Sinistra è riconoscere il conflitto. Sulla nostra intervista a «Repubblica»

Nostra signora delle lotte

Molti se ne saranno già accorti, ma lo segnaliamo ai distratti: in homepage su repubblica.it c’è un’intervista a WM1 e WM4 realizzata da Michele Smargiassi a Bologna un paio di mesi fa*. Argomento: cosa vuol dire “sinistra” oggi.
In giro per la rete se ne sta discutendo molto, su Twitter c’è una girandola di commenti e virgolettati.
I commenti sul sito di Repubblica sono prevedibilissimi e di basso profilo:
c’è il piddino di Bologna incazzato per i nostri attacchi alla giunta (e per il referendum sulle scuole cattoliche) che scrive “questi a Bologna fanno solo danni”;
c’è il travaglista incazzato che ritira in ballo la questione Einaudi**;
c’è l'”emme-elle” incazzato perché abbiamo preso le distanze da Pol Pot e non abbiamo detto la nostra su Lenin, Stalin e Mao;
c’è quello che dice “mentre voi parlate dei massimi sistemi Berlusconi vince”, e non gli passa nemmeno per l’anticamera del cervello il sospetto che “Berlusconi vince” perché ben rappresenta un Paese “tarato sul minimo”, con una “sinistra” che non pensa mai in modo sistemico;
c’è il classicissimo “andate a lavorare!” (scritto da qualcuno che sicuramente in quel momento sta lavorando!);
notevole quello che scrive: “questi c’avranno tipo 20 anni e hanno gia’ le idee chiare su qualunque cosa?” (Grazie, alcuni di noi vanno per i 50!);
infine c’è la cazzata che viene scritta sempre, quella da ignoranti italiettocentrici: “In fondo gli Indignados spagnoli cos’hanno combinato, dove sono finiti? Non se ne sente più parlare.”
Prima o poi chiederemo a qualcuno che segue da vicino la situazione spagnola di fare un post per Giap che descriva per filo e per segno le evoluzioni e ramificazioni che ha avuto e sta avendo il movimento “15 de Mayo”: le lotte nate con la mobilitazione di due anni fa e proseguite in tutto il Paese, gli escraches a politici e industriali, i picchetti di massa contro sfratti e confische di case, gli scioperi autoconvocati, la resistenza organizzata contro le retate di migranti… E’ senz’altro una situazione con limiti e difetti, ma è viva, è mobile e conflittuale.
Se uno legge solo la stampa italiana, ripiegata sul nostrano politicismo e sul “Non C’è Alternativa” alle Basse Intese, è normale che di tutto questo non sappia nulla.
Vabbe’, al di là dei commenti, leggete l’intervista, poi fateci sapere.

 Willie Sindaco

* Se interessa, ecco la registrazione della chiacchierata:

la registrazione della chiacchierata
Smargiassi intervista WM1 e WM4 all’XM24, 09/07/2013
Dura 42 minuti. Conversazione a tratti caotica, con il compagno Willie Tattoo (hasta siempre nostro candidato sindaco!) che ci girava attorno in bicicletta. Smargiassi ha fatto un ottimo lavoro di “ripulitura” e connessione delle parti disgiunte. Ha anche infilato un riferimento a #Tifiamoasteroide :-)

**qui l’ultima volta che abbiamo detto la nostra al riguardo:

WM1 su Radio Città del Capo, 09/09/2010, 5’34”
WM1 sulla questione Einaudi, Radio Città del Capo, 09/09/2010, 5’34”

Scarica questo articolo in formato ebook (ePub o Kindle)Scarica questo articolo in formato ebook (ePub o Kindle)

126 commenti su “Sinistra è riconoscere il conflitto. Sulla nostra intervista a «Repubblica»

  1. bell’intervista, a tratti anche “emozionante”

    con l’augurio che questo autunno finalmente la parola sinistra torni ad avere un valore ed un significato pregni di contenuti e di conflitto

  2. Oggi, come da quasi vent’anni, ho rinnovato l’iscrizione al mio partito comunista.

    Ovviamente, se scrivessi questa informazione nei luoghi del pensiero nullo come minimo mi beccherei la domanda masiniana: Perché lo fai…?
    Allora partirei con un elenco di ragioni e fatti, ma nulla può placare l’ira del censore della forma che mi ricordebbe la gravità delle mie colpe presenti e passate; dal testo non giustificato alle foibe; come voi ben sapete…

    Fatevi ringraziare, WuMing, per il vostro impegno intellettuale in Italia dove il conflitto per la difesa del territorio e del rispetto della Costituzione è tacciato di terrorismo; dove il lavoratori in sciopero vengono picchiati dalla polizia, dove i padroni delle fabbriche uccidono i diritti col consenso delle istituzioni, dove le bugie dei governi sono l’unica verità dei giornali, dove viene definito di sinistra il partito democratico e perfino il vuoto con Firenze intorno (nomato Renzi).

    Dopo l’ottimo ‘tifiamo asteroide’, abbiamo bisogno di poesie, canzoni, motti, aforismi; lotte in pillole che passino le maglie dell’autocensura, della pigrizia intelletuale.

    • Veramente, la domanda te la becchi anche qui. Ma soprattutto quale è il “tuo” partito comunista? E iscriverti al “tuo” partito e non a una sinistra-sinistra diffusa ti fa sentire meglio?più sicuro e protetto nella certezza dell’ideologia del “tuo” partito comunista? Ma se mi sbaglio, scusa.

      • Rispondo alle ultime due domande.
        L’iscrizione al Partito non preclude l’appartenza alla sinistra diffusa fosse anche non radicale.
        Riguardo al sentirsi meglio, troppo vaghi i termini di paragone e l’ideologia non richiede l’iscrizione ad un movimento politico.
        Dalla mia preziosa tessera non ho mai avuto vantaggi in un mondo fortemente anticomunista e la militanza ha portato al sacrificio personale, di tempo, fatica, relazioni compromesse, scontri, censure e altri ostacoli.
        In Germania, firmando un contratto di lavoro, accettavo di non volere attentare alla democrazia. Per rassicurami il mio donatore di lavoro mi disse, dopo avermi letto quel passaggio in tedesco, di non preoccuparmi ‘perché tu non sei comunista’. Seguì il distacco della mia penna dal foglio e l’imbarazzo del suddetto figlio di un Paese non ricordato nel mondo per essere stato troppo di sinistra e che dopo la caduta del muro di Berlino ha divorato un’intera popolazione imponendo di tutto; dall’inno nazionale agli spreewaldgurken.
        https://www.youtube.com/watch?v=UDOb26pGDI0
        Ad ogni modo, non vedo come, esprimendo una tua opinione, idea o supposizione pregiudiziale, tu debba chiedere scusa.

    • Suggerisco la lettura di Morte sul Nilo (Deaths on the Nile) riportata sul numero di questa settimana di Internazionale (pagine 82-86, N.1014 23/29 agosto 2013).
      Rispetto alle rivolte recenti, agli scontri, alla cosiddetta primavera araba e agli ultimi risvolti repressivi, militari e di restaurazione “la domanda che dobbiamo farci è la seguente: si tratta di un vero antagonismo? In tutti questi casi manca un elemento: l’alternativa radicale di sinistra. Questo vuol dire che nel 1989, con il crollo del comunismo, due secoli di idee di sinistra sono stati cancellati? Che il paradigma della sinistra radicale ha esaurito tutte le sue potenzialità, nonostante qualche recente timido tentativo di resuscitarlo (in America Latina o in Nepal)?”

  3. nell’intervista di oggi su repubblica parlate del che la nostra sinistra risiede nel conflitto. non condivo la parte dove nel parlare del conflitto lo mischiate con i processi, in quanto parte dello stesso sistema autoritario che combattiamo ogni giorno. purtroppo in italia il conflitto non è reale, la maggior parte della gente utilizza per generare un finto conflitto i social network, e i pochi spazi di resistenza come la valle quest’anno hanno prodotto molto poco soprattutto per quanto riguarda la partecipazione popolare.
    la “sinistra” di movimento dovrebbe domandarsi come creare conflitto in questa societa? e se il 15 ottobre si fosse assediato il parlamento e fosse stata una giornata di vittoria reale il giorno dopo cosa si sarebbe fatto? nuovo potere o abbattimento del potere?

  4. finalmente le parole necessarie per scuotere dal torpore un’area “politica” inebetita dalla paccottaglia sociologica da bestseller, con le sue facili parole d’ordine – la decrescita felice, il capitalismo liquido etc. – da revisionismi cinici ed opportunisti – le “narrazioni del secolo scorso”, come se la vita e la lotta di decine di milioni di rivoluzionari di tutto il mondo, caro vendola, fossero romanzi d’appendice della nostra storia – e da miti psicologici collettivi tipo “la società civile”, “mani pulite” e degenerazioni varie della fantomatica “questione morale”, che ha ridotto il principale partito del cosiddetto centro-sinistra a dependance parlamentare di magistratura e polizia. grazie per aver fatto chiarezza e squarciato il velo dell’impostura, tanto ben tessuto proprio dal giornalaccio che ha ospitato la vostra intervista. le stesse pagine da cui un certo staino, qualche settimana, ci propinava la sua definizione, da manuale delle giovani marmotte, di “sinistra” che tanto mi aveva fatto incazzare. c’è un deserto da attraversare, un deserto fatto anche di leggi speciali che vengono riproposte sfacciatamente oggi (vedesi questione delle norme anti notav del decreto sul “femminicidio”), di rimozione scientifica della memoria stessa dei conflitti sociali che hanno attraversato la storia di questo paese, funzionale all’azzeramento di qualsiasi possibile coscienza collettiva di lotta e rivendicazioni. hanno fatto un deserto, ci tocca attraversarlo, la storia non si arresta.

  5. Bravi soprattutto perché leggete e commentate i commenti, alcuni mi fanno piegare in due dalle risate! Ma perché avete accettato un’intervista a La Repubblica, siete masochisti o siete fatti? Ah, ho capito, era proprio per vedere le reazioni dei lettori.

    • Non è mica la prima che rilasciamo :-) [leggi la prima risposta]
      http://www.wumingfoundation.com/giap/?p=12208
      Abbiamo anche *scritto* su Repubblica (raramente, ma lo abbiamo fatto):
      http://www.wumingfoundation.com/giap/?p=4529
      Mettiamola così: dire certe cose proprio lì, arrivando a centinaia di migliaia di persone che su quel giornale leggono piuttosto di rado letture come la nostra (per non dire delle difese dei No Tav!), ci è sembrato un gioco che valesse la candela.

      • Secondo me sono queste le vostre sortite migliori, proprio perché sono l’equivalente comunicativo di una carica di dinamite piazzata al centro del sistema. Raccontarsela fra i soliti “quattro amici al bar” è più facile e più confortante, ma poi c’è il rischio di ghettizzarsi :)

      • Confermate quello che pensavo, era per vedere le reazioni dei lettori. Certo che il gioco vale candela. Un tempo avrei detto che ance i lettori de La Repubblica appartengono ai quattro amici al bar, ma vedendo cos’è diventata La Repubblica e cosa sono i suoi lettori (vedi i loro commenti), forse adesso c’era bisogno del vostro intervento. Soprattutto dopo la minchiata d’intervista di Cacciari — la filologia della democrazia, ceh puttanata (e in teoria, dovrei pure essere filologo).
        In ogni caso, per dirvi come siete arrivati a me, di sicuro non è grazie a quelle interviste, ma grazie a mio zio che mi ha regalato Manituana, ma anche grazie a Carmilla — quindi, sempre grazie ai quattro amici al bar, i quali però, come vedete, attirano altri amici.

        • anche i lettori, non ance i lettori (anche se visto i commenti, il cervello di molti di loro non sarà più grande di un’ancia).

  6. Mi permetto solo una pignoleria. Deleuze non diceva che non può esistere un governo di sinistra perché i governi dicono sempre di fare gli interessi di tutti, ma perché un governo rappresenta sempre una maggioranza (infatti giuridicamente parlando la parola “governo” indica la coalizione politica che ha vinto le elezioni, mentre è il parlamento che rappresenta la totalità dei cittadini), quando al contrario la sinistra tradizionalmente si schiera con le minoranze oppresse. La maggioranza governa secondo un modello standard che è un’astrazione statica e viene fatta prevalere sul divenire particolaristico delle minoranze.
    Al di là di questo la cosa più bella è vedere che è ancora possibile fare delle incursioni del genere anche in ambienti come quello di Repubblica. Sono cose danno un po’ di speranza e di soddisfazione.

    • Vero, però mi è sempre sembrato un modo di dire la stessa cosa. Quel modello standard e quell’astrazione statica che identificano maggioranza e minoranza (concetti che Deleuze mette in gioco in modo molto peculiare, piuttosto diverso da quello consueto nel discorso politico quotidiano) hanno a che fare con il “cittadino” come soggetto formale, disincarnato, non considerato “in situazione”, non appartenente a una classe etc. E’ grazie a quest’astrazione che i governi possono fingere di essere “di tutti”: io sono il presidente di tutti gli italiani etc. etc. e lo sono perché… mi ha votato la maggioranza.

      • Ho capito. Diciamo che l’autoeleggersi rappresentanti di tutti da parte dei governanti è l’applicazione nella retorica demagogica dei concetti espressi da Deleuze :-)

    • beh, visto che lo citi, allora deleuze merita proprio di essere ascoltato:
      https://www.youtube.com/watch?v=Y51Rxv4VvVE

      [nb: la parte sulla “sinistra” è a partire dal minuto 10:16… ma per comprendere meglio è meglio sentire anche la parte precedente]

      • Grazie simulAcro, era proprio all’Abécédaire che avevo fatto riferimento (chi può lo guardi tutto!).

  7. Una volta tentai un’analisi del mio essere di sinistra (http://michelenigro.wordpress.com/2011/06/18/antiberlusconismo-politica-cultura/) e mi accorsi, senza stupirmi più di tanto, che la definizione coincideva con il mio essere antiberlusconiano. Al di là delle “classiche” priorità di base appartenenti alla sinistra (lotta di classe… quali classi?…, stato di diritto, ecc.) la sinistra deve riscoprire la propria vocazione alla cultura in senso lato: stile di vita, cultura politica, dialogo con la realtà, valore della comunicazione, criticità nei confronti dei comportamenti anche privati, precise scelte culturali individuali da trasmettere per osmosi a chi ci sta vicino… In poche parole, contrastare quel rilassamento culturale che ha fatto guadagnare al berlusconismo il terreno prima umano e in seguito politico… Con questo tipo di sinistra che accetta le larghe intese per restare a galla nei palazzi il discorso è improponibile. Non restano che le scelte individuali in attesa di un (utopico) ritorno di saggezza!

    • Includere lo Stato di diritto tra i princìpi classicamente di sinistra, così come chiedersi di quali classi parliamo quando parliamo di classi, mi dà l’impressione che tu non abbia ben chiaro il concetto di sinistra. E infatti, per te, ad accettare le larghe intese è la «sinistra». Mi sa che parli tanto di riprendersi la cultura come immaginario, comunicazione e linguaggio ma ti esprimi esattamente come impone l’egemonia culturale della destra berlusconiana: in due righe ne hai riassunto l’essenza, manca solo l’accusa di comunismo alla magistratura.

      • Temo che tu sia fuori dalla realtà: l’appiattimento sociale (dovuto alla pseudocultura imperante e all’omologazione economica che ha uniformato gli obiettivi anche politici) e la mancanza di identità da parte di quelli come te che si dichiarano “en rouge” ma che nei fatti sono incolori fino al midollo, stanno rendendo difficile sociologicamente la definizione di classe… Forse le classi esistono solo nella tua fantasia nostalgica di una lotta che non esiste più. E’ proprio a causa della gente snob come te che vede “fascisti” anche tra gli elettori di sinistra che la vera sinistra è oggi (e vi rimarrà per sempre) un fenomeno puramente extraparlamentare… Accontentatevi dell’altra sinistra al governo con il PdL!

        • Scambi cosi’ non servono a un cazzo e su Giap non sono graditi. Questo e’ un livello da spazio commenti del Fatto Quotidiano, smollate il colpo, grazie.

      • Scusate tutti, non era mia intenzione innescare un flame, né dare del “fascista” a qualcuno (e infatti non l’ho fatto): ho semplicemente fatto notare che posizioni come:

        –il rifiuto dell’esistenza delle classi sociali o della loro inevitabile contrapposizione;
        –la difesa acritica dello stato di diritto;
        –la convinzione che il PD sia “sinistra che accetta le larghe intese”;
        –l’idea che la soluzione dei problemi sociali risieda fondamentalmente in scelte individuali;
        –l’idea che esista un qualcosa da «riscoprire» e a cui «ritornare» come se fosse mai esistita un’epoca idilliaca,

        Pensare che il PD sia di sinistra è semplicemente assurdo e riflette il predominio, nel discorso politico, di espressioni e concetti nati dal “berlusconismo” e la capillarità con cui essi si sono affermati anche a sinistra: per questo parlo di egemonia culturale.
        Così come dare maggiore importanza all’azione individuale piuttosto che al conflitto sociale riflette una visione “atomizzata” della società, una visione appunto individualistica, che in fondo è di destra.

        Queste posizioni non possono essere considerate di sinistra, e ciò è spiegato già in parte nello stesso articolo che stiamo commentando. Non vedo come si possa costruire sinistra partendo da questi presupposti, alcuni dei quali sono essenzialmente di destra.

        Insomma, non voglio certo fare la parte dell’inquisitore, ma mettere in guardia da alcune espressioni e alcuni concetti che, in conformità con lo spirito dei tempi, pur essendo di destra dilagano anche a sinistra e condizionano pesantemente l’immaginario, con risvolti politici noti a tutti. È chiamando “nostalgico” e “incolore” chi fa notare queste cose che si legittimano i nostalgici (quegli altri, però) e gli incolori (quelli veri, però, che incolori non sono).

    • berlusconi è la foglia di fico dei nuovi assetti economici e finanziari che dominano questo paese da vent’anni, a seguito della grande ristrutturazione industriale degli anni 80, con la liquidazione delle questioni operaie del decennio precedente, e, sul piano sociale, con la destrutturazione/depotenziamento del vasto movimento sociale antagonista che era cresciuto, dal 1968 in poi, proprio attorno a quel conflitto originario “operai vs padroni”. in una cornice più ampia, il riallineamento italiano era coerente con la grande controffensiva del capitale occidentale verso sud (stretta creditizia della fed, impennata dei tassi d’interesse e conseguente esplosione del debito dei paesi in via di sviluppo) e verso est (riarmo in europa, distensione economica con la cina) sostenuta e legittimata dalla reaganomics. non è certo un caso se il sistema monetario europeo (già c.d. serpentone) varava i suoi meccanismi e vincoli più stringenti di politica monetaria, che avrebbero portato a maastricht, proprio nello stesso momento in cui l’allora governatore della fed paul volker decideva la stretta creditizia di cui sopra, inaugurando così 30 anni di successive politiche antinflazionistiche (scaricate sul resto del mondo, dato il signoraggio del dollaro). ignorare tutto ciò, la conplessità e le contraddizioni strsse di questo quadro generale, ma pure gli oggettivi nessi di causalità dei processi, e ritenere che un uomo solo, sia il demiurgo unico, l’artefice di tutti i mali del paese degli ultimi vent’anni è pura ideologia.

      • disquisizione interessante dal punto di vista economico-finanziario… ma il berlusconismo è un fenomeno prevalentemente culturale che ha ammorbidito “di fatto” (e non ideologicamente) il fianco degli italiani…

        • ma vedi @nigricante nel momento in cui i wuming escono allo scoperto su un giornale come repubblica, e curiosamente il giorno dopo il corrierone replica con articolo dedicato alla visita di vattimo ai notav imprigionati alle vallette, con le dichiarazioni forti del padre del pensiero debole (non è mai troppo tardi per rinsavire) è inutile starci a girare attorno: se si parla di conflitto, si parla di carlo marx (e federico engels), i grandi rimossi degli ultimi venti, trent’anni, gli innominabili, quelli smentiti dalla storia, anzi dalla fine della storia. ma la storia non finisce e non si arresta, e torniamo a parlarne, passata la grande sbornia degli anni 90, cioé delle ultime svalutazioni competitive, del credito facile e della grande impostura delle “piccole e medie imprese, la forza del paese” (quanto forti fossero davvero, se non come alibi per la deindustrializzazione e delocalizzazione, lo stanno dimostrando in questi anni).

          vedi, non è che il capitalismo (altra parola tabù) è la fabbrica con la ciminiera ed il vecchietto del monopoly in tuba e ghette bianche, è piuttosto, oggi come ieri, il saccheggio dell’uomo sull’uomo e sulla natura. oggi più di ieri.

          e, se ce ne fosse bisogno, la prova sta nelle diseguaglianze, nelle ingiustizie, negli abusi su scala planetaria che questo sistema produce, separando un solco netto tra sfruttati e sfruttatori.

          tu ti senti sfruttato o sfruttatore? io a 39 anni e con un lavoro artistico che in altri tempi, non lontani, mi avrebbe fatto appartenere alla classe dominante, mi sento, anzi nei fatti sono, un salariato dello spettacolo, anzi un precario, visto che il contratto nazionale che mi riguarda (troupe cinema) è scaduto da otto anni e non ancora rinnovato, data l’inedia dei sindacati. dunque sono senz’altro uno sfruttato. parlare di conflitto, del naturale e necessario conflitto tra sfruttatori e sfruttati significa anche recuperare un minimo di coscienza politica, ed ancor prima, un principio di realtà per uscire fuori dalla telenovela oppiacea del berlusconismo e dell’anti.

  8. Essere di sinistra è una prassi, ovvero sei quello che fai non quello che sei (o che pensi). Aggiungo, scherzosamente ma non troppo, che si diventa di sinistra anche ascoltando buona musica. Io l’ho fatto con i Clash.

  9. La domanda “E se nasci borghese?”, mi ha fatto ripensare a quella dell’incipit di Teorema di Pasolini :”Un borghese, in qualsiasi modo agisce sbaglia?”.

    https://www.youtube.com/watch?v=qFdGlS5l_3I

  10. Vale la pena provare a incrociare questo post con uno apparso pochi giorni fa su Giap, quello su “Mitocrazia” di Yves Citton. Citton prova a definire “quattro livelli di rifiuto” che definiscono negativamente la sinistra: il rifiuto delle divinità (della trascendenza), dei sovrani (del potere che discende dall’alto e non da una base), delle appropriazioni (dell’accumulo di beni delle classi agiate) e dei dati (di una realtà naturale delle cose, non codificata dai frames e dai punti di vista). Quello che mi ha colpito di Wu Ming in questa intervista e in altri interventi su Giap è la loro capacità di fornire una definizione più positiva e processuale della sinistra, più emancipatoria, basata su una concezione conflittuale della realtà. Senza questo conflitto appunto c’è il manuale delle giovani marmotte (geniale!), c’è il “tradimento” – per riprendere le parole di Citton – di una sinistra che parla con quelle parole d’ordine che appartengono alla destra: competività, eccellenza, efficienza. E aggiungerei “legalità”.

  11. Splendida! L’audio ancora di più. Mi meraviglia solo che da nessuna parte sia sbucata la parola “pacificazione”, odiosa melassa ideologica, che col concetto di conflitto mi pare ci azzecchi.

    • Io credo che il conflitto di cui si parla, per poter essere realmente tale ed essere efficace, deve essere sempre agito e non soltanto dichiarato e ideato o, ancora peggio, idealizzato. Quindi deve essere un conflitto permanente, onnipresente e immanente.

      Un conflitto personale e collettivo insieme. Una difficile strategia di perenni tensioni multiple (dunque cosa ben diversa da altre strategie unilaterali o verso una singola forma di tensione).
      Strategie che prevedono il tendere lucidamente e costantemente verso logica, equita’, umanita’, lealta” e giustizia. Strategie di certezza del conflitto che ammettono la sicurezza come ammettono pero’ anche il dubbio.
      Conflitti e guerre che contemplano l’inflessibilita’ e la violenza al pari della bonta’ e la misericordia, il perdono e la pietas.

      Strategie di conflitto che sono tensioni vitali e che, tutte insieme, sono appartenute o appartengono a ben pochi uomini. Perche’ trattasi di strategie e tensioni che diventano, in societa’ moderne e umorali come la nostra, dedite all’eccesso’ al compromesso o al profitto, una linea ” immorale” di condotta. Linea immorale in quanto troppo rigida e morale per gli altri come per se stessi.

      Credere e agire in conflitto perenne e’ quindi cosa molto difficile per chiunque. Lottare e resistere per portare avanti questo conflitto non ammette nessuna pacificazione. Non esiste un fine di vittoria ma solo una sconfitta, quella finale.
      E l’unica forma di “pace” ammessa in questo genere di guerre e’ quella eterna.

      Ma sono soltanto queste le guerre davvero degne d’essere combattute se vogliamo dichiararci ancora UOMINI.

  12. Bella intervista, peccato per la totale castroneria sul “file zippato”. Non so che zip usate voi, ma se vi perde dati sarebbe il caso di cambiarlo, visto che gli altri non lo fanno mai.

    • Ascolta l’audio. La metafora era diversa, non era sulla perdita dopo la decompressione, ma sul processo di compressione. Questo e’ l’unico passaggio dove l’intervista non veicola bene l’immagine che cercavamo di far passare. Capita :-)

      • Il senso voleva essere: per comprimere nella parola “sinistra” tutta la storia, le lotte, le prassi, le differenze, devi per forza semplificare, sottrarre pezzi di informazione, in fondo “sinistra” e’ un termine di comodo, una metafora. Ma quando la decomprimi, puoi ricostruire le parti saltate, ritrovare tutta la complessita’ e farla tua. L’abbiamo detto in modo incasinato ed ellittico, e non e’ venuto bene. La compressione che sottrae informazione in modo irreversibile esiste, comunque: pensiamo al passaggio di un brano musicale da wav a mp3 128k…

        • Secondo me la metafora calza. Col termine “Zip” si può intendere sia un sostantivo (il file zip), sia un verbo (to zip, zippare).
          In questa doppia accezione, la Sinistra è assolutamente un concetto “.zip”: zona approssimativa che richiede un algoritmo di criptazione/decriptazione ad hoc.

          Un’ ulteriore differenza con la così detta “destra” è che questo algoritmo è differente per ogni soggetto interpretante (come lo sono i differenti programmi di compressione: rar, zip ecc.).

          Parafrasando un motto di Vanettiana memoria apparso su #FuturoAnteriore: non esiste “azione” senza formattazione ;-)

        • Assolutamente, il processo di compressione analogica è altra cosa, e infatti avevo commentato con un amico che “Non so se c’è stato un “lost in translation”: la *compressione di segnali analogici* (musica, immagini etc) può perdere definizione, ma è cosa completamente diversa dallo zipping.”

          Il senso era abbastanza chiaro. Vabbè, segnatevelo per la prossima volta ;)

  13. Ho letto molti dei commenti in calce all’articolo pubblicato da La Repubblica. Che amarezza! Sono contemporaneamente un ottimo esempio di analfabetismo funzionale e della grave mancanza di capacità dialettica politica.
    Penso che, purtroppo, ci sia davvero tantissima gente che ragiona in questo modo, in maniera pesantemente condizionata dalle narrazioni dominanti, e che la risposta della sinistra non possa essere solo una risata: è necessario distruggere mentalità e crearne nuove, decostruendo e abbattendo i miti. In parte, interviste come questa scardinano alcune certezze; d’altra parte, mettono a nudo una profonda mancanza, incolmabile da qualunque numero di interviste, che si riflette nella montagna di penosi e puntualissimi idola fori.

    • Ciao, io non mi deprimerei troppo per i commenti… Non credo che le tribù dei commentatori sui portali mainstream siano campioni statistici attendibili… Forse, in molti casi, possono offrire indicazioni sui problemi psicologici legati alla dipendenza da internet, ma per il resto… :) Forse dai lettori di Repubblica ci si poteva attendere qualche feedback di più sia in qualità che in quantità, ma, a pensarci bene, il loro immaginario ormai è circoscritto all’antiberlusconismo di maniera, alle parole a vuoto del “dibattito” interno al PD e al tatticismo dei riti partitici, stop. D’altra parte, se devono fare un serie di interviste intitolandole “Dì qualcosa di sinistra”, vuol dire che il problema di non avere più nemmeno un vocabolario comune almeno lo hanno intuito. Anche l’impalpabilità di alcune altre interviste è allarmante, ancora più che i commenti bizzarri dei compulsivi di passaggio. Secondo me l’intervento con più spunti ben strutturati è quello di Rodotà, che infatti ha zero commenti! Per usare una metafora di moda in questi giorni, l’intervista di Wu Ming è una specie di asteroide caduto nelle pagine di Repubblica: normale che qualcuno lo venga a vedere e non capisca cosa sia.

      • “Compulsivi” e, soprattutto, “di passaggio” calza a pennello per quelli che ci rimproverano la frase nel titolo (“Basta con il politicamente corretto”). Frase che nell’intervista… non c’è :-)

  14. Io credo che il conflitto di cui si parla, per poter essere realmente tale ed essere efficace, deve essere sempre agito e non soltanto dichiarato e ideato o, ancora peggio, idealizzato. Quindi deve essere un conflitto permanente, onnipresente e immanente.

    Un conflitto personale e collettivo insieme. Una difficile strategia di perenni tensioni multiple (dunque cosa ben diversa da altre strategie unilaterali o verso una singola forma di tensione).
    Strategie che prevedono il tendere lucidamente e costantemente verso logica, equita’, umanita’, lealta” e giustizia. Strategie di certezza del conflitto che ammettono la sicurezza come ammettono pero’ anche il dubbio.
    Conflitti e guerre che contemplano l’inflessibilita’ e la violenza al pari della bonta’ e la misericordia, il perdono e la pietas.

    Strategie di conflitto che sono tensioni vitali e che, tutte insieme, sono appartenute o appartengono a ben pochi uomini. Perche’ trattasi di strategie e tensioni che diventano, in societa’ moderne e umorali come la nostra, dedite all’eccesso’ al compromesso o al profitto, una linea ” immorale” di condotta. Linea immorale in quanto troppo rigida e morale per gli altri come per se stessi.

    Credere e agire in conflitto perenne e’ quindi cosa molto difficile per chiunque. Lottare e resistere per portare avanti questo conflitto non ammette nessuna pacificazione. Non esiste un fine di vittoria ma solo una sconfitta, quella finale.
    E l’unica forma di “pace” ammessa in questo genere di guerre e’ quella eterna.

    Ma sono soltanto queste le guerre davvero degne d’essere combattute se vogliamo dichiararci ancora UOMINI.

    • …e DONNE. Non è che voglia fare la tiritera di Loretta, ma “UOMINI” mica basta :-)

    • Certo… Uomini e non Caporali. (noi vecchi che abbiamo fatto il militare a Cuneo abbiamo riferimenti colti come vedi) Ed era omnicomprensivo e maiuscolo nel senso di degni esponenti del genere umano.
      Il sesso al pari di qualsiasi altra discriminante di genere,”che minchia c’entrano con la Rivoluzione” ?
      :-)

  15. Di questa idea non mi è chiaro un punto: che succede quando i conflitti si cominciano a vincere in maniera sistematica? Quando , cioè, la sinistra così intesa diventa in qualche senso o modo predominante? Non si ricade nella visione speculare e quindi isomorfa di una destra che identifica la parte perdente del conflitto come un grumo di quella marmellata che citate voi?

    • Essere di sinistra vuol dire riconoscere l’esistenza di conflitti sociali e schierarsi con la parte più debole. Non si punta alla rimozione di “grumi” (come facevano i fascisti), altrimenti non ci sarebbe democrazia. I partigiani hanno combattuto non per sostituire il regime fascista con un altro regime, ma per far nascere (e proteggere, con la Costituzione) la democrazia. Io sono di sinistra, mi schiero con i lavoratori sfruttati e umiliati dai padroni ma non mi sognerei mai di vietare a tutti di avviare una attività privata. Il confronto di opinioni è necessario, senza che una parte spazzi via l’altra.

      • Perdonami, ma la domanda non era sul tuo essere di sinistra :). Il punto che non mi è chiaro è: in che modo si vive il conflitto, inteso come qui come parte fondante dell’essere di sinistra, quando la sinistra “vince” (è al governo, c’è la rivoluzione, quello che vuoi)?

        Per fare un esempio: se Syriza stravince le prossime elezioni in grecia i movimenti, le manifestazioni in piazza, le contestazioni saranno ( o diciamo che me le immagino in questo esempio che è e rimane di principio) prevalentemente dei destri. Il conflitto è fondante dell’essere di sinistra anche quando sei dall’altra parte e i poliziotti li mandi tu o le leggi le fai tu?

        Non so, il mio dubbio nasce dal fatto che questa importanza del conflitto mi sembra abbia un senso solo se si intende la sinistra come inevitabilmente di “opposizione”, e mi sembra un po’ riduttivo. Però dichiaro candidamente che forse non ho capito nulla, per questo chiedevo delucidazioni.

  16. Perdonami, ma la domanