porzioni *conclusive* – i cosiddetti titoli di coda – di diversi libri del collettivo, che se da un lato rendicontano in merito al lavoro sulle fonti, dall’altro contengono elementi utili a sviluppare narrazioni altre. Ad esempio: “It’s Been a Long Strange Trip” di “Point Lenana”. Nel caso di “Manituana” i titoli di coda rappresentavano un vero e proprio “secondo livello” dotato di supporto autonomo. A fronte di tutto questo, risultano a dir poco infelici – perfino al netto del giudizio di valore – le righe con cui Paolo di Paolo concludeva la recensione de “L’armata dei sonnambuli” su “Tuttolibri” di ieri (26 aprile 2014): «Chiuso il libro, è come uscire dal cinema dopo aver visto un filmone in 3D: nessuno si fermerà a leggere i titoli di coda, l’unica cosa che conta è lo spettacolo». Ecco, per Wu Ming vale esattamente il contrario. E “L’armata” cambia pelle proprio con l’Atto quinto.
Ho riportato questi spunti disorganici nel tentativo di dimostrare, a partire dalle conclusioni, come “L’armata dei sonnambuli” sia sostenuta da una complessa architettura narrativa e stilistica in bilico tra fiction e non-fiction che rappresenta – almeno a mio avviso – tanto il vertice di un percorso complessivo di ricerca quanto l’illuminante apertura di un passaggio a Nordovest.
Due domande per chi avesse voglia di rispondere:
I) Quale effetto produce la lettura del Quinto atto? (Io sto ancora cercando di definire lo straniamento che ha provocato in me).
II) È possibile pensare di comporre una narrazione organica costruita interamente con le tecniche di quelle trenta pagine? Dunque: è possibile esportare quel modo di narrare dalla sede dello scioglimento all’interezza di un racconto?
Tommaso De Lorenzis
[Spoiler] Ciao a tutti.
Onestamente, a me il finale ha proprio deluso.
Mi spiego: ho letto il libro, come scritto anche da un altro utente, in modalità bulimica. Il punto di vista “storto” e laterale dell’ evoluzione della Storia; i linguaggi (favolosa l’ italianizzazione dei dialetti emiliani per rendere l’ idea del popolano); la tridimensionalità dei personaggi e il loro spessore; l’ introduzione di elementi pseudoscientifici, che aprono mondi di ipertesto; il dinamismo del racconto e la volontà di usare tempo per spaziare in zone parallele; lo sbattimento nelle fonti. Tutto questo mi ha assolutamente coinvolto e invogliato a riaprire il libro fino alle due di ieri notte per poter arrivare al finale…
…poi mi trovo immerso in un mescolone di Harry Potter -ultimo atto (gli autodafè sonnambuli, la folla che torna gente e non più persone, il senso di oppressione dato da una situazione irrisolvibile) e un azione alla Sherlock Holmes (quello di Robert Downey Jr) con due salvataggi in extremis fatti a sorpresa da un terzo armato di pistola.
Non parliamo poi della sartina Wolwerine col guanto uncinato…
Boh?
Quelle trenta pagine mi sembrano completamente estranee a tutta la storia precedente. Troppo simil fumettone.
Naturalmente il mio vuole essere solo il parere di un lettore appassionato, nulla a che vedere con giudizi critici su scrittura,tecnica o teoria. Magari ho saltato qualche passaggio nella fretta, me ne scuso e mi riprometto di rileggerlo con più calma.
[Spoiler] @shark0, scusami, ma credo che ci sia un equivoco. Io parlavo dell’ultimo atto: il quinto.Mi pare che ti riferisca alle ultime trenta pagine dell’Atto quarto, intitolato “Termidoro”.
[Spoiler] Sì, infatti, Sharko non sta parlando del quinto atto, ma dell’ultima scena del quarto.
Sharko, tu parli di quella scena come se fosse il finale, ma non lo è affatto…
Ricordatevi sempre di scrivere [Spoiler], per favore.
[spoiler] Già, mi sa che ho involontariamente pestato l’ uomo della merda.
Leggendo i commenti mi era venuto il dubbio di aver perso qualcosa per strada, neh?
Comunque, fermo restando il mio parere sulle pagine “pop” (veramente troppo diverse dal resto), ne approfitterò per approfondire meglio la rilettura.
[Spoiler] Però quello che non riesco a cogliere è in che senso le trovi diverse dal resto. I riferimenti a Marvel e DC Comics sono presenti in tutto il filone di Léo, che è la formazione di un supereroe. Citiamo Batman e Spiderman in maniera che a volte abbiamo trovato a rischio di “pedissequità”. Nel filone di D’Amblanc, poi, c’è l’horror, “Il villaggio dei dannati”, “La notte dei morti viventi”… A Bicetre c’è Bram Stoker, Dracula…
[Spoiler] Io credo di capire cosa dice sharko perché ho avuto la stessa sensazione di contrasto (anche se come ho scritto anche sotto, a differenza sua io ho apprezzato). È vero che c’è in tutto il libro Spiderman, ad esempio, ma diluito con molto altro. Cerco di spiegarmi. Nel film di Spiderman ci sono diverse situazioni no? c’è Spiderman con la ragazza, Spiderman che gli muore l’amico, i retroscena della vita dei personaggi ecc. Tutto quello insomma che serve a incuriosire e divertire per poi arrivare al gran finale dove tutto è volutamente eccessivo, il cattivo risorge 10 volte prima di morire definitivamente ecc. E tutto si risolve lì. Ok. Questo modello di finale (o come devo chiamarlo? climax? perché finale non è) è stato traslato in un libro dove c’è molto altro oltre a Spiderman, altre storie, registri diversi e soprattutto molte questioni che restano aperte. Secondo me quindi è facile che si possa restare un po’ spiazzati, soprattutto se non si riesce a metabolizzare subito l’Atto Quinto come capitolo finale.
[Spoiler] Durante la lettura della seconda metà del libro (e il quarto atto soprattutto) continuava a venirmi in mente Chabon (Kavalier e Clay), mi pare di capire che, anche se forse non voluto, non è poi così strano.
[spoiler] @WM1. Oh, sì, c’ è anche “La notte di Valpurga”. L’ evoluzione sopra le righe di Leo l’ ho vista, però c’ è quasi sempre un Leo sopra le righe nei vostri libri …e non solo (Leo è questo che siamo?). Per il resto mi sembra che @ Punto_fra abbia capito a cosa alludevo.
Per chiudere: non ho intenzione di creare flame su 30 pagine che non mi sono piaciute, prima ce ne sono state 700 che mi hanno coinvolto e incuriosito. Ho anche scritto, e lo ripeto, che per me almeno una seconda lettura dei vostri libri è abituale (su 54 e Point Lenana potrei andare a uno di quei quizzoni del buon vecchio Mike).
Torno nell’ ombra a seguire i pareri altrui. Bye
[Spoiler] Era semplice curiosità, grazie a entramb, adesso ho capito.
Equivoco per equivoco, dirò che a me il “finale” di Harry Potter e i Doni della Morte non dispiace affatto. Mentre butterei alle ortiche “l’epilogo”.
Il punto forse è che a noi i fumetti piacciono, e il riferimento a quelli Marvel nel nostro romanzo è evidente. Un paio di giorni fa un’amica che ha appena ultimato di leggere il romanzo ha commentato entusiasta l’omaggio a Wolverine… al femminile. Ma aggiungerei che, ad esempio, l’intero filone mesmerista potrebbe essere letto – come ha fatto oggi il recensore su Alias – in chiave “Star Wars”, con il lato chiaro e quello oscuro della forza, i Jedi buoni e quelli cattivi, ecc… Ma potrebbe benissimo essere letto invece in chiave foucaultiana… come suggerito dall’exergo del romanzo stesso. A me pare che il “genere” attraversi tutto il romanzo, non solo il finale. Questo a prescindere dal fatto che la scena finale piaccia oppure no, ovviamente. De gustibus non disputandum est.
[Spoiler] Sì, quella di Di Paolo sui “titoli di coda” è forse la più impressionante gaffe su di noi e sul nostro lavoro fatta da un recensore. Un bel primato! Quando me l’hanno letta al telefono non ci potevo credere, sembrava uno scherzo…
Inciampando proprio su quell’espressione, “titoli di coda”, il recensore ha rivelato in un colpo solo tutte le sue lacune. Su questo penso che Tommaso abbia già detto il “succo”, io provo a fare un breve riepilogo.
Di Paolo, nella fretta di sminuire il nostro lavoro e catalogarlo nell’innocuo entertainment, non si è minimamente accorto dell’importanza proprio dei “titoli di coda” nei nostri libri, da Asce di guerra in avanti;
non si è accorto che di tutte le nostre storie noi rilasciamo in diversi modi il “codice sorgente” in modo che i lettori possano farne “ingegneria inversa” (fan fiction, omaggi transmediali, cosplay, commenti senza limiti di tipologia testuale) e lo facciamo prima, durante e dopo l’uscita di un libro, grazie a Giap (lo faceva notare Salvatore Talia qualche giorno fa) ma non solo (giustissimo il riferimento di Tommaso al “Livello 2” del sito di Manituana);
Di Paolo non si è soffermato nemmeno un secondo sulla nostra prassi degli “oggetti narrativi non identificati”, il filone che da Asce di guerra arriva a Point Lenana passando per Il sentiero degli dei e Timira, filone che grazie al quinto atto de L’Armata ora si è innestato in quello dei romanzi storici, realizzando una sintesi complessiva della nostra produzione.
Eh già, perché – soprattutto – Di Paolo non si è accorto dell’atto quinto.
Un amico me l’aveva detto: “Il quinto atto servirà a sgamare, tra i recensori dei giornali, chi ha letto il libro per intero e chi no”.
Credo proprio sia vero: se in una recensione non c’è nemmeno il più vago riferimento al quinto atto – con il suo quasi violento *retroagire* su tutto quel che si è letto nelle settecentocinquanta pagine precedenti -, probabilmente significa che non ci si è arrivati.
Infatti, tutte le recensioni che in questi giorni abbiamo linkato qui su Giap e/o segnalato su Twitter contengono riferimenti al “come va a finire”: Dinamo Press, Carmilla, Parla della Russia, Europa, Militant (che a proposito del quinto atto ha parlato di “realismo magico”), Alias ecc.
Tutte queste recensioni, ognuna a suo modo, hanno “proseguito il gioco” dell’atto quinto. “Gioco” che è *terribilmente serio*: si tratta né più né meno di *far esistere nella Storia tutti i personaggi*. Dopodiché, ci sarà chi andrà subito a verificare dove effettivamente abbiamo spostato il confine, e chi metabolizzerà il tutto con più calma, lasciandosi vivere dentro le “bombe a tempo”, che un giorno esploderanno e forse porteranno a una rilettura.
Semplicemente, anche stando attenti a non fare spoiler, non si può fare un discorso minimamente critico/analitico su questo romanzo senza tener conto dell’atto quinto.
Al contrario, i riferimenti all’atto quinto mancavano del tutto dalla recensione apparsa su Repubblica a firma di Enrico Deaglio, e in quella apparsa su Tuttolibri a firma di Di Paolo. Guardacaso, proprio le due recensioni che, rimuovendo gran parte di quel che c’è nel libro, lo trattavano principalmente come narrativa commerciale, con riferimenti molto sbavati a Hollywood, a una “serialità” che in realtà Wu Ming non ha mai praticato ecc.
Troppa fretta. Noi ci abbiamo messo cinque anni a scrivere questo libro. Si può apprezzarlo o meno, si può avere qualunque giudizio critico, ma se si pensa di poterlo liquidare in cinque minuti, ci si espone a figurette, figuracce e figure di palta.
[Spoiler] Quale effetto produce la lettura del quinto atto? Da parte mia, posso dire che sono rimasto molto sorpreso quando uno dei primi giornalisti culturali che ci ha intervistato – uno che il libro se l’è letto davvero – ha iniziato a chiedere in che modo eravamo incappati nelle fonti storiche del quinto atto, utilizzate poi per costruire i personaggi del romanzo. Mi ha sorpreso perché nemmeno per un attimo avevo immaginato che un lettore attento potesse smarrirsi nei diversi programmi di verità di quelle pagine. Mi sembrava lampante che lì, nel Quinto Atto, siamo ancora dentro al romanzo, e dunque in un ambito di verità narrativa, non storica. Il gioco non era affatto pensato per ingannare: piuttosto per stimolare il lettore a cercare ancora, di fronte all’evidente intreccio di realtà e finzione. Il Quinto Atto dell’AdS non sono i “titoli di coda” sotto mentite spoglie: sono l’invito a mettere insieme i titoli di coda mancanti e, partendo da quelli, a girare un altro film.
[Spoiler]
Ammetto che ancora diverse ore dopo aver finito il libro pensavo del Quinto Atto la stessa cosa che pensava questo giornalista.
O meglio: non è che pensassi che voi aveste rintracciato la vera storia di Scaramouche e di Luigi XVII, e dopo averla trovata nascosta nei documenti l’aveste raccontata in forma romanzata. Pensavo però che aveste trovato i giusti agganci nei documenti per supportare una storia sbalorditiva.
Avevo notato che non erano “titoli di coda”, ma proprio un atto a sé stante, ma questo forse solo perché conosco le cose che avete scritto prima e mi aspettavo i titoli di coda, e la prima interpretazione che ne avevo dato era in un certo senso inversa: “Guardate che i titoli di coda per noi sono parte integrante della storia”.
L’incredulità, alimentata da dettagli improbabili come le maschere di Scaramouche sulle barricate del secolo successivo, era stata tenuta a bada da alcune incoerenze tra il Quinto Atto e i primi quattro, per esempio il miscuglio tra Laplace e La Corneille. Mi sono detto: «Tutto questo è pazzesco, devo assolutamente prendere un computer e controllare»; poi però ho lasciato il libro a Pavia, sono corso a prendere un treno per Milano (ho preso quello dopo perché non riuscivo a staccarmi dal libro) e prima di essere rientrato a Pavia… avevo già attinto alla conoscenza altrui e capito il gioco.
Davvero mirabile, ma non sottovalutate la probabilità che lettori fessi come il sottoscritto ipotizzino che il Quinto Atto sia verace e quindi che le vostre fonti immaginarie si cristallizzino come dati di fatto nella realtà fuori dal libro. Forse non sarebbe neanche un male. :-)
[Spoiler] Provo a rispondere alle due domande di Tommaso:
i) L’effetto del QA non si può — almeno, io non posso — tenerlo separato dalle dichiarazioni dei WM, ancora prima della pubblicazione dell’Armata (che però molti giapsters hanno quasi inconsciamente ignorato e poi ‘scoperto’ dopo l’apposito post), che ci saremmo trovati tra le mani l’ultimo romanzo storico propriamente detto. Di fatto, L’Armata appare già come un’opera di passaggio tra gli scritti collettivi del passato e quello che verrà. Se durante la lettura dei primi quattro atti mi chiedevo chi fosse il Philip Lacroix di quest’opera, il QA si è incaricato di rispondere: nessun*, o quanto meno nessun* che avesse la rilevanza di Ronaterihonte. Dunque, nessun straniamento, nel mio caso, ma il riconoscimento di un percorso in atto (di cui PL e Timira rappresentano le seconde tappe, mentre, paradossalmente, L’Armata è una prima tappa).
II) Io credo che, appunto, lo ‘scioglimento’ cyborg/ibrido (Donna Haraway, assieme ad altre femministe rifiuta l’organico come una ideologia oppositiva del tardo ventesimo secolo rispetto al cyborg, l’ibrido, il mosaico, la chimera) sia, in breve, l’UNO, e dunque ci è già stato mostrato che, in modi dissimili e plurali, sia possibile.
[Spoiler] Esiste un livello di pressappochismo, in chi fa “recensioni”. Mi chiedo come sarebbe stata accolta una recensione de “La Storia” di Elsa Morante che si fosse conclusa come quella di Paolo di Paolo, sbeffeggiando la cronologia post narrazione che si concludeva con “e la storia continua”. O qualcuno che avesse detto che (senza pretesa di creare paragoni) alla fine de “L’Orgoglio degli Amberson” o di “Mezzogiorno e mezzo di fuoco” il pubblico si alza e se ne va senza curarsi della macchina da presa che arretra mostrando il set e tutto il resto. Il Quinto Atto fa entrambe le cose: mostra il set di lavorazione – e nel mostrarlo ti dice, senza i trucchi metanarrativi dei postmoderni americani tipo J. Barth (un grandissimo, peraltro): fai attenzione, questa è una storia; e al tempo stesso riconnette la storia (nel senso della narrazione) con La Storia (nel senso degli eventi), allungando la storia della Rivoluzione francese fino al presente, per dirti: abbiamo parlato della rivoluzione francese, ma abbiamo anche parlato del presente in cui tu stai leggendo. E al tempo stesso moltiplica gli strati, o meglio, le botole in cui far cadere il lettore, e a volte le botole dentro le botole: prendo l’esempio più ovvio (per ragioni generazionali) – la genealogia possibile di Marie Noziére, che mette in osmosi interi immaginari, da quello rivoluzionario a quello surrealista, da quello cinematografico (e non uno qualunque: su Chabrol ci abbiamo passato, credo, del tempo tutti) a quello musicale (che, nel caso degli Area, è di nuovo rivoluzionario).
[Spoiler] Con riferimento al punto 4 del commento di Tommaso, Paolo Repetti su Twitter ha tirato in ballo Sciascia. La trovo una menzione molto azzeccata.
[Spoiler] ..Con riferimento al punto 4..Sciascia..verissimo, a me viene in mente I Pugnalatori…in cui la riscrittura della storia è molto simile..e mi viene in mente anche Camilleri.
Io ho trovato il finale (nel senso di Termidoro) folgorante…romanzo d’appendice, storia e fumetto convergono in mdo estremamente potente. Ed è anche il momento in cui le “due anime” del romanzo si incontrano…
Qualcuno parla di paternità..francamente non ci avevo pensato…per quanto mi riguarda invece mi ha colpito la forza con cui questione di classe e di genere si incontrino nello stesso personaggio.
Meravigliosoa Marie. Sicuramente il romanzo non si conclude e la fine lascia aperta..tanti potenziali e possibili sequel..
P.s: @ i Wu Ming, Lo Scaramouche cinematografico è più ..quello degli anni 20 o quello di Granger?
..Si parla si superoi ..ma lo Scaramouche letterario e cinematografico è sicuramente
un supereroe antliterram.
[Spoiler] Per Scaramouche siamo andati direttamente alla fonte letteraria. Abbiamo letto tutti e quattro il romanzo di Sabatini (1921).
Scaramouche, Scaramouche, non vorrei banalizzare ma i riferimenti alle reali prodezze del reale Scaramouche/Leo M. fra le strade di Bologna mi hanno impedito di farmi altre domande circa la possibilità che uno o più Scaramouche siano esistiti. Scaramouche è veramente fra noi (almeno per quelli che girano per le strade di Bologna).
[spoiler] Per rispondere almeno alla prima domanda di TDL, la mia prima reazione alla lettura del Quinto Atto (terminata 5 minuti fa) è stata: Negoddio! Ma allora era tutto tutto vero!!
Ed eccomi qui a scoprire piano piano che invece…
[Spoiler] anch’io sono costernato. finito di leggere il libro due ore fa, convinto di avere la Verità in tasca, adesso non ci capisco più niente…
la prossima volta che vedo i Wu Ming mando loro l’AmmazzaIncredibili =)
[Spoiler] Ciao a tutt*
Innanzitutto scusate se a leggermi vi bruciano gli occhi; l’italiano non è la mia prima lingua, quindi mi sfuggiranno sicuramente un sacco di errori.
Alle domande di TDL:
I) Ho finito il libro ormai tre ore fa. Sono le 05.00 e ancora non dormo. Ecco, un primo effetto è stato il disturbo del sonno, guarda caso. Mi piace pensare che non sono da solo, che c’è un’armata d’insonni come me, spiazzati dal Atto Quinto. All’inizio ci son cascato di brutto, e mi sono parecchio emozionato, per poi andare a contrastare, come tu, l’ultima citazione (forse per essere precisamente l’ultima, forse perché da marxists.org ci si arrivava in un attimo :)
Dopo il dovuto secondo di imbarazzo che noi creduloni subiamo ogni tanto, ho vibrato di nuovo, questa volta per l’inventiva degli autori, che, ecco, ci porta all’altra domanda
II) Sembra piuttosto difficile. Non so se sia possibile. Ma se non lo è, questi ci stanno già pensando ;)
Agli autori:
GRAZIE, tantissime. Grazie per Marie Nozière. Grazie per l’atto quinto, per quella porta aperta alla curiosità, per cancellare la tristezza di quando si finiscono i libri, perché i vostri non finiscono mai.
[spoiler]
Sono completamente d’accordo con Tommaso sull’importanza dell’Atto Quinto per comprendere l’importanza narrativa de “L’armata dei sonnambuli”. Sono convinta che un autore che *si lascia portare* dalla storia che sta raccontando non fa bene il suo mestiere: la narrazione non si fa *da sé*, ma è sempre qualcuno che la fa, organizzando/scegliendo i materiali, decidendo il tono e la voce da usare, ideando mappe e percorsi. L’Atto Quinto dice tutto questo, narrando all’interno della narrazione. Ma nessun meccanismo, neanche il più raffinato, è *perfetto* (per fortuna!).
L’effetto di straniamento, la sorpresa del lettore, dunque, mi sembrano geniali e necessari, la dimostrazione della natura fortemente narrativa de “L’armata”. Il lettore, secondo me, *deve* stupirsi, magari anche rimanerci un po’ male per *non aver capito tutto*. Ma queste trenta pagine hanno un effetto in più: hanno spiazzato anche l’autore! (abbiamo messo questa botola: l’hanno beccata; abbiamo fatto questa citazione: l’hanno trovata; abbiamo costruito un finale non-finale e un finale costruendo fonti documentali: non se ne sono resi conto)
Penso che questo aspetto della ricezione de “L’armata” meriti approfondimento; la considero un’ulteriore uscita dalla “zona di comfort”, stavolta non (solo) del lettore e/o dell’autore, ma anche del loro *patto narrativo*. E tutto questo mi sembra meraviglioso…! (non la filosofia, ma la narrativa nasce dalla meraviglia)
[spoiler] Salve. Innanzitutto approfitto per linkare anche all’interno di questo thread l’audio della presentazione del 18/05 a Firenze con Wu Ming 4 e Vanni Santoni al nEXtemerson. https://archive.org/details/wumingarmata
Non è proprio di ottima qualità… ma è quello che siam riusciti ad ottenere :)
Poi nidifico qui, perché nonostante sia passato più di un mese e mezzo, vorrei provare a rispondere alla prima domanda di Tommaso de Lorenzis: “quale effetto produce la lettura del quinto atto?” ci ho messo un po’… meglio tardi che mai :P
Non nego che inizialmente la reazione è stata: “guarda che roba! è tutto vero!”
Man mano che procedevo però, l’effetto è stato del tutto simile a quello descritto da Girolamo nel suo intervento, quando usa il paragone cinematografico.
L’inquadratura si allarga con uno zoom indietro, viene mostrato il set, le luci, le camere, il fuori-frame, gli attrezzi insomma, e allo stesso tempo ti accorgi che questi fanno ancora parte del piano narrativo-finzionale, che sono essi stessi parte integrante del racconto, e non (solo) una sua genesi documentaristica.
Mi ricorda ad esempio “Effetto notte” di Truffaut. Ma il quinto atto è sicuramente qualcosa di più e di diverso. Non mi pare un semplice espediente metanarrativo, come segnalato da Wu Ming 2. Non mi pare insomma un “mise en abyme”, perché più che una cornice che ne contiene altre all’infinito, nel quinto atto le cornici si moltiplicano in maniera irregolare, sovrapponendosi e intersecandosi fra loro, offrendo più piani di lettura e di sviluppo di storie “altre”. Continuando con il paragone cinematografico, è come se l’inquadratura venisse *splittata*, in tanti frame lievemente sovraimpressi, tenuti insieme da una forza centripeta, ma capaci anche di svilupparne una centrifuga.
Inoltre leggendo il quinto atto e i commenti che gli son stati qui dedicati, mi è venuta in mente una frase, letta poco tempo fa, sul blog di Arrigo Malera, mentre stavo seguendo le tracce di “Cultura di destra” di Furio Jesi.
La frase, di J.P. Faye è questa: “ La narrazione agisce e cambia l’azione stessa mentre la racconta. La narrazione agisce sulla sua azione raccontata. Per tale motivo, cambiando ciò che essa racconta, essa cambia se stessa raccontando. La narrazione come oggetto che cambia, e che cambia il suo oggetto: ecco il prima assioma, o la serie assiomatica da cui si dovrà procedere.”
Ecco, mi pare che questo abbia molto a che vedere con il quinto atto, e sull’effetto che ha prodotto in me…
Ma qui mi fermo perché non conosco Faye, e non è buono citare così alla ceca, e soprattutto sto maneggiando concetti che gestisco sinceramente con difficoltà! :)
Ultima cosa: l’atto V, è anche il momento nel quale gli autori sembrano immergersi nella storia da loro raccontata… mentre leggevo le ultime 30 pagine avevo come la sensazione di essere *già stato lì* per un attimo durante la lettura del romanzo… e mi è riecheggiata in mente una frase del “popolo” durante il capitolo del Termidoro.
La frase è a p. 633 ed il popolo si interroga sull’identità di Scaramouche: “Ma mica lo sai se era sempre l’italiano, concesso e non ammesso che la prima volta fosse lui. Che poi chi era ‘sto italiano? E’ esistito davvero o l’ha inventato qualcuno?”
Insomma questa frase per me ha funzionato come botola interna, che mi ha fatto affacciare per un attimo nell’atto quinto e nelle sue problematiche. E in quel *qualcuno* che potrebbe aver inventato Leò, ci ho visto proprio i Wuminghi. :)
[Spoiler] Ho risposto in parte alla domanda di TDL il 12/09/2014 at 10:46 pm nel battistrada sbagliato. Volevo aggiungere un testo più lungo, ma sono mesi che non trovo il tempo per andare rivedere e ampliare questi appunti, che ora consegno e archivio volentieri su Giap. (Vi ringrazio di aver riaperto la discussione).
I dubbi, lo straniamento, la vertigine suscitati dall’Atto quinto possono portare a una momentanea esaltazione (evviva, i personaggi sono veri!), ma poi ci costringono a leggere con maggiore attenzione critica, e forse a controllare la veridicità delle fonti citate dal libro. Mi sembra un effetto positivo, che scrolla di dosso e risarcisce l’irritazione che provo appena mi rendo conto che, sia pure all’interno della cornice narrativa, alcuni documenti storici sono alterati.
Il personaggio Scaramouche mi ha divertito, contribuisce a moltiplicare l’umorismo e il plurilinguismo del testo, è uno dei motori principali della vicenda, ha accelerato la mia lettura dell’Atto quarto, tra l’Atto quarto e l’Atto quinto conduce fuori di se stesso e della storia narrata. Ma non intendo parlare di Scaramouche. Vorrei annotare qui alcuni passi del romanzo in cui, assente Scaramouche, mi sono più stupito per uno sviluppo inatteso della trama, per uno spiraglio verso la storia futura e il presente.
Alcuni esempi: Napoleone, una buona rieducazione, “forse volevano solo litigare”, il ballo delle vittime.
1) Il magnetista, pag. 68. “La monarchia si fondava sul diritto di sangue (…) ogni aristocratico è un potenziale monarca”. Dunque, sarebbe necessario ghigliottinare quasi tutti gli aristocratici.
Non ho potuto fare a meno di pensare a Napoleone, che non era aristocratico, ma diventa imperatore di un impero fondato sull’esercito, sulla borghesia, sul potere plebiscitario invece che sul diritto dinastico e divino. Nel romanzo poi troviamo il complotto di un personaggio, Yvers, che prefigura ben altri regimi e ideologie; ma il futuro trionfo di Napoleone, che nega la democrazia e la partecipazione popolare, sia pure in un regime che riconosce importanti diritti civili, in qualche modo nega, o almeno mette in dubbio e problematizza, l’efficacia del Terrore.
2) Nell’Atto quinto si suggerisce che D’Amblanc possa avere adottato il principe, l’erede al trono per diritto di sangue. Non una “rieducazione”, ma la possibilità di “una buona rieducazione” (…)
3) Dopo il funerale di Gesù Marat, a pag. 348, Pinel dice a Laplace: “Per assecondare un desiderio, bisogna conoscerlo. (…) Ci sono uomini che passano la vita a domandarsi cosa vogliono davvero. Chi vi dice che i vostri tre Marat desiderassero recitare? Forse volevano solo litigare, e voi glielo avete impedito. Forse con il loro litigio vi stavano chiedendo di sottrarli alla recita, e voi invece ve li avete trascinati. Il desiderio non è una preda facile da cacciare”.
È uno dei passaggi che più mi parla, che mi risuona dentro, che mi interpella come insegnante e come genitore… Cercherò di tornare sull’argomento.
4) Il ballo delle vittime a Palazzo Thellusson. Mi sembra uno dei luoghi testuali in cui il romanzesco e il contenuto di verità del romanzo si incontrano con più felicità. Il tema della vittima per molti anni è stato al centro di riflessioni che ho condiviso con l’amica Luisa Catanese. È un tema che è stato affrontato da Daniele Giglioli, Critica della vittima, mio compagno di università fin dalla prima lezione. Il vittimismo dei potenti è un tema che i Wu Ming hanno più volte trattato. Cercherò di tornare a discuterne.
Qui mi fermo. Cercherò di approfondire gli spunti, di tornare a interloquire…
[Spoiler… forse] Io dal quinto atto sono ripartito per condurre la narrazione un po’ più in là, approfittando degli interstizi lasciati ad arte dai Wu Ming per consentirlo.
Il risultato mira a essere abbastanza indefinibile:
http://www.marianotomatis.it/blog.php?post=blog/20140427
@Mariano Tomatis:
Citoyen Tomatis, il tuo è un modo originale e buono di operare sul *flusso magnetico* che ci circonda: lo apprezzo moltissimo e sono sicura che anche D’Amblanc approverebbe.
In sintesi, sei davvero bravo e, a parer mio, in perfetta sintonia con lo spirito del collettivo.
[Spoiler] Che effetto mi fa la lettura dell’Atto quinto del romanzo L’Armata dei Sonnambuli?
Stupore, straniamento, vertigine, compiacimento, dubbi; ma preceduti da una sorta di anticipo individuale, che forse ha influito sulla ricezione dell’epilogo. A pagina 764, infatti, ho scoperto che un mio omonimo, nell’estate 1805, recitò con Leone Madonnesi in una commedia di Goldoni al Teatro Comunale di Bologna: mi ritrovo dunque a vestire i panni di una comparsa del romanzo.
È una coincidenza, mi chiedo, o è invece l’affettuosa burla, o magari il souvenir, di uno dei Wu Ming, mio compagno d’università? E tutti noi, le comparse e i protagonisti, i passati e i futuri, della Storia e del romanzo, quanto siamo veri? In quale livello della realtà viviamo?
Léo Modonnet, Marie Nozière, Auguste Laplace, Orphée d’Amblanc, Treignac… Mentre leggevo L’Armata dei Sonnambuli, ero sicuro che fossero personaggi romanzeschi. Poi mi imbatto in un Treignac che firma un documento – leggendo lo considero un documento storico autentico, un “Estratto” come gli altri che ricorrono nel libro – e penso sia possibile che gli autori abbiano dato il nome di un piccolo, sconosciuto personaggio storico a una figura piuttosto importante del loro romanzo. Quando finalmente arrivo all’Atto quinto, leggendo il mio nome, mi ritrovo in un dubbio più difficile da sciogliere: il documento è autentico o no? Decido di pensare che il documento sia «vero» forse per pudore, forse perché anni fa con un paio di clic del mouse ho scoperto, ma non avevo motivo di dubitarne, che a Bologna, in qualche momento del secolo XIX, un attore, o meglio un cantante dell’opera, portava il mio stesso nome. Può essere lo stesso uomo? Non mi importa. Continuo la lettura dell’Atto quinto cominciando a pensare che i nomi dei protagonisti siano tratti da documenti consultati dagli autori, magari suggeriti da un rizoma di collaboratori solerti, amici e compagni storici, tra cui alcuni specialisti della Rivoluzione francese. Certo il personaggio Orphée D’Amblanc ha un nome che mi sembra troppo allusivo per essere vero, ma mi lascio cullare dall’emozione. Non giungo a pensare che nel gennaio 1795 ci siano stati sonnambuli che si sono dati fuoco per strada, che proprio il Cavaliere d’Inverno abbia cercato di liberare il principino, che degli umanoidi in anestesia totalitaria abbiano pestato dei sanculotti e dato fuoco a una certa osteria, ma prima di dormire mi rannicchio e avvolgo nel pensiero che un eroe pop, indomito, grottesco, vendicatore come Scaramouche, mascherato o no, benché incapace di deviare il corso della Storia, in qualche vicolo di Parigi sia esistito. Da quel che si legge sembra che sia citato in libri veri da autori ancora più veri: perché mai i documenti dell’Atto quinto, inseriti in un’opera che contiene altri documenti che paiono autentici, e che in certi passaggi brilla per la capacità di conciliare parodia e realismo, finzione romanzesca e contenuto di verità, dovrebbero essere alterati?
Mentre sto leggendo, a tarda notte, le ultime pagine del libro, sono persuaso che nessun Estratto sia stato ritoccato, e non voglio affatto sapere, per ora, se questi documenti dell’Atto quinto lo siano o no. Mi persuado che l’immaginazione romanzesca sia stato il lievito di nomi e dati rintracciabili in documenti che non conosco o non ho mai letto. In fondo non è del tutto impossibile, se perfino Filippo Buonarroti ne ha parlato, che sia esistito davvero un uomo e poi una rivista che portava il nome Scaramouche, e che una mano ignota nelle rivoluzioni successive abbia fatto quelle scritte sui muri…
La mattina successiva, o per essere sinceri, dalla mattina successiva in poi, ci ho ripensato, ho riletto, ho cominciato a distinguere meglio tra livelli di realtà. Si tratta di un’operazione dichiarata nel blog di Wu Ming e, immagino, in molte occasioni pubbliche, ma già visibile per chiunque volga uno sguardo critico al testo, al paratesto, al contesto storico e letterario. Il povero Filippo Buonarroti, ora mi appare fin troppo ovvio, non ha scritto una sola parola sul fantomatico Scaramouche; e questo mi turba e mi irrita un po’, anche se mi rendo conto che il misfatto avviene dentro una cornice romanzesca, su di un palcoscenico che lo rende legittimo e forse anche divertente.
Appena ho finito L’Armata dei Sonnambuli, prima di dormire, ho tolto da uno scaffale e ho deciso di leggere al più presto, o almeno sfogliare, il libretto di Albert Mathiez, Maximilien Robespierre, Erre Emme edizioni (prefazione di Georges Lefebvre), a cui sono allegati gli Appunti su Robespierre di Filippo Buonarroti. Ma aggiungo che, dopo aver ballato tra le trappole romanzesche dell’Atto quinto, sono subito tornato a esplorare il contenuto di verità dell’opera, che, non rinunciando a riflettere sulle contraddizioni della Rivoluzione e su molteplici relazioni e forme di potere, non può essere addomesticata nell’ospizio manicomiale dell’intrattenimento.
Di questo proverò a parlare in un altro momento. Mi piacerebbe sapere, però, in che misura sia autentico il cartellone riportato a pag. 764 nella cronologia di Felice Romani, librettista dell’opera e non a caso autore di La sonnambula.
Ma qui mi fermo.
https://archive.org/details/cronologiaditutt00bign
[Spoiler] Ieri ho finito il libro ed ho scritto queste riflessioni.
“Possano i giorni trascorrere senza meta. Non si prosegua l’azione secondo un piano”.
(Q – Luther Blissett)
L’assioma sotteso alla letteratura di Wu Ming potrebbe essere definito come una sorta di esistenzialismo del conflitto. La lotta non è il mezzo per arrivare a degli obiettivi programmatici, politici. La lotta è il fine, un modo per rendere la propria esistenza degna di un romanzo. E quindi emblematica. E quindi carica di significanza etica oltre che estetica. Perché la narrativa stessa, in Wu Ming, nelle vicende di personaggi come Gert dal Pozzo in Q, Pierre (Robespierre Capponi) in 54, Joseph Brant in Manituana, diventa un modo per disegnare un percorso ben preciso all’interno della Storia, un percorso in grado di parlare alla classe degli oppressi per esprimere una chiara ed a tratti esaltante dichiarazione di intenti. “Ci auguriamo che si difendano con feRocia” è il motto che capeggia all’ingresso del locale dove Bernard la Rana organizza i suoi incontri di lotta clandestini. Lèo, dopo aver battuto il capo dei muschiattini (moscardini) grazie ad un colpo basso (“Vale tutto!”), sbeffeggia il suo avversario ripetendo quel verso, calcando la R, la R di Rivoluzione, lettera altezzosamente omessa nella dialettica di quella Gioventù Dorata levatasi a compagine protofascista, reazionaria, realista, controrivoluzionaria. Un calcio nelle palle, ben calibrato, rifilato al merdeglioso pomponnato di turno. L’avranno anche vinta alla fine (ma si può mettere davvero la parola fine alla Storia?), ma i coglioni doleranno ancora. Eccome se doleranno.
“La rivoluzione francese fu una rivoluzione borghese e liberale”
(cazzata messa in giro da storici socialisti come Burns e Gaxotte)
Le etichette alla Storia servono esclusivamente a banalizzare. Banalizzare serve ad occultare. Occultare serve a negare, di solito l’esistenza di una lotta di classe, spesso l’esistenza delle classi. Burns diceva che la rivoluzione francese non fu un momento di rivolta popolare perché in quel tempo il popolo non soffriva nemmeno la fame. Per Gaxotte la fame genera solo moti, non rivoluzioni. L’indagine storica di Wu Ming ci porta all’interno del foborgo di Sant’Antonio, ci mostra le vie percorse dai sanculotti ed i loro decisi umori nei confronti degli aristrocrassi, dei monopolatori, degli sbirri. Quelle pagine sono pregne di coscienza di classe, di orgoglio plebeo, magistralmente rappresentate da una similvulgata popolana volta a distinguere anche esteticamente le due parti della barricata. D’altro canto i sanculotti ci avevano già pensato, allungando le loro braghe e rinunciando alle coulottes. L’abbigliamento e il linguaggio sono caratteri distintivi nell’Armata dei Sonnambuli. La loro importanza semantica e sociale viene continuamente messa in luce e implicitamente contrapposta all’omologazione culturale dei nostri tempi, in cui la pacificazione, e non la pace, sembrano aver preso il sopravvento su qualsiasi forma di movimento.
Nell’Armata dei Sonnambuli, dicevamo, sono i Robespierre, i Saint-Just, i Danton, i Maràt, a stagliarsi come sfondo alle vicende di una sarta, di un attore in rovina costretto a vivere sotto i ponti, di un bottegaio diventato poliziotto e di tante altre umili esistenze. La distinzione tra moti e rivoluzione perde di significato nel momento in cui la rivoluzione si accartoccia su sè stessa per reprimere i moti che le hanno dato vita, prima nel Terrore Robespierriano, infine nell’infausto Termidoro. Il dualismo tra un popolo soggiogato dagli istinti e una borghesia dotta in grado di incanalare la rivolta si sfalda di fronte ad una retrospettiva (quella di Wu Ming) che racconta dell’esistenza di veri e propri collettivi di uomini e donne in grado di produrre un’elaborazione del presente, oltre alla mera e verace azione sovversiva. La Gran Pinta, l’osteria del foborgo, sosteneva le azioni di Scaramouche, giustiziere mascherato prima contro gli speculatori e poi contro i moscardini. Marie Noizère, la sarta, decideva di alzare il livello del suo impegno civile e politico seguendo le amazzoni di Claire Lacombe, vero e proprio braccio armato di un organo di stampa come L’Ami du peuple, diretto da Maràt, poi da Lecrerc, soppresso infine dai giacobini al potere. Insieme a Georgette e alle altre donne di Sant’Antonio , Marie si era presentata più volte alla sbarra della Convenzione per richiedere il maximum sul pane, individuando nei girondini di Brissot i nemici, in Robespierre l’arbitro incorruttibile, in Maràt l’alleato. Il dottor D’Amblanc, impersonificazione della borghesia buona, quella che si schiera dalla parte dei vinti, cammina al fianco di Mariè e Lèo e con loro forma un sodalizio egualitario, orizzontale, in cui forze e competenze vengono messe al servizio di un obiettivo comune.
Wu Ming pone l’Armata dei Sonnambuli come manifesto definitivo della propria ventennale esperienza letteraria e politica. Annulla una volta e per tutte la diversità ontologica con cui gli storici ufficiali diversificano la rivoluzione borghese dai moti plebei, unificando il conflitto in un unico indistinto momento insurrezionale in cui tutte le parti in causa sono coinvolte consapevolmente e mobilitate in maniera attiva per il raggiungimento dei propri interessi. Per le due ragioni fin qui esposte. La rivoluzione, abbiamo detto, non ha fine, è essa stessa il fine. Una rivoluzione che si definisce compiuta altro non è che un nuovo ordine, con nuove gerarchie e nuove discriminazioni. La Storia, non Wu Ming, ce lo insegna. La plebe, abbiamo detto, non colpisce mai a cazzo. La plebe, abbiamo detto, il suo calcio nei coglioni sa sempre a chi assestarlo.
“L’applauso del pubblico abboccò alla pausa dell’oratore. Una giovane merdegliosa si spellava le mani proprio ad una spanna dall’orecchio di Bastien. Il ragazzino la guardò, tutta brillocchi e merletti, e decise di non unirsi all’entusiasmo generale. Il discorso contro la tirannia e i dittatori gli era piaciuto, ma se piaceva pure a una così, allora doveva esserci qualcosa di storto.”
(L’Armata dei Sonnambuli – Wu Ming)
[Spoiler]
-Ah, dunque è di questo che mi si accusa! – disse Destouche(s ?) sghignazzando di gusto. (p. 614)
vale come botola? :-)
[Spoiler]
Evvai!!! :-D
Sei il primo ad essersene accorto *leggendo*.
Il compagno Casarotti se n’era accorto *ascoltando*.
[SPOILER] È giovedì pomeriggio: sto leggendo L’Armata dei Sonnambuli e m’imbatto in un personaggio che cambia nome. Una sola volta. Lo cambia in quel modo…
È come penso io?
Questo tread non è ancora aperto. Chiocciolare i Wu Ming su twitter per chieder conferma? Manco a parlarne! Metti che gli rovino qualche gioco a enigmi e quelli s’incazzano… Mando una mail.
WM1 mi risponde dandomi del segugio.
Bene, devo rimettermi a lavorare e per ora chiudo il libro, felice d’averci visto giusto (che nel mio caso èun’espressione più che mai traslata).
Qualche ora dopo: ho sbrigato il lavoro e posso rimettermi a leggere. Scorro le pagine e… guarda le coincidenze, c’è l’immagine di un segugio anche nel romanzo! E nel romanzo il segugio… Ho un brivido… Cos’avrà voluto dire WM1 con quel paragone?
Sì, ovviamente il commento andava nel sottotread che comincia con Tuco. Accidenti alla sintesi vocale. Lo so che il commento è troppo breve, wordpress, non c’è bisogno che me lo ricordi.
[spoiler] ditemi solo che nel gioco di specchi non ci si ritrova riflessa anche l’epigrafe apposta dal buon Sorrentino alla sua grande fortuna, o potrei perdere il sonno… ;)
[Spoiler] Puoi dormire tranquillo :-)
Anche se quella chiusa, dell’epigrafe da Viaggio al Termine della Notte, ci sta mica male: specie nel rotolar di teste atteso, è proprio sul rapporto tra “invenzione” e realtà storica (all’opposto del Destouches-Céline) che si gioca la vostra posta, mi pare ;-D
Ok, règaz, è ufficialmente arrivato Anubi! :-D
[Spoiler] Ehi, garzi, a proposito: sanguediddio che manoscritto avrete poi, voi, della Histoire de la conjuration des Égaux dite de Baveux del Buonarroti? Perché a mia memoria il vecchio Camillus non l’ha mai scritta quella roba lì sullo Scaramouche citato dall’accusa: eppure regalati una copia del 1850 al Berty, andando a prenderla a Nizza, un volta… ;)
S’intenda “eppure regalai”, non “regalati”, negoddio… Dev’essere che solo al citare lati autobiografici così oscuri, finisco per auto-punirmi.
Perdono e pietà!
E, ovviamente, per Baveux intendasi Babeuf. Qui non so se c’entra l’autopunizione, di sicuro invece c’entra la scrittura veloce sul porco smartfono.
Sparate pure.
Scrivete [Spoiler] all’inizio dei commenti, cazzo, non possiamo aggiungerlo noi ogni volta! >:-I
[spoiler] piu’ che giochi a enigmi per me sono “buche del coniglio”, botole che si aprono e ti fanno viaggiare nel tempo. svelano passaggi segreti, permettono di scoprire tracce nascoste nel sottosuolo della storia.
sei a parigi nel 1794 e incontri un medico che si chiama destouche. vive in un tugurio. ghignando, ti dice che dare la caccia ai controrivoluzionari non va piu’ di moda… e di colpo ti ritrovi a vichy 150 anni dopo.
oppure di notte sorprendi tre muschiatini che scrivono su un muro “viva l’a…” – e po’ bon, tagli corto. e ti ritrovi a trieste nel 2013, dove altri sonnambuli riempiono le strade…
[Spoiler] ah, bon Tuco, allora go capido anche mi!
(comunque i sonnambuli tergestini si stanno beccando una bella scossa ‘sti giorni…)
[spoiler] Insomma, diciamo che tra le teste illustri che rotolano nel Quinto Atto c’è persino, e ad opera di Scaramouche in persona, quella del povero Filippo Buonarotti che pure dal processo agli Uguali scampò la chiorba e fu anzi in seguito uno dei cospiratori più longevi e durevoli della storia? Non che qui si dia per ghigliottinato, ma la Gran Signora mi pare si abbatta sul suo sacro testo – appunto la Storia della Congiura degli Uguali detta di Babeuf – facendone apparire un altro dal quale ci fa marameo il rostrato naso dello Scaramuccia ;)
Ho apprezzato molto il libro, che mi sembra un’opera letteraria di valore.
Mi sono divertito a scoprire che l’eroe mascherato Scaramouche, nel piano della realtà romanzesca, poteva essere immaginato da alcuni popolani di Parigi come il Paperinik con le molle ai piedi della mia infanzia… La parte del romanzo che mi è piaciuta di meno, e che mi ha un po’ turbato (ma si tratta di un turbamento ambivalente, negativo sì ma non solo negativo, come cercherò di chiarire in un altro appunto), sta all’interno del vertiginoso Atto quinto (che malgrado questo ho molto apprezzato) ed è proprio la finzione inoculata all’interno di alcune fonti “vere” prodotte da personaggi storici “veri”.
TDL scrive: “Di certo la costruzione finzionale di una fonte documentaria è attestata da esempi. (…) Esiste anche una genealogia interna alla fiction narrativa che attesta questo tipo di cortocircuito tra vero e falso: recensioni di libri finti, il tropo della biblioteca o quello del labirinto, biografie di personaggi inesistenti, e via dicendo. 7) Nel caso di Wu Ming, questo tipo di pratica sposta in avanti – o altrove “.
Ora mi chiedo: queste finzioni romanzesche, che si inseriscono all’interno dei documenti storici “veri”, e in parte li modificano, si trovano anche negli Estratti?
E proprio ora mi accorgo, bricconi (o è un refuso?), che, per esempio, le Osservazioni mosse al dipartimento dei Lavori pubblici dai cittadini… (pag. 551-552), firmate anche da un certo Treignac, non sono un Estratto.
In linea di massima (!), gli “Estratti” – come sezione – sono tutti documenti d’archivio. Di solito, se non viene specificato che il testo è un “estratto”, è perché lo proponiamo integrale. Oppure perché, trattandosi di una canzone, la traduzione è molto libera, allo scopo di mantenere metrica e rima. Oppure perché c’è qualche piccola interpolazione (nel caso che citi, solo la firma “Treignac”). Oppure, almeno in un caso, si tratta di un refuso, e ci siamo scordati di scrivere “Estratto da…”. Quindi non la prenderei come regola d’oro ;-)
[spoiler] A proposito di teste illustri che rotolano o saltano nel Quinto Atto… Armand Chauvelin, ad esempio: ma non ci sono eredi della baronessa Orczy, vero? ;-p
[Spoiler] Noi abbiamo già dato, adesso sta a voi scrivere l’atto sesto :-)
[Spoiler] Eh, stavo giusto compulsando la lista dei giacobini proscritti e deportati da Napoleone dopo l’attentato della rue Saint-Nicaise, “la cospirazione della macchina infernale”: ci si trova una messe di figure del faubourg Saint-Antoine e degli altri come della Commune del 10 Agosto (compresi commissari civili e di polizia…) trascorse dall’universo sezionario dell’Anno II censito da Soboul alla resistenza e alla persistenza cospirativa sotto Termidoro, Direttorio e Consolato. Fino a Rossignol, ovviamente deceduto certificatamente ad Anjouan. Ma fini ad altri, diversi e non meno rilevanti, che effettivamente riuscirono a fuggire dalle Seychelles. E fino un vegliardo come Julien Leroy, detto Églator, istitutore della Sezione de Les Invalides ed… economo di Bicêtre ;-)
La verità è che quella storia ha già scritto più Atti Quinti di quanti Atti Sesti possano pensare di completare!
[Spoiler] Eh, vallo a dire al povero Di Paolo, e a Tuttolibri che gli pubblica le recensioni :-))))
Non dimentichiamo che TTL è lo stesso foglio che pubblicò, senza colpo ferire, una rece di Barilli a #Timira, tutta impostata sull’idea che “Wu Ming 2” fosse la “fase 2” del collettivo WM. Nemmeno il più raffazzonato dei blog culturali fa sfondoni così eclatanti…
[Spoiler] Appunto, l’ho detto apposta… ;-D
E comunque Di Paolo, nel suo buio, si è perso vari piaceri: per esempio constatare che le “fonti verificate” si ritrovano nell’Atto quinto in particolare nel capitoletto del Delfino, cioè nel frame… realista. Le “fonti verificate”, cioè, sul panopticum delle teorie del complotto e del “verosimile” in duello col vero. Che è una chiave di lettura, malignamente presentata in un punto “politicamente” paradossale, dell’intera sfida narrativa. E si è perso anche il piacere complementare di constatare che il “vero” o verificato, nell’Atto quinto, si ritrova particolarmente al “lato opposto”, cioè nella documentazione delle vicende post-termidoriane di Pauline Léon e Teophile Leclerc. Con le parole del personaggio finzionale del cui compagno, Jacques Roux, ci si potrebbe infine rivolgere ai recensori manichei, tra gli altri: “Quando capirete, in fine, uomini?!” ;-)
Anubi, svitoddio, te li amputo quei polpastrelli se continui a non scrivere “Spoiler” all’inizio!
La prossima volta, anziché aggiungerlo io, ti scateno contro Saint-Just!
[Spoiler] @ Anubi
Se il citoyen Armand Chauvelin non è più il villain Vs la primula rossa, ma il suo rovescio (nelle botole a volte si cade a testa in giù, no?), Laplace non può che essere una “Primula Nera” ;-)
[Spoiler] Assolutamente così, caro Giro! D’altra parte i Wu Ming ce lo suggeriscono quando rendono immediatamente simpatetico Léo-Scaramouche, che è una primula “terrorista” del basso-fondo, con la rivelazione di D’Amblanc su Yvers-Laplace.
E d’altra parte, ancora, l’Armand Chauvelin alter ego antagonista della Primula Rossa era già statoun semi-rovesciamento dello Chauvelin storico, che fu un gran pezzo di girondino e anzi anche un po’ fogliante che assurde a potente proprio con Napoleone, come terrorista sì ma contro la resistenza in Catalogna dove fu prefetto terribile. Mebtrer er la Orczy che del lersonaggio finzionale suggerisce una fine simile a quella “documentata” dai Wu Ming nell’Atto quinto ;-)
Era: “Mentre è la Orczy ecc…”. Maledetto mobile!
E niente: faccio silenzio per un po’ ché i miei 43 anni segnano il passo con la digitazione veloce, scusate ancora :/
[Spoiler] @ Wu Ming: Ma bisogna scrivere [Spoiler] sempre sempre, anche nelle repliche ai commenti sui post intestati come [Spoiler]? ;-p
[Spoiler] Sì, perché è a beneficio di chi segue Giap via Twitter. Se non scrivi “Spoiler” nessuno riesce a distinguere i commenti di questo thread da quelli dei thread “innocui”. Avvertire chi non ha ancora finito il libro è buona creanza, così non clicca il link e non si ritrova in una discussione dove si rovinano un sacco di sorprese.
[Spoiler] Ok ok, adesso mi è chiaro e non me ne dimentico: cassare pure i replay in cui invece l’ho fatto, se presentano quel rischio.
#Spoiler Marie = uguaglianza; D’Amblanc = fraternità; Scaramouche = libertà
Libro ricco di dettagli e sono i dettagli a fare la differenza, Viva l’A e pò bon…troverete anche questo ed i triestini capiranno.
E’ anche il libro del riscatto delle donne, cosa per nulla scontata e poco studiata durante il periodo della rivoluzione francese!
Sarà una donna controrivoluzionaria a fare fuori Marat, sarà una donna rivoluzionaria, il simbolo della lotta per l’affermazione dello spirito laico della rivoluzione, quella rivoluzione che non tanto la mesmerizzazione scientifica controrivoluzionaria con l’armata dei sonnambuli ha cercato di compromettere, ma la mesmerizzazione sociale figlia di illusioni e della paura di ritornare al passato, che ha permesso alla ghigliottina di decapitare Danton, Robespierre e fratello Augustin, assieme a Saint-Just, Couthon e tanti altri rivoluzionari.
Una paura che ha aperto la via al terrore bianco. Paura che è stato strumento, peggiore della ghigliottina, per la reazione della borghesia al potere del popolo non poi tanto sovrano di se stesso.
Un libro complesso, che ha necessitato di studi approfonditi e probabilmente complessi, ed alla fine i veri rivoluzionari erano quelli che hanno vissuto sulla propria pelle lo sfruttamento dei padroni, la violenza padronale, la diseguaglianza tra l’essere donna e uomo, la fame, l’impunità della casta dei preti.
Farina pane e diritti doveva essere il motto del popolo, farina pane e diritti è stato il motto che ha condotto il moto rivoluzionario di quella libertà, uguaglianza e fraternità colto da tre figure simbolo, come citate in premessa, d’altronde le rivoluzioni non si fanno con i fiorellini, e quando hai un sistema che tutela l’ordine e la reazione, illudendo il popolo con belle parole e principi ma non attuati perchè il governo per essere rivoluzionario doveva essere costituito da rivoluzionari, e così non è stato dopo la decapitazione dei simboli della prima rivoluzione, quale alternativa per evitare una situazione gattopardiana?
Una riflessione sociale attuale che ben spiega la forza ma anche la debolezza del popolo e cosa voglia significare porre a disposizione del popolo uno strumento di morte come la ghigliottina, che alla fine dei conti ha decapitato più teste rivoluzionarie che della borghesia od aristocrazia…e ciò vorrà pur dire qualcosa.
Ps
se questo libro, prima ancora delle recensioni, ha avuto il successo che tutti conosciamo, è perchè forse in Italia vi è una piccola ma crescente voglia di rivoluzione?
Chissà…
mb
[Spoiler] ..Mb..direi che la scommessa è questa…se si è riusciti a raccontare in modo così efficace e persino mirabile..il rapporto Giacobini,arrabbiati, hebertisti… ed incredibilmente anche a vincerci sopra uno scommessa commerciale vuol dire che di atti Sesti se ne possono ancora scrivere tanti…
La terrificante macchina giacobina continua a lavorare anche in fase di Termidoro..
Infatti, e dunque altro non può che aggiungersi…Viva il Sesto Atto…quello che dobbiamo noi tutti insieme scrivere, vivere ed un giorno raccontare con lo spirito di Marat, Marie,Scaramouche, Viva il sesto Atto…
..Ed anche con quello del buon Robespierre e dei Giacobini..anche se il romanzo ne mostra , giustamente, il rapporto ambivalente con i sanculotti.. e il foborgo
Siamo tutti Scaramouche..
Sangueddio, scrivete [Spoiler] all’inizio dei commenti!
[Spoiler] pensavo che nella replica alla risposta del commento fosse automatico il collegamento allo spoiler del commento principale…insomma una roba contorta…mio errore merd
[Spoiler] I complimenti a due di voi li ho fatti a voce, ma li rifaccio. Bello, fighissimo, più bello di Q. Ho riso fino alle lacrime in alcuni momenti (la scena di Leo e del cannone continuerà a farmi ridere a crepapelle anche alla decima rilettura) e letto con il cuore in gola in altri. Le ultime trecento pagine le ho divorate in un pomeriggio e una serata, senza riuscire a staccarmi dal libro, e il quinto atto l’ho letto con una sensazione di vertigine, non tanto perché quei personaggi potessero ora sembrare più veri di prima, ma perché quell’atto mi chiedeva di seguirli ancora, per anni e anni – se non per tutto il resto della loro vita – aprendo storie su storie, coni d’ombra su coni d’ombra, e lasciandomi con la sensazione di avere per le mani un libro ben più voluminoso di quello che pensavo, che conteneva molti più tempo e luoghi. Qui c’è Tolkien di sicuro, con le sue appendici :)
Qualche parola su Marie Noziere. L’adoro. L’adoro perché mi piacciono i fumetti, e lei è una supereroina stracciona e rosa dalla vita proprio come sono i supereroi nei fumetti belli, che cadono in basso che più in basso non si può, e poi riescono a risalire, con la voglia di riscattarsi, perché di mazzate la vita non gliene darà mai abbastanza da abbatterli. E voi avete fatto vivere questa parabola, che nessun Frank Miller si sarebbe sognato di regalare a una donna – ma che anzi avrebbe condito, appunto, del peggiore superomismo, con la sua esclusività, il suo appartenere ai pochi veri eroi, quelli a cui il mondo da le spalle ma che comunque rimangono della loro idea, che sono sempre invariabilmente uomini – proprio a una donna, e per di più del popolo. Una di quelle destinate ad essere ricordate nel gregge, indistinguibili come individui, gregarie per forza, e ricordate solo se grandi sante o ancora più grandi puttane/infami/assassine. Donne del popolo di cui non si conoscono i pensieri, le parole, le idee, perché non scrivevano e, salvo i casi citati sopra, non attiravano le penne altrui.
(Che poi anche quando scrivevano, come Mary Wollstonecraft – il nome c’entra qualcosa? Immagino c’entri di più Marianna -, finiscono dimenticate per secoli e anche quando vengono tirate fuori finiscono solo sugli scaffali delle librerie delle donne)
Un enigma. La sconosciuta su cui non si scervella mai nessuno, che persino (anzi, soprattutto) quando piange un caduto per la patria è solo un cuore di donna tra i tanti, che deve, dopo la perdita, battere solo nel dolore e nel ricordo. Marie no. La vita di Marie va avanti dopo uno stupro, dopo la nascita di un figlio, dopo la morte dell’amato, dopo il fallimento, dopo la separazione da suo figlio, dopo essere diventata disfatta e rugosa ed essere invecchiata troppo presto, senza l’unica cosa che da dignità a una donna che invecchia: la dedizione totale agli altri.
E, cosa più bella di tutte, sceglie di rivoltare contro i propri nemici l’accusa di essere poco più di una bestia, incapace di fare politica per sé, portatrice di istinti animali da governare, buona solo a sgobbare con gli spilloni da maglia. Lei, quegli spilloni da maglia, li trasforma in artigli da Wolverine ed è con quelli che il nemico verrà sconfitto.
Diceva Virginia Woolf: “La storia dell’opposizione degli uomini all’emancipazione delle donne è forse più interessante della storia stessa di quell’emancipazione”. Secondo me vale anche per i personaggi. Più di ogni commento su Marie sono probabilmente interessanti le recensioni e i commenti in cui di lei, che pure è quella che sconfigge Yvers, non si dice proprio nulla, o la si riduce all’erotismo che vive o suscita.
Però voglio qui inoltrare un reclamo a voi Wu Ming. Perché io del sesso nelle fatali vasche da bagno citato da Deaglio non ho proprio trovato traccia. E sono giunta all’unica conclusione possibile: che a lui abbiate dato una versione VM18 dell’Armata dei Sonnambuli che a noi lettori comuni non è dato di leggere! Perché? Non è mica giusto!
[Spoiler] Quella sul «sesso nelle vasche da bagno», come la gaffe sui «titoli di coda», è il genere di cosa che si scrive quando si recensisce un libro avendone letto solo dei pezzi, tirando a indovinare :-)
Grazie, bellissimo commento, ed era ora! Marie, come abbiamo detto a Fahrenheit, la riteniamo il personaggio centrale e cruciale, eliminarla dalle recensioni mainstream è un atto politico, che l’artefice (sempre maschio) ne sia consapevole o meno.
[Spoiler] In effetti c’è una scena in una bagnarola, ma… senza sesso. ;-)
[Spoiler] Tra l’altro devo dire che ho apprezzato moltissimo le scene di sesso (poche ma buone), io che di solito le odio nei libri. Perché trasmettono urgenza, leggerezza e divertimento senza il carico di pathos e mistero e cazzate che le rende di solito indigeste e banali (ne ricordo una agghiacciante anche in Q devo dire…)
Sarà un caso, ma in concomitanza col sesso nella tinozza un altro libro sta patendo un’analoga pruriginosa leggenda metropolitana: sunt qui dicunt che ne “I buoni” di Luca Rastello ci sarebbe una pruriginosissima relazione sessuale nascosta tra due personaggi, la più giovane e il più anziano del libro. Benché smentita dall’autore – che a giusta ragione la indica come indizio di lettura malfatta, o di seconda mano [e confermo: non c’è, ed è anche chiaro perché non potrebbe esserci] – la relazione viene riportata in altre recensioni. È l’inconscio, bellezza, d’accordo: ma non sarà che hanno nella testa un maledetto youporn? (e quindi calo della vista, ed eccesso di peluria sulle mani che vela il libro?)
[Spoiler] Da quel che inavvertitamente di sé svela un sì zelante recensore sarebbe piuttosto la di lui vasca che potrebbe parlare (e mica ci si può sempre aspettare che lo faccia un sopha). L’impressione è che si stia attentissimi a non risolvere in sesso la scena della vasca da bagno con acqua riciclata, come in generale quelle di Marie con le repubblicane giacobine. Molto intelligentemente, del resto. Poi cosa accada a Nantes è lasciato all’immaginazione.
[Spoiler] Sollecitato da un intenso scambio di tweet con @danffi in merito alle figure femminili nella letteratura di Wu Ming, intervengo su questo commento di Adriana condividendone, al maschile, l’entusiasmo e la passione che mi ha suscitato il personaggio di Marie Nozière.
La Molly Brant di Manituana ha aperto questa strada, ma rimane pur sempre un personaggio storico.
Della vera Marie invece sappiamo solo le poche righe citate del quinto atto, e questo mi porta a sottolineare la capacità dei nostri nel costruire il carattere, la parlata, i sentimenti della magliara del foborgo di Sant’Antonio.
Marie è l’antieroina della vicenda, dalla vita non ha avuto altro che violenza e dolore, non è la predestinata, in questo senso è l’opposto anche di Giovanna d’Arco.
La rivoluzione le offre la possibilità di dire la sua, di prendere le armi e la parola, insomma di prendere coscienza come si diceva negli anni sessanta.
Non che le donne in passato non l’abbiano fatto, penso a Ipazia per la filosofia o alle donne protagoniste delle jacqueries, ma se per la grande scienziata di Alessandria d’Egitto si trattò di percorso individuale, per le contadine francesi fu solo un istinto di rivolta immediato, quanto spesso velleitario.
La donne delle Tuleries, dei foborghi, assumono invece consapevolezza politica, parlano di tasse, di economia, con la pancia e con il cuore.
Si confrontano con i “maschi” senza timore, subendone ancora soprusi, ma senza rassegnazione.
Marie non consegna nulla ad un ipotetico domani carico di speranza, rifiuta il ruolo che la chiesa ha affidato nei secoli alle donne, ovvero di depositare di speranza future e per questo è un personaggio che incarne tutte le donne del popolo parigino.
[Spoiler]
“Della vera Marie invece sappiamo solo le poche righe citate del quinto atto”
A rigore, manco quelle :-)
[Spoiler] Eh sì, se no a rigore dall’Atto Quinto sapremmo anche del “vero” Armand Chauvelin, della “vera” Repubblica africana dei Giacobini deportati fuggitivi, del “vero” paziente Laplace à a Bicêtre, del “vero” Bastien, del “vero” passaggio della Congiura degli Eguali detta di Babeuf di Buonarroti su Scaramouche e sul “vero” foglio omonimo della Commune del 1871… ;-)
[Spoiler] Senza entrare, almeno per ora, nel discorso sulle differenze (e diverse legittimità) di verità “artistica” e verità “legale”, e dei loro rapporti dove fiction e non-fiction vengono a ibridarsi, sai quanto me che alcuni dei “vero” da te messi in fila – e i relativi corollari – potrebbero andare senza virgolette :-)
[Spoiler] Ah, mi sa che qui non l’avevamo ancora segnalata: la rece di Lou Palanca 2 è una delle migliori scritte sull’AdS:
http://terraelibertacirano.blogspot.it/2014/05/scaramouche-contro-larmata-dei.html
Ne sono uscite svariate, nelle ultime settimane. La prossima settimana pubblicheremo un nuovo florilegio con link.
[Spoiler] Tra l’altro, molto intrigante il collegamento tra i muschiatini del romanzo e i fascisti reggini di Ciccio Franco, del “Boia chi molla!” ecc.
[Spoiler] Ci son più cose in cielo e in terra, Orazio, che non sogni la tua filosofia…
E il “vero” è sempre filosofico, certo.
;-)
[Spoiler]
Ecco, questo è il punto, secondo me. Cosa è “vero” e cosa no, nell’Armata dei Sonnambuli? Cosa significa parlare della “vera” Marie (ma anche del “vero” delfino di Francia)? E come questa “verità” influisce sul patto tra autore e lettori?
(ci sto ancora pensando…)
corretto….mi sembra che anche Manzoni parlasse di vero e verosimile, ma il suo distacco come narratore non rendeva la vicenda così “vera”.
A proposito di Manzoni, mi sa tanto che al livello linguistico, avete fatto il procedimento contrario, ovvero partendo da “Q” vi siete sempre di più ibridati fino a immergervi nel Reno bolognese. (Lou Palanca 2)
[Spoiler – Spoiler anche di 54] Sull’Atto Quinto: a dire la verità, è vero che io non sono particolarmente sveglia (soprattutto se arrivo alla fine di un libro alle 3 di notte…) ma se non avessi sentito in diverse presentazioni/anticipazioni che i personaggi principali sono immaginari, mi sa che avrei preso tutto come fonti autentiche… Anzi in realtà, all’inizio a ogni pagina mi dicevo “Ah! ma pensa che storia, chissà come han fatto a scovarlo questo!” :D
Sul finale dell’atto quarto: non sono una fan dei climax con troppa azione e troppi colpi di scena. In questo caso mi è piaciuto proprio per il contrasto con tutto il resto, l’ho letto come un omaggio alla narrativa/cinema/bd che qualcuno definisce *di puro enterteinment* anche se poi puro non è mai.
Grazie grazie grazie che per una volta non avete fatto morire male i miei personaggi preferiti (ancora non vi ho perdonato per Totore a’Maronna). Basta con questa moda che i lieto fine sono da mezza sega.
NdA: siccome punto_fra è un po’ franzosa (per residenza e anche per origine ducale), quando scrive “bd” credo debba intendersi “bande dessinée”, ovverosia “fumetto”.
[Spoiler] Prima di osare una sola parola dovrò rileggerlo almeno un’altra volta. Sono ancora senza fiato.
Tuttavia, senza riflettere troppo, colgo l’assist di punto_fra sul finale atto quarto. In ogni vostro romanzo ho trovato, a distanze diverse dal traguardo, *un* punto centrale che mi intòrcola le budella e mi fa venire il groppo in gola. Di solito è il momento nel quale, a mia sensazione, la scrittura ha più forte il puzzo dell’essere umano, di come nel bene e nel male funziona la nostra testa (la nostra, quella di tutti). In Manituana per esempio, è la frase che pronuncia Philip quando decide di non seguire più Joseph nella “lotta armata”.
Stavolta (perfidi che siete) è proprio quella scena: è il modo in cui Marie non riesce a fare sconti a nessuno, nemmeno a suo figlio, non avendoli mai fatti a se stessa. E come nella vita vera, nelle guerre, nelle carestie, nelle disgrazie, i bambini sono le prime vittime. Bastien che non avrà mai in vita sua la possibilità di capire il rifiuto di sua madre, quindi condannato a una infelicità perenne. Il delfino condannato in nome del sangue che ha in vena e che non ha scelto né probabilmente capito.
La madre che da qualche parte è in me, che sono un padre, si ribella e si contorce. Ma la vita è così che funziona, poche balle.
Avete rinunciato alla risoluzione del conflitto, a una ricomposizione qualsiasi, a un arrivo in porto. Come dire la Rivoluzione potrai farla sempre e solo dal vivo.
Non bastava la lucidità. Ci voleva del bel coraggio.
[Spoiler] scusatemi: vedo solo ora l’intervento di Ratio sullo stesso tema, più o meno.
Nel frattempo mi sono ricordato che avete citato spesso Novantatrè di Hugo come riferimento per AdS, e che là i bambini, invece, alla fine vengono salvati proprio dal “cattivo”…
Ottimista, Hugo.
[Spoiler] scusate se insisto: c’è anche un altro precedente, in Altai, quella che per me è *la* scena centrale: quando durante l’assedio i “nostri” riescono a salvare un bambino, rammaricandosi poi di non essere riusciti a fare niente di più. Il Vecchio li consola (cito a memoria): avete fatto tutto ciò che si poteva fare.
Uno scrittore giovane e senza figli non so se si farebbe venire in mente di affidare ai bambini gli svincoli della storia.
[Spoiler] Ho notato che si parla spesso del ruolo della donna in questo romanzo e ci si indigna per la mancata considerazione dei “recensori” nelle pagine culturali.
Vorrei porre un accento, una riflessione anche un po’ banale, invece, sul ruolo dei “figli” della rivoluzione.
Nel trittico Bastien, Luigi Carlo e Jean dell’Orso non ho potuto far a meno di notare l’abbandono subìto da parte delle figure genitoriali, sia coatto che voluto. Piccoli personaggi che nonostante usati, vessati, traditi, sfuttati, manipolati, spiccano per dignità e saggezza e sembrano aver capito perfettamente il Momento Storico in cui vivono. Sono perfettamente coscienti dello Zeitgeist. Emblematica la frase di Bastien sull’applauso della Mervegliosa.
Ho odiato (nel senso buono) la lucida immaturità di Marie, il distacco di Yvérs, i dubbi e i rimpianti di D’Amblanc e l’egoismo adolescenziale che accomuna i tre. Mi è sorta una riflessione ovvero: c’è una sorta di egoismo nel fare la rivoluzione? La rivendicazione del tutto e subito dei padri distrugge il futuro dei figli? Spesso sì, come ha dimostrato la storia.
Vorrei sapere se quella di utilizzare i bambini in questo modo sia una scelta voluta e ponderata o sia nata inconsciamente (o magari ho dato un’interpretazione totalmente fuori fuoco). Meglio, mi piacerebbe scoprire le vostre motivazioni dietro questi personaggi.
Ci sono altre riflessioni che questo meraviglioso romanzo mi ha regalato e sto cercando di metabolizzarle. Aspetto che sedimentino.
Posso dire di aver amato la linea narrativa di Leo Modonnet\Scaramouche, il folk hero, lo scavezzacollo, il rodomonte e di aspettare uno spin-off interamente dedicato a Treignac (altro grandissimo personaggio) e Bastien quarantasettenne sotto le Tuileries.
[Spoiler] Basta, tradisco subito la falsa promessa d’una pausa perché voglio quotare subito la domanda sui bambini (e speriamo che lo smarfono non mi faccia fare altre figure barbine).
I Wu Ming sanno via Twitter che, sarà per la comune condizione genitoriale, ho adorato da subito quella triade di figure infantili e la loro posizione centrale tra le chiavi di senso della narrazione. Peraltro una triade maschile di solitudini bambine, di “abuso” e “abbandono” e domanda muta (in-condizionata) d’amore nell’ostinazione vitale come sola risorsa di resistenza: cui fa da contro scena una quasi simmetrica pluralità di figure infantili femminili, tutte invece – in qualche modo e in modi tra loro opposti – poste in continuità con la riapertura del “secolo” al ruolo delle Amazzoni.
Piacerebbe anche a me che Wu Ming ce ne dicessero qualcosa in più.
[Spoiler] anzi, [Superspoiler]: Provo a dire qualcosa sull’affaire bambini. Premetto che non abbiamo scritto il romanzo dopo lunghe riflessioni su questi temi. Ciò che è saltato fuori lo elaboriamo anche noi ora, insieme a voi.
Innanzi tutto c’è una corrispondenza tra i tre bambini maschi. Hanno provenienze molto diverse: il figlio dell’abuso di un aristocratico su una donna del popolo; il figlio del re; il figlio di una famiglia contadina rimasto orfano. Tutti e tre rimangono orfani (in fondo anche Bastien perde la genitrice, benché lei non muoia) e trovano delle figure genitoriali sostitutive. Figure maschili (nessuna Molly Brant all’orizzonte, per chi ha letto Manituana).
Bastien trova Treignac. Jean trova prima d’Yvers, poi D’Amblanc. Luigi Carlo trova D’Amblanc. Mi sembra evidente che la riflessione sia piuttosto sulla paternità, anziché sull’infanzia in quanto tale. Una paternità non biologica, bensì acquisita, scelta, derivata da un’assunzione di responsabilità davanti ai soprusi, agli sconvolgimenti sociali, alla straordinarietà rivoluzionaria. Perché – come narrava magistralmente Hugo in Novantatré – se la rivoluzione è tutto e subito, una scommessa assoluta con la Storia, un riscatto dal passato, è soprattutto in nome dei posteri che la si contrae, ovvero di una nuova generazione che sarà il banco di prova dell’avvenuta trasformazione. E si potrebbe aggiungere che è in nome dell’umanità e della carità dimostrata verso i bambini che si verrà giudicati, come appunto accade al grandioso “cattivo” di quel romanzo, che è un nostalgico del vecchio regime, al contrario del nostro Yvers, che invece vuole andare oltre la rivoluzione, al di là del bene e del male.
Yvers ha un rapporto utilitaristico e perverso con i bambini. Non crede nell’educazione, per lui i bambini sono soltanto esseri deboli, inferiori, quindi malleabili. E prima di approdare a Jean ha sotto mano due femmine: Noèle e Juliette. Sulle quali lascia un segno molto forte. Stuprerà una delle due – come aveva stuprato Marie – e costei, a sua volta, stabilirà un rapporto perverso con la figlia Margot. Il rapporto Juliette/Margot è lo specchio ribaltato di quello Marie/Bastien. Ma anche Noèle subirà uno stupro, ancorché non da parte di Yvers, ma in qualche modo in conseguenza dei trattamenti e delle violenze psichiche subite da quest’ultimo. Ecco, Yvers è un non-genitore, ovvero un genitore tirannico e impositivo, dotato di un ego ipertrofico, per il quale l’altro da sé non è nulla. Forse proprio per questo non può essere né un rivoluzionario né un conservatore/restauratore.
Gira e rigira si potrebbe tornare alla celebre intervista a David Foster Wallace di cui si parlava in New Italian Epic (a proposito degli sfondoni di Di Paolo, ma quello sul NIE com’è? :-D ). Noi dobbiamo essere i genitori, diceva DFW. E nel nostro caso, i padri, dato che inevitabilmente, direi, l’elemento monogenere del collettivo si fa sentire.
Mi rendo conto che questa mia riflessione potrebbe tagliare fuori la protagonista femminile. Fatto salvo che non credo che Marie sia un personaggio “positivo”, bensì “implosivo”, c’è da considerare che – come ha già fatto notare qualcuno proprio qui – lei subisce i rovesci più grandi. Il personaggio che più incarna lo sconvolgimento rivoluzionario è proprio lei. Lei che decide di perdere il figlio, per seguire l’onda della rivoluzione, dovunque la porterà. Io non riesco a non volerle bene, lo confesso, non riesco a non amare Marie Nozière proprio per il salto (anzi, i salti) nel buio che compie. La sua è una vita segnata da una violenza originaria. La sua maternità è un’imposizione, quasi una condanna. Ecco quindi che per lei la rivoluzione è rinunciarvi, concedersi di essere un’altra, per “una sacrosanta smerdissima volta”.
Ma non vorrei dimenticassimo una seconda madre mancata, che subisce la rivoluzione, assai più che viverla, ma che ha una sua importanza, a mio avviso: Cécile Girard. Là dove la violenza ha imposto un figlio a Marie, la natura ne ha invece negati a Cécile. Eppure forse ne acquisirà uno, come conseguenza della rivoluzione e forse addirittura come possibilità di riscatto dalla passività impostagli dall’epoca e dalla classe sociale.
Mi fermo qui, per ora, perché mi sembra di avere messo molta carne al fuoco. Ripeto: sono solo elucubrazioni ex post. Prendetele come tali.
[spoiler] Ai tempi in cui si discuteva, tra i tanti temi del NIE, della paternità, “tutti quanti” abbiamo letto e discusso del rapporto padre/figlio in “La strada” di Cormack McCarthy. Credo sia difficile, per chi ha letto quel libro, non aver interiorizzato quella relazione, e non aver fatto propri i temi della genitorialità, dell’orfanità, eccetera. E ancor più difficile è, credo, non far emergere questa interiorità, per uno che scrive.
[spoiler] atto quinto, lettera di Jean Courier: “possiamo soltanto cercare di illuminare la notte che ci circonda con il piccolo lume che reggiamo tra le mani” è “La strada” al 100%.
[Spoiler] Io vi amo. Leggendo questo thread mi sono precipitato a scrivere questo:
http://www.marianotomatis.it/blog.php?post=blog/20140428
Nessuna parentela diretta, solo strane, stranissime risonanze.
[spoiler] mi introduco brevemente per parlare del lato femminile di questa genitorialità così presente nell’AdS, perchè l’ho trovato molto interessante.
Capisco la difficoltà ad amare Marie, che è sicuramente un personaggio difficile e respingente (nel senso che non vuole farsi amare, mai, nè dal lettore nè dai personaggi), ma io ho trovato nel momento in cui sceglie di scacciare Bastien e nel passo in cui lo allontana una seconda volta delle risonanze emotive che mi hanno molto coinvolta e che delineano una figura femminile molto distante dallo stereotipo. Ciò che trovo veramente rivoluzionario in Marie è la sua capacità di scegliere la sorellanza invece che la maternità: un scelta di solito riservata agli uomini, nei quali la fratellanza è solitamente più positiva, più centrale e più osannata rispetto alla paternità.
Nel classico intrico di relazioni anche nei movimenti rivoluzionari che vuole le donne patrnalmente sottoposte agli uomini e maternalmente accudenti, Marie sceglie delle relazioni paritarie e le porta fino in fondo. Ecco, questa mi è sembrata la più forte critica ad una rivoluzione basata sulla fraternità che esclude e non vede le relazione di sorellanza. Ed è per questo che anch’io voglio bene a Marie, per questo spiraglio di libertà in mezzo a tutti i rivolgimenti che subisce.
(ero indecisa se postare qui o sotto adrianaaaa- abbiate pietà, è il mio primo post su giap, che per ora ho solo guardato, e sono contenta di dedicarlo a Marie)
[spoiler] Condivido il discorso sulla sorellanza e le riflessioni di WM4 sulla paternità. Personalmente ho trovato la scelta di Marie nei confronti di Bastien più di indirizzo che di abbandono. Mi sembra lei sia in grado cioè di trovare il giusto modo e momento per affidare il figlio alla sua nuova vita da adulto, con una prospettiva percorribile (cosa non scontata, in quel frangente) con un minimo di sicurezza (un lavoro, per esempio). 12 anni alla fine del ‘700 non sono i nostri 12 anni, del resto. In questo senso trovo la Marie anche molto capace di fare la madre.
Interessante il paragone con la vicenda di 93, soprattutto in merito a paternità e maternità.
Spero di non andare troppo fuori tema, del resto però sto rileggendo 93 da quando ho chiuso L’AdS, ed effettivamente le trovo due narrazioni che si tengono a braccetto (e credo con questo di fare un enorme complimento a wuming :-) ma i ragazzi sacroddio se lo meritano tutto).
Già che me li sono appuntati, riporto due frammenti di 93 che trovo bellissimi: il primo sul tema paternità (anche spirituale) che secondo me tocca le stesse corde pizzicate qui sopra da WM4; il secondo sulla potenza anche archetipale del materno e del Femminile in generale.
Visto che qui tutti hanno già letto il romanzo dei nostri gecchi, mi piacerebbe con questa mia poter contribuire ad invogliare alla lettura dell’ultimo romanzo di Hugo…:-)
“UNO SPIRITO PUO’ PROCREARE
Lo spirito allatta, l’intelligenza è una mammella. Vi è analogia tra la nutrice che dà il suo latte e il precettore che dà il suo pensiero. Qualche volta il precettore è più padre del padre, come spesso la nutrice è più madre della madre.
Questa profonda paternità spirituale legava Cimourdain al suo allievo [Gauvain]. Solo a vedere il fanciullo si inteneriva.
A ciò si aggiunga che sostituire il padre era facile, poiché il fanciullo non l’aveva più; era orfano; il padre era morto, la madre era morta: erano suoi tutori una nonna cieca e un prozio lontano.
[…] C’è ancora da aggiungere questo: Cimourdain aveva visto nascere il bambino che era stato il suo allievo. Il bambino, rimasto orfano piccolissimo, aveva avuto una grave malattia. Cimourdain, in quel pericolo di morte, l’aveva vegliato notte e giorno; è il medico che cura, ma è l’infermiere che salva, e Cimourdain aveva salvato il bambino. Non solo il suo allievo gli doveva l’educazione, l’istruzione, il sapere; ma gli doveva la convalescenza a e la salute; non solo gli doveva il saper pensare, ma anche il poter vivere. Coloro che ci devono tutto noi li adoriamo; Cimourdain adorava quel bambino.
Il distacco naturale della vita era avvenuto. Compiuta l’educazione, Cimourdain aveva dovuto lasciare il fanciullo divenuto un giovanotto. […]
Era sopraggiunta la rivoluzione; il ricordo di quell’essere di cui egli aveva fatto un uomo aveva continuato a vivere in lui, nascosto ma non spento, dalla grandiosità dei pubblici avvenimenti.
Modellare una statua e crearla è bello; modellare un’intelligenza e darle la verità, è più bello ancora. Cimourdain era il pigmalione di un’anima.
Uno spirito può procreare.”
(Pag. 102-103 ed . Einaudi Biblioteca Giovani)
” L’URLO DI ECUBA
[…] In un batter d’occhi la fiamma raggiunse il secondo piano. Allora, dall’alto, rischiarò l’interno del primo. Un vivo chiarore mise improvvisamente in risalto tre piccoli essere addormentati.
Era un grazioso viluppo di braccia e gambe intrecciate, palpebre chiuse, bionde testine sorridenti.
La madre riconobbe i suoi figli.
Gettò un grido spaventoso.
Quel grido della disperazione inesprimibile è solo delle madri. Nulla di più cupo e di più commovente. Quando esce dalla bocca di una donna, sembra una lupa; quando lo lancia una lupa, sembra di udire una donna. Quel grido di Michelle Flechard fu un urlo. “Ecuba abbaiò”, dice Omero.
[…] Non era più la figura di Michelle Flechard, era Gorgona. I miserabili sono i formidabili. La contadina s’era trasfigurata in eumenide. Questa villana qualunque, volgare, ignorante, incosciente, aveva preso d’un tratto le dimensioni epiche della disperazione. I grandi dolori sono una dilatazione gigantesca dell’anima; questa madre era la maternità; tutto ciò che riassume l’umanità è sovrumano; ella si rizzava là, sull’orlo del burrone, davanti a quell’incendio, davanti a quel crimine, come una potenza sepolcrale; aveva il grido della bestia e il gesto della dea; il suo viso, dalla cui bocca uscivano le imprecazioni, sembrava una maschera fiammeggiante. Niente di più straordinario del lampo dei suoi occhi inondati di lacrime; con lo sguardo fulminava l’incendio.
(Pag. 293 ed. Einaudi Biblioteca dei ragazzi)
Hai ragione, *Novantatré* di Hugo è un romanzo splendido (mi capita spesso di consigliarlo) e quello di Cimourdain è un personaggio letterario davvero potente.
Riguardo alla seconda citazione che riporti come esempio della “potenza anche archetipale del materno e del Femminile in generale”, mi permetto di fare un appunto; ovviamente quel passo riflette il periodo (e la mentalità) in cui il romanzo è stato scritto e, diciamocelo, c’è poco da stare allegri: la madre, nel frammento in questione, è sempre paragonata a un animale, è ignorante e a-razionale, è raffigurata come un concentrato di natura e istinto. Siamo dinanzi a una narrazione molto conservatrice del materno. L’immagine di Marie Nozière, al confronto, è assai distante, diversissima dal personaggio di Hugo.
Sicuramente il tempo è un altro, ma secondo me Michelle Flecard non è connotata in quella direzione che tu dici; tantomeno un comportamento, una fase, può automaticamente portarci a pensare a un “tipo” culturale di femminile, soprattutto se si tratta di una fase esistenziale, come in questo caso, estrema perchè una popolana che ha perso casa, marito, che è praticamente morta e resuscitata, che si trova in guerra senza capire perchè nè come, che mangia da mesi bacche e foglie, che praticamente non parla più, ha i piedi piagati e sanguinolenti, anche perchè qualcuno le ha strappato tre figli di cui una piccolissima, non può che essere in una fase estrema (ma il “gioco” degli estremi è Hugo, del resto), quindi delirare, non parlare quasi più, urlare quando vede i figli avvolti dalle fiamme ecc.
Marie Noziere era una proletaria come Michelle, ma parigina, e anche in virtù di ciò ha partecipato a più livelli alla rivoluzione ed alla vita politica e sociale della capitale (il tema della partecipazione femminile alla vita politica e civile del resto compare molte volte nell’AdS). In Hugo, invece, abbiamo una giovanissima vandeana che compare al lettore mentre, già vedova e sfollata, vaga nelle boscaglie bretoni e viene adotatta con i suoi figli dagli azzurri. Poi certo, in Hugo personaggi femminili come quelli della Noziere sono assenti, ma non credo sia un problema solo di epoca, ma anche di cultura, perchè pure oggi non è facile incappare in donne così rappresentate. Infine, personalmente non vedo niente di male a un accostamento con l’animale (e con i suoi tratti, istinto ma anche resistenza, vitalità, reattività), del resto quando si parla di simboli e archetipi l’orizzonte dell’animato non umano è centrale.
[Spoiler] #Taranto, l’ILVA e L’#ArmatadeiSonnambuli.
@mg (inserisco qui il mio commento perché la “nidificazione” del tread si è esaurita).
Sì, Marie Nozière pur essendo di estrazione proletaria è parigina e non vandeana, ma anche la sua esistenza, come quella di Michelle Fléchard, è segnata in modo drammatico: (SPOILER) è vedova, ha un figlio che è frutto di una violenza sessuale, patisce costantemente la fame e il freddo. Le due figure femminili per queste motivazioni un po’ si assomigliano. Detto questo, ti cito un passo tratto da *Novantatrè* di Hugo che esemplifica molto bene quello che ho scritto nel mio intervento precedente. Chi parla qui è un personaggio maschile:
“La maternità non ha vie d’uscita; con la maternità non si discute. Ciò che rende sublime una madre, è il suo essere una sorta di bestia. L’istinto materno è divinamente animale. La madre non è più donna, è femmina. I figli sono cuccioli. Donde, nella madre, un che di inferiore e insieme di superiore al ragionamento. Una madre è dotata di fiuto. L’immane, tenebrosa volontà della creazione è in lei, e la guida. Accecamento pieno di chiaroveggenza.”
Ribadisco, a me questa pare una rappresentazione molto conservatrice del materno che contiene stilemi precisi: istinto, natura, divino, “sesto senso” (la chiaroveggenza), bestialità, assenza di cultura e raziocinio, etc…
Una delle trovate più riuscite, a parer mio, nella resa di Marie Nozière è proprio “l’abbandono” (in realtà non è un abbandono, ma una consegna a un padre alternativo reputato affidabile rispetto a quello naturale) del figlio nato dallo stupro. Questa scelta smarca il personaggio femminile di Wu Ming dalla rappresentazione materna tradizionale cui invece (secondo il mio giudizio, che è ovviamente opinabile) resta legata la figura (letterariamente straordinaria, eh… su questo non ci sono dubbi) di Michelle Fléchard.
(spoiler) I toni e i colori di Hugo sono resi bene anche dal frammento che hai riportato, quelli sono effettivamente le “note” di Hugo. Resta il fatto che -mia opinione- non vedo intrinseche denigrazioni in questa immagine (già accennavo sopra a proposito dell’animalesco e del simbolico/archetipale, evito di ripetermi) e considerato il personaggio, il contesto della vicenda, e considerando anche la scrittura di Hugo che non è certo priva di scelte e immagini impattanti e di un contenuto simbolico e spirituale.
Condivido con te che la bella mossa di Marie Noziere nei confronti di Bastien non sia un abbandono ma secondo me un atto pedagogico lucido e amorevole, proprio in virtù di un’idea di figure paterne e materne e di famiglia proletari, realistici, libere e vitali; cioè come sembra essere Marie Noziere e come molti altri personaggi del popolo pennellati dai gecchi dei WM nei loro numerosi romanzi e racconti
No certo, neppure io riconosco intenti denigratori nella resa della complessità interiore di M. Fléchard come madre (forse non sono stata chiara), semplicemente ravviso stilemi classici, tradizionali e poco spiazzanti. L’intenzione del mio intervento era rimarcare una certa distanza tra i due romanzi nell’approccio alla “questione maternità”.
In estrema sintesi, era questo che volevo dire.
[spoiler] altra botola: la preghiera a san michele arcangelo recitata da yvers (pag. 674). se le informazioni che si trovano in rete sono corrette, la preghiera fu recitata per la prima volta da papa leone XIII nel 1884, quindi 90 anni dopo termidoro.
http://www.preces-latinae.org/thesaurus/Angeli/SancteMichael.html
ma san michele arcangelo e’ il protettore della guardia di ferro di codreanu… e in effetti l’eco delle pagine di jesi sulla guardia di ferro si sente eccome, nei monologhi interiori di yvers.
[Spoiler] Religio mortis…
[Spoiler] «Al called it ‘the Rabbit Hole’…»
[Spoiler]
La paranoia reazionaria e poi più specificamente fascista sull’arcangelo Michele dura tuttora. Lo so anche perché ho la sventura di essere nato nel giorno degli arcangeli, il 29 settembre, e quindi sono spesso incappato nelle celebrazioni che ne fanno quelli di Forza Nuova, che hanno voluto fondare il loro partito proprio in quella data.
L’ossessione fascista per il 29 settembre si ritrova anche nel libro di Girolamo De Michele, “Scirocco”, mentre l’arcangelo compare in carne ed ossa in un libro del ciclo di Eymerich, saga che, come altri hanno già notato, risuona in molti punti con questo romanzo che anche per questo mi è piaciuto da morire.
[Spoiler] Quelli che qui chiamiamo “botole” o “buchi del coniglio” somigliano più a quelli che Henry Jenkins chiama “Noccioli (Kernels), Potenziali e Contraddizioni” nel suo post su “How reading Moby Dick as a Fan”: http://henryjenkins.org/2008/08/how_fan_fiction_can_teach_us_a_1.html
[Spoiler]
le armate di sonnambuli hanno invaso roma in questi giorni
schiere di pellegrini a gruppi percorrevano le strade con quello sguardo poco umano
non ho provato la loro resistenza al dolore però da come entravano nei vagoni della metro incuranti se fossero già stracolmi e mettendo a rischio l’incolmità degli altri lascia presupporre che fossero insensibili
il magnetismo dal quale dipendevano si fa ogni giorno più aggressivo, che siano i “ribelli” ucraini che costringono gli oppositori a baciare immagini sacre che sia l’opposizione ai matrimoni gay in francia o ci voglio aggiungere anche se un pò forzatamente l’aggressione sionista al corteo dell’anpi contro i palestinesi e i sostenitori della causa palestines, e ovviamente tutto il fenomeno del fondamentalismo religioso islamico, questo magnetismo riesce a mobilitare, a infondere forza, coraggio e determinazione ed è vincente
E il nostro magnetismo che fine ha fatto?
Perchè non riusciamo più a “magnetizzare” le masse? Dipende da un nostro atteggiamento laico, di rifiuto di questo strumento o è in atto una scossa che spezza il nostro magnetismo o entrambe le cose?
Credo che non ci serva una armata di sonnambuli di sinistra però ci servirebbe la “fede” nelle nostre idee affinchè abbiano un peso nella società
Quando ho finito il libro mi è dispiaciuto, mi sentivo in compagnia di marie, di scaramouche del popolo parigino e questo è il mio complimento agli autori
ps ho trovato “intrigante” la spiegazione del gesto dell’inchinare il capo come saluto
Cerco di non leggere mentre lascio questo commento – non sono ancora alla fine – volevo dire: mannaggia su twitter è dura evitarvi! Grazie per il tag [spoiler]!
[Spoiler] Ho finito il libro qualche giorno fa. Ho lasciato sedimentare un po’ le emozioni e adesso provo a scrivere le prime impressioni (una vera recensione no, per quella mi riservo una seconda e più approfondita lettura, credo che il libro la meriti).
L’impressione è che questo sia un gran bel libro, semplicemente. Dico solo “gran bel libro” , focalizzandomi sulla semplicità di questa affermazione: è un romanzo profondo e leggero allo stesso tempo, un libro che ha i numeri per essere oggetto di grandi dibattiti e riflessioni culturali, ma anche tutte le caratteristiche per essere un grande successo di vendite, addirittura raggiungendo “grande pubblico”, persino – in qualche modo – quello dei non-lettori!
In questo vedo la differenza sostanziale con le precedenti opere dei Wu-Ming: qui, come sempre, c’è la sostanza, ma c’è anche il divertissment, lo spettacolo-kolossal di qualità, un po’ – insomma – una cosa come forse potrebbe essere Matrix per il cinema di fantascienza, fatta di qualità e divertimento, esagerazione e riflessione, piani di lettura profondi ma non obbligatori… un prodotto che sembra adattarsi al lettore che lo tiene in mano, lasciandosi leggere (e rileggere) in più e più modalità, tutte lecite.
La qualità si potrebbe dire “magnetica” del libro è: “persone diverse leggono ciascuna un’ArmataDeiSonnambuli diversa”
E torno al punto: i Wu-Ming stavolta hanno prodotto un romanzone sicuramente “alto” ai loro soliti livelli ma anche , forse per la prima volta, anche un po’ “di cassetta”?
Sono saliti sul palcoscenico, sentendosi un po’ emuli di Modonnet-Scaramouche?
Dico la mia: anche fosse? Se davvero in questo caso c’è stata una maggiore attenzione alla componente “pop” dell’opera, se davvero si è accarezzato il sogno della grande diffusione che va al di là della comunque ben nutrita ma in qualche modo elitaria cerchia dei lettori abituali, che c’è di male?
Forse quello che mancava era proprio un po’ di glamour!
Se con questa opera i Wu-Ming riusciranno a fare breccia in tipologie di pubblico nuove, se il tempo dirà che l’Armata segna l’inizio di un percorso nuovo (anche nel senso che è un’oggetto narrativo non solo utile e intelligente, ma anche accattivante, che si presta a diventare un cult-popolare-trasversale – e si spera in futuro anche multimediale, perché i presupposti ci sono tutti…) , be’, io dico: bene! Avanti così.
Ultima cosa: il quinto atto io l’ho sentito come se il romanzo me l’avesse contato un cantastorie, o un nonno davanti al fuoco, oppure un vecchio incontrato per caso in una taverna di Montmatre… e io gli chiedo se è tutto vero, se questa gente è davvero esistita, se i personaggi sono storici… e lui dice di sì, e me racconta il perché e percome. Insomma, non mi fa un elenco delle fonti: me le racconta.
[Spoiler] Ah, scusate, aggiungo solo:
non vorrei essere frainteso, non intendo fare alcuna dicotomia tra presunta “cultura alta” e cultura pop.
Ad esempio, Lèo-Scaramouche, con il suo costume un po’ mal cucito fatto di scampoli mi ha ricordato le strisce di Magnus e l’ho trovato un riferimento colto.
[Spoiler] Non so, mentre scrivevamo non abbiamo ragionato così, non ricordo che si sia pensato in termini di rendere questo libro “più pop degli altri”… La cosa più simile a questa che ci siamo detti all’inizio inizio è stata: “Rispetto a Manituana e Altai, questo dev’essere più vicino a 54”. Che in effetti, sì, era molto pop. Ma Q non era già molto pop?
La differenza con Q e 54 sta nel lavoro che c’è stato in mezzo: le collaborazioni musicali e transmediali, i romanzi solisti, la trasformazione di Giap in blog, gli “oggetti narrativi non-identificati”… Dentro il libro c’è finito tutto questo.
A mio modo di vedere non definirei Q come romanzo pop in alcun modo. E’ un romanzo storico straordinario per approccio, modi, ritmi, lucidità della visione.
Di Q ho apprezzato – come dote indiscussa – il valore didattico, di desotterramento della verità: ho viaggiato in Europa con occhi nuovi negli anni dopo averlo letto. Ma agli occhi di un lettore poco attento alcune parti di Q potevano restare oscure.
Non che l’Armata sia un romanzo “facile”, solo che le parti oscure dell’armata oscure non sono: al limite appariranno misteriose e comunque piacevolmente suggestive.
[SPOILER] Leggo ora questa frase nella recensione di Colombo per il Manifesto:
“Il medico Orphée d’Amblanc, esperto in quello che si chiamava allora mesmerismo, la tecnica d’ipnosi che aveva avuto il suo momento di gran gloria in Europa subito prima della Rivoluzione e che, nella versione dei Wu Ming somiglia alla Forza di Star Wars.”
A me, invece, è piaciuto interpretare l’approccio mesmerista di D’Amblanc come una sorta di metafora taoista. Nelle pagg. 154-155 a D’Amblanc vengono rivolte frasi come: “la vostra ricerca è la ricerca di una vita intera”, “Das Flut è la metafera fatta realità”, “il flusso lega tutto a tutto”, “cercate una via più che una guida”, etc. etc.
Insomma, per me il flusso magnetico, almeno in quelle pagine, è un principio generatore onnipresente, difficile da circoscrivere e con cui entrare in sintonia.
Inoltre, Yin /Yang e d’Yvers/D’Amblanc…
Forse però la mia è un’interpretazione erronea, una forzatura e sono andata pesantemente OT.
[Spoiler] Anch’io ho pensato al Taoismo, ma credo siano decine le filosofie-religioni che parlano di fluido universale o qualcosa di simile…
Insomma, anche Mesmer non è che venisse dalla Luna: era un po’ un tipo new-age ante litteram… ;)
[Spoiler] Inoltre, Lucas scrisse “Star Wars” ispirandosi ai libri di mitologia Jung/pop di Joseph Campbell, che ispirarono anche molti new-ageismi. Campbell si interessava di buddhismo, taoismo e altre filosofie orientali. Alla fine tout se tient :-)
[Spoiler] be’, è evidente che Laplace/Yvres usi la Forza quando blocca con l’imposizione della mano d’Amblac nel cortile del monastero dei domenicani (a proposito, quale luogo migliore per un rogo?).
comunque ho capito che lo dovrò rileggere.
ciao.
[Spoiler]
Una magia simile (bloccare il nemico mostrandogli il palmo) è la chiave di volta che dal secondo episodio della trilogia di “Matrix” porta al terzo. Come si chiama il terzo episodio? “Matrix Revolutions”…
[Spoiler] Arrivo tardi e trovo quasi tutto già detto, ma voglio comunque mettere le mie due noticine molto marginali.
Sarà che sono stato molto poco attento alle citazioni del genere fantastico, dal fumetto a StarWars, ma quella scena è l’unica che ho trovato debole nel libro. Yvres riconosce di aver di fronte un avversario al suo livello, superiore ad ogni altro affrontato prima, e poi lo stende con una facilità irrisoria, arrivando quasi ad ucciderlo, con un cambio drastico nei suoi modi e tempi di utilizzo del magnetismo.
A parte questo dettaglio complimentissimi, AdS sembra davvero mettere assieme tutto il meglio delle cose che avete scritto in precedenza, in più di un caso migliorandole (ad es. a me lo slang degli ‘indiani metropolitani’ Londinesi aveva reso più pesante quella parte, quello del ‘coro’ di AdS al contrario trasmette energia).
E poi grazie anche per questo sesto atto, senza il quale mi sarei perso parecchie cose, compreso il continuare a credere che gli eventi del quinto fossero reali (quando si è tonti…)
[SPOILER] Bisogna tenere conto di un paio di cose, secondo me:
1) che D’Amblanc sia l’unico avversario allo stesso livello di Yvers, è una percezione di Yvers stesso. In realtà non sarà appunto D’Amblanc a sconfiggere Yvers, bensì qualcuno che non ha alcun “potere” magnetico. C’è una ragione per questo, e cioè:
2) D’Amblanc è portatore di una ferita, di un trauma, che fin dall’inizio connota il suo approccio al magnetismo come terapia sociale, e anche personale. La “Forza” di D’Amblanc quindi è volta alla cura di sé e del prossimo, la “Forza” di Yvers è volta al potenziamento di sé per soggiogare il prossimo. Possono benissimo essere equipollenti, e tuttavia una non può essere volta a fin di male, perché lo “Jedi” buono non è in grado di utilizzarla in quel senso, mentre il “Sith” invece sì. Non ci vedo un’incoerenza narrativa, sinceramente. Anzi, IMHO la scena centra uno dei nuclei tematici del romanzo.
[Spoiler] Quel che qui Federico dal punto di vista degli autori risponde a Roberto è quel che anch’io come lettore cercavo di cogliere con la referenza di Victor dell’Aveyron nelle memorie del dottor Jean Itard (insomma, “Il ragazzo selvaggio” di Truffaut). Per come l’ho letto io, quel passaggio-climax della narrazione è inscindibile dal ruolo del piccolo Jean del bosco: è infatti di fronte al suo omicidio da parte di Yvers che D’Amblanc di fatto rinuncia a qualsiasi “contesa” sul “fluido” e usa su di sé, anzi, il “folgoratore”, quell’elettricità dalla quale Jean era tanto affascinato (volendo imparare a padroneggiarla…) dopo averne subito l’uso (elettrochoc) da Puységur per tornare “umano” uscendo dalla “cattiva ipnosi” del cavaliere (solo per rientrare in un’altra, quella buona…: non so se solo a me questa fotografia spietata della subordinazione mentale ha generato una rabbia straziante, ma mi pare sia quella che davanti al cadavere del ragazzo “illumina” definitivamente D’Amblanc). È la stessa elettricità (la bottiglia di Leida) che l’irriducibile ragazzo-selvaggio “storico” Victor nelle memorie di Itard mostra di saper usare contro di lui e i suoi tentativi di controllo. A me davvero ha fatto l’effetto di una scena-madre, rivelatrice del doppio significato della “scienza” (dunque del potere…) nelle figure polari di Yvers e D’Amblanc: e il flashback “indiano” (con l’onirica apparizione/rivelazione, appunto, di Mesmer), la didascalia di quel che Federico esplicita sulla “trauma originario” del buon dottore e sul suo superamento semantico e storico.
D’altronde qui come Puységur non è Kenobi e non si sacrifica, come Mesmer non è Yoda se non “a posteriori”, così Yvers è un Darth Vader che non si “redime” nel sacrificio finale e D’Amblanc non è Luke Skywalker (non è suo figlio…) se non nell’inferiorità intrinseca della Forza rispetto al suo uso nel Lato Oscuro: ma è appunto qualcuno e qualcos’altro che ferma Yvers -.un’altra Forza, femminile; un’altra scienza, quella delle barricate, della quale ognun@ è maestr@… Qui non siamo in una narrazione della trascendenza, infatti: siamo in un’invenzione narrativa di un’altra storia possibile.
[Spoiler] Provo adesso a cimentarmi anch’io con qualche “conclusione” provvisoria.
Portate pazienza, ma sennò anche no…
Mi sono formato l’opinione che per comprendere più a fondo tanto la complessità dei livelli narrativi “nascosti” quanto la “verità” dell’annuncio dei Wu Ming sul carattere appunto conclusivo de L’Armata dei Sonnambuli (nel genere “romanzo storico”), occorra in realtà tenere in conto e anzi de-strutturare il piano esplicito, dichiarato, più “verificato” (nel gioco di specchi delle “fonti”), o se vogliamo più pianamente “storico” della narrazione.
Per dirla in altro e più assiomatico modo, bisogna “partire dal titolo”. Cioè da quel che il titolo richiama a risaltare dalla narrazione e da quel che il titolo ne “risolve”, fino a racchiuderlo. Dalla sostanza che vi si cela, direbbe una scienza naturale del Gran Secolo.
Penso insomma che nella dizione “Armata dei Sonnambuli” vi sia lo specchio di una buona parte della verità del romanzo: di un piano rilevante, cioè, della sua intenzione di senso. Occorre attraversarlo, lo specchio.
Il sonnambulismo è un livello dichiaratamente preminente di questa narrazione. Il sonnambulismo, ossia la trance e lo stato ipnotico indotti dalle pratiche operative di “magnetismo animale”, come pervenne a definirle Mesmer. Tutta questa storia – la storia del mesmerismo, della Société de l’Harmonie Universelle, della sua rottura, dell’esperimento-dimostrazione di Puységur con il contadino Victor Race al cospetto di Mesmer (la consacrazione del “sonnambulismo provocato/sonno magnetico” come forma applicativa del “magnetismo animale” che supera le convulsioni mesmeriane e lo porta a formulare l’ipotesi della collaborazione di volontà), di tutta la parabola di Puységur e del suo psicofluidismo (comprese le ipnosi collettive intorno al grande albero a Buzancy, e senza dimenticare che il suo principale sostenitore in epoca restaurativa si chiamava Deleuze…), persino – filosoficamente, metodologicamente – dell’approccio di Yvers così prossimo (estremizzandolo) al nocciolo della declinazione spiritualista del mesmerismo, fino all’opposto empirismo critico di D’Amblanc così congeniale alle più tarde e vituperatissime (in epoca di piena Restaurazione) tesi immaginazioniste di un tal… Abate Faria (che assume definitivamente che “non c’è nessun fluido” e cui tanto dovrà la scuola di Nancy), tutta questa storia è un filo solidissimo e continuo dell’intera narrazione romanzesca. Ed è un filo storico, per l’appunto: verificabilissimo, documentato “senza trucchi”. Come quello, che vi s’intreccia, della medicalità e del trattamento dei “pazienti” di Bicêtre, la storia di Pussin e Pinel, la progenitura del trattamento psichiatrico e della “democratizzazione” dell’internamento: un frame foucaultiano direttamente proclamato in epigrafe. Laddove alla lettura del romanzo si è introdotti con due avvertenze, tra Foucault e Babeuf: la centralità del corpo e della sua capacità di eccedere, di “stupire” a fronte delle ingiunzioni e di rivelare “il non detto” che vi sottostà, nello specchio dell’isteria; e la centralità della violenza, che scorre nella storia sui corpi stessi e si incarna nei loro comportamenti.
Tra il dominio e la ribellione vi è sempre il corpo.
La rivoluzione è un atto di violenza che rovescia la violenza del dominio.
La rivoluzione è corporea. Come d’altronde l’imposizione del dominio.
Come il dominio fa parlare il corpo, così è il corpo a parlare nella rivoluzione.
La contesa che questo filo tende lungo tutta la narrazione è dunque su quell’eccedenza di “verità” che il corpo è in grado di sprigionare: specie in una situazione di “isteria collettiva” qual è quella della moltitudine in rivoluzione (ossia il Terrore, ossia l’irruzione della violenza “rovesciata”, il Carnevale come esplosione di “follia” che escie fuori di controllo e precipita sulla Storia), così come sancisce un paradigma storico restaurativo ma pienamente medicale alla luce dei Lumi…
E’ qui che la questione si complica. E si complica maledettamente. Anzi, diabolicamente.
Accade che proprio questo filo così nitido, di nitore storico perfetto, persino riposante nella verificabilità delle fonti e dei fatti storiograficamente attestati, proprio questo filo porti la lettura sul ciglio delle “botole” più IncRedibili. Non solo perché tutto-il-resto-che-conta della narrazione si rivela una mopltiplicazione di potenza del significante enunciato col Sonnambulismo e con la dichiarazione di sovrano potere (sul senso del romanzo) della soglia di “verità” del corpo (cos’è che il corpo rivela dunque vero? Cos’è che appare negli atti di un corpo in ipnosi? Cos’è sonno e cosa risveglio?). E si badi bene, è così: corporea e corporale è la coralità dell’esperienza della plebe rivoluzionaria, fin dalla scena d’esordio di quel 21 gennaio dell’Anno II (e il suo premesso rovescio nella visione della mostruosità dei nasi popolari esperita dal Nero) e sino al suo annichilimento 2 anni dopo, il duodì della prima decade di Piovoso, giorno del Muschio, dell’Anno III, ad opera di Yvers con l’autodafé dei suoi Sonnambuli; corporea e coprorale è la pratica del rifiuto di Marie, tanto da imporsi sulla sua maternità e incarnarsi nell’obbligata linea di fuga del figlio Bastien, che giunge alla “verità” solo al cospetto della realtà aumentata del corpo della madre-che-si-nega (la tricoteuse che al di qua e al di là della tribuna della Convenzione fa dei suoi ferri un’arma del corpo violato e in rivolta – la Wolverine donna che il ragazzo “capisce” solo vedendola straziare il volto/matrice dello stupratore che è suo padre); corporea e corporale è la linea di fuga che a sua volta Marie coglie nello specchio rovesciato del femminismo “liberato” di Claire e Pauline; corporea e corporale è l’intera vicenda di Léo-Scaramouche, dalla sua prima scena con Colette proprio il giorno della decapitazione del Capeto fino all’esausta fuga finale dalla scena della lotta sanguinosa col gigante/golem Malaprez, passando per il Teatro Nuovo scaturito dal bassifondo del pugilato sotto la guida di Bernard la Rana e per l’incontro e la muta complicità con Marie; corporea e corporale è l’esperienza di ricerca tormentata del dottor D’Amblanc, dall’attrazione negata per e con Madame Girard al fondo della sua stessa ricerca, sempre vivo nel dolore delle cicatrici rimaste dalle torture pellerossa nei prodromi (così coloniali…) della Gran Rivoluzione; corporeo e corporale, soprattutto, è l’affresco delle violenze “fondative”, quelle sulle donne e le fanciulle e quelle incarnate nei bambini, fino alla visione sonnambolica dell’inquietante “Uomo della merda” nella quale Luigi Carlo condensa la sua residua espressività, e a partire dalla potenza semantica straordinaria – un condensato psicanalitico, antropologico e strutturalista – della vita straziata del piccolo Jean alias il bambino/cane.
Tutto questo è vero. Tutto questo è fortissimo. Tutto questo è chiaro, anzi lancinante. Tutto questo è ciò che dal filo si tesse e che in verità lo descrive, lo “giustifica”: la materialità bio-politica della violenza della Storia, nelle vite che le danno – precisamente – corpo.
Tutto questo richiama, proprio nella chiave del – salvare-un-bambino come verità “salvabile”(trasmissione materiale, ri-lascio in vita) dell’esperienza della rivoluzione e della sua evenemenziale sconfitta, qualcosa che già “chiudeva il cerchio”, quello di Q: come è stato qui ben rilevato, richiama qualcosa che già abbiamo scorto in Altai.
Ma se tutto questo è vero, è vero anche qualcosa d’altro e persino più sorprendente: perché dal filo “pulito” della narrazione di un lato della Storia che è già una scelta conflittuale (la crisi di maturità dei Lumi ovvero la soglia della secolarizzazione dell’anima stessa ovvero il conflitto di alternative sulla Scienza del Corpo e della Co-scienza) si spalancano le “botole” più IncRedibili vere e proprie. Quelle che d’un balzo fanno fuori lo spazio-tempo, come nel sonno magnetico di Puységur.
Si tratta di quel paio di botole già rilevate e che guarda caso vengono spalancate dal personaggio del “Cattivo”, Il Nero-Laplace-Yvers. Botole che si spalancano nel fondo più atroce della contemporaneità e al tempo stesso rivelano che in quel “nitore” c’è più complessità, più verità nascosta, di quanta se ne possa rintracciare nei trabocchetti della finzione letteraria del catalogo di fonti dell’Atto quinto. Botole che tornano a interrogarci sulla “contemporaneità del non-contemporaneo” di blochiana memoria, d’altronde esplicitata dallo stesso personaggio di Yvers quando vagheggia un “molto più indietro” che lo rende più che reazionario e nient’affatto banalmente restauratore, così come quando la finzionale attestazione del passaggio di Laplace a Bicêtre spalanca a sua volta il recupero del manicheismo nella massoneria “oscura”, ormai anti-illuministica, willemorziana (cui tanto deve la fortuna templare contemporanea e che si riflette nella scena-madre dell’impresa di Yvers al Tempio, dove paradossalmente e malignamente l’ipnosi che opera sembra la più ericksoniana possibile…). Botole che ci rimettono corpo-a-corpo con un frame fondamentale, giocato nella grande operazione revisionistica del 1989: quello arendtiano delle radici illuministiche (e giacobine) del totalitarismo. E del nazifascismo stesso.
Un frame che i Wu Ming non rimuovono, ma affrontano nella maniera più approfondita (nel senso di coraggiosa) e imprevedibile.
Perché questo c’è di particolarmente beffardo, già in quel titolo: che l’attribuzione negativa del sonnambulismo, dell’ipnosi, dell’Irrazionale che la Ragione si spinge ad evocare, fu il grande argomento della Reazione contro la Rivoluzione. Dei grandi nemici tonacati dell’Abate Faria.
Ora, i Wu Ming l’hanno rovesciata. Senza negarla. Aiutandoci finalmente a capirla. E a combattere meglio ciò che ha interrotto la trasmissione della scommessa incompiuta nella Grande Rivoluzione eppure tanto avanti riproposta e tanto gigantescamente ritentata, fino alla nostra contemporaneità: la scommessa di liberazione del corpo/mente, che a sua volta incarnava secoli di assalti al cielo del Senso dell’Umano. Dai tempi raccontati in Q.
Un cerchio si chiude. E si apre sul nostro oggi, sull’incompiuto. Là dove la domanda resta aperta: cosa davvero è sonno, cosa sogno, cosa veglia, cosa co-scienza? Cosa è finzione e cosa invenzione della Storia? Cosa è ingiunzione di verità e cosa verità oltre l’ingiunzione? Cosa è maschera e cosa è verità del corpo?
Cosa può un corpo, caro Scaramouche, cara Marie?
[Spoiler] Post Scriptum:
qualcosa di talmente diabolico c’è, in quel filo principale di “storia delle idee” nitidamente enunciato e così inequivocamente documentato, che si affaccia persino il diavolo in persona. Anzi, il diavoletto in persona.
Non c’e ghigno più atroce e al contempo ri-velatore di quello che il Lato Oscuro della Forza delle Idee pone proprio come un gargouille di Notre-Dame a dominare il centro scenico e straniante del romanzo, à Bicêtre. Che, per internarsi e vivere il teatro weissiano della Rivoluzione, onde distruggerla, la Primula Nera scelga il cognome del matematico padre del Determinismo (e del più politicamente opportunista scienziato dei tardi Lumi), è questo ghigno, questo gargouille.
Ma che il diavoletto di Laplace, il programma filosofico di onniscenza determinista, trovi un’eco appunto straniata nel programma totalitario di controllo della Volontà sulla psiche collettiva che il traslucido delirio di Yvers inizia a porre in pratica, è una botola su dove l’eco del ghigno diventa frastornante. E contemporaneo.
[Spoiler] Lettura creativa. Anche questa è una forma di commento critico, e a noi piace stimolarla. Questo riverbero che ti ha fatto in testa il cognome “Laplace”, come altri riverberi che si sono prodotti e si produrranno, non era nell’intenzione degli autori. Il cognome “Laplace” lo abbiamo scelto come nome provvisorio, un nome qualsiasi che Yvers (ma ancora non si chiamava così, era solo “L’Uomo in nero” o più concisamente “Nero”) doveva assumere al momento di ricoverarsi a Bicetre, poi lo abbiamo tenuto perché ci eravamo affezionati.
[Spoiler] Grazie ;-) In effetti la “lettura creativa” era, invece, nelle mie intenzioni: trovo persino spettacolare questa casualità della scelta del cognome Laplace, perché fa risuonare ancor di più la libertà possibile dell’Atto sesto (e comunque il caso è sempre quella diavoleria che ci mette lo zampino…) :-D
[Spoiler] @ Wu Ming: per curiosità, quando vi ci siete “affezionati” (al cognome Laplace per Il Nero / Darth Veder nascosto a Bicêtre) l’avete tenuta in conto la coincidenza (quella che è risuonata nella testa mia ;-) ) o nemmeno contemplata? Merci beaucoup.
[Spoiler] Comunque sbaglio o i sonnambuli assomigliano un po’ ai coolflame di Pk?
(Uno – non Wu Ming 1 – sii buono e fai passare questo commento anche se è troppo breve)
[spoiler] a me sono venuti in mente gli uomini dagli occhi di piombo di oesterheld e breccia
http://www.slumberland.it/contenuto.php?tipo=storia&id=1165&nome=Gli_occhi_di_piombo
(l’avevo gia’ scritto da un’altra parte, lo so…)
[Spoiler] Controllo mentale, sensi sviluppati, insensibilità al dolore. A me sono venute in mente le Guardie d’Assalto di WM5 in Libera Baku Ora
[spoiler] bene, finalmente qualcun* mi da l’occasione di fare questa connessione (anche se un paio di mesi in ritardo): ma PK e Peter Kolosimo… ci sarà mica qualcuno alla disney italia con un passato da militanza cosmica? …e un bel po’ di fegato per dedicare un’omaggio nascosto (o una botola, come si dice al giorno d’oggi?) al marxista delle stelle?
vuoi vedere che alla fine quella di anatrino non era soltanto una favola? :)
[Spoiler] Partire dal titolo…
“(…) Je dis industrie, car, en fin de compte, ce n’est pas autre chose —dussé-je voir se dresser contre moi toute l’armée des somnambules et chiroman-ciennes qui veulent se hausser au rang d’êtres privilégiés, doués de la rare et sublime faculté de lire dans l’avenir. (…)”
Da L’Echo de Lyon, journal républicain indépendant, anno III n.° 866, 3 dicembre 1891, nella rubrica Chronique Lyonnaise di B. Le Noir.
Le Noir… ;-)
[Spoiler] @ Wu Ming
al di qua e al di là delle mie letture creative e delle infinite combinazioni possibili dell’Atto sesto, cioè dei richiami di senso tra le scelte narrative e il repertorio della Storia, avrei due domande da farvi sempre “a partire dal titolo” – ossia sul programma “formale” del romanzo:
quanto e come è eventualmente mai entrato nel vostro gioco semantico intorno al sonnambulismo anche Gabriel Tarde (referenza deleuziana mica da poco…) e il “Qu’est-ce qu’une société?” in particolare?
e quanto e come avete eventualmente messo in gioco, in termini filologici o meglio metodologici (pur ludici), la prima gran trilogia di Hermann Broch?
[Spoiler] Anubi, rimando a quel che scrivevo in capo al thread: “non è un’intervista di massa agli autori sulle loro intenzioni al momento di scrivere questo o di scrivere quello :-)))”
Insomma, il lavoro qui lo deve fare il lettore, se noi ci mettiamo a dire: qui facevamo riferimento a quello, qui non facevamo riferimento a questo, diventa un po’ stucchevole…
[Spoiler] O no?
[Spoiler] Acsé, acsé… ;-)
Facciamo che le domande non ve le ho poste per ottenere risposte, ma per porle: insomma, valgano come suggestioni investigative del lettore, che le pone perché se le è poste. Insomma, perché vuole (voglio) enunciare e condividere dei risultati di lettura.
Al rèst macóbba ;-p
[spoiler]per prima cosa, complimenti!
poi, una mia considerazione su d’Amblanc: sbaglio a vederci dentro il Marlow conradiano che si addentra sempre nell’Heart of Darkness dell’Alvernia fino a trovare “l’Inferno” (Juliette/Margot – Kurtz)?. Ed il nome del medico, Orphée, non è esso stesso archetipo di chi scende negli Inferi per un fine (che in questo caso potrebbe coincidere con la “rinascita” di Jean dalla sua natura ferina), che però non riesce ad ottenere, a causa della sua “curiosità” (passatemi il termine forse non troppo calzante)?
Infine, De Andrè ed il suo bombarolo, se avessero letto l’AdS, vi ringrazierebbero.
Ad maiora.
[Spoiler] Il riferimento a Cuore di Tenebra è calzante, secondo me. Nella misura in cui si tratta soprattutto di un archetipo. Orfeo, appunto, il mito. L’Alvernia poi ricorda evidentemente l’Averno.
[Spoiler] Comunque io ho trovato straordinarie le ricombinazioni del Victor del sortir Itard e di Kaspar Hauser (specie nel rapporto di degradazione/morte con Yvers) nella figura di Jean. Personalmente credo che per me, come lettore, il climax emotivo nel romanzo sia proprio al culmine di quella discesa all’Averno in Alvernia la rivelazione a D’Amblanc della doppia esistenza (ugualmente condizionata) del ragazzo. E della natura duale dell’esercizio del “magnetismo”, ovvero degli incontri tra volontà e desiderio…
[Spoiler] Ennesima errata corrige: s’intende che avrei inteso scrivere “il Victor del dottor Itard”, se alla mia volontà non si opponesse sempre la stramaledetta digitazione veloce e un evidente desiderio sotterraneo di fare figure di merda.
[SPOILER]
LADS finito ieri sera… con applausi a scena aperta ad ogni pagina dell’Atto V (for Vendetta… il fumetto ovviamente).
Tra i tanti motivi per ringraziarvi, il primo è che mi avete fatto risentire il giramento di coglioni cosmico di un ragazzino sedicenne che conosco io, solo a scuola davanti a orde di fascistelli paninari tutti uguali nei loro vestiti firmati, che poi si ritrovavano a cazzeggiare in centro sotto alla sede del MSI, e nessuno dei passanti sembrava rendersi conto di quello che tutti avevano sotto gli occhi.
E poi avete piazzato quel colpo su quelli che “rimpiangono gli anni 80” e vi ho visto che li puntavate col dito e ho esultato sul divano ;)
Del dopo-1789 io sapevo poco e male, penso come tanti, e per dire dei muschiati non sapevo niente. Personalmente l’ho trovato il colpo più violento e sconvolgente di tutto il libro, l’ascia di guerra più letale perché ancora ben salda nelle mani del nemico…
adesso servirebbe rileggere tutto con la lente di ingrandimento, ad esempio per cercare i contatti tra l’avventura indiana di d’Amblanc e Manituana (mi autodenuncio: io la cosa del livello 2 del sito non l’ho mai capita…), ma nel frullatore perenne in cui sono temo che non avrò per mesi il tempo di farlo. Confido nei giapsters quindi :D
grazie come sempre per il viaggio e il volo.
not all who wander are lost.
[Spoiler] Vorrei tornare sulla figura de Il Nero/Laplace/Yvers e su quel che vi sottostà dell’ambivalenza del filo “formale” composto da mesmerismo e sonnambulismo.
Due cose sin dal completamento della prima lettura mi hanno colpito.
La prima è l’IncRedibile esplicita irruzione di una risonanza nietzchiana nel personaggio di Yvers tornato Laplace nell’Atto quinto, con quella stupefacente apparizione di Ohrmazd e Ahriman e dell’appellattivo al direttore di Bicetre come “Cosroe” (il ristabilitore dello zoroastrismo e dei “templi del fuoco” dopo aver debellato la riforma eretica e comunistica di Mazdak, a sua volta un dualista…). In verità già al centro del romanzo il tema della Volontà è dichiarato, esplicitamente programmatico nella figura del Darth Vader dei Wu Ming: questa definitiva sistemazione nell’orizzonte di Zarathustra dell’universo mentale di Yvers re-internato Laplace nell’Atto quinto sembra quindi volerne essere un compendio definitivamente allusivo.
La seconda è che in tutto il romanzo i monologhi interiori come le pratiche di Yvers/Laplace sono disseminati di segnali che rimandano ad una questione storiografica fondamentale nel “mito negativo”, realista e clericale, della Rivoluzione come “Complotto Massonico”.
Ci sono gli angeli della teosofia della “reintegrazione” di Pasqually e poi Willermoz, c’è il Palazzo Egalité cioè di Filippo d’Orléans gran maestro rosacroce del Grande Oriente di Francia come luogo di reclutamento dei muschiatini-Sonnambuli, ci sono il Tempio e i Templari di Hund e di Starck, c’è l’esplicitazione da parte dello stesso Yvers d’una visione della Rivoluzione come giusto flagello divino sulla corruzione e la degenerazione del Trono e dell’Aristocrazia: che sembra la riproduzione della tesi di Saint-Martin, ancora sulla linea Pasqually-Willermoz, della Rivoluzione come “piccolo esperimento divino di Giudizio Universale”.
E’ una cosa molto interessante, questa serie di tracce disseminate, perché porta a quanto ci han fatto conoscere grandi lavori storiografici, di Venturi anzitutto fino, in piccolo, a Giarrusso: e cioè che un fondo di “vero” nella mitologia contro-rivoluzionaria di Barruel c’è, ma rovesciato rispetto alla ricostruzione del gesuita. C’è massoneria nella vicenda della Rivoluzione, ma almeno altrettanta nella Contro-Rivoluzione. Ci sono i Lumi anche in questa. E ci sono sulla linea di una rottura, o meglio di una discriminante, che opera negli anni 80. Gli anni della fortuna e poi della censura di Mesmer, degli esperimenti di Puységur, come della “formazione” del finzionale cavalier d’Yvers ai danni delle sue vittime contadine, dalle contadine e serve fanciulle stuprate o mentalmente abusate al mostruoso “capolavoro” dualistico sul piccolo Jean.
Quella faglia discriminante passò nei Lumi e nella Massoneria in termini tutti politici e sociali: non per caso le declinazioni teosofiche e spiritualiste/esoteriste attecchiscono sulle parti resistenti alla diffusione di una vocazione rivoluzionaria, e/o su una vera e propria reazione aristrocratica che si distacca dai “compromessi democratici” della nobiltà di rango e di corte. Di Willermoz l’emulo sarà De Maistre. E Starck finirà per disconoscere la Massoneria aderendo alle tesi di Barruel nel 1803!
Soprattutto, se qualche leggenda gli attribuisce addirittura l’origine del motto di “Liberté Egalité Fraternité”, Louis Claude de Saint-Martin, con le sue ascendenze teosofiche e il suo misticismo e con la motivazione di quella tesi sulla caduta della Monarchia Capetingia così simili a quelle di Laplace/Yvers, è storicamente provato che montò turni di guardia al… Tempio durante la prigionia della famiglia reale ;-)
Chissà che queste due chiavi, la risonanza nietzchiana per un verso e il rovesciamento del mito del complotto massonico Illuminista, nello stesso personaggio del “cattivo” o meglio del “superatore” della Rivoluzione “al di là del bene e del male”, in avanti oltre una banale Restaurazione e soprattutto “molto più indietro”, non siano due chiavi che si integrano ad aprire meglio certe botole sparse nella narrazione…
[Spoiler] Laplace ha letto anche Furio Jesi, che ragionando su Sade scrive:
“Il castello o il monastero [o il manicomio, NdR], isolati dal resto del mondo, sono i nuclei del mondo futuro: simboli di una fondazione d’una futura età dell’oro, della quale si può dire soltanto che nascerà dalla contraddizione sistematica dell’umano, e dell’umanità come specie. […] Il passato […], per sopravvivere, dev’essere dimenticato e cioè durare nel presente. Il presente in cui vive Sade ha dimenticato il passato, e Sade lo deplora; ma la fatalità di quell’oblio che appare come una degenerazione (i divieti religiosi e sociali) consente a chi si isola dal presente – nel castello o nel monastero – di vivere il passato e di fondare il futuro” (F. Jesi, Materiali mitologici. Mito e antropologia nella cultura mitteleuropea, Einaudi, Torino 2001, p. 127).
[spoiler]dopo aver letto l’Armata dei Sonnambuli ho deciso due cose:
1-voglio una t-shirt con la scritta “Sbrisga!”
2-d’ora in poi finirò ogni frase. Letteralmente: mai più eufemismi o sospensioni.Prima mi capitava spesso di lasciare una frase a metà, ma adesso ho deciso di darci un taglio (non alle frasi, all’abitudine). Quest’assurda riflessione che ho deciso di condividere è stata maturata dopo aver pensato ai muschiatini:come loro non dicono la “R” per non aver nulla a che fare con la rivoluzione, anche a me capitava di evitare i conflitti che potevano scatenare le mie parole, qualora dette in modo chiaro e tondo. E invece no, il conflitto va cercato e provocato altrimenti a forza di giri di parole si finisce nel mondo del politically correct in cui nascondere le proprie opinioni dietro un sorrisino ipocrita…e non va mica bene! Mi ha fatto riflettere parecchio il discorso sulla “Rivoluzione senza ghigliottina” che ho sentito alla presentazione del libro: è vero che si tratta di un inutile ossimoro e lo scontro, il sangue (metaforico per carità) è necessario se si vuol davvero smuovere qualcosa, qualsiasi cosa. E allora inizio dal piccolo ad agire concretamente e chissà se non ne verrà fuori una discussione interessante con il prossimo che apostroferò pesantemente in nome della Rivoluzione.
Prometto che d’ora in poi se devo dir qualcosa la dico punto e basta e ne affronto le conseguenze, altrimenti taccio che a volte un dignitoso silenzio è meglio delle mezze paroline.
skon
[spoiler] La “Rivoluzione senza ghigliottina”, o “Rivoluzione senza Terrore”, non è un “inutile ossimoro”: queste espressioni attraversano tutto il dibattito rivoluzionario almeno dagli anni ’30 dell’Ottocento in poi, perché l’immagine della ghigliottina e l’ineluttabilità del nesso rivoluzione-terrore sono usati come randelli dalla reazione contro i movimenti rivoluzionari, che a loro volta (pensa a Mazzini, che per essere chiari non aveva ceto paura di legitimare la violenza rivoluzionaria, pensa alle barricate parigine del 1832, quelle de “I Miserabili”) usano queste espressioni per legittimare la necessità di una rivoluzione che non finisca in un bagno di sangue nel quale annegano i rivoluzionari stessi. Sono gli stessi argomenti usati dopo la Rivoluzione d’Ottobre (ad esempio da uno come Furet, storico doppiamente controrivoluzionario, liberale e ammiratore del Termidoro). Del resto anche l’espressione “paura dei rossi” nasce nel primo Ottocento (il rosso era il colore dei giacobini): da cui la risposta rivoluzionaria “lasciate la paura del rosso agli animali con le corna”.
[Spoiler] La “Rivoluzione [del 1789] senza il Terrore [del 1793]” è però un controsenso – più che un ossimoro – nel discorso neoliberale sui diritti umani basato su vulgate storiografiche di quart’ordine, sulla gnagnera alla Glucksmann e BHL ecc. Hobsbawm ci scrisse un pamphlet, “Echi della Marsigliese”, dicendo in sostanza che è troppo comodo separare l’89 dal ’93, quel processo rivoluzionario è fatto di entrambi i momenti e la storia non è un supermercato dai cui scaffali possiamo prendere solo quello che ci va. Anche i “diritti dell’uomo” sono l’esito di una tecnicizzazione di miti, il “buon” 1789 contro il “malvagio” 1793 etc.
[Spoiler] Un momento: non sto dicendo che dalla Rivoluzione francese prendiamo il volume uno e lasciamo il volume due (questo, al più, lo fa Furet, a volumi invertiti). Sto dicendo che la Rivoluzione francese, tra i tanti (che forse sono “tutti”) i problemi politici che ha posto col suo esistere, ha anche posto il problema di costruire una Rivoluzione che non sia la sua replica, o quantomeno la messa in questione dell’ineluttabilità del Terrore (o un Ottobre senza stalinismo). Altrimenti la Rivoluzione diventa uno strumento dell’astuzia della ragione, o delle ferree leggi della storia, per realizzare con uno scarto laterale il passaggio da uno Stato autoritario a un altro/diverso Stato autoritario (come su fronti opposti dicono Tocqueville e Canfora). Questo (lo dico in sintesi) significa comprendere in che modo il Terrore, come dispositivo disciplinare che reintroduce un Leviatano, è tanto radicato nei dispositivi di potere della società di cui avrebbe voluto essere il superamento, quanto frutto dell’insufficiente comprensione di quei dispositivi che finisce per riprodurre sotto altre forme. Lo dice benissimo Foucault nel suo dibattito con Chomsky qui [min. 4:30], e qui mo fermo – ne riparliamo senz’altro nelle presentazioni.
[Spoiler] Dipende da come si intendono le parole “ghigliottina” e “Terrore”. Mentre è naturale pensare una rivoluzione che non sia anche un bagno di sangue, è illusorio pensare a una rivoluzione che non susciti terrore, “perché l’uguaglianza atterrisce l’oppressore”. D’altra parte è proprio il terrore della rivoluzione, il suo semplice spettro, che in tante occasioni permette di conquistare diritti, tutele, spazi di libertà. Appena la rivoluzione esce dal mondo delle idee possibili, ecco che quelle conquiste si fanno più difficili e rare, con buona pace dei riformisti. E se intendiamo in senso metaforico “le teste che cadono”, allora non si può nemmeno fare una “rivoluzione senza ghigliottina”. Tanto varrebbe, fare “una rivoluzione senza rivoluzione”, gattopardesca e facile da digerire.
@ raffaele coriglione
[spoiler] Leggo la tua domanda sulla finestra twitter, ma siccome non cinguetto ti rispondo da qui. D’Amblanc non era in “Manituana”, te lo dico perché ho controllato: e ho controllato perché, a un certo punto, ho avuto il tuo stesso dubbio. Direi che gli autori sono riusciti a creare il passaggio tra i due libri senza usare lo stesso personaggio nei due romanzi.
[spoiler] Eppure io non smetterò di tallonare e tampinare i miei soci, sostenendo che il terzo volume del “Trittico Atlantico” annunciato con Manituana, ha da essere il ponte tra quest’ultimo e l’Armata dei Sonnambuli, cioè il secondo tomo – se si considera l’ordine cronologico degli eventi – quelle che appunto “chiude il buco” tra l’America e la Francia. Da notare che nel Quinto Atto c’è pure un altro personaggio, Eleazar Williams, il “lost Dauphin” di Kahnawahke, che mette i due romanzi a stretto contatto…
[Spoiler] Potrebbe essere un non-fiction novel. Potrebbe essere un melologo come “Pontiac”. Potrebbe essere un travelogue come “Grand River”. Potrebbe essere un romanzo storico solista, o un graphic novel, o un’opera che adesso non sappiamo nemmeno immaginare. Le vie del Grande Spirito [di Marat?] sono infinite. La cosa su cui possiamo mettere la mano sul fuoco è che non sarebbe un romanzo storico scritto da tutto il collettivo.
[Spoiler] Questo – che non ci sarà un altro romanzo storico a firma del collettivo – s’era vagamente capito… ;-) La graphic novel o il travelogue mi paione entrambi qualcosa che potrebbe “spaccare”, in senso positivo ;-p
Comunque la storia di Eleazar Williams nell’Atto quinto e comunque per me un fulgido esempio del doppio livello di gioco di quella parte finale: un@ si fa prendere dalla caccia alla falsificazione delle fonti (che già da sola è una ricerca ortica solo per rendersi poi conto che i resoconti storiograficamente “veri” riservano risorse finzionali e narrative incomparabiili…
A questo proposito ho qualche documentazione da ccondividere, proprio sui ricordi di guerra (d’Indipendenza e… indiana) del mesmerista dottor d’Amblanc e dunque proprio sul ponte Manituana-ArmatadeiSonnambuli: ma lo faccio con post apposito.
[Spoiler] A parte un “paione” invece di “paiono” e una ripetizione inconsulta di “comunque”, tra due bambini e un cane sono riuscito anche a lasciare a metà un inciso in parentesi – con un “ortica” invece di “orfica”… ;-/
Era:
(che già di per sé è una ricerca orfica di verità nascoste sotto la superficie della forma storica, nelle profondità del tempo lungo della Storia e delle scommesse d’una sua reinvenzione)
[Spoiler] Da lettore “giovane” che non ha vissuto la mitopoiesi di q,posso dire che l’armata mi ha veramente stupito!
si è piazzata tra lefebvre e deleuze,tra soboul e foucault,tra saint just e negri senza farli scazzottare!
mi ha regalato l’immagine di una parigi in perenne tumulto dove il “contropotere” sanculotto era reale espressione dei bisogni,delle aspirazioni e dei desideri delle “vite infami”
[Spoiler] se posso dirne un’altra,Scaramouche mi ha ricordato Toussaint Louverture,per la tensione costante verso la libertà(seppure con tempi e modi diversi)!
Sangueddio, scrivete SEMPRE “Spoiler”.
[spoiler] ieri sera ho terminato la lettura de l Armata ed oggi ho rivisto Sleepers . Non ci avevo fatto caso fino ad ora . Sono indeciso se prendere una scarica elettrica o vedere un pò dove mi porta questa magnetizzazione .
[Spoiler]
In tutti i rimandi fatti ai fumetti finora mi sembra che manchi quello più affine a “L’armata dei sonnambuli” ovvero “From Hell” di Moore e Campbell.
Entrambi usano una forma romanzata di ricostruzione storica per parlare di temi contemporanei.
Entrambi hanno appendici storiografiche nel quale il confine tra reale e finzione non è più così netto e, soprattutto, non è più così importante: è “La danza degli acchiappagabbiani”.
In entrambi c’è di mezzo la scomparsa misteriosa di un erede al trono con un codazzo reale di strampalati pretendenti.
In entrambi si parla di un rituale di sangue che chiude un secolo ed imprime la sua impronta sul successivo (e contro di questo neanche il calendario rivoluzionario può farci niente).
In entrambi i protagonisti sono di bassa estrazione sociale e vengono costretti ad affrontare la lucida follia di un nobile che si arroga il diritto di essere superiore all’umanità che li circonda.
P.S. Peccato però che a fine anno uscirà il nuovo Assassin’s Creed e così sull’inernet anche la Rivoluzione Francese verrà iscritta a quel macrocosmo di facilonerie dove “è colpa dei templari”.
“Noi però non siamo qui per vendicare i templari – ma per volontà del popolo francese.
Yvers accondiscese al commento con un sorriso enigmatico”… Sto ancora ridendo!
[Spoiler] Allora, sui ricordi di guerra e le cicatrici del dottor d’Amblanc e il ponte temporale e narrativo tra Manituana e Armata dei Sonnambuli:
è noto un carteggio di George Washington, immediatamente successivo alla guerra d’indipendenza e contemporaneo al lavoro delle due successive commissioni nominate da Luigi XVI sul mesmerismo che concluderanno per la censura, ben documentate nella prima parte del romanzo. È un carteggio prima con Lafayette, poi con lo stesso Mesmer, quindi di nuovo con Lafayette, nel quale Washington viene sostanzialmente coinvolto in in tentativo d’apologia e proselitismo di quelle pratiche, proprio mentre Franklin è coinvolto nella censura ufficiale in Francia (quale ambasciatore degli Stati Uniti e membro dell’Académie Royale des Sciences) per essere poi alacremente seguito nella sua linea da un altro leader illuminato della nenonata Big Nation, Thomas Jefferson. Soprattutto, però, nelle sue lettere Lafayette indica d’aver rintracciato forme “originarie” di magnetismo animale nelle pratiche collettive della comunità quacchera degli Shakers: e, udite udite, di averne osservato forme “ancestrali” nel tempo passato tra le tribù degli “indiani del Nord-America” e i loro riti. Il tutto è documentato in “Mémoires, Correspondance et Manuscrits du général Lafayette publiés par sa famille”, Londra 1837; e approfondito da Robin A. Waterfield in “Hidden Depths. The Story of Hypnosis”, Routledge 2003…
[Spoiler] Copio/incollo da una proto-scaletta del romanzo, datata 21 dicembre 2010:
L’ARMATA DEI SONNAMBULI
ANTEFATTO
Lafayette nella Mohawk Valley 1885 circa. Tiene una concione sul mesmerismo, il progresso, la scienza etc.
Gli nominano Molly e Joseph (che in questo momento è a Londra), gli raccontano di Molly come “strega”. Lui fa lo scettico e il sarcastico, poi però attacca un pippone sui fluidi.
Sono ora gli indiani i veri scettici, o semplicemente non capiscono. Lafayette parla di automi e come coup de théatre tira fuori… l’anatra meccanica che caga!!!
Il fascino dell’automa per gli indiani è zero, non ne capiscono la valenza didattica. Perplessissimi. Dicono che per veder cagare un’anatra basta osservarne una vera.
Gli indiani deducono che a Parigi non abbiano animali da cortile, così regalano a Lafayette un enorme tacchino vivo.
Scena finale: Lafayette con la faccia da ebete tiene al guinzaglio il tacchino.
[spoiler] N.B. “L’anatra che caga” è la famosa “anatra meccanica di Vaucanson” che compare nella copertina di “Anatra all’arancia meccanica”. N.M.B.: Lafayette si recò davvero nella Mohawk Valley e ed è lì che – verosimilmente – osservò i “rituali” che lo fecero ripensare alle pratiche di Mesmer (di cui era seguace). Se non ricordo male, Lafayette venne pure “adottato” da una famiglia Mohawk. Il che, per le consuetudini irochesi, significava essere – a tutti gli effetti – un cittadino della Nazione. Ma questo dovrei verificarlo perché a un certo punto abbiamo deciso di cassare Lafayette (che nelle prime scalette era l’iniziatore di d’Amblanc, suo diretto sottoposto, alle cure magnetiche).
[Spoiler] Ohhhhh! Mi godo una certa quale soddisfazione ;-)
Quanto all’adozione mohawk di Motier de La Fayette (“l’infame Motier”, per dirla con Marat dopo il Campo di Marte…), non so la fondatezza storiografia: certo è che fu lui a trattare il passaggio nel campo independentista della tribù irochese degli Oneida, a sua volta affidata alla guida del grande condottiero mohawk Cook, Colonnello dell’Esercito Continentale. E che La Fayette re-incontrò delegazioni Mohawk e visitò nell’omonima , per perfezionare i negoziati di pace con Huroni e Irochesi, proprio nel 1784: l’anno del carteggio suo e di Mesmer con Washington.
Il prossimo post sarà sull’elettricità (anti-Sonnambuli…) e un certo “Spirito di Marat” ;-D
[Spoiler] “e visitò nell’omonima” stava per “e visitò l’omonima (Mohawk) Valley”.
È ulteriormente intrigante annotare, a proposito del preziosissimo copia-incolla di Wu Ming 1 dalle bozze del 2010 e delle tracce di continuità tra Manituana e Armata dei Sonnambuli e… oltre, che dopo La Fayette il primo grande diffusore statunitense del magnetismo animale (a parte il dottor Elisha Perkins che negli anni 1790 usava placche metalliche a fini terapeutici nel Connecticut) fu a partire dal 1829, a New York e relativo stato, il mesmerista du Commun: che di nome faceva Joseph ;-)
[Spoiler] Naturalmente sono riuscito a combinarne comunque un’altra delle mie: ho commesso uno degli errori più inusitati qui, confondere la numerologia wuminga! ;-p
Chiedo perciò perdono, anche e soprattutto a nome della tastiera virtuale del fottuto furbofono, per lo scambio di Wu Ming 2 per Wu Ming 1…
Scusa Giovanni, scusa Roberto, scusate giapsters.
La numerologia wuminga è programmaticamente confundente!
Meraviglia e crepapelle!
Chiaro che qualcosa va tagliato e non si può metterci tutto, ma che rimpianto lasciar fuori roba così!
[Spoiler] Su Jean del Bosco e Victor de l’Aveyron.
Accantono al momento (lo Spirito di) Marat, ma non l’elettricità: perché sono andato a leggermi il testo originale francese della Mémoire et Rapport sur Victor de l’Aveyron del dottor Jean Itard. Ed oltre a ritrovarci la già allusa quantità di riferimenti per la costruzione della figura finzionale del piccolo Jean, nonché la centralità della figura di Pinel come ispiratore della “terapia morale” ma anche come oggetto principale di confutazione per la sua diagnosi di “inguaribilità” del ragazzo tratta dalla comparazione proprio con le esperienze a Bicêtre, vi ho rinvenuto una specifica sorpresa che direi proprio… elettrizzante ;-)
Dalla “Mémoire sur les premiers développements de Victor de l’Aveyron”, Jean Itard, 1801, nel capitolo “Deuxième vue”:
Un jour qu’il était dans mon cabinet, assis sur une ottomane, je vins m’asseoir à ses côtés, et placer entre nous une bouteille de Leyde légèrement chargée. Une petite commotion qu’il en avait reçue la veille, lui en avait fait connaître l’effet. À voir l’inquiétude que lui causait l’approche de cet instrument, je crus qu’il allait l’éloigner en le saisissant par le crochet. Il prit un parti plus sage : ce fut de mettre ses mains dans l’ouverture de son gilet, et de se reculer de quelques pouces, de manière que sa cuisse ne touchât plus au revêtement extérieur de la bouteille. Je me rapprochai de nouveau, et la replaçai encore entre nous. Autre mouvement de sa part, autre disposition de la mienne. Ce petit manège continua jusqu’à ce que, rencoigné à l’extrémité de l’ottomane, se trouvant borné en arrière par la muraille, en avant par une table, et de mon côté par la fâcheuse machine, il ne lui fut plus possible d’exécuter un seul mouvement. C’est alors que saisissant le moment où j’avançais mon bras pour amener le sien, il m’abaissa très adroitement le poignet sur le crochet de la bouteille. J’en reçus la décharge.
Suggerisco di confrontare le pagine 525-526, con la eloquentissima inversione del ricettore della scarica tra paziente e terapeuta (d’altra parte per la pen a dei Wu Minh a chiamarsi Jean è il ragazzo-paziente…); e, a più riprese, molte pagine oltre, i passaggi riguardo la fascinazione su Jean (del Bosco) delle bottiglie di Leida ;-D
[Spoiler] Per agevolare e precisare: i passaggi di cui parlavo su Jean del Bosco e il fascino su di lui esercitato dalle bottiglie di Leida sono le 4 pagine di dialogo tra lui e D’Amblanc e di monologo interiore di quest’ultimo, da pag. 665 a pag. 668. E in verità non si riferiscono specificamente alle bottiglie di Leida ma al marchingegno di Puysegur che ne è composto, “il folgoratore”, la “macchina elettrica” come la pensa D’Amblanc o il mezzo “produrre il fulmine” come lo enuncia Jean.
Il rovesciamento dell’episodio del resoconto di Itard su Victor de l’Aveyron del quale parlavo rinvia a quello che compie nella parte finale, con D’Amblanc che cerca di salvare Jean regredito a ragazzo-cane per la presa magnetica d’Yvers e Jean che usa il proprio pugno per impedirglielo, invece di quello del terapeuta per trasmettergli la scarica come nel caso di Victor. Resta da considerare che poi D’Amblanc, per salvarsi dal “blocco del fluido” indottogli da Yvers, la scarica del folgoratore la rivolge su di sé…
[Spoiler] finito.
senza provare a lanciarmi in deliri filosofici che non sono alla mia portata, vi dirò solo che mi sono divertito, molto e mi sembra importante. in più, naturalmente, come accaduto con Q e 54, ma anche con altri romanzi di impianto storico, è sorto il desiderio di informarsi in modo più approfondito su quegli eventi che hanno segnato il destino, e il pensiero, non solo dell’Europa,
magari proprio da Novantatré di Hugo, e quindi grazie.
Tra tutte le immagini, quella che mi piace pensare reale è quella del “piccolo” Bastien sulle barricate del 1830.
ah, un refuso: pagina 394, l’ultima riga prima del terzo paragrafo: Claire e marie (Marie scritto minuscolo).
e poi a pagina 433 terzultimo rigo c’è la commerciale (&): il loro organismo; & che in questo…
ma magari è voluto.
scusate se sono rompiscatole, ma è la forza dell’abitudine.
ciao!
[Spoiler] Grazie! Sì, la & è riportata fedelmente dal documento d’epoca.
[Spoiler] Scusate la pedanteria, ma ho trovato un errore nel libro… non mi ricordo più a che pagina, ma si definisce Luigi XV il padre di Luigi XVI, mentre come è noto si tratta del nonno, essendo il figlio di Luigi XV, il delfino, morto prima del padre. Per la precisione!
[Spoiler] Grazie, è a pag.741, l’avevamo già segnalata alla casa editrice che ha già corretto, la prossima ristampa sarà senza l’errore. Purtroppo l’espressione “padre del padre” è diventata semplicemente “padre” e nelle successive riletture la cosa ci è sfuggita.
[SPOILER] Segnalo qui un frammento tratto da “Ombre sulle stelle” (1966) di Peter Kolosimo incentrato letteralmente su un’armata di sonnambuli nazisti. Curioso!
—
Nell’estate del 1945, subito dopo la disfatta tedesca, corse voce che gli scienziati nazisti avessero intrapreso mostruosi esperimenti volti ad ottenere un piccolo esercito d’automi umani telecomandati. La notizia venne proprio da quella parte che, allora, era la meno propensa a subire il fascino delle narrazioni utopiche. Ad ovest di Lipsia – mi si raccontò – una pattuglia sovietica aveva incidentalmente scoperto un laboratorio abbandonato, con una vasta sala che ospitava da un lato quattro corpi immobili su altrettanti tavolacci, accanto ad uno strano apparecchio, e dall’altro un complicato labirinto dalle pareti alte circa mezzo metro.
I quattro uomini, vestiti di tute con la sigla dei prigionieri di guerra, erano sicuramente vivi, ma i sovietici non riuscirono a svegliarli. Quando, però, l’ufficiale che comandava il gruppo s’avvicinò alla «macchina» e ne toccò a caso alcuni pulsanti, accadde qualcosa di terrificante: due di quegli esseri che sembravano drogati s’alzarono dai loro giacigli, ed uno di loro s’incamminò verso il labirinto, vi penetrò, percorrendolo con i passi sicuri e meccanici d’un robot, insensibile a tutti i richiami rivoltigli dai suoi liberatori. Alfine, urtato da un soldato impaurito, l’automa di carne cadde a terra; e continuò a muovere le gambe, poiché nessuno, interrompendo il contatto, gli aveva ordinato di fermarsi.
Il racconto può parere assurdo. Ma lo è poi davvero? Si ricordi che i primi riusciti esperimenti di stimolazione elettrica del cervello ebbero luogo nel 1932, realizzati dal neurofisiologo svizzero Walter Hess (premio Nobel nel 1949), e ci si sentirà indotti a riflettere.
L’operazione in discorso viene ottenuta praticando nella calotta cranica del soggetto minuscoli fori ed inserendovi sottilissimi elettrodi, per mezzo dei quali l’operatore trasmette a determinate regioni cerebrali impulsi atti a provocare passioni, stimoli, movimenti ed atteggiamenti contrari alla volontà del paziente.
Certo gli scienziati tedeschi ripresero sin dall’anteguerra gli esperimenti di Hess; e non ci sorprenderebbe affatto la conferma che i criminali hitleriani li avessero trasferiti dagli animali agli uomini.
[Spoiler] Mumble mumble… In una recensione su IBS leggo:
“Ho poi trovato particolarmente noiosa, se non addirittura irritante, tutta la ‘faccenda’ del mesmerismo, con l’acritica descrizione di istantanee e addirittura collettive induzioni di effetti ipnotici al semplice tocco del magnetista di turno. Vicende del genere già si tollerano a fatica in E.A. Poe che però scriveva nell’800. Farne nel 2014 il fulcro di un romanzo, è più da saga di Harry Potter che da romanzo storico.”
Tralascio i giudizi di valore letterario, ciascun lettore ha la sua scala. A me interessa quell’aggettivo, “acritica”.
Davvero la descrizione delle suggestioni può sembrare acritica?
Noi siamo stati molto attenti su questo punto, e a più livelli:
1) abbiamo messo sulle pagine una continua riflessione su cosa sia la volontà e abbiamo seguito i pensieri di questi uomini del Settecento che intuiscono l’esistenza dell’inconscio ma non hanno i concetti per tematizzarlo e affrontarlo. Un problema senza i concetti per risolverlo è solo un “mistero”, e bisognerà attendere Freud per avere la prima, grande concettualizzazione dell’inconscio.
2) soprattutto, abbiamo descritto le magnetizzazioni alludendo sempre a qualcos’altro che in realtà sta succedendo. Tanto noi quanto il lettore sappiamo che non esiste il fluido magnetico di cui parlavano i mesmeristi. Quindi sta succedendo qualcos’altro. E quel qualcos’altro è un’allegoria aperta. Qualcuno può leggerci una riflessione sul biopotere, o sulla manipolazione mediatica di oggi, o sui social network, o sulla psicanalisi, o tutto questo insieme. Quel che sta accadendo può essere (ante nominem) l’ipnosi “ericksoniana”, chi lo sa. Il punto è che il fluido non c’è, Yvers non ha superpoteri, e le descrizioni sono sempre punti critici del libro.
[spoiler] eppure negoddio c’e’ scritto anche nella quarta di copertina:
Il fluido magnetico. Funzionerebbe anche se non esistesse. Sono sempre gli uomini a magnetizzare le donne, sono sempre i nobili a magnetizzare i contadini.
[Spoiler] Ma… io sarò prevenuta ma secondo me “acritico” è un aggettivo che va di moda, lì c’entrava un cazzo ma faceva figo metterlo. Poi voi fate benissimo a prendere in considerazione le critiche e farvi domande sulle recensioni negative eh (ad esempio, è comprensibile che una parte dei vostri lettori abituati ai vostri romanzi storici possa non aver gradito l’intrusione nel fantastico). Ma non mi fossilizzerei troppo sui termini usati, soprattutto se sembrano del tutto ingiustificati perché di solito in effetti lo sono. La narrazione del mesmerismo mi sembra tutto meno che acritica, basti pensare alle seghe mentali di D’Amblanc lungo tutto il romanzo. Il fatto stesso che lo stesso strumento sia usato da un *buono* e da un *cattivo* è già una critica in sé, credo
[Spoiler] Sul rapporto tra problemi e concetti (è un concetto quello che si crea perché c’è un problema concreto da affrontare) e su molto altro, rimando alla meravigliosa, commovente scorribanda su “H come Histoire” di Gilles Deleuze nell’inesauribile videointervista nota come Abécedaire (sottotitoli in italiano):
https://www.youtube.com/watch?v=ghM29BCOx4I#t=1643
Quello del sonnambulismo sociale è un problema che ha bisogno di un incessante interrogarsi sui concetti. Ad esempio, il concetto di “inconscio”, o quello di “mente incorporata”, o quello di “suggestione”.
Anche se, tecnicamente, per Deleuze noi romanzieri creiamo non concetti ma “percetti”, cioè percezioni destinate a sopravvivere a chi le prova, potenzialmente provabili da chiunque e ogni volta che il libro viene letto. E’ un “percetto” anche lo stato d’animo pieno di risonanze in cui ci proietta l’allegoria aperta di un romanzo storico.
[Spoiler] Peraltro, se mi posso permettere, il fatto che le pagine sulle pratiche di Puységur a Buzancy non siano “invenzione romanzesca” bensì documentate e “storiche” è un’informazione che evidentemente non sfiora l’orizzonte del commentatore “scientifico”.
Né che in generale sugli stati e sulle situazioni di ipnosi o trance collettiva esistono quintalate di ricerche sul campo e letteratura in antropologia, dalle quali appunto sono stati tratti interi filoni di discorso filosofico e linguistico sul “qualcosa d’altro in accadimento” che significano.
Mah: sarà che i “percetti”, nel pre-giudizio, possono anche configurarsi come più semplice negazione…
[Spoiler] Io invece ho trovato proprio nel mesmerismo la parte più interessante del romanzo.
Ho anch’io percepito ben presto la “botola” con, tra le tante sfaccettature del presente, l’ipnosi ericksoniana ma soprattutto con “l’ericksonismo apocrifo” di programmazione neuro linguistica, life coaching e simili, ma anche con la medicina alternativa, pranoterapia, reiki e quant’altro. Insomma con tutto quel mondo borderline molto attuale che spesso si intreccia in catene di s. antonio, network marketing, seminari sulla leadership e la persuasione, convention motivazionali etc. che a mio modo di vedere veicolano concetti e valori inquietanti inerenti il potere taumaturgico e palingenetico della volontà, favoriti dalla condizione di fragilità e isolamento dell’individuo nonché da un’imperante egoismo sociale dovuto alla centralità dell’ideologia di mercato nella società.
Quello che più mi era piaciuto a suo tempo in Q era stato lo sforzo nel capire l’antagonista, il villain, il pezzo di merda della storia. Con il cavaliere d’Ivers ho trovato lo stesso sforzo ma molto più raffinato, merito di un’influenza tolkieniana? O forse di Jesi, come è stato già evidenziato?
Se in Q il villain in qualche modo si riscattava e comunque rispondeva delle sue azioni al mandante Carafa, in l’AdS non ci sono alibi o redenzioni, lo stronzo è stronzo fino alla fine, anzi, se possibile lo diventa sempre di più man mano che la narrazione procede, diventa persino più bastardo dei monarchici di cui inizialmente era stato servitore. Non è responsabile dei mali sociali, non è la causa del fallimento della rivoluzione e la sua sconfitta non ripristina la giustizia sociale nè rimette sui giusti binari la Storia, tuttavia è il solo responsabile (a differenza di Q) di una striscia minore di male estremo che minaccia di manipolare irrimediabilmente il conflitto storico. Un signore del male /supervillain forse fumettistico ma niente affatto superficiale: l’uomo che si faceva chiamare Laplace viene indagato, compreso, seguito con una letteraria telecamera a spalla fino a rendere possibile l’identificazione in lui del lettore, ed è per questo che per me è importante la botola con quel mondo borderline di oggi di cui parlavo all’inizio del mio intervento.
Laplace/Ivers non potrebbe essere un aspirante manager disperato, con un grosso disturbo di personalità e tanta, troppa, visionarietà, che in seguito all’ennesima convention su idee senza parole come leadership, cambiamento, empowerment inizia a concepire un nuovo ordine con cui si autosuggestiona e suggestiona una torma di altri disperati? Insomma, potrebbe essere chiunque all’indomani di un licenziamento…
Per me è molto significativo il fatto che si sia scelto l’archetipo del terapeuta deviante, quello del dottor Svengali, un archetipo a mio parere reazionario sia se preso come progetto di dominio che se inteso come paura sociale (non a caso Du Marais venò il suo romanzo di antisemitismo) e per questo estremamente attuale.
[Spoiler] vabbè, ho messo un po’ di nomi a cazzo di cane… Ivers era Yvers ovviamente, e Du Marais era Du Maurier…
Viva l’Armata e po’ bon!
[spoiler] Mi pare che non l’abbia ancora detto nessuno, allora la butto là: nel 1967 Yvers viveva a Brooklyn e si chiamava Joey Cafariello, crooner fallito col pallino del duce. Anche D’Amblanc si era trasferito a Brooklyn, suonava il sax, ed era conosciuto come John Coltrane. Il foborgo a quei tempi si chiamava Bedford Stuyvesant. And so on and so on….
[spoiler] è vero!!! Però lì Cafariello/Yvers era reduce da una lobotomia (e da un collasso psichico analogo a quello della Méricourt) in seguito alla guantata di Marie Noziere e aveva perso gran parte della sua capacità persuasiva/psichica di cui si erano appropriate invece le scimmie…
[…] Il libro è intrigante poi per i rimandi “nascosti” ad altri testi, a cominciare da “Manituana“, il volume del collettivo Wu Ming ambientato in America. Le citazioni di brani utilizzati per dialoghi dei personaggi, gli articoli di giornali d’epoca sono tutti stimoli alla curiosità, non del tutto appagata dall’atto quinto del libro. […]
[spoiler] – botola: sbaglio a vedere nel giovane generale Nanterre dagli occhi già vecchi, il futuro imperatore di Francia?
controllando velocemente nella memoria, ho letto un annetto fa una voluminosa biografia, e su wikipedia (…sigh!), nel 1794 era effettivamente già generale.
ci tengo, domanda rivolta ai lettori e non agli scrittori!
A viene in mente una cosa sola, l’epigrafe di “Giù la testa” del grande Sergio Leone:
“La rivoluzione non è un pranzo di gala” Máo Zédōng, ma nella sua versione completa del Libretto Rosso: « La rivoluzione non è un pranzo di gala; non è un’opera letteraria, un disegno, un ricamo; non la si può fare con altrettanta eleganza, tranquillità e delicatezza, o con altrettanta dolcezza, gentilezza, cortesia, riguardo e magnanimità. La rivoluzione è un’insurrezione, un atto di violenza con il quale una classe ne rovescia un’altra. »
Solo che le cose sono un po’ più complesse, il Popolo, i Cittadini sanno molto bene quello che vogliono e in questo “romanzo” la rivoluzione è vista dal basso, dal loro punto di vista, nella sua complessità lasciando ampio spazio per riflettere, una cosa è certa, loro sanno perfettamente quello che vogliono e vedono benissimo i risultati immediati, che paiono poco nel quotidiano, ma la rivoluzione ha tempi lunghi e i suoi risultati migliori li vediamo oggi; ma siamo dovuti passare attraverso il 1830, il mitico ’48 (qui le cose sono partite da Milano il 1° gennaio! poi i Savoia ci hanno messo del loro, per trasformarla in altro… ma questo è un altro discorso), l’apparente disastro della Comune di Parigi, così denso di effetti sull’oggi e (nel bene e nel male) la rivoluzione di ottobre degli nizi, senza queste cose oggi staremmo peggio, molto peggio.
[Spoiler]Ho terminato la lettura de L’Armata dei Sonnambuli ieri sera ed ho cercato di leggere il più attentamente possibile questo thread, pregno di spunti di riflessione interessanti, prima di postare un commento al fine di limitare ripetizioni rispetto a quanto già esposto.
Premessa: una seconda lettura sarà indispensabile per cercare di cogliere allusioni, inside jokes e livelli che in questa fase ho solo intuito avendo voluto dedicarmi alla lettura del libro senza blocco degli appunti e matita a portata di mano. Lo scopo era godermi l’esperienza del viaggio genuinamente. E goduria fu.
A cominciare dal mostruoso lavoro sulla lingua, che immagino sia stato mastodontico, e che rende accessibile e vicino un mondo che al lettore sarebbe potuto sembrare altrimenti esotico, per quanto Parigi sia a un tiro di schioppo ed il francese una lingua sorella.
Il punto è che fin dalle prime pagine l’universalità della vicenda mi è sembrata palese. Lo sguardo di Yvers che si pone, inorridito, sui nasi della plebe di Parigi, mi è parso lo stesso che sui tram e gli autobus della mia città meritano i passeggeri marocchini, rumeni, “negri”. Ciò che fa riflettere è che chi guarda, in quest’ultimo caso, non è più un aristocratico. Si tratta dei penultimi che schifano gli ultimi, dimentichi che la lotta è una sola e che l’avversario dovrebbe essere qualcun’altro. Il libro ce lo ricorda continuamente, come ci ricorda che sull’altra sponda della barricata, le idee, invece, le hanno sempre avute chiarissime a riguardo.
Attingendo a piene mani nella cultura popolare, che è brodo primordiale di intere generazioni (quale lettore di comics non ha avuto un brivido di piacere nel leggere del guanto artigliato sfoderato da Marie nel finale? o delle scorribande di Scaramouche sui tetti del foborgo, come si trattasse di Gotham City?), ci si è sentiti comodi e coccolati, salvo ricevere randellate improvvise e dolorose non appena si abbassava la guardia, un po’ come Léo durante la sua stagione da street fighter, e rialzarsi è diventato sempre più difficile, ma lo si è fatto perché scegliere da che parte stare comporta dei sacrifici.
Come per Marie, che vede nella Rivoluzione una possibile catarsi che la purifichi e la affranchi da un vita fino ad allora solamente subita. Il prezzo da pagare sarà salatissimo, più per la dissipazione del suo sogno a seguito dell’arresto di Claire (ciò che si è scelto di amare), che, paradossalmente, per l’allontanamento del proprio figlio (ciò che si è “costretti” ad amare).
L’Atto quinto mi ha colto del tutto impreparato. Durante la lettura del libro sbirciavo l’indice ogni 50 pagine per cercare di capire dai titoli delle scene cosa mi sarei potuto aspettare e, leggendo quel “Sull’alienato rinchiuso a Bicȇtre con il nome di «Auguste Laplace»” mi ero persuaso che alla fine della vicenda Yvers/Laplace sarebbe stato riacciuffato e sbattuto in manicomio e che, quindi, l’atto quinto altro non fosse che un vero e proprio “Come va a finire”, parte integrante della storia.
E invece…man mano che leggevo pensavo “ma che minchia stanno scrivendo??”, effetto decisamente straniante finché non si capisce a cosa si sta assistendo. Da quelle preziose pagine partirò per un nuovo viaggio.
Aggiungo a questo disordinato flusso di pensieri a caldo l’unico passaggio che in questa prima, vorace lettura non ho potuto esimermi dall’appuntare e che reputo uno dei più significativi (da pag. 210): “Per poter essere sconfitta la rivoluzione andava resa irreversibile. Ogni illusione sulla possibilità di restaurare il vecchio regime doveva dissiparsi. Solo così sarebbe nato l’Ordine Nuovo, ossia quello veramente antico, quando ogni tendenza sarebbe finalmente giunta ai confini del possibile e, respinta dall’invisibile barriera eretta da Dio, si sarebbe capovolta all’indietro.”
Per concludere, a mio modestissimo avviso, si tratta del libro apparentemente più accessibile della vostra intera produzione, ma allo stesso tempo del più sovversivo, radicale, potente, complesso e anticonsolatorio sin qui partorito.
[spoiler?] Il Quinto Atto pone questioni di vasta portata, su cui si affaticheranno le generazioni a venire. Certo è un atto (e il titolo corrente ce lo ricorda su ogni pagina sinistra). Ho dovuto rileggere l’intervento di Tommaso De Lorenzis per iniziare a capire. Perché non avevo capito quando avevo chiuso il libro la prima volta – e già lì c’era stato un estraniamento, una sorpresa, un ‘ma vardali ’sti Wu Ming, fischia’. Ho riletto De Lorenzis e ho passato un pomeriggio a verificare le citazioni (grazie alle edizioni digitali di Gallica, Archive etc.). Secondo estraniamento. Quando ho capito, mi sono posto un interrogativo etico, come se fossi io lo scrittore. E fu sera e fu mattina: ne scrivo a distanza di un giorno perché subito ero confuso. Ho pensato: non tutto è verificabile. E come dice Wu Ming, e ha detto anche Eco commentando le recensioni del Nome della Rosa (vedi le sue Postille), proprio le citazioni più vere sono scambiate per interpolazioni dal sedicente critico. Certo, qualcosa è accaduto durante la stesura del libro. O era previsto fin dall’inizio? Ho immaginato i Wu Ming che ne discutevano insieme. Su Twitter è comparso un post che parlava di una riunione. Allora ho capito. Terzo estraniamento. Mi sono convinto, sì, che quella è la Storia, come avrebbe dovuto esser scritta fin da principio. O parodiata. Perché scrivere la storia, anche nella storiografia accademica, significa parodiare, cercare a tutti i costi un’allegoria e una razionalità – perché non c’è parodia senza un ragionamento. Ma quel legame di causa-effetto che è così forte nel quotidiano, quando non mangio e ho fame, si allenta e attorciglia nella dinamica di una materia granulare come la sabbia, o la neve o le gocce di pioggia, come la folla. (La distanza temporale dai fatti non è un’aggravante: più aumenta e più lo studioso che ricostruisce la Storia si giova inconsapevolmente delle libertà proprie dello scrittore-creatore di un mondo secondario; va da sé che la logica di certi ragionamenti storici appare stringente solo perché la minor disponibilità di dati del passato viene fraintesa per una minor complessità rispetto al presente.) Lo storico cerca un nesso a tutti i costi, una trama, pur di non ammettere la molteplicità e la casualità come fattore storico. Wu Ming invece ci restituisce la rivoluzione in tutta la sua irrazionalità, nel terrore, nei movimenti del popolo come di onde che sbattono in un vicolo cieco, e tanta schiuma. L’autore ha abdicato – o finto di abdicare -, forse per non fare la fine del re. E il lettore può pensare di aver letto una storia romanzata e un libro di storia, accontentarsi di una trama o cercarne altre. L’opera è scritta. I caratteri si sono combinati in una sequenza precisa, dalla prima stesura all’ultima bozza, dalla prima pagina all’ultima. Ma le biografie dei personaggi (che pure hanno abdicato dal loro ruolo di personaggi) si incrociano come le carte del Castello dei Destini Incrociati (o del Laberinto di Ghisi, per dirla con Tomatis). Consolatorio è pensare che la trama sia una sola. Se c’è un’arte di stupire e se l’arte è stupire, W Ming c’è riuscito. Il libro è finito ma la storia (la Storia?) è appena cominciata. La rivoluzione è passata ma è ancora da fare, o forse la si è appena fatta. Dov’è il Grande Altrove? Siamo tutti sonnambuli e si risveglierà solo chi arriva al terzo estraniamento? Come poteva avere Tommaso De Lorenzis una copia cartacea del Lissagaray? Gli interrogativi continuano, nell’attesa che nuovi documenti rimescolino le carte un’altra volta, un’altra trama…
Nota postuma. Segnalo la strana scoperta, a poche settimane dell’uscita dell’Armata, di un’edizione dell’Odissea del 1504 accompagnata da note nella ‘tachygraphie’ di Jean Coulon de Thévenot (1754-1813). Già è curioso il titolo dell’opera in cui Thévenot spiega il suo metodo: Méthode tachygraphique, ou l’art d’écrire aussi la vie que la parole (1789). In corrispondenza dei versi 710-715 del libro XI, dove Odisseo fronteggia le ombre dei defunti, è stato annotato: ‘somnambules’. Lascio a lettori con più acribia di me le debite illazioni.
http://news.lib.uchicago.edu/blog/2014/05/05/homer-mystery-script-contest-winner-and-results/
[Spoiler] A proposito della linea Pasqually-Willermoz-Saint Martin, del rovesciamento del mito del complotto massonico come radice della Rivoluzione, degli epigoni di quella linea fino all’Action Française e poi a Vichy, e del Nero-Laplace-Yvers…
Paul Bourget:
“Une société doit être assimilée à un organisme. Comme un organisme, en effet, elle se résout en une fédération d’organismes moindres, qui se résolvent eux-mêmes en une fédération de cellules. L’individu est la cellule sociale. Pour que l’organisme total fonctionne avec énergie, il est nécessaire que les organismes moindres fonctionnent avec énergie, mais avec une énergie subordonnée, et, pour que ces organismes moindres fonctionnent eux-mêmes avec énergie, il est nécessaire que leurs cellules composantes fonctionnent avec énergie, mais avec une énergie subordonnée. Si l’énergie des cellules devient indépendante, les organismes qui composent l’organisme total cessent pareillement de subordonner leur énergie à l’énergie totale, et l’anarchie qui s’établit constitue la décadence de l’ensemble.”
Essais de psychologie contemporaine, 1883.
[Spoiler] Ma poi, a riassumere il senso intero e semplice di un’Armata dei Sonnambuli “magnetizzata”, il motto del progetto teocratico di Joseph De Maistre, discepolo di Saint-Martin (quello che fece i turni di guardia al Tempio…):
“L’abnégation de tout raisonnement individuel”, Réflexions sur le Protestantisme.
[Spoiler] Ho finito tre ore fà questo capolavoro. E quindi chiedo venia per i pensieri confusi che seguiranno; sono le mie prime impressioni del tutto viscerali. Innazitutto grazie agli autori; il libro è bellissimo, divertente, drammatico, illuminante e tutto ciò contemporaneamente.
Concordo in pieno con l’opinione già diffusa molte righe più in alto: è un opera che si adatta e si adatterà ad ogni lettore e contenente infiniti livelli di lettura. Sarà inevitabile rileggerla e ogni volta avrà significati e rimandi differenti. L’atto V è profondamente Smark e sicuramente Tolkeniano!
In questo preciso momento io non posso fare altro che cogliere continui rimandi a ciò che succede adesso in questa nazione. La nazione dei sonnambuli! Ho 48 anni degli anni ’80 non è che senta grossa nostalgia… mi sono diplomato nel 1984 e per questioni caratteriali ho passato l’adolescenza a schivare i bulli di turno e mi sono iscritto all’università soprattutto per schivare la leva obbligatoria. Nonostante il clima culturale casalingo di sinistra, mio padre iscritto al PCI dal 1954, non sono riuscito ad avere coscienza politica fino a poco tempo fa, proprio ora che il PCI è morto e sepolto! Ho come l’impressione di essere stato sonnambulizzato per 30 anni e ho l’impressione che il l’italia stessa sia stata pesantemente sonnambulizzata negli ultimi 30 anni, lo è forse anche il mondo intero? Fatto sta che durante la lettura del romanzo meditavo continuamente sulla percezione che il mondo appaia come la continua bruttacopia di se stesso, giorno dopo giorno, tutti schiacciati da impossibilità di avere un lavoro stabile, da corruzione dilagante, da continuo revisionismo storico, dall’uso distorto dei valori della resistenza e dal continuo tentativo di scardinare e pervertire la costituzione; la mia domanda più frequente, subliminale, era “ma chi cazzo voto adesso alle prossime elezioni?” Insomma il libro mi è piaciuto ma ha contribuito ad aumentare esponenzialmente il mio livello di incazzatura. La goccia poi è stata l’ennesima dimostrazione di mesmerismo (alla Yvers!) calcistico; tifoserie che si scontrano, ci scappa il morto; un intero stadio, le forze dell’ordine, le forze “politiche” le “autorità” sportive tenuti tutti per le palle da ultras che decidono come e quando giocare in questo caso; qualche anno fà hanno messo a ferro e fuoco la capitale compresa irruzione alla questura. Che provvedimenti sono stati o verranno presi contro questi episodi? NESSUNO!!! E dobbiamo sorbirci il ministro dell’interno che solo un paio di settimane fa ventila seriamente di proibire ogni tipo di manifestazione nei centri storici…. e soprattutto devo accettare tutto questo merdaio e sapere che ci sono 4 ragazzi che rischiano 30 anni di carcere ed hanno pesantissime accuse di terrorismo solo perchè hanno giustamente protestato contro l’incivile ed ingiusta occupazione della loro terra?
Siamo in pieno Termidoro, le strade sono in mano ai muschiatini, l’armata dei sonnambuli è ovunque: tutti credono di vivere ancora negli anni ’90 danzando amabilmente da un happy hour all’altro. Spero arrivi un qualche Scaramouche!
E poi ho pensato che ci vorrebbe veramente una Rivoluzione ma nel libro ho come colto un monito; una rivoluzione può implodere in se stessa e gli stessi rivoluzionari cadere vittima sia dei meccanismi di che si credevano “rivoluzionati” che del nuovo ordine di potere instaurato: ciò non toglie che è sacrosanto ribellarsi e resistere. In questo tempo bisogna sicuramente trovare nuove forme di Resistenza e Rivoluzione e credo che gli autori sono sicuramente custodi di alcune di queste forme. Scusate l’off topic, potete rimuovere senza problemi questo post, ma questo è ciò che mi ha scatenato la lettura dell’Armata dei Sonnambuli.
Andrea.
[Spoiler] Incoraggiato dal clima cordiale di lunedì scorso allo Zapata azzardo un paio di rilievi.
Un aspetto che mi ha colpito è la presenza di effetti ‘romanzeschi’ ancor più marcati che in passato. Per esempio, il Quinto Atto l’ho letto come quei capitoli finali dei romanzi ottocenteschi (memorabili in Dickens, per dire) in cui si da conto dei destini successivi di tutti i personaggi sopravvissuti. Allo stesso modo il personaggio di Marie Noziere (ah, lo sapete, vero, che Violette Noziere è stata scagionata?), al di là del suo ruolo nel discorso sul genere e la rivoluzione ha un arco narrativo da romanzo di formazione (o deformazione) con un carico di pathos abbastanza atipico finora nei vostri romanzi. Insomma, Marie Noziere è commovente, letteralmente. Un minimo cambio di registro è saremmo passati dal ‘Madre Courage’ a ‘Coraggio, mamma!’ (vecchissima battuta anni ’50, credo di Giuseppe Marotta…). Anche la storia d’amore fra d’Amblanc e la vedova Girard richiamava modelli romanzeschi ancora più antichi ma decisamente appropriati, del Settecento francese. Oltretutto, mi pare, all’interno della tragedia complessiva di un fallimento storico, direi che i personaggi ‘simpatici’ ne escono bene, cioè abbiamo una serie di lieti fini (Modonesi che parla con Napoleone, Marie e Clare insieme, il Delfino a evangelizzare gli indiani etc) che mi ha riscaldato un po’ il cuore. “I’m a sucker for happy endings” (cit.)
Queste non sono critiche ma complimenti. I vostri romanzi storici sono costruzioni vaste, stratificate e piene di impurità ed è per questo che mi piacciono. Che vi siano richiami a tradizioni narrative più antiche e meno pop per me è solo positivo, vuol dire che avete più frecce al vostro arco di tanti altri che riempiono le loro storie di riferimenti cinematografico-televisivi-musicali terribilmente ovvi.
(AdS ancor più cinematografico dei precedenti. Il mistero del perchè i vostri libri non diventino film. Oh, aspetta, quale mistero? Sappiamo benissimo perchè non è possibile, in Italia oggi).
(a proposito, un po’ sorpreso dal ritratto del tutto negativo di Hebert. Era proprio irrecuperabile come persona, mi sa).
Per quanto riguarda il mesmerismo e l’ipnotismo, come vi avevo già detto allo Zapata, sono rimasto colpito dalle somiglianze tematiche con questo dimenticatissimo romanzo inglese degli anni Cinquanta, ‘Cards of Identity’ di Nigel Dennis (che venne pubblicato in Italia da Einaudi). Ufficialmente è un romanzo satirico ed è pure divertente ma anche abbastanza inquietante, per un tono vagamente magico che percorre la storia e la forte sensazione che non ci venga detto tutto. In breve, racconta di un gruppo di persone, l’Identity Club, convinto che il grande problema del mondo moderno sia l’identità personale e che le persone abbiano identità talmente fragili da accettare con gioia identità nuove. I membri del Club passano il tempo a cambiare le identità delle persone con cui vengono in contatto, senza ovviamente chiedere il permesso, e con metodi ai confini del magico: la sproporzione fra i mezzi (chiacchiere, soprattutto) e i risultati è estrema, tanto da far sospettare che ci sia ben altro sotto (come pure l’assassino del Presidente del Club attraverso una finta tragedia di Shakespeare – riportata per intero, btw – e quello che appare a tutti gli effetti un rito magico). Inoltre, l’Identity Club è composto da gente di classe alta o almeno che lo sembra mentre i plagiati sono tutti rigorosamente lower class e Dennis è perfettamente consapevole della cosa. Come giustamente fate dire a Mesmer (credo), i nobili mesmerizzano i contadini ma mai viceversa.
In generale, mi piacete perchè, a differenza di tanti altri scrittori, anche bravi, avete il coraggio di pensare. Spesso ho dei dubbi sulle vostre teorie (la necessità del romanzo storico, il NIE) ma praticamente mai sui vostri risultati.
[Spoiler] Ciao, grazie per questi spunti. Solo una precisazione, per il momento: Violette Noziere non fu “scagionata”, lei stessa non negò mai di aver commesso il parricidio, si “limitò” a spiegare il proprio movente descrivendo le violenze e gli abusi subiti. Fu condannata prima a morte poi all’ergastolo. Nel Dopoguerra fu non scagionata (letteralmente, rimuovere la cagione della condanna, cioè il fatto compiuto) ma “riabilitata”, che è una cosa diversa.
[Spoiler] Su Muschiatini, muschio e… Marat.
Un aneddoto che rappresenta un promemoria d’una certa importanza per riunire consapevolmente riferimenti simbolici centrali del romanzo e della vicenda storica che attraversa:
Louise Fusil in Souvenirs d’une actrice, pubblicato a Parigi nel 1841, racconta di un episodio degli inizi di ottobre 1792 che ha per protagonista Jean-Paul Marat. Egli, narra, piombò ad una festa del primattore Talma alla quale partecipava il generale Doumouriez comandante dell’Armata del Nord (del quale aveva da tempo e a ragione subodorato il tradimento contro la Repubblica), per apostrofarlo, prenderlo da parte e chiedergli conto dell’arresto al fronte di volontari rivoluzionari che avevano fucilato dei disertori prussiani (volontari per i quali dopo poco ottenne dalla Convenzione l’ordine di scarcerazione). Terminato l’alterco con Doumouriez, il cittadino Marat abbandonò la festa. E fu allora che l’attrice Louise Dugazon sparse profumo di muschio per la sala, onde “purificarla” delle tracce lasciate dall’improvvido intruso…
Pare così di trovare un’origine della misteriosa preferenza di profumo della Jeneusse Dorée o meglio dei mazzieri controrivoluzionari non a caso noti come Muschiatini, dei quali farà vendetta proprio lo Spirito di Marat del buon Scaramouche ;-)
Il libro l’ho divorato e questa volta devo dire che la lettura di un plot “frastagliato” scorre molto meglio, meno cervellotica, se posso dire. Le vicende e i personaggi si incontrano nel finale in modo più classico (ma non so se sia un bene…). Il libro è di lettura più semplice e divertente. Posto che le vette di Manituana a mio parere non sono mai più state toccate, L’armata mi è piaciuto molto. Se devo dire non mi convince lo stile “popolano”… Non lo comprendo molto… troppi sbrigsa…
Anyway: grazie ancora per la possibilità di leggere narrativa importante, che pretende attenzione.
[Spoiler]Erano libri che non accadeva di sentirmi così incuriosita rapita e soddisfatta dalla lettura di una donna d’inchiostro. Grazie per Marie Noziére, per la complessità del suo ruolo, per la sua instabile dinamica di crescita, per i suoi dubbi da madre che non voleva essere madre e per il coraggio di agire come tale, per quel particolare momento di resa stordita sul divano di Claire e per il suo improvviso o, meglio, rinnovato impulso di stringere il pugno, di reagire. Unica stonatura nella sua storia – degustibus, amo quando non tutto viene esplicitamente svelato – è la violenza sessuale madre di Bastien, perché condensare anche quell’episodio nella figura di Yvers? Anche se ho ovviamente esultato quando i suoi ferri da calza storpiano l’uomo della merda, anzi, il patriarca della merda.
[Spoiler] Su Twitter avete fatto precipitare Artaud sull’Atto quinto e su Laplace, ma anche me in una nuova serie di associazioni “folgoranti”.
La prima cosa che mi è venuta in mente, memore dei formidabili trip di Derrida in “Antonin Artaud -.Forsennare il soggettile”, è che nell’ADS c’è qualcos’altro che vi ha molto a che fare, e non è nell’Atto quinto anche se si tratta sempre (almeno per la denominazione…) di Laplace-Yvers (e la reclusione, e la scelta della fuga tra alienazione e liberazione).
Questo qualcosa è “l’Uomo della Merda”.
Prima referenza:
“E dico che la mia anima sono io e che se mi va di fare una figlia che un giorno voglia venire a letto con me,/
fare cacca e pipì su di me/
lo farò verso e contro dio lo spirito di ritenzione diarroica che non smette di scoreggiare su di me, fondendo a bomba con il suo paradiso sulle pareti del mio cranio vuoto, in cui ha incrostato il suo nido.”
Dix ans que le langage est parti…, 1947.
Seconda referenza:
“Là dove so sente puzza di merda / si sente l’essere […] l’uomo ha temuto di perdere la messa/ anzi
[Spoiler] accidenti è partito l’invio…
Riprendo il filo.
Seconda referenza:
“Là dove si sente puzza di merda / si sente l’essere […] l’uomo ha temuto di perdere la messa/ anzi ha desiderato la merda/ e, per questo, ha sacrificato il sangue. […]”
la Recherche de la fécalité, in Pour en finir avec le jugement de dieu, 1947.
Terza referenza:
“Prima della trance vi è una meditazione di incubazione anale […]”
e
“Del resto, la vecchia scatola di humus cacca tornerà quando l’uomo avrà smesso di essere quella bassa faina che gratta nel sesso come per farne venir fuori il segreto del babbo, dalla bocca stessa della sua mamma,/
e babbo-mamma anch’esso avrà ceduto il posto all’uomo, senza geroglifico né tastiera segreta./
Ma ci vorrà molto sangue per risanare la scatola della merda, lavata, non di merda, ma di amor-dio”
Suppôts et suppliciations.
P.S.: e comunque, poRco Lacan!
P.P.S.: Rodez, luogo dell’internamento dal quale Artaud scrive la lettera sul suo elettrochoc e dove ne subisce, è nell’…Aveyron.
[Spoiler] (naturalmente, dov’è scritto in citazione “l’uomo ha temuto di perdere la messa/ anzi ha desiderato la merda” leggasi “l’uomo ha temuto di perdere la merda/ anzi ha desiderato la merda”.
Lapsus artaudiano ;-p )
[Spoiler] “When, in 1953, Chou En Lai, the Chinese Prime Minister, was in Geneva for the peace negotiations to end the Korean war, a French journalist asked him what does he think about the French Revolution; Chou replied: ‘It is still too early to tell.'”
:-)
Slavoj Žižek, Robespierre or the “Divine Violence” of Terror
http://www.lacan.com/zizrobes.htm
[Spoiler] Zizek ha infilato questo aneddoto in almeno tre diversi libri, però mi è rimasto il sospetto che si tratti di un banale errore di traduzione tra Zhou Enlai e l’interprete. La risposta si adatta bene allo stereotipo del cinese che guarda la Storia (e la Rivoluzione) in modo diverso da noi Occidentali. Però però… Siamo sicuri che Zhou abbia davvero capito il riferimento? Non è che magari intendeva esprimersi su una qualche rivolta francese del ’53? Oppure…
[Spoiler] …io l’avevo letto diversi anni fa in una biografia di Zhou ..decisamente molto prima dello sloveno.
Secondo me invece si attaglia pefettamente alla sua figura …e al rapporto dialettico che ha avuto con Mao..
[Spoiler] Secondo me è più probabile che Zhou abbia risposto “Non è il momento di parlarne” (cioé: che cazzo mi vieni a parlare della Rivoluzione Francese mentre siamo qua per discutere della Corea?). Una frase del genere diventa facilmente “non è tempo di parlarne” = “è troppo presto per parlarne”… Però chissà, se la biografia di Zhou era autorizzata e scritta da un cinese, magari è una buona conferma.
[Spoiler] L’aneddoto come lo riporta Zizek, sbagliando anno e circostanza, è apocrifo. E’ una frase detta da Zhou Enlai nel 1971 durante la visita di Nixon in Cina, il fraintendimento è di Zhou, perché la domanda riguardava la Rivoluzione Francese ma la risposta si riferiva agli eventi di tre anni prima, cioè al Maggio 1968.
http://www.ft.com/cms/s/0/74916db6-938d-11e0-922e-00144feab49a.html#axzz317ZPKJ7X
[Spoiler] “The story became legendary, and a rather lazy cliche about the difference between Chinese and Western mentalities entered the public discourse.”
http://www.historytoday.com/blog/news-blog/dean-nicholas/zhou-enlais-famous-saying-debunked
Zhou era persona molto colta e parlava correntemente il francese (la domanda e la risposta originali furono in francese), così come conosceva bene la Francia dove aveva vissuto e studiato (come Deng Xiao Ping, più giovane di lui e suo ‘protetto’). Credo che sapesse molto bene a cosa si riferiva con la sua battuta e sapeva di rivolgersi ad un pubblico francese che avrebbe colto l’ironia della sua risposta, ma anche la sottile seduzione che dalla sua personalità emanava e che serviva ad allontanare l’identificazione del comunismo cinese come un ‘comunismo bambino’ e intellettualmente arretrato.
Per anni ho sperato fosse una vera citazione, ma tempo fa mi sono imbattuto nella notiziola: http://www.ft.com/intl/cms/s/0/74916db6-938d-11e0-922e-00144feab49a.html#axzz33i4gRzB6
insomma, l’inossidabile Zhou (ricordiamoci che è durante l’inizio della Lunga Marcia che il suo mancato appoggio ai “28 bolscevichi” a Zunyi fa pendere la bilancia dalla parte di Mao!) aveva capito che si stesse parlando del maggio del ’68.
Non è proprio così: si conoscono almeno quattro diverse occasioni in cui Zhou avrebbe fatto questa battuta: secondo qualcuno già nel 1945, poi nel ’54 a Ginevra, a Bandung l’hanno successivo e poi nel 1971. Credo che semplicemente fosse una battuta ad effetto che lui avrebbe adattato di volta in volta. Difficile che Zhou potesse fraintendere tra la Rivoluzione francese e il ’68: era una persona estremamente attenta anche alla minima sfumatura del linguaggio e delle espressioni fisiche: per questo è sempre riuscito a restare sulla ‘cresta dell’onda’. Se diceva qualcosa, soprattutto pubblicamente, potete star certi che era esattamente ciò che voleva dire: la spontaneità e il caso non facevano parte del suo personaggio.
Caro Nguyễn, che Zhou Enlai fosse colto e molto molto furbo non ci piove. Anche solo per il fatto della sua incredibile longevità politica, in un paese che conobbe un secolo di sconquassi giganteschi. Il fatto che riuscì a impedire la distruzione degli archivi del ministero, oltre al Potala e allo Yiheyuan (giusto il corridoio finì bruciacchiato prima del suo intervento) la dice lunga sulla sua capacità di restare a galla in piena GrandeRivoluzioneCulturaleProletaria. Solo dopo la sua morte, con “critichiamo Lin Biao, critichiamo Confucio” si cercò di attaccarlo. E anche allora finì come finì per i suoi nemici.
Dico di più: il suo fascino era tale che persino il mullah di Kashgar era un suo ammiratore, tanto da averne la foto in bella mostra in pieno periodo denghista. “Fu un grande amico del popolo uiguro”, mi disse, con mio stupore.
Quindi non pensare che sia per sminuirne la figura storica. Ma che ci siano ben quattro occasioni in cui “avrebbe” detto la celebre frase non solo non aggiunge verosimiglianza, ma anzi…
Per finire: non è strano che manchi nella pagina in cinese delle sue citazioni in wikiquote? Insomma, senza idolatrare le fonti primarie, non è che tra tutte le citazioni secondarie in altre lingue manchi proprio la pistola fumante in mandarino?
ps: non so bene quali siano i termini di questa citazione in questo thread: sono arrivato qui da twitter e non ho letto i post sopra e sotto per via dello spoiler ;-)
Ciao,
se sei in grado di leggere la pagina di wikiquotes in cinese, saprai anche che le citazioni ufficiali di Zhou, come quelle di qualunque leader cinese cambiano spesso. Tanto per fare un esempio più recente, le citazioni di Xi Jinping dell’autunno 2012, il momento dell’arrivo al potere, nel giugno 2013 erano state completamente modificate, così come gli slogan utilizzati: per es, da ‘China dream’ si è passati a ‘Chinese dream’, e l’espressione è stata modificata perfino con effetto retroattivo su tutta la stampa dei mesi precedenti.
Zhou, per molti versi, è stato un grande ‘mandarino’ che ha saputo rendersi indispensabile a Mao e che poi ha favorito l’ascesa di Deng: un personaggio comunque interessante. La campagna ‘critichiamo Lin Biao, critichiamo Confucio’ fu in grado di appropriarsela e volgerla a suo favore: addirittura Zhou promosse la reintroduzione dello studio dei testi confuciani nelle scuole, argomentando che era necessario al fine di poter criticare Confucio, conoscerne le opere.
Per Zhou En-lai, ma vale anche per altri leader comunisti asiatici (ad es. Nguyen Ai Quoc, alias Ho chi minh, a cui usurpo il nickname), bisogna sempre tenere conto del fatto che il comunismo asiatico è nato con un legame ideale strettissimo con il nazionalismo e l’antimperialismo (carattere condiviso anche con i nazionalismi di destra). Come bene sottolineò Mao, il marxismo-leninismo era ‘un’arma nelle mani del proletariato’, dove in lingua cinese o quoc ngo (vietnamita romanizzato), l’aspetto ‘strumentale’ veniva fortemente accentuato. Uno strumento/arma il cui scopo era la liberazione nazionale e la ricostruzione della propria indipendenza: il nazionalismo di destra si fermava qui (pur condividendo perfino l’ispirazione leninista, intesa come ‘metodo’), il nazionalismo di sinistra (che in Asia non è un ossimoro) affermava invece che non potesse esserci vera indipendenza dall’imperialismo senza una rivoluzione che fosse anche ‘sociale’, oltre che nazionale. Zhou era un ‘mandarino’ cinese convinto del fatto che non ci sarebbe stato riscatto e ricostruzione nazionale senza una trasformazione sociale, dove questa, però, era subordinata a quella. Forse anche per Mao fu così ma, almeno da ciò che conosciamo (molti testi di Mao sono censurati in Cina, e molti altri sono stati ‘rivisti’, e di altri ancora si favoleggia l’esistenza), non esplicitò mai questo aspetto. Cosa che invece fece Nguyen Ai Quoc, futuro ‘zio Ho’, fin dagli anni ’20, con la creazione della Than Nien (la prima organizzazione rivoluzionaria leninista vietnamita): ma proprio l’aver stabilito apertamente il legame marxismo-nazionalismo, lo portò a cadere in disgrazia a Mosca nel ’30 (con tutto quello che avrebbe potuto comportare). Anche Chandra Bose prese questo stesso indirizzo, che però lo condusse poi ad avvicinarsi progressivamente al fascismo e al collaborazionismo con i giapponesi.
Ps: scusa la pedanteria: è una deformazione professionale.
Zizek scrive molto, troppo, e spesso le sue citazioni e riferimenti sono errati e o poco precisi.
Era il 1954 e si trattava dei negoziati per la fine della guerra d’Indocina dopo la resa di Dien Bien Phu (anche se la conferenza fu convocata prima e, in origine, avrebbe dovuto occuparsi della questione di Berlino): fu la prima conferenza internazionale ufficiale a cui prendessero parte sia i cinesi (comunisti) che gli USA (dato che questi però non riconoscevano l’esistenza della Cina comunista, fu preparato un tavolo con una forma particolare che consentiva ai delegati cinesi e americani di non guardarsi, fingendo di non ‘accorgersi’ della presenza gli uni degli altri, respingendo così ogni ipotesi che la partecipazione rappresentasse un riconoscimento di fatto).
I negoziati per l’armistizio in Corea si conclusero un anno prima a Panmunjon e i cinesi non vi partecipavano poiché negavano che vi fosse mai stato un proprio intervento diretto nel conflitto: le truppe cinesi in Corea erano formalmente ‘volontari’ che si richiamavano all’esperienza delle Brigate Internazionali in Spagna.
[Spoiler] Già, probabile, Žižek preferisce il “print the legend” a una ricostruzione più scrupolosa. Ma l’aneddoto gli serve a liquidare chi vuole riporre su uno scaffale la rivoluzione (francese). In ogni caso tutto il ragionamento di Žižek su Robespierre e la Divina Violenza del Terrore si intreccia in modo molto interessante con l’universo concettuale dell’Armata:
‘This identification of the part of society with no properly defined place within it (or resisting the allocated subordinated place within it) with the Whole is the elementary gesture of politicization, discernible in all great democratic events from the French Revolution (in which le troisième état proclaimed itself identical to the Nation as such, against aristocracy and clergy) to the demise of the East European Socialism (in which dissident “forums” proclaimed themselves representative of the entire society against the Party nomenklatura).
In this precise sense, politics and democracy are synonymous: the basic aim of antidemocratic politics always and by definition is and was depoliticization, the demand that “things should return to normal,” with each individual sticking to his or her particular job. […] Saint-Just said in November 1792: “Every king is a rebel and a usurper.” This phrase is a cornerstone of emancipatory politics: there is no “legitimate” king as opposed to the usurper, since being a king is in itself an usurpation, in the same sense that, for Proudhon, property as such is theft. What we have here is the Hegelian “negation of negation,” the passage from the simple-direct negation (“this king is not a legitimate one, he is an usurper”), to the inherent self-negation (“authentic king” is an oxymoron, being a king IS usurpation). This is why, for Robespierre, the trial of the king is not a trial at all”.’
[Spoiler] Ho finito oggi di leggere l’armata dei sonnambuli;vi posso dire qsolo grazie,grazie per questo ennesimo romanzo.non so come descrivere la mia gioia nel sfogliare il libro.credo proprio che domattina,sul pullman per andare a lavoro ,riparto per parigi e mi faccio un altro giro nella rivoluzione .
Per favore,non smettete di scrivere romanzi storici.
Grazie di nuovo.
[Spoiler] Finito AdS l’altro giorno. Complimenti: un romanzo che si fa leggere anche dopo averlo finito, qui sul blog ma soprattutto grazie alle mille botole (dell’AQ e non) di cui si parla…
Tantissime domande! Intanto: mi è piaciuta molto l’idea di tradurre i nomi delle vie, uno dei modi tramite i quali nell’AdS si capisce come la geografia di Parigi è il sedimento di mille conflitti. In questo senso, è molto bello il passaggio sulla rue Grange aux Belles, il granaio delle prostitute… Che discussione vi siete fatti, nel collettivo, sulla geografia parigina? Come avete mappato la Parigi dell’epoca, che ruolo svolge la città nel libro?
Tra l’altro, piccola botola sulla barriera dei combattimenti, alla Porta di Pantin (odierno XIX arrondissement): quel quartiere giunse a chiamarsi place du Combat, oggi place du Colonel Fabien (partigiano comunista) e sede della megalomane sede del PCF. Li accanto venne costruito uno dei primi campi di rugby di Parigi, oggi demolito.
Ho trovato estremamente fertile il filo teatrale che attraversa il libro: il teatro come modo di lettura delle dinamiche rivoluzionarie. Bello: il mondo che si arbalta… A proposito: a Parigi esiste una statua di Luigi XIV che più arbaltata, non si puo. E’ nel cortile del Museo Carnavalet. Il Re Sole, vestito a mo’ di imperatore romano, campeggia su di un’iscrizione che spiega l’omaggio in ricordo di un colossale festino reale. A lato, un’incisione rappresenta la Francia che scaccia l’Eresia: quest’ultima è costituita da qualche libro all’indice e… due maschere da teatro. Il monumento, infine, venne inaugurato il … 14 luglio milleSEICENTOottantanove!
[Spoiler] Sulla toponomastica in italiano, Ranieri Polese azzarda un’ipotesi, segui il link qui sotto :-)
[spoiler] molto interessante. La traduzione dei nomi secondo me rende bene il fatto che l’usanza di dare nomi illustri alle strade venne ben dopo la rivoluzione, e raggiunse il suo apice durante Napoleone III, quando si tratto’ di rifare Parigi respingendo ai margini le classi popolari e i quartieri riottosi.
[Spoiler] Una recensione che sta molto bene nello spoiler thread: Ranieri Polese su “La Lettura”, supplemento del Corriere della Sera. Molto interessante.
[Spoiler] Sì, ottima la suggestione filologica che finalmente fa risalire a un precedente/referente “storico” – per l’appunto a Carducci – la scelta linguistica di italianizzazione della toponomastica e del vernacolo della Rivoluzione e del suo “centro” parigino.
Annoto che prima ancora ci sarebbero Alfieri, Leopardi, Manzoni e Bieco, differentissimi ma uniti nel macrocontesto che ispirò Carducci, cioè una programmatica rivendicazione/affermazione della lingua italiana che a sua volta era anche una francesizzazione, incidentalmente, di valenza esplicitamente politica…
Quel che suona invece un po’ singolare è che Ranieri Polese, facendo giustamente riferimento alla violenta revisione antigiacobina della III Repubblica quale contraltare della giacobina dichiarazione di fede carducciana, parli della sconfitta di Napoleone il Piccolo a Sedan e non di quell’episodiuccio di scarsa importanza che della III Repubblica (in negativo – e con un lavacro di sangue operaio e intellettuale…) segnò l’ideologia dominante: la Comune di Parigi, con la quale guarda caso per quanto concerne la figura più allegorica del romanzo, Scaramouche, si conclude il gioco storiografico-finzionale dell’Atto quinto ;-)
[Spoiler] Per “Bieco” – negoddio un giorno o l’altro frantumerò il touch screen di questo furbofono con tutta la sua smerdosissima tastiera virtuale… – leggasi invece “Nievo”!
[Spoiler] Caro Anubi, leggo sempre con piacere le tue riflessioni, profonde e ricche di spunti, eppure prendersela con il furbofono…suvvia ;-)
Basterebbe rileggere ciò che scrivi per evitare di dover raddoppiare il numero dei tuoi commenti. Qua non è la tecnologia il punto, ma la volontà di perdere *venti* secondi a rileggere.
Poi, sul fatto che le tastiere virtuali siano una piaga della società contemporanea si può aprire un OT ecco, ma nel frattempo possiamo sempre rileggere…
[Spoiler]Il passaggio di Polese su “Monsieur Laplace, vera incarnazione del Male” mi ha fatto pensare ancora una volta ad un parallelo un po’ azzardato che ho in mente da qualche giorno, ovvero a quello con It.
It, che è il Male incarnato per eccellenza, in diversi passaggi del romanzo del Re si serve dei personaggi guidandoli come marionette o, se vogliamo, sonnambuli: Harry Bowers, ad esempio, fugge da un manicomio (!) grazie alla spinta psichica di It per poter dare la caccia al club dei Perdenti prima della battaglia finale.
Se It rappresenta il passato che ritorna, rappresenta anche la Reazione.
E a quale club, se non a quello dei PeRdenti, ascrivere Marie, Léo, D’Amblanc, Treignac e Bastien?
[Spoiler] Anche se gia’ palesato sul Tuider, lascio anch’io la mia impressione qui su Giap.
Ho finito da qualche giorno l’Armata, che mi sono sciroppato in una settimana di lettura intensa di quello che e’ un romanzo che proprio non vuoi posare sul comodino. L’atto quinto, poi, ti libera dal dovergli dire “addio”, anzi, e’ come se il romanzo uscisse dal romanzo stesso per dirti che anche la lettura, in verita’, non si puo’ costringere in un lasso di tempo dai contorni ben definiti, ma e’ piuttosto un processo, come un processo e’ la Rivoluzione in compagnia della (o tramortito dalla) quale sei stato fino ad allora. Si e’ anche parlato del fatto che il libro vada letto, e riletto, e riletto ancora, un po’ come quegli album che senti e risenti, e ti annoti pezzi di testo, e ci riscopri sempre sonorita’ nuove ad ogni ascolto. Dei vari personaggi si e’ detto molto (e bene) nei precedenti commenti, ma sento comunque di dire che il personaggio forse che piu’ mi ha affascinato e’ D’Amblanc, soprattuto per il contesto. Azzardo un paragone: a me il suo viaggio ha ricordato molto quello di Carlo Levi in “Cristo si e’ fermato ad Eboli”, non solo dovuto al fatto che il personaggio comincia a nutrire dubbi etici sulla sua pratica di medico o “guaritore”, ma anche al fatto che si trova di fronte a un mondo “superstizioso” dal quale pero’ imparera’ molto, e che collochera’ in relazione al “suo” mondo, pervaso dall Rivoluzione. In piu’ punti, infatti, D’Amblanc sviluppa la realizzazione il fatto che l’arte di guarire non sia “aconflittuale”, cioe’ non possa prescendere da condizioni di tipo politico, cosa che invece pensa di aver ottenuto Puysegur con la sua “rivoluzione senza ghigliottina”. Come ho detto, il paragone e’ azzardato, forse anche molto: resta il fatto che mi ha fatto venir voglia di rileggere Levi, che e’ una cosa buona. :)
L’altra ambientazione che ho amato e’ Bicetre, in cui si avvertono forte, secondo me, gli echi della Gorizia di Basaglia ne “L’Istituzione Negata”, in particolare grazie al contrasto col personaggio di Laplace, forse il piu’ idealista di tutti i personaggi, ossessionato dal potere della volonta’, cosa che non gli permette di capire che quella stessa volonta’ e’ messa in crisi proprio davanti ai suoi occhi mentre si trova “ricoverato”.
Per finire, l’Armata dei Sonnambuli e’ sicuramente il lavoro piu’ accessibile della produzione romanzesca del collettivo, cosa che io vedo come un’estrema qualita’: un romanzo che mi fa venir voglia di rileggere Basaglia, mi cita Wolverine e gli Amon-Duul II, che offre una multidimensionalita’ linguistica notevole, beh, va’ assolutamente annoverato tra i capolavori della scrittura, e sti’ gran cazzi se i puristi di turno si inalberano, sangueddio! Prestassero attenzione, invece, al fatto che, insieme al mondo, anche la scrittura si arbalta! :)
Coincidenze bizzarre: oggi Luciano Canfora, dal salone del libro di Torino, ha parlato di magnetismo, condizionamento mentale e mesmerismo.
Dal minuto 15,48 a 17,48 circa.
http://www.rai.tv/dl/RaiTV/programmi/media/ContentItem-bc2d53b7-9937-45a2-b664-130edd2c451b.html#p=0
[Spoiler] Da quando ho incrociato, per serendipità, il mondo Wu Ming e di Giap (e dei Giapster) è stato per me un susseguirsi di epifanie. Un susseguirsi di mondi che si aprivano. Dallo scoprire cosa è passato dentro la riforma luterana, il primo dopoguerra, quello che sta’ dentro (e dietro) le TAV, passando per la scoperta di Focault, Deleuze, Zizek, Lakoff, Jesi ecc ecc…. Un lampo dietro l’altro.
Ho vissuto LADS come la risonanza delle lunghezze d’onda prodotte da tutte queste narrazioni, producendo un oscillazione che “spacca”.
Sarà perché dicono che sono un pessimista, ma il suono che sentito mi ha anche comunicato un che di disperante. La constatazione che, forse, le dinamiche psicologiche umane sembrano siano fatte per portare al successo le narrazioni del potere e delle restaurazioni varie. Irrimediabilmente.
Cittadini trasformati in sudditi mesmerizzati dalla televisione, l’ordine mantenuto da armate di Droni UAV assassini, sonnambulizzati a distanza. Non potevate essere più attuali, credo.
[SPOILER]
Finito oggi. Bravibravi.
Nella mia personale classifica si piazza secondo a parimerito con 54.
Non è Q. , ma non tutti i giorni si può fare la Cappella Sistina. :)
A parte Bastien che si nasconde nel pozzo non ho notato altre “botole”, ma sto recuperando “La zona del crepuscolo”, Dylan Dog n°6, per vedere se ne scovo qualcuna lì.
In realtà un collegamento ce l’avrei ma è di sicuro campato in aria, viste le tempistiche. Si tratta dell’ultimo film di Wes Anderson , “Grand Budapest Hotel”. Le similitudini nel modo di concepire i rapporti padre putativo – figlio acquisito sono molte.
[Spoiler] “Botole” al di là del pozzo, se ho capito cosa sono: Ménétra, vetraio girovago, è autore di un diario analizzato da Robert Darnton. La rissa del mercato ricorda una canzone di Brassens (ripresa da De André). Jean del Bosco e il rapporto con D’Amblanc riportano al ragazzo selvaggio del Lacon descritto da Jean Marc Gaspard Itard nell’Aveyron, e Itard potrebbe essere coetaneo di D’Amblanc. Poi I re taumaturghi di Marc Bloch. Chiarentone mi fa venire in mente Weiss, data anche la messa in scena Maratiana, però è un po’ tirato per i capelli. Tra l’altro bellissimo che si scelga quel momento per parlare del desiderio dei pazienti. Ma ce ne sono di sicuro moltissime altre, probabilmente da generi e letture di tipo diverso, date le contaminazioni del libro.
E a proposito di contaminazioni: WM, ma che lingua parla Leo? Il bolognese, il modenese, il ferrarese??? Che la lingua “estranea” sia la sua e sia un dialetto è un bel gioco in un personaggio turbinoso che sarà pure supereroe ma serba ai miei occhi qualcosa di Cherubino (pure se ne siete lontani quanto io lo sono dalla musica odierna e quindi non so se far riferimento anche a Così fan tutte, mi pare che qualcuno l’abbia detto però) e in generale dei teatranti, girovaghi, seduttoRi e avventurieri del Secolo… a proposito grazie per la bellissima maschera.
“la lingua estranea ai lettori sia quel dialetto e non il francese che dal libro sparisce” avrei dovuto dire – tu tacitati teterrimo tacitatore troll, trovarmi tra tessitori tu trasecolando trami trasportato TRance…
[Spoiler] Léo parla (e pensa) in bolognese.
Però di cognome si chiama Modonesi.
E per quel personaggio ci siamo ispirati a un amico attore, Leo Mantovani.
Che è ferrarese :-)
[SPOILER]
Ho finito l’ADS da un po’: l’ho divorato, di corsa, affamata e quindi credo che lo riprenderò presto. Io volevo chiedere una cosa riguardo all’episodio di Léo che, dormendo sotto Pontenuovo, legge sul muro “… epubblica” e “Vive la Trance” … è una botola che quindi rimanda a qualcos’altro (che io non riesco a cogliere) o rappresenta, come dire, un’anticipazione di quello che succederà poi? Forse è una domanda scema e lo scrivo considerando l’altissimo livello delle considerazioni e dei commenti che fioriscono su Giap … ma non ho resistito. Anche per approfittare dell’occasione e dirvi che leggervi è autentico piacere, sempre: alle due di notte, in ospedale, in bagno (anche tutte e tre le cose insieme), per strada, in macchina, in mezzo ai casini di tutti i giorni … grazie per questo, di cuore.
[Spoiler] Ciao Chiara, beh, è entrambe le cose. Chi l’ha fatta? Non si sa. E’ apparsa. Cosa significa? Cos’è la trance? Léo non lo sa. «La trance è uno stato psicofisiologico caratterizzato da fenomeni quali insensibilità agli stimoli esterni, perdita o attenuazione della coscienza, dissociazione psichica, che può essere indotto mediante ipnosi o autoipnosi.» Ma perché la trance si sostituisce alla Francia? E poi, la parola era già in uso nel 1793-94? Sì, scritta «transe», ma non aveva il significato di oggi. Significava «Paura del male». Uhm… «Viva la paura del male»?!
E’ che Léo non poteva conoscere gli Amon Düül II…
[spoiler]
sebbene abbia divorato il libro da una settimana ancora mi chiedo in quale dei personaggi mi debba identificare maggiormente; se nel personaggio di D’Amblanc mi ci specchio in tutto e per tutto, cosa dire delle sensazioni che mi ha suscitato il suo alter ego Laplace?E perchè continuo a pensare che all’eroina Nozière dovrebbe spettare di diritto un capitolo nella storia alla pari dei blasonati nomi che si studiano nei libri di scuola? Il buon Leo si dovrebbe togliere maschera e mantello e cederli con un inchino alla sorella della Rivoluzione. Ciò cho ho scitto spiega in qualche modo quanto abbia apprezzato quest’opera e ancor di più quanto l’abbia sentita necessaria per i nostri tempi. Dimenticavo, forse non serve che io mi immedesimi in un personaggio, forse mi basta essere una di quelle voci che parlano dal popolo all’inizio di ogni atto. Buon lavoro
[spoiler] cari Wu Ming, ho una curiosità da soddisfare…:
“Viva l’A” + “…e pò bon!” è un witz per Triestini o era un motto che Lèo poteva già conoscere? in ogni caso ho apprezzato! =)
bel libro! finito adesso! grazie
[Spoiler] Posso garantire a nome di Léo che ne era totalmente all’oscuro :-)
[Spoiler] e’ una botola, davide…
sei a parigi nel 1794, cadi nella botola e ti ritrovi a trieste (libe’a) nel 2013… dove si aggirano strani sonnambuli magnetizzati con “le carte”…
[Spoiler] sorry, ho capito, dopo un po’, ma ho capito… =) sono ancora scioccato dall’atto V, e dai commenti qua sopra che ci son cascato dentro la botola…
a proposito: l’uomo della merda, mi ricordava “il golem di merda” di Dogma di Kevin Smith http://it.wikipedia.org/wiki/Dogma_(film)
c’entra qualcosa?
[Spoiler] Dave, ricordati di mettere sempre [Spoiler] all’inizio di ogni commento lasciato in questo thread, per avvisare chi ci segue da Twitter.
Su “Dogma”: no, il riferimento non è quello, è proprio che per noi i fasci son gente di merda.
[spoiler] “no, il riferimento non è quello, è proprio che per noi i fasci son gente di merda.”
Sangueddio, avete proprio ragione!
però quando ho letto la descrizione, mi sembrava proprio di vederlo http://mos.totalfilm.com/images/b/best-worst-kevin-smith-20-420-75.jpg
[Spoiler] monumento equestre al mio libraio di Aosta (Via Aubert) che me lo ha consigliato. Purtroppo l’ho finito; ora attacco Q.
Poiché l’*Armata dei sonnambuli* è dedicato a Stefano Tassinari, segnalo il link qui sotto.
https://www.youtube.com/watch?v=SeBm-887T7E&app=desktop
[Spoiler] .Una serie di rimandi “colti ”
D’Amblanc sta a Settembrini come Yvres sta a Naphta ?
O ancora;Yvres=Donoso Cortes+ De Sade ?
Cesena, sabato 17 maggio, reading elettromagnetico (tratto dall’AdS) con Wu ming 1 (voce), Francesco Cusa (batteria) e Vincenzo Vasi (basso e theremin).
Te lo si conta noi com’è che è andata:
sintesi perfetta tra prosa, musica e “versi” (rime baciate, gorgheggi, fruscii…). Pubblico numeroso ed entusiasta. Atmosfere ipnotiche per via dell’”eterofono” impiegato con mesmerica maestria. http://it.wikipedia.org/wiki/Theremin
E a fine reading scopri pure che tutto, ma proprio tutto (voce recitante, anarchia dei suoni), è frutto di un’improvvisazione estemporanea priva di imperfezioni o sbavature: incRedibile!
In sintesi: uno spettacolo suggestivo, un battesimo felicemente riuscito e una serata primaverile da ricordare.
Grazie.
[spoiler] Ma è solo a me che il cittadino Laplace ha ricordato da lontano Aldo Semerari?
Botole: ma… Scaramouche ha qualche somiglianza con un argentino compare di Carmelo Bene, che in Cristo ’63 interpretò l’apostolo Giovanni che piscia sul pubblico, (soprattutto sul console argentino).
[spoiler] No, era venuto in mente anche a me e non ho ancora ben chiaro perché. Forse la mole di filiazioni più o meno dirette del romanzo di De Cataldo che hanno riportato in auge le trame degli anni 70.
In realtà chissà quanti altri destri figuri potrebbero essergli parenti.
[spoiler] capitolo ammazzaincredibili: l’ho ascoltato adesso dal podcast; c’è un bel pezzo tutto in rima! Come non me ne sono accorto leggendolo??? Assomiglia a Guy Fawkes?
Seconda cosa che mi chiedevo e non ho trovato risposta e che immagino sia una botola: perché Scaramouche taglia le orecchie ai muschiatini? Chi ci ricorda?
[Spoiler] Forse gli mozza le recchie al fine di perculare il loro ipersuscettibile udito. O forse come piccolo, grazioso omaggio a Madame Guillotine.
Finito da poco nonostante il pochissimo tempo, anzi, manco ho il tempo di leggere tutto questo interessantissimo thread. Solo alcune riflessioni estemporanee:
– Il mio magazzino letterario mentale, nell’iniziare questo libro, ha subito aperto i cassetti del Ca ira(mannaggia dov’è la cedille per il maiuscolosulla tastiera, e non è un touchscreen) di Carducci e di A Tale of Two Cities di Dickens: il primo per assonanza di registro linguistico, e perché sono versi di rara sintesi e potenza, e ingiustamente dimenticati; ils econdo, se non per latro, per le donne che lavorano a maglia. Poi questi sono collegamenti miei, e so benissimo che la genesi di un’opera letteraria segue percorsi che non sono gli stessi sperimentati dal lettore – ma le somiglianze (o botole) ci sono sempre…
– La scelta di ‘italianizzare’ i toponimi di Parigi ha precedenti illustri (anche l’Ariosto, se non vado errato) ed è coerente con il pastiche linguistico scelto, ma a me non è piaciuta per gusto mio, io sono una purista e ipersensibile all’argomento.
– Non avevo mai pensato prima all’origine delle parole ‘mesmerico’ e ‘mesmerizzare’. Non si finisce mai di imparare, e ancora grazie per le finestre che aprite.
– Mio marito fa Modonesi di cognome, e no, non è emiliano, ed è un cognome pochissimo diffuso. Non capita spesso di trovare un porprio familiare in un romanzo…
[Spoiler -doppio-] Io il debito a “Tale of two cities” di Dickens l’ho sentito fortissimo. Ma non solo, come giustamente fa notare Chiaram, per i ferri da calza.
Sebbene gli antecedenti letterari dell’ADS siano principalmente e dichiaratamente due (già segnalati in fase di gestazione affinché ci si potesse preparare ad entrar meglio nel mood rivoluzionario…Grazie WM!), mi sembra che su “Due città di Dickens” si sia detto troppo poco rispetto a “Novantatré” di Hugo.
E’ innegabile che dal punto di vista “ideologico” sia Novantatré il riferimento più prossimo, tuttavia credo che dal punto di vista squisitamente romanzesco l’ADS contenga moltissime citazioni dickensiane.
Il riecheggiare dei mestieri dei personaggi per esempio (dottore è il Sig. Manette di Dickens, dottore è D’Amblanc -e non solo- nell’ADS; ex ciabattino è il Dottor Manette e ex ciabattino è Treignac; magliaia è Madame Defarge e sarta è Marie) oppure il rimando -forse inevitabile- ai medesimi luoghi (in entrambi si parla di Saint’Antoine quale fulcro dello spirito sanculotto; in entrambi si parla di torri; in entrambi c’è un’osteria che è anche un nascondiglio/covo rivoluzionario: l’osteria dei Defarge in Hugo, il Gran Pinta nell’ADS) ecc.
Però, al di là dei dettagli o delle strizzatine d’occhio disseminate qua e là, io vedo nel romanzo di Dickens un punto di partenza importante nel processo di elaborazione e di rappresentazione dell’universo femminile dell’ADS. Ancora si è ben lungi dal personaggio finalmente a tutto tondo di Marie, ma perlomeno a me, che da sempre sono attenta alle questioni e agli studi di genere, il confronto tra Marie Noziere e Madame Defarge (una delle protagoniste del romanzo di Dickens) ha stimolato e continua a stimolare riflessioni prolifiche. I temi si ripropongono e a parte i ferri da calza, che sia l’una che l’altra usano come vere e proprie armi prestate alla rivoluzione, ritroviamo lo stupro da parte del padrone (nel romanzo di Dickens non è direttamente Madame Defarge a subirlo, ma sua sorella), il desiderio di vendetta (che a differenza di Marie, per Madame Defarge è un vero e proprio motore propulsore) nonché il disvelamento sul finale dell’identità dello stupratore.
Non ho il tempo di approfondire oltre (l’ho impiegato tutto per leggere i 278 commenti scritti fin qui!), ma ci tenevo comunque a lasciare un piccolo contributo alla discussione.
Grazie ai Wu Ming per l’Armata e grazie a tutti i giapsters che ne mantengono vivo il discorso
Sì, è proprio come dici, il debito con Dickens è grande. Si potrebbe quasi dire che per certi versi “L’Armata dei Sonnambuli” è il ribaltamento di “Storia di due città”, nella misura in cui recupera scenari e personaggi simili e li sbarazza dalla pesante lettura anglo-borghese dickensiana. La tesi del romanzo di Dickens infatti è molto esplicita (quasi troppo): la rivoluzione è colpa dell’aristocrazia francese, che si è lasciata andare al lusso, alla crudeltà, alla prepotenza… mentre l’aristocrazia inglese, pragmatica e umana, ha saputo evitare gli eccessi e fare concessioni alle classi inferiori anziché rifilare soltanto scudisciate. E’ evidente che la riflessione di Dickens ha in sé implicito il riconoscimento del ruolo regolatore della borghesia (vedi appunto i suoi personaggi in quel romanzo), ago della bilancia della moderazione politica. Da questo punto di vista per noi è stato un vero punto di riferimento per provare a raccontare quella storia da un’angolazione differente, nei medesimi scenari, con i medesimi personaggi, e nello stesso arco temporale.
Aggiungo che il sommo Dickens fingeva di non sapere che l’equilibrio tra aristocrazia e borghesia in Inghilterra era stato ottenuto al prezzo di non una ma due rivoluzioni, cioè una guerra civile, una decollazione regale e in seguito la sostituzione della casa regnante. Ché il decantato pragmatismo anglosassone è più che altro senno di poi…
[Spoiler] @Wu Ming 4. Condivido la tua/vostra analisi politica su “Storia di due città” (mi sembra che vi abbia fatto cenno anche Wu Ming 1 nella presentazione di Torino dello scorso Maggio o forse ne avevo già letto qui su Giap…). La visione anglo-borghese di Dickens è talmente smaccata che dà alla testa. E il tradizionalismo usato per approcciare il femminile non è meno velato: gli stereotipi (la donna angelicata vs la donna spietata vendicativa e senza pietà), le polarizzazioni (le buone vs le cattive) e le visioni “monocromatiche” sono quelle di sempre. Però, considerati i tempi, non sono nemmeno le peggiori. Va riconosciuto che, rispetto a Novantatré di Hugo, almeno le donne in Dickens sono presenti (in Novantatrè a parte la figura della “mater” troviamo solo una comparsa-vivandiera: il mondo della rivoluzione è un mondo esclusivamente maschile). E non sono certo solo figure di sfondo. Insomma qualche sfumatura in più rispetto alla consueta pietosa sovrapposizione “donna-madre-animale-istinto” c’è. Il cammino fino a Marie Noziere è lungo e non è concluso, ma sicuramente passa anche da “Storia di due città” di Dickens.
ma è solo una suggestione o si può ritrovare qualche tratto dell’AdS in Gangs of New York di Scorsese? saranno, in particolare, gli artigli di Hell-Cat Maggie che mi hanno ricordato quelli di Marie, sarà l’atmosfera in generale. ho preso una cantonata? :)
Direi proprio che non hai preso una cantonata. Il nostro scenario Gangs of Paris è sicuramente stato influenzato anche da quel film. Anche lì, tra l’altro compariva l’elemento della vendetta personale.
[spoiler] [prima dimenticato] rileggendo i commenti, mi è venuto in mente che anche la preghiera a San Michele Arcangelo, più sopra richiamata da tuco, è uno snodo fondamentale in più scene di GofNY; peraltro, anche in questo caso, vistoso anacronismo.
Botole, botole su botole.
[SPOILER, non solo sull’Armata]
Poco prima di addentare L’Armata dei Sonnambuli m’è capitato di leggere Il Boia Di Parigi di Barbato/Casertano. Probabilmente uno dei fumetti più reazionari che abbia mai letto.
Barbato dice che non era sua intenzione scrivere un fumetto reazionario, anzi, che non era neppure sua intenzione scrivere un fumetto politico ma solo una storia personale con un sottofondo storico. Ma si può parlare della Rivoluzione Francese e dei suoi grandi protagonisti (Sanson, Capeto, Robespierre, Danton…) senza essere politici? Brecht diceva che un artista che non si pone il problema della politica, è automaticamente del partito dominante. Forse esagerato. Però Barbato, probabilmente in buona fede (è notoriamente di tendenze destrorse, ma non così ferocemente) attraverso l’assunzione di un punto di vista privato assume un punto di vista reazionario. Non tanto perché nel Boia di Parigi il cittadino Capeto ci fa la figura del sovrano buono preoccupato di rendere più umana la ghigliottina, non solo perché i rivoluzionari sono rappresentati tutti come meschini e orribili fin dall’aspetto fisico, ma soprattutto perché tramite il punto di vista privato viene completamente espulsa la Storia. Nel fumetto della Barbato il ’93 accade così, giusto per volontà di un gruppo di fanatici. E altrettanto il Termidoro che alla fine non è nientaltro che il trionfo personale di Sanson che riesce con un complotto a mettere in cattiva luce i giacobini. Nel Boia di Parigi nulla cambia, c’è solo una sola e unica costante: la Morte davanti a cui sono tutti uguali. Nel Boia di Parigi il popolo è una massa informe, completamente prona alle manovre delle elites, che siano quelle della monarchia, della Rivoluzione o del Te’mido’o. Tanto nulla impo’ta.
L’Armata dei Sonnambuli ovviamente parte da tuttaltri presupposti. I grandi leader sono “le figure sullo sfondo”, i protagonisti sono rivoluzionari oppure reazionari, qualcuno parte dalla rivoluzione e finisce a sostenere il Termidoro. Ma non è importante tanto chi è stato scelto come protagonista, come filtro per vedere la realtà, quando l’aver scelto molti punti di vista e soprattutto l’aver tenuto in mente che la Storia succede. Monarchia, Rivoluzione e Termidoro passano sulla vita e la cambiano, magari la rivoluzione la peggiora pure la vita e ti fa finire a fare la fame, però nell’Armata dei Sonnambuli la storia te la racconta chi l’ha vista e non chi ha subito la narrazione degli altri per cui tutti i cambiamenti sono stati invano. Col zullo che aveR tagliato la cRapa al Capeto non ha poRtato a nulla!
L’Armata mi sembra che ribalti un elemento ricorrente della narrativa popolare rispetto ai grandi eventi storici. La prima scena del cittadino Laplace si apre con gli alienati che inscenano una seduta della Convenzione imitando Robespierre, Marat e compagnia. Mi sembra un ribaltamento dell’ide che in fondo le rivoluzioni (tentate, riuscite, tradite, deviate etc etc) siano momenti di follia collettiva e che in fondo in fondo sia la stessa Storia una follia collettiva. Una concezione che mi sembra ben presente in molti lavori di fiction che hanno una grande presa nell’immaginario popolare come quelli di Marco Tullio Giordana. Basta pensare a La Meglio Gioventù dove la scelta della contestazione diventa lotta armata proprio per motivi che sembrano attenere solo all’impazzimento dei contestatari. Per’ fo’tuna che poi mettono la testa a posto e si p’rendono tutti la villa in Toscana.
Scaramouche mi ha ricordato un Batman in particolare, quello di Golden Streets Of Gotham, un elseworld dove Bruce è figlio di due operai morti in un incendio di una fabbrica di proprietà del Joker. Da adulto Bruce, frequentando un teatro si costruisce un costume e impara tecniche spettacolari per combattere i padroni… cioè, no, i super-villain. Lo stesso concetto di lotta-spettacolo lo insegna Ras-al-Ghul al Bruce Wayne “regolare” di Batman Begins.
A proposito di botole, quando Scaramouche si propone di restituire a Freron il suo terrore, m’è scattata un’idea:
“Potere troppe volte
delegato ad altre mani,
sganciato e restituitoci
dai tuoi aeroplani,
io vengo a restituirti
un po’ del tuo terrore
del tuo disordine
del tuo rumore.”
Come l’impiegato di De Andrè, mi sembra che Scaramouche alla fine non sia mai fino in fondo connesso alla lotta a cui vuole prendere parte. Leo come il trentenne disperato è in maniera irrimediabile individualista. L’impiegato si lamenta di essere sempre un passo indietro rispetto ai cuccioli del Maggio. Leo rimane sempre un passo a lato. Gli abitanti lo invocano come castigatore dei reazionari ma lui non può che fare azioni spot. Quando i sonnambuli calano in massa la sua “rappresentazione del conflitto” risulta impotente, ha provocato la battaglia campale che non può vincere. Tanto che alla fine dovrà essere Marie Noziere a salvare la giornata, quando era ormai considerabile fuori dall’azione che conta, usando i ferri da calza come fossero gli artigli di Wolverine.
Mi chiedevo come mai nessuno avesse ancora sottolineato la citazione di De Andrè.
Su Scaramouche ho avuto la stessa impressione, mi è sembrato sempre che lui combatta una rivoluzione a parte, che sia trascinatore ma anche trascinato dagli eventi e dalla sua, potremmo chiamarla (sperando non si offenda) mania di protagonismo. Le domande in testa sono state tante, non la percepisce come la sua rivoluzione perché è italiano, non francese? però lui stesso esclude il concetto di nazionalità. L’impressione finale è che in qualche modo non ci provi nemmeno a capire il momento che sta vivendo e segua una vocazione del tutto personale; mi sembra sintomatico, da questo punto di vista, il linguaggio più smaccatamente individualista del personaggio, ma il tutto meriterebbe una rilettura più attenta. Tutto il contrario, comunque, rispetto a Marie, vera paladina della Rivoluzione, che non a caso partecipa alla rivoluzione, si sacrifica per quello che rappresenta, sempre mettendoci la faccia, cosa che il pur valoroso Modonesi non fa di buon grado.
[spoiler] La foga mi ha fatto dimenticare di mettere lo spoiler nel commento precedente e l’assenza dell’opzione “modifica” mi costringe ad ammettere l’errore sulla pubblica piazza e a fare onorevole ammenda.
In effetti Léo ricorda tantissimo Limonov, o meglio, il ritratto che ne fa Emmanuel Carrère. Diventa l’eroe del foborgo perché in quel momento e nelle sue condizioni è l’unico modo per uscire dalla mediocrità e sfiorare la celebrità a cui è convinto di essere destinato.
Scrivete “Spoiler”, negoddìo.
Non voglio cimentarmi in superflue lodi dell’eccelso romanzo L’Armata dei Sonnambuli, ma limitarmi a segnalare la recensione (???) pubblicata sul sito di Panorama http://cultura.panorama.it/libri/l-armata-dei-sonnambuli-la-rivoluzione-francese-secondo-wu-ming.
Silvia Malnati, c’ha provato a fare finta di aver letto il romanzo, ma non ne ha imbroccata una giusta.
[Spoiler] Da qualche giorno ho finito l’Armata dei sonnambuli e per me è dopo Q il libro migliore del collettivo. Quest libro merita senza dubbio una seconda lettura “comoda” (nel senso di leggerlo cercando eventuali riferimenti, citazioni, insomma le botole).
Per quanto riguarda il personaggio di Marie Noziere (che leggendo i commenti sembra essere il personaggio che più è stato apprezzato) io l’ho immaginata come Pina (Anna Magnani) in Roma città aperta. Sinceramente non ricordo se ci sia una descrizione fisica di Marie Noziere, in ogni caso mi sembra che ci sia una certa affinità tra i due personaggi, soprattutto dopo il Termidoro.
Entrambe donne che vivono in una città sotto occupazione (Roma dai nazifascisti, Parigi dai muscatini e dalla gioventù dorata), entrambi madri di figli piccoli che “giocano” alla guerra (perdonatemi l’uso della parola giocare, la intendo nel senso che anche se pienamenti consapevoli di quello che fanno, i bambini possono non rendersi pienamente conto delle conseguenze di certe azioni, soprattutto in quei periodi storici), entrambe esprimono il loro essere donne ed essere cittadine partigiane e tutte le difficoltà che ciò comporta, entrambe innamorate di uomini combattenti (Jacques morto come soldato per difendere la Francia rivoluzionaria, Francesco partigiano antifascista).
Potrei continuare con le analogie più o meno forzate, ma mi fermo qua. Il sunto è che entrambi i personaggi esprimono una forza, una potenza enorme, non sono personaggi che dopo aver chiuso il libro (o essere usciti dal cinema) si possono dimenticare.
Ci risiamo, con la zona Theta. Dico bene?
E di nuovo un recupero di sensazioni lontane.
Anni ’60/’70, niente soldi per andare in vacanza al mare o in montagna. Solo papà che lavora…al massimo una fiat 1100 per spostarsi..
Allora l’estate dalla nonna. A Saronno (!!!). Interminabili e afosi pomeriggi. Scopro due tomi di almeno 600 pagine: “La Rivoluzione Francese”. Con illustrazioni simil-Dorè, una pagina sì e una no.
Credo di aver passato almeno 5 estati della mia vita, tra i 5 e i 10 anni, a fantasticare davanti a queste tavole illustrate, che rappresentavano popolani con berretto frigio e nasi adunchi; soldati con baionette; schizzi di protagonisti: Marat, Danton, Robespierre…; nomi che assaporavo nella loro stranezza: le Tuileries, il Direttorio, iGiacobini, Brumaio…
Poi, naturalmente, rimosso e perso nelle nebbie del tempo.
Leggere L’Armata dei Sonnambuli” è stato come aprire un vecchio baule in soffitta, e farsi travolgere da uno tsunami di ricordi e sensazioni.
E poi leggerlo mentre ero a Parigi…camminando nei luoghi descritti sulle pagine…
Questo è un commento minimalista.
Però c’è anche una riflessione:
la Storia è condannata a ripetersi. E NON rispetta mai i buoni propositi.
Chi rimane romanticamente attaccato ad una IDEA giusta, rimane un perdente.
Che bello esserlo.
Perdenti.
Tipo…Guido Picelli
[spoiler] Devo dire che mi piace più il commento minimalista della riflessione. L’immaigne del baule in soffitta è bellissima. La lettura del nostro romanzo con gli “occhiali” della storia del comunismo novecentesco invece mi lascia perplesso. Siamo sicuri che la Rivoluzione francese – e con essa tutti coloro che vi hanno partecipato a vario titolo e grado – sia stata “perdente” e che la storia sia condannata a ripetersi? A me pare il contrario. Certo, il concetto stesso di “rivoluzione” rimanda a una trasformazione che approda a un nuovo punto di (relativa) stabilità, ma non è mai il medesimo punto da cui si era partiti. Ci provarono al Congresso di Vienna a rimettere tutto come era prima e fu un esercizio ucronico che dimostrò tutta la sua assurdità davanti al 1799, 1821, 1830, 1848, 1871. Ancora durante la rivoluzione russa si cantava la Marsigliese! I concetti politici contemporanei derivano tutti da lì, a partire da “destra” e “sinistra”; le costituzioni del mondo occidentale sono tutte ispirate ai principi avanzati nella Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo e del Cittadino; molti dei nodi politico-filosofici che si anticiparono tra il 1789 e il 1796 non sono mai stati risolti e arrivano fino ad oggi. Insomma la Rivoluzione francese non è mai finita. Per questo non si può darla per sconfitta. Robespierre, Danton, Marat, Brissot… sono ancora qui con noi.
Aggiungerei, alla luce dell’atto quinto del romanzo, che nemmeno per i nostri protagonisti finzionali si può parlare propriamente di sconfitta (eccetto uno, il villain, forse perché crede davvero che, andando avanti, la storia possa tornare indietro). Per ciascuno di loro c’è una prosecuzione della vita oltre gli anni rivoluzionari, che in forme e modalità differenti è *anche* una prosecuzione della lotta, nella misura in cui – diceva Breton – “Cambiare la vita e cambiare il mondo sono la stessa cosa”.
I take that.
l’eredità morale e politica della rivoluzione francese sopravvive.
l’esperimento senza precedenti ha cambiato la storia.
ma, nel dettaglio ha generato un mostro, Napoleone, e dopo di lui punto e daccapo.
anche la rivoluzione russa, ha generato mostri, Stalin &co., e guarda ora, siamo di nuovo allo zarismo.
Quello che voglio dire è che l’IDEA di giustizia sociale, Libertà, uguaglianza si disintegra nel momento in cui si agglomera nuovamente una qualsiasi forma di potere.
Chi arriva al potere, purtroppo, non sono mai i “migliori”, sono gli scaltri. I “migliori”, i disinteressati, i “puri”, i coerenti, chissà perchè, sono i primi a sparire. I “perdenti”…
“La … rivoluzione avrà avuto successo solo se, guardando indietro, attorno e davanti a noi, potremmo dire che la gente è, grazie alla rivoluzione, un po’ più felice perché ha acqua potabile, un’alimentazione sufficiente, accesso ad un sistema sanitario ed educativo, perché vive in alloggi decenti, perché è vestita meglio, perché ha diritto al tempo libero, perché può godere di più libertà, più democrazia, più dignità…” questo diceva Thomas Sankara. Ammazzato. Appunto.
Ma, hai ragione, essere “perdenti” non significa necessariamente essere sconfitti…
senza troppi giri di parole…
«…abbiamo contro tutti, sbirri e farabutti,
e uno contro tutti noi li sperderem…»
W Scaramouche
https://www.youtube.com/watch?v=RhvZ82Xinks
Non so bene dove inserire questo commento, ma qui una storia da condividere.
Siamo a Marsiglia, nel nono arrondissement.
Anche in questo quartiere il Front National è oggi il primo partito con il 29 %.
Dal 1999 l’FN spinge per sbattezzare la centrale place Robespierre neutralizzandola in Place du Marchè, ma gli abitanti non sono d’accordo.. l’ultima parola non è ancora detta, qui ci vuole Scarmouche!
qui la petizione
http://www.change.org/fr/p%C3%A9titions/m-royer-perreaut-lionel-maire-du-5%C3%A8me-secteur-de-marseille-ne-d%C3%A9baptisez-pas-la-place-robespierre-%C3%A0-marseille-9%C3%A8me-arrondissement
qui uno stralcio della seduta del consiglio di quartiere:
http://www.dialogus2.org/ROB/laplacerobespierre.html
[Spoiler] In un giorno di rabbia come questo 3 giugno 2014 che sa tanto di 54, anch’io condivido una suggestione musicale… Mi rimbomba da quando ho bevuto d’un fiato la prima volta l’Armata, è d’altra parte un canto della cospirazione operaia parigina contro Napoleone III e uno dei più usati, poi, nella Commune. Anche senza fare conto dei riferimenti diretti al ’93 e all’epopea sanculotta, è folgorante l’affresco sintetico delle figure sociali della Rivoluzione: la plebe/proletariato e il general intellect/bohème…
Oggi che li sgomberano e li arrestano, la dedico a Marie e Léo:
http://m.youtube.com/watch?v=cEKXjHyaUio
Io sono più antico, 1649:
http://www.youtube.com/watch?v=JEv3LpXNX8U
E comunque non si trattava di ‘cospirazione’ ma di azione organizzata e di massa del movimento operaio parigino e lo stesso canto rappresentava un paradosso: ‘canaglia’ era il modo con cui il milieu del del grand monde parigino si riferiva a quegli operai che si organizzavano e scioperavano (proprio come Sarkozy, da ministro, definì i giovani delle banlieu..). Ma la canzone sottintendeva che la vera ‘canaglia’ stava dall’altra parte.
quegli operai non erano cospiratori e non erano canaglia e non accettavano di essere ‘ghettizzati’, ma rivendicavano se stessi come i ‘veri’ rappresentanti dell’Umanità intera (con la U maiuscola): una cosa che non dovrebbe essere dimenticata da chi lotta oggi. Il ribelle che si isola dalla società è inoffensivo in definitiva e lascia campo libero al potere di turno per liquidarlo quando più gli aggrada.
Ad ogni modo,
UP THE ANARCHISTS! (versione Durruti)
[Spoiler] Mi permetto di obiettarti che all’altezza del 1865, anno della comoposizione de La Canaille, nella fase peggiore della dittatura del Piccolo Bonaparte, l’azione sovversiva della classe operaia francese era oggettivamente cospirativa. Vorrei anche annotare che il principale riferimento rivoluzionario operaio si raccoglieva attorno a tal Auguste Blanqui. E d’altronde non vedo la ragione fi connotare la cospirazione in senso oppositivo all’azione organizzata, né tampoco in senso negativo: cospirazione è una referenza rivoluzionaria e progressiva, nella modernità, da tempi al culmine dei quali per inciso si diede la Guerra Civile Inglese ;) I cui canti, anche quelli della più avanzata (e sfortunata) frazione repubblicana, non possono purtroppo contenere riferimenti all’Anno II e al Novantatre, come invece La Canaille ;-p
Salve,
bè, a dire il vero la tradizione socialista ha sempre rifiutato di qualificarsi come ‘cospirativa’: blanquisti e mazziniani, che erano ‘cospirativi’, venivano additati come esempi negativi per il movimento operaio (e con qualche ragione: per esempio in Italia il movimento operaio, fin da Pisacane, e perfino Garibaldi, hanno fatto un salto di qualità rompendo con la tradizione cospirativa). E anche l’anarco comumismo di Malatesta ruppe con le cospirazioni alla Necaev, che avevano sedotto perfino Bakunin. Durruti e la CNT agivano alla luce del sole e rivendicavano le proprio azioni e il loro carattere di massa e non cospirativo. Sacco e Vanzetti, durante il processo che li portò alla sedia elettrica, rivendicarono la loro innocenza usando gli stessi argomenti: gli anarchici non sono cospiratori ma parte di un movimento di popolo che prima o poi prevarrà (è più o meno quello che dissero). E, infine, anche Lenin con il ‘Che fare?’ voleva dare una risposta del come agire da avanguardia senza però staccarsi dal movimento di massa e senza diventare una setta di cospiratori: paradossalmente lo fece proponendo le ‘regole’ di funzionamento di una ‘setta di massa’ (e purtroppo tornarono utili anche ai fascisti ed un signore con i baffetti).
Per quanto riguarda la rivoluzione inglese: i puritani agirono sempre in modo pubblico, in Parlamento, contro il re, così come fecero Diggers e Levellers contro i cromwelliani (peraltro, lo pagarono anche caro): solo più tardi e per sopravvivere divennero anche cospiratori. I Chartists, circa un paio di secoli dopo, furono il modello su cui si costruirono i movimenti socialisti di massa per il resto del secolo e di ‘cospirativo’ non ebbero nulla. Comunque Marx, Engels, Lenin, Pisacane, Malatesta, Gramsci, Mao, ritennero sempre un indice di ‘immaturità’ e arretratezza la forma ‘cospirativa’, rivendicando come solo l’organizzazione o i movimenti di massa fossero pertinenti e coerenti con l’essenza del movimento operaio e contadino.
[spoiler] Salve a tutti, vorrei sapere se qualcun altro oltre a me nel leggere di Laplace che si nutre di un ragno vivo nell’ospedale di Bicetre ha pensato a Renfield, personaggio di Dracula di Bram Stoker, anch’egli rinchiuso in un manicomio, che pratica la zoofilia nutrendosi di mosche, ragni e passeri.
P.s. Primo commento su Giap!, vi leggo da tempo e seguo il blog da poco, complimenti per l’ottimo lavoro!
ovviamente ho sbagliato, intendevo zoofagia, scusate la confusione.
Adesso non so bene se valga la pena di scrivere un commento così lungo per una correzione abbastanza banale ma non posso scrivere solamente “*zoofagia”, di nuovo scusatemi, starò più attento!
si, ho subito pensato a renfield.
e penso sia il caso di ricordare il cosiddetto “effetto renfield”: alla vigilia di un avvento inquietante gli “alienati” si agitano…
come sempre siete nel trend
anche l’ultima puntata della saga di Assassin’s Creed
“Unity” si svolge nel periodo della rivoluzione francese
ma non indossano maschere goldoniane
https://www.youtube.com/watch?v=ts1GWdjfjPw
spoiler però Scaramouche quando osserva il mondo dall’alto dei tetti parigini ricorda molto Altaïr il protagonista di Assassin’s creed
[Spoiler] Osservare il mondo dall’alto dei tetti è una cosa che fanno tutti i supereroi da più di settant’anni :-) Noi avevamo in mente Batman.
in realtà non mi sono mai appassionato ai videogiochi ne ho mai posseduto una console.
però non mi perdo mai un video di lancio di Assassin’s Creed perchè proprio come i personaggi ideati dai wuming hanno la particolarità di collocarsi sempre nei punti di rottura della linearità storica, in quelle faglie di discontinuità che ci fanno sognare tramite le mitologie riscritte dai vincitori.
In quei momenti ogn’uno può essere le ali generatrici di un effetto butterfly che come un domino è capace di invertire l’ordine del presente consegnando alla storia un nuovo futuro.
[Spoiler] Innanzi tutto chiedo venia anticipatamente, poiché, a fronte del livello medio della discussione, il mio intervento sarà sicuramente sotto tono e più personale, che di analisi generale del libro. Dopo tutto l’ho finito poche ore fa, quindi ancora in fase di sedimentazione, ed in più molte mie riflessioni sono già state colte e approfondite da altri (meglio di come avrei fatto io, ma si sa che giap è una sicurezza). In generale devo dire che LADS è probabilmente il libro migliore e più stimolante che leggo da molto tempo. Complimenti ancora Wu Ming. Cercherò ora di enumerare alcune osservazioni:
1-Fin da subito sono rimasto folgorato da un collegamento temporale sul magnetismo animale:
quanto rimarrà, sotterrato (?) per quasi un secolo, di queste tecniche di proto-ipnoterapia in quella Parigi frequentata dal un giovane Froide? Non è proprio a Salpêtrière e Bicetre (ed abbiamo anche Pinel, guarda caso) dove lavorerà ed insegnerà Charcot, neurologo “magnetico”? Se non ricordo male è proprio dagli esperimenti con sbarre magnetiche ed ipnotismo di Charcot che Sigmund sviluppa, allontanandosi dal maestro, il suo pensiero… Insomma sono cascato in una botola, per arrivare a Chez Magny, in compagnia di Simone Simonini che dialoga con studenti di medicina di “isteria femminile”. Altro libro, altra epoca: Il Cimitero di Praga. Cosa rimane, storicamente e concettualmente, tra Mezmer e Charcot è forse una domanda da “Sesto Atto”.
2-Sul recente post su Assassin’s creed: non sono un grande amante di giochi nemmeno io, ma quando vidi un gioco ambientato a Firenze (mia città natia) non ho resistito a vedere come Ubisoft raccontava il Rinascimento. Ho dovuto provare. Da lì la serie, in quanto a tema storico, mi ha sempre incuriosito, nei ritagli dei ritagli di tempo perso. Permettetemi quindi di ampliare il parallelismo: il seguito di AC2 è ambientato a roma i primi anni del 1500, mentre Q inizia nel 1519 circa. AC3 parla di un nativo americano durante la rivoluzione, come Manituana. Vedo ora che AC5 sarà durante la rivoluzione francese. Tutte le volte i lavori dei WuMing restituiscono la visione storica, fin troppo distratta (volutamente, basti vedere la rivoluzione americana) nella serie videoludica: dunque vi manca solo la Repubblica Libera di Nassau, tra pirati, popoli indigeni del centro america e colonialisti spagnoli ed inglesi!
3-Sento di dover raccontare una altra botola, che la realtà mi ha teso l’altro giorno: essendo studente\ricercatore con molto pochi dinari in tasca mi trovavo all’IKEA a cercare due cose per la casa. Mentre mi soffermavo ad osservare un mobile oRRibile (ma economico) mi è capitato di osservare tre signore, agghindate in modo fin troppo pesante, vicino a me. “No ca’a” dice una di queste ” questa roba è orribile.. sa troppo di IKEA”. “ca’a”. Puff! …e mi ritrovo a Palazzo Egualità!! Non ho potuto pensare che i secoli passano, ma quella piccola borghesia moscardina resiste…
4-Sul cavaliere d’Yvres: da subito mi ha provocato un misto di fascino alla Darth Fener\Dracula e repulsione totale. Difatti quando il suo piano si palesa, mi è tornato alla mente il così detto “Golpe Borghese”. Vero che manca il parallelismo con la rivoluzione francese, ma il cavaliere Nero d’Yvres nella mia mente ha preso i connotati fisici del “principe” nero, Iunio Valerio Borghese. A quel punto disprezzarlo e sperare che fosse proprio uno dei personaggi “sanculotti” a sconfiggerlo è diventato un vero piacere. :D
[Spoiler]. Finito da qualche giorno, ma prima di scrivere qui volevo leggere tutti i commenti (ci ho messo più che a leggere il libro).
Che dire? Strepitoso, intrigante, complesso. Scorrevole, incalzante, disturbante a più livelli.
Il lavoro sul linguaggio è straordinario, come ai tempi di Altai.
Molti passaggi mi hanno fugacemente acceso qualche lampadina nel cervello, ma nella maggior parte dei casi ho come l’impressione di aver saltato le “botole”: come molti altri, dovrò concedermi una seconda lettura, al prima è stata troppo frenetica, alimentata dalla voglia di “vedere come va a finire”.
In una botola però ci sono finito in pieno: è a pagina 184, nella scena dell’assedio a Palazzo Egualità da parte degli abitanti del foborgo di Sant’Antonio contro i presunti “nemici interni” (che poi non si riveleranno tali). All’intimazione della resa, uno degli occupanti del palazzo risponde “Qui non si arrende nessuno!”. E sono stato immediatamente teletrasportato in un’altra epoca e un’altRa Rivoluzione.
Cuba, 1956.
E’ stato voluto dal collettivo? Mi piace pensare di si, visto che questa botola spazio temporale è collegata anche le scene finali di 1954.
Ma del resto, che importa?
[Spoiler] Finito di leggere da qualche giorno l’Armata mi ha appassionato, divertito e come tutti i di Wu Ming incuriosito. Ho trovato due analogie con due grandi romanzi, probabilmente errate, ma tant’e’ io ve le sottopongo:
1. il viaggio di D’amblanc in Alvernia a me ha ricordato il viaggio che intraprende Marlow alla ricerca di Kurtz in “cuore di tenebra” di Conrad, stesso cadere sempre piu’ nel’ abisso avviluppato dal’ “orrore” e da una natura ostile. la stessa natura che nelle sue fattezze mi porta anche al viaggio che Dante compie attraversando lo Stige, viaggio allegorico nei mali della natura umana
2. A me l’atto quinto riporta alla mente “il pendolo di Foucault” il romanzo di Eco con tutti i suoi rimandi tra vero e verosimile e la costruzione di “realtà” che trovano la loro pezza d’appoggio su fonti inventate, reali e/o manipolate. La storia e’ piena di documenti prodotti per modificare il corso della Storia (“Donazione di Costantino”,”Fama fraternitatis Rosae Crucis”), e delle storie ( Borges, Manzoni) e che assumono per il corso degli eventi maggiore importanza e pericolosita’ rispetto a quelli veri.
p.s: Ho letto L’AdS mentre leggevo “Un grillo Qualunque” di Giuliano Santoro sbaglio o ho visto apparire tra le pagine di questo saggio il cavaliere d’ Yvers sotto le mentite spoglie del cittadino Laplace?
[Spoiler] “Ma come, non è il seguito di…” :-P. Vi leggo da un anno, quindi il mio sguardo è rimasto più meno lo stesso sui 5 vostri libri che conosco. Inutile girarci intorno come sto facendo da un mese: piaciuto a metà, purtroppo. O forse semplicemente capito a metà. Proprio letteralmente. Fino alla partenza per l’Alvernia, e pure l’Alvernia, il mondo contadino e provnciale tanto lontano da poter parere misterioso e quasi infero (si pensa alla storia della “bestia del Givodone” qualche decennio prima, o più lontano a Jean de Coras e perfino a Montaillou) non si riesce a posare il libro. Poi con il ritorno a Parigi, quella tensione si perde. In parte la scelta di concentrare il motore negativo nel personaggio di Yvers, un piccolo nobile, in fondo, cui dare caratteri prettamente sovrumani. Ma la reazione non è sovrumana e non ha nulla di magico o misterioso, soprattutto, né un piccolo nobile di spada o un grand commis (con le loro truppe più o meno palesi) riassumono la reazione, (o il precedente robespierrismo) e i suoi interessi. Sì sì, siete scrittori e non storici, ma ci destrutturate così bene i massacri di Bicêtre e l’onorevole ammenda e le cittadine magliare e poi girate da tutt’altra parte? Gli armeggi con misteri, con insetti e con arrosti poi sembrano scappatoie un po’ facili (non voglio dire popolareggianti, proprio facili) per disumanizzare ulteriormente personaggio e situazioni e per vellicare certe reazioni, e per far proseguire la storia un po’ da sé. Sarebbe stato interessante, ad esempio, vedere un vero incontro tra Yvers e Pinel, o D’Amblanc: e invece questo confronto è sempre evitato con una fuga opportuna e “misteriosa”, con una soluzione brutale tipo riportare i pazienti di peso in camerata o risolto con un gesto facile quanto “misterioso” di flussi dolorosi dal polso… un po’ poco anche per richiamarsi a un discorso sul corpo qual che sia (come si fa in parte nei capitoli precedenti). Insomma lo sviare tanti temi interessanti nel mistero, nell’inspiegabile, se da un lato può richiamare l’effettivo percorso a tastoni nel buio che all’epoca si stava facendo e si sarebbe continuato a fare per un secolo e oltre sul corpo e il desiderio e il la mente, dall’altro diventa una soluzione narrativa un po’ troppo ricorrente e meccanica.
Dopodiché ripeto, niente contro il popolareggiante in sé: dall’uccisione di Jean il crescendo finale, assolutamente d’avventura, tiene benissimo come ritmo e come struttura (c’è anche in Q, del resto e non dà alcun fastidio).
Poi certo, i personaggi sono spesso splendidi. Leo è un virtuosismo dall’inizio alla fine sotto le sue varie interpretazioni che diventano incarnazioni, fino al trionfo (e al ritorno) dell’attore davanti all’imperatore – ma reciterà mai ScaRamouche davanti ai potenti? (che ci sia anche lo spunto di Hay Carmela?) Marie è giustamente sgradevole e antipatica quanto mozzafiato (impossibile adorarla, per me), un blocco di porfido dell’Adamello piombato su un sentiero, o semplicemente un blocco inscalfibile di solitudine, di rabbia, di dolore represso e pietrificato per poter sopravvivere. Meno male che non ne avete fatto una madre redenta in extremis ché il rischio c’era e si sfiora fin alla fine: ho tremato con l’arrivo di Bastien sulla scena del redde rationem: “è pur sempre suo padre”… e comunque già che ci siamo l’avrei perlomeno accecato, danni permanenti. Sarà un caso ma il libro è pieno di padri adottivi più o meno sufficienti, con l’eccezione di Yvers che tuttavia si impone come figura di riferimento anziché essere scelto, mentre le madri, biologiche, fanno disastri. Impagabile poi il dialogo a distanza tra una Marie e l’elegante dama in grigio accessoriata in rosso vorreimanonposso in cerca di un uomo che la protegga… ovviamente pervicacemente concupita dall’intellettualmente brillante D’Amblanc. Tanto curioso, eterodosso e rigoroso insieme a livello intellettuale quanto banale davanti all’altro sesso. Gli interventi del contastorie sono bellissimi, soprattutto nella prima parte, nella parte centrale sembrano meno sorvegliati nel linguaggio (che invece è un altro dei punti forti del romanzo). Alla fine quelli che se la cavano meglio sembrano gli stessi che non si sono mai sottomessi, lottando fino all’ultimo possibile: Leo, Marie, Claire, D’Amblanc. All’estremo opposto Jean, spossessato e asservito fino al livello animale, paga in modo atroce tanta innamorata fedeltà… RicoRdiamolo…
[Spoiler] un rapido commento a lettura finita da molto poco, poi leggendo meglio altri commenti, letture, osservazioni, mi riservo di soddisfare qualche curiosità… prima di tutto complimenti vivi alla band per questo potente oggetto narrativo e storico. Metto l’ADS a pari merito con Q e un gradino sopra a 54, quindi ADS è in cima alla mia personale valutazione… mi è sembrato un bel passo in avanti sul piano linguistico, l’intreccio che fate fra registri linguistici diversi è ottimo, avete trovato una chimica nuova e si sente, risuona potente lungo tutto ADS, in particolare ho trovato geniali l’uso del bolognese e il modo in cui rendete la voce del popolo, ma non solo la voce, il popolo come presenza storica concreta, il popolo reso come ecceità (Spinoza e Deleuze). la densità concettuale di ADS è una mappa dei possibili della rivoluzione francese, e attraverso di essa, di ogni processo rivoluzionario; non è un caso abbiate scelto di concentrarvi sui passaggi decisivi della rivoluzione francese….
“-L’ho sempre detto, io, che la noia è controrivoluzionaria.
-Non la noia: gli annoiati. Garzo, diffida di chiunque si lamenti della noia che patisce. Chi ti dice che si annoia è uno stronzo, sempre, uno che ti vuol mettere il gioppino nel retro.”
Sulla storia e sulle storie di ADS: è la sintesi fra questi due piani, uno macro (gli eventi storici) e l’altro micro (gli eventi storici dei singoli personaggi e le storie/i destini da loro contenuti ed espressi) a sembrarmi il punto di forza e il maggior merito di ADS, che segna un passaggio d’intensità per WM.
[Spoiler] A proposito di noia, il passaggio citato mi ricorda questa scena di Riso Amaro: https://www.youtube.com/watch?v=LRXtUylZVTw i camion delle mondine passano sotto l’arco, e sul muro c’è scritto “M la noia”, “Viva le mondine” (mancava solo “viva scaramouche” :)
Peraltro, dopo, compare Isabella Marincola :-)
[Spoiler] dimenticato una cosa: più volte ho pensato durante la lettura a “Il sole dell’avvenire” di Evangelisti. Nella diversità di storia di storie raccontate, c’è un filo tematico potente che unisce questi due libri usciti a distanza di pochi mesi l’uno dall’altro… anche ne “Il sole dell’avvenire” c’è un rapporto madre-figlio molto importante e particolare, Rosa e Canzio, come Marie e Bastien in AdS.
[Spoiler] Alvernia 1788: refuso o trabocchetto?
Scusate la pedanteria. Non ho finito il libro e quindi non ho letto questo thread e non so se la questione sia già emersa.
Ho bisogno di un’informazione: a pag. 216, citando un testo del 1788, si parla dell’Alvernia come uno dei “dipartimenti della Repubblica”. Ora, la Repubblica è del ’92 e i dipartimenti sono stati istituiti fra ’89 e ’90. E’ un refuso o c’è un significato che ancora mi sfugge? Se è un refuso, lo segnalo e basta. Se non lo è, chiedo solo conferma della cosa; cercherò poi io di scoprire il significato.
Sono a metà: finora, eccezionale!
L’inghippo è questo: il viaggio e la prima edizione del libro sono del 1788; noi però abbiamo trovato la seconda edizione del libro, che è del 1793 e ovviamente, dove prima c’era un riferimento al regno, è stato messo il riferimento alla Repubblica. Il problema è l’ambiguità di quel “1788” tra parentesi, che abbiamo fatto togliere e nelle ristampe non c’è più. Grazie comunque della segnalazione, il fatto che fossi possibilista sulla presenza di una botola ci lusingq! :-))))
Mi sa che non basta; è anche il titolo del libro a trarre in inganno. Forse la cosa migliore è proprio citare la seconda edizione del 1793, così si salva sia la data del viaggio che il riferimento alla Repubblica. Inoltre si riproduce quella che è stata la situazione reale per un lettore del 1793. Solo per la pignoleria e il piacere di vedere che è tutto inoppugnabile (almeno quello che è vero; per il resto, nessun limite…)
[spoiler] impressioni a briglia sciolta. p.585: un gruppo di muschiatini smartella un’iscrizione dalla facciata di un edificio, mentre un altro gruppo cancella le parole “o la morte!” che seguono “Libertà, Egualità, Fraternità” su un muro vicino.
Ebbene, ho trovato in questo episodio, che può facilmente passare inosservato come un semplice dettaglio scenografico, un ponte (non lo definirei proprio una botola così come emerso nel corso della discussione) con la controrivoluzione che ci troviamo a vivere oggi: le parole costituenti della Rivoluzione, i concetti che da li in avanti guideranno l’umanità verso un domani migliore, vengono completamente svuotate del loro senso, ridotte a una banderuola che chiunque può sventolare senza rischio di sbagliare, perché tanto chi è contrario a quella roba li, *a parole*?
In quel gruppo di incredibili olezzosi ci vedo le odierne commemorazioni istituzionali per il 25 aprile, ci vedo il PD che parla di lavoro, accusa di terrorismo, la sinistra, l’ecologia e la libertà, ci vedo la varia gioventù dorata italiana che si riempie la bocca dell’eroismo di Falcone e Borsellino, ci vedo Israele che parla di difesa della democrazia. Chi non è d’accordo con *la democrazia*? A chi piace *il terrore*?
Ci vedo tutto e il contrario di tutto, perché in fondo puoi dire tutto quel che vuoi se sai che nessuno verrà a chiederti conto di quello che hai detto, perché il piattume è tale che nessuno mai verrà a dirti, come fanno i bulletti di scuola: “…sennò?” Ecco. Sennò la morte, stai ben sicuro, la mia o la tua. Ché di vivere elemosinando uno si rompe i coglioni, e a quel punto prima spara e poi prenda la mira. E’ li che si distingue il muschiatino più o meno coccardato dal rivoluzionario sicuramente smutandato. Ieri come oggi, eh. L’uno ti distrae con le parole, millanta insurrezioni e rivoluzioni, l’altro le mette in pratica, ti ci catapulta dentro senza che manco te ne accorgi.
Insomma, gran bel ponte. Ché le cose, per capirle bene, per vederle chiare, devi vederle da lontano, guardarle come si guarda qualcosa di sconosciuto, perché l’oggi ci è già ampiamente venuto a noia, e la Rivoluzione Francese, a scuola, era solo quel tortuoso capitolo fra l’Assolutismo e Napoleone, nulla più. Leggendo il romanzo, invece, man mano che il Termidoro prendeva corpo, l’eccitazione iniziale diventava magone, tristezza, paranoia. Ecco, rivivere l’oggi, la fase storica, darle corpo attraverso le pagine del romanzo, trovarmi immerso nella realtà di oggi, in continuità con la Storia di ieri e di domani: questo è stato per me leggere L’AdS, quasi senza il bisogno dell’atto V.
E guarda un po’, mi avete finalmente fatto comprare “Sorvegliare e punire” (interessante ritrovarci passi di Marat e Brissot –ormai siamo amici–, stralci delle discussioni della Convenzione, passi della costituzione del ’91 a proposito della Riforma del sistema penale), e Novantatrè. E Bioscop. Grazie!
[Spoiler] Dato il livello dei commenti precedenti faccio preventivamente una virtuale “onorabile ammenda” e mi accingo ad abbassarlo.
Romanzo eccezionale duratomi a malapena 10 giorni e solo in quanto volli fortissimamente volli non bruciarlo tutto subito in una manciata di ore.
Qualche considerazione personale sui personaggi dando per assodate e condivise le suggestioni degli altri lettori, da Conrad a Carpenter passando per l’etica degli Jedi: Yvers mi ha ricordato Randall Flagg, l’Uomo nero dei romanzi di Stephen King che compare principalmente ne L’ombra dello scorpione e nella serie La torre nera. Ovviamente non è solo la connotazione cromatica a suggerirmi il parallelismo ma l’incarnazione stessa del male che entrambi rappresentano. In più l’elenco dei molteplici nomi assunti dal cavaliere nero di King comprende anche “Il Tizio che cammina” e il fatto che Yvers conduca un’armata di “sleepwalkers” ha rafforzato questo richiamo. Da un lato quindi il villain mentre dall’altra D’Amblanc che con l’ultima parte del suo nome come sottolinea una della bambine magnetizzate richiama il “bianco”, paradigma della forza buona, il polo positivo del magnete, dato che siamo in tema. Il fluido magnetico poi mi ha rimandato ai Vettori, per chiudere il capitolo Torre nera.
Tra le mille interpretazioni possibili circa i sonnambuli personalmente privilegio una duplice soluzione: più letteralmente li vedo come i precursori dei supersoldati, risultato degli esprimenti di controllo sulla psiche stile complottismo mk ultra e x-files (questo sempre per volare alto coi riferimenti filosofici ;), più allegoricamente invece come chi sceglie la via più facile e poi si ritrova a dover fare i conti con la bestia politica a cui ha dato in pasto il proprio futuro. Perchè non dimentichiamoci che i sonnambuli scelgono di divenire tali, esercitano la volontà di perdere la volontà. E’ proprio qui che ho ravvisato il fulcro del paradosso: quando i dormienti intonano canti di risveglio ai sanculotti, quando nell’anniversario della decapitazione del re si festeggia proprio la monarchia mentre si esorcizzano i responsabili della rivoluzione, quando si ricorre al magnetismo -metodo che nasce come una cura- per distruggere.
La manipolazione del fluido magnetico, placebo o autosuggestione che dir si voglia, può essere paragonata a una rivoluzione destinata a fallire? Sia l’uno che l’altra non sono che una cura palliativa rispettivamente per il corpo umano e per il corpo sociale? Si annullano temporaneamente i sintomi mentre il vero male continua a covare sotto le ceneri di un’apparente sovvertimento dello status quo. Da qui la riflessione: chi sono i veri sonnambuli, o meglio, c’è un solo tipo di “sonnambulismo”? Ci sono i sonnambuli de facto, coloro che si sono sottomessi. Ma ci sono anche coloro che credono di essere guariti/liberi mentre hanno solo depotenziato la percezione del male fisico e sociale, non la fonte male stesso (e qua sorgono prepotentemente paragoni con gruppi politici contemporanei, anzi, con movimenti). Il fluido/rivoluzione è un trucco, è un’altra maschera della commedia? o è solo il modo in cui viene usato ad essere sbagliato?
Bon, chiuso il pippone sul tema principale concludo con un altro paio di considerazioni. Posto che ho adorato il personaggio di Leo/Scaramouche -nonchè la sua istrionica capacità di adattamento allo spirito del tempo, un vero attore che sa impadronirsi del palcoscenico in qualunque forma esso sia-, come ho adorato visitare i villaggi dei dannati attraverso l’Alvernia insieme al dottor D’Amblanc, mi ha colpita il personaggio di Marie Noziere anche perchè non viene banalmente forzata dai narratori a diventare una buona madre. Non è quello il suo percorso di formazione, fortunatamente. Marie e i suoi ferri da maglia utilizzati come arma mi hanno ricordato un passaggio de La scopa del sistema, nello specifico la riflessione sul concetto di funzione e significato, in cui la bisnonna di Lenore fa notare che una scopa afferrata per la chioma può servire egregiamente per spaccare il vetro di una finestra, passando poi alla dimostrazione pratica.
Lungo la lettura ho trovato altri spunti ma sarebbero essenzialmente mie divagazioni su possibili sviluppi.
Per chiosare, una delle citazioni per me più significative: “Avete mai visto un contadino magnetizzare un nobile?”…
Penso di aver beccato una citazione/passaggi…
la noia è controrivoluzionaria
debord-the bore
pag.605
“-L’ho sempre detto, io, che la noia è controrivoluzionaria.
-Non la noia: gli annoiati. Garzo, diffida di chiunque si lamenti della noia che patisce. Chi ti dice che si annoia è uno stronzo, sempre, uno che ti vuol mettere il gioppino nel retro.”
Non ho ancora finito il libro, ma non ho letto i commenti sotto di me !giuro!
In realtà volevo semplicemente ringraziarvi. Il primo vostro libro che ho letto è stato “Q” avevo 14 anni e l’ho amato profondamente anche se, data l’età, probabilmente mi devo essere perso abbastanza da meritare una rilettura. Poi è stata la volta di “Altai”, stavolta da 19enne, che per semplice preferenza storica-culturale ho apprezzato anche di più. Ora, 21enne, sono riuscito a prendere in biblioteca “L’Armata dei Sonnambuli” ed accidenti se mi siete mancanti! Era un po’ di tempo che non leggevo qualcosa di vostro e me ne sto pentendo, la passione che ho per la storia, la politica e infondo verso tutta la vicenda umana la devo almeno in parte a voi, il vostro modo dissacrante di raccontare e la mancanza totale di quella patina di perfezione con cui si usa dipingere uomini passati alla storia che sinceramente non gli si addice.
Spero di poter continuare a crescere insieme a voi, perchè io lo sto facendo ma wu ming mi è sempre due passi avanti. Grazie.
[spoiler]
“Toute le jeunesse est allée mourir déjà au bout du monde dans le silence de vérité. Et où aller dehors, je vous le demande, dès qu’on a plus en soi la somme suffisante de délire ? La vérité, c’est une agonie qui n’en finit pas. La vérité de ce monde c’est la mort. Il faut choisir, mourir ou mentir. Je n’ai jamais pu me tuer moi.” dr cav, L.F. Destouches, Voyage au bout de la nuit.
Poteva starci come citazione all’interno del vs libro, in bocca al dottore Gallonnaire/Destouche (perché senza s?).
Sono francese, anzi parigino, e da francese voglio subito fare una domanda: quando verrà tradotto questo meraviglioso libro? Può diventare una bomba niente male. Come accennate nell’atto quinto (degli apostoli), la questione non è per niente risolta. Paradossalmente abbiamo digerito molto bene le 2 guerre mondiali, ma delle 3 rivoluzioni ci sfugge ancora qualcosa. Come dicevate nel 2004 c’è stato lo spostamento del cuore di Louis XVII, ma parallelamente ci sono delle voci che cercano di riabilitare Marat, che, almeno in Francia, ci hanno insegnato che era un po diverso da come lo dipingete. Ma si sa la storia viene scritta dai vincitori, e raccontata dai perdenti. Il problema è che in questo caso, a lungo termine, chi sono i vincitori e i perdenti ??
Volevo fare un’altra considerazione. Leggendo i commento di cui sopra, si evince chiaramente che ha turbato tante persone il fatto che nel vs V° atto, le fonti storiografiche siano “(s)falsate”. Ma io chiedo: cosa cambia? la vera storia non esiste. Allora stiamo parlando di storiografia o di “branlettes mentales”… Di fatto, per me, è stato raccontato una storia potenzialmente possibile, e non meno vere di altre, anche quelle con le fonti irreprensibili, che di fatto non lo sono quasi mai. Come scrisse benissimo Paul Valery nell’Introduzione al metodo di Leonardo Da Vinci:
“Il reste d’un homme ce que donnent à songer son nom, et les œuvres qui font de ce nom un signe d’admiration, de haine ou d’indifférence … Celui qui représente un arbre est forcé de se représenter un ciel ou un fond pour l’y voir s’y tenir … J’essaye de donner une vue sur le détail d’une vie intellectuelle, une suggestion des méthodes que toute trouvaille implique, une , choisie parmi la multitude des choses imaginables, modèle qu’on devine grossier, mais de toute façon préférable aux suites d’anecdotes douteuses…Un auteur qui compose une biographie peut essayer de vivre son personnage, ou bien de le construire.”
Scusatemi se ho scritto in francese ma non possiedo le traduzioni.
[spoiler] a proposito di traduzioni. Il mio pensiero personale è che “l’oeil di carafa” non abbia avuto una grande traduzione. Niente contro Nathalie Bauer che a mio avviso è una buona traduttrice, ma secondo me non ha centrato il libro.
[spoiler] sono d’accordo con te que Q: l’oeil de carafa, non ha avuto una grande traduzione. Ho letto New Thing tradotto da Serge Quadruppani, e non è per niente male. Per questo ADS ci vorrebbe qualcosa di veramente potente qui “arrache sa mère”
So che Quadruppani ha tradotto anche Manituana. Ma non sono riuscito a finirlo nemmeno in italiano. Ma ho letto un Camilleri tradotto da lui ed è vero che non è male. Chi sa se è lui che sta traducendo Altai? Nel senso inverso (francese-italiano) non avrei dubbi: Maurizia Balmelli che traduce la Vargas in maniera eccelsa, meglio della famosa Yasmina Mélaouah che secondo me è troppo legata alla saga di Pennac. Sarebbe fantastico se fosse proprio la Vargas a tradurre quest’ADS.
[spoiler] La Dama Bianca:
p. 377, L’Armata dei Sonnambuli:
“–Chiudi gli occhi adesso, riposa.
Margot abbassò le palpebre.
–Riposa… –Mormorò D’Amblanc.
–Lo faccio già.
–Stai dormendo?
–È come se sto dormendo.
D’Amblanc annuì ai propri presentimenti.
–Ora rispondimi: è vero che parli con Dio?
–No.
–Con chi allora?
–Con la Signora Bianca.
–Chi è questa signora bianca?
–Voi lo sapete.
–Come faccio a saperlo, Margot?
–Portate il suo nome.”
p. 164, Novantatré, V. Hugo:
“Se si vuol capire la Vandea, ci si immagini questo antagonismo: da una parte la rivoluzione francese, dall’altra il contadino bretone. Si provi un po’ a collocare di fronte a quegli incomparabili avvenimenti, immensa minaccia di tutti i benefici a un tempo, impeto di collera della civiltà, furiosa esasperazione del progresso, smisurato e inintelligibile miglioramento, quel grave e singolare selvaggio, quell’uomo dall’occhio chiaro e dai capelli lunghi, che viveva di latte e di castagne, che non si interessava di nulla che fosse al di là del suo tetto di stoppie, della sua siepe e del suo fossato, che era capace di distinguere ogni casale delle vicinanze dal suono della sua campana, che non si valeva dell’acqua altro che per bere, che indossava una casacca di pelle con arabeschi di seta, trasandata e ricamata, che si tatuava i vestiti come i suoi antenati, i celti, si erano tatuate le facce, che rispettava il padrone nel suo boia, che parlava una lingua morta, il che è come far abitare una tomba al proprio pensiero, che pungolava i buoi, affilava la falce, sarchiava il grano nero, impastava la focaccia di granturco, venerava innanzitutto l’aratro e poi la nonna, che credeva alla santa Vergine e alla Dama bianca, devoto tanto all’altare quanto all’alta pietra misteriosa ritta in mezzo alla landa, contadino nella pianura, pescatore sulla costa, bracconiere nella macchia, innamorato dei suoi re, dei suoi signori, dei suoi preti, delle sue pulci; pensoso, spesso immobile per ore ed ore sulla grande spiaggia deserta, cupo ascoltatore del mare.
E ci si domandi poi se questo cieco poteva accettare quella luce.”
Avevate ragione, le descrizioni che Hugo fa della guerra di Vandea, tanto quanto della Convenzione di Parigi sono di una bellezza incommensurabile.
Dannazione, non c’e’ il tasto “like”, quindi elaboro un minimo.
Grazie perche’ avevo iniziato a leggere Quatrevingt-treize ma mi ero arenato, tra il francese e la vita. (Y)
Salve a tutti. Anche io sfido lo spoiler (non avendo ancora terminato il libro) e mi rivolgo alla comunità di lettori per qualche consiglio su cosa leggere per approfondire la storia della rivoluzione francese – possibilmente (sebbene non esclusivamente) da una prospettiva marxista.
Sono a conoscenza del recente libro di Eric Hazan (http://www.lafabrique.fr/catalogue.php?idArt=705), del lavoro di Albert Soboul (http://it.wikipedia.org/wiki/Albert_Soboul), e dell’opera di Mathiez e Lefebvre (Albert Mathiez – Georges Lefebvre, La Rivoluzione francese, 2 volumi, Piccola Biblioteca, Einaudi, Torino, 1964). Qualsiasi altro suggerimento di lettura è ben accetto!
Un saluto,
-m.
il piacere sottile di leggere (e ritrovare) la pietas di wuming verso le figuracce in cui incorrono i suoi antieroi. leo come pierre capponi incarna il tentativo goffo e imperfetto di alzarsi al di sopra della massa e fare da avanguardia. lo sguardo benevolo dell’autore da a volte un lieto fine a questi personaggi “che potremmo essere io, che potremmo essere noi” come cantava il poeta. altrove, invece, si celebra il ripiegarsi in una dimensione privata dopo le sconfitte e-o le delusioni. le gran diable come tiziano. ancora frammenti di specchi. con gratitudine.
[Spoiler] Sono quasi giunto alla fine del romanzo. Oggi ho letto le pagine nelle quali Sacaramouche si impossessa del bastone da passeggio/combattimento che diverrà lo Spirito di Marat, ed ho automaticamente pensato alle pratiche di (ri)appropriazione (culturale e simbolica, ma anche a livello di strumenti e armi improprie) degli antifa francesi:
http://www.youtube.com/watch?v=EfDbTgb6uyc
Un altro riferimento nascosto? o un riferimento involontario?
[spoiler] per il tuo primo post direi che dimentichi Jean-Clément Martin che, almeno in Francia, è considerato uno dei maggiori esperti di rivoluzione.
Per quanto concerne il secondo post, io c’ero in quel periodo “dans la zone” ed è vero che gli antiskins, antifa etc, che è stato un movimento rivoluzionario, ma lo trovo molto azzardato paragonarlo alle nostre rivoluzioni.
Grazie per il riferimento!
Su antifa etc. concordo con te. Semplicemente, il furto della mazza mi ha fatto tornare subito a mente spezzoni del documentario dove i protagonisti raccontano di come gli antifa rubassero agli avversari di combattimento i bomber (da portare poi al contrario), anelli da combattimento, anfibi etc.
[spoiler] Non a tutti capita la fortuna di combattere un assedio accanto ad eroi come Gauvain e l’onore di accompagnare negli inferi autentici rivoluzionari come D’Amblanc: ciò che è successo al coraggioso sergente Radoub (ma forse qualcuno l’aveva già segnalato :-)
Premetto di non aver letto tutta la conversazione, ma vorrei raccontarmi di un mio problema con le fonti.
Mentre leggevo, mi era sorto il dubbio che aveste messo in bocca idee moderne al personaggio Pinel.
(U:bris, lo so, ma un controllino per far tacere un dubbio, non guasta mai.)
Salta fuori che, no, https://en.wikipedia.org/wiki/Bic%C3%AAtre_Hospital
e’ storico, tanto quanto il trattamento umano di Pinel. Il fattaccio e’ che, leggendo quella benedetta pagina di wikipedia, ci rimango malissimo: nessuno ha taggato lo spoiler a un romanzone che aspettiamo da cinque “@%**$ anni e, dannata visione periferica, Laplace perde lo pseudonimo.
(Da li’ in avanti, mi sono vietato di controllare un chicchessia dal vostro libro, nisba.)
Ho finito il romanzo ma in qualche angolo della mia mente, ancora non mi sono arreso alla narrazione: sto ancora cercando di incastrare il Marchese e Laplace.
(Tra qualche anno tornero’ a leggerlo e, con serenita’, mi permettero’ di cercare tutto cio’ che mi incuriosisce.)
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E’ una promessa la libertà che mi ha fatta appassionare e mi ha fatta sentire in grado di fare qualunque cosa, nonostante questa società che ciclicamente si confonde e dimentica il passato.
E’ una promessa anche quello che mi aspetto dal mondo intorno a me.
Quindi meglio ricordarmi ogni giorno questa promessa e lottare per raggiungerla.
Non ci sono spoiler, ma solo gratitudine per avermi ricordato cosa può essere l’uomo.
[spoiler] La mia ragazza ha appena finito il libro, ma già durante la lettura mi ha fatto un commento che credo di non aver visto ancora in questa discussione. Io stesso non i avevo pensato ma lei mi ha fatto notare l’ottima qualità delle scene di combattimento: lei fa arti marziali e dice che non le era mai capitato di leggere in un libro dei combattimenti così ben descritti; per fare un esempio nel libro si fa riferimento al tipo di guardia tenuta, il che per uno come me che non pratica arti marziali può sembrare un semplice arricchimento, in realtà mi dice che osservare la guardia dell’avversario è essenziale e che quindi c’è una certa perizia nella descrizione. Qualcun altro aveva notato questa cosa?
@Notchosen
La tua ragazza ha visto giusto: per quel che ne so, uno dei membri del collettivo pratica e insegna da anni uno sport da combattimento.
[Spoiler] Buongiorno a tutti. Ho preso in mano questo libro sulla fondamenta delle zattere, guardando la casa di Dona Isabel alla giudeca al di la del canale sull’altra sponda. Era una sera di aprile o maggio, prima tappa del (R)évolution Tour a Venexia.
L’aspettavo da tanto, come tutti i lettori che sono venuti a testimoniare qui suppongo. Ho preso Q in mano circa dieci anni fa; era il secondo libro che leggevo in italiano dopo le storie del barone lamberto di Rodari. Ho letto Q due volte. La prima col dizionario. Ha arrichito il mio vocabolario italiano. Mi ha aperto la mente, gli occhi.
Di seguito, ho preso gli altri oggetti narrativi dei Wu Ming; Sono stati dei bellissimi compagni di viaggio. Ho spesso giocato alla roulette mentre aspettavo la mia valigia all’aeroporto di Venexia:
15 – Nero – Dispari. Mi è capitato di vincere
Torniamo all’Armata dei sonnambuli
Ho chiuso il libro qualche giorni fa.
Durante tutta la lettura, c’era qualcosa che mi dava fastidio. Perche diavolo devono scrivere tutti i nomi francesi in Italiano. Puo essere che il mio orgoglio francese sia cosi toccato al cuore? Le jardin des Tuileries, si. Mica le tegolerie. Dettaglio che non capivo.
Finche arrivo al quinto atto dove finalmente si parla di tuileries. E li si accende una lampada! Ma siiii era una finzione. Parigi, le tegolerie, sant’antonio. Fu il primo momento di interpellazione alla lettura dell’atto quinto. Ovviamente mi sono chiesto come tutti dove stava la verita di fonte documentate rispetto a un altra verita possibile. E li parte di nuovo la storia… Che bello!
Mentre seguivo Giap ero stato molto felice di vedere le referenze a Quatrevingt-treize de Hugo. Mi riporti indietro nel tempo ricordandomi che avevo scovato questo libro in una cassa nel sottotetto della casa dei miei nonni. L’ho riletto dunque, preparandomi all’arrivo del ultimo Opus dei Wuming.
Ho trovato del marchese di Lantenac nell personnaggio di Yvers. Il parallelo tra la torre del tempio et la Tourgue, con l’uscita di sicurezza dove puo scappare Yvers / Lantenac. Anche il destino dei bimbi orphani.
Alla fine devo dire che Q rimane il mio libro preferito. Ma forse una seconda lettura dell’armata mi farà cambiare idea e vedere altre prospettive.
Bene, ringrazio i WM per tutte queste pagine.
post sterile ma sincero:
Grazie.
Raro ma non impossibile, leggere un romanzo italiano di alto livello tecnico che mescoli alla perfezione su un piano di dialogo storicità, sociale, grande pop e fantastico è stato un vero piacere.
Quindi, ancora, grazie per la bella storia traboccante di vite, un’avventura da ripetere e riesplorare.
[Spoiler] Ai giapster che non li conoscessero ancora, consiglio l’ascolto degli #Scaramouche: https://www.youtube.com/user/ScaramoucheItaly
E’ una mia impressione o sotto i vestiti del Cavaliere d’Yvers si nasconde Freda e sotto quelli dei muschiatini i sanbabilini?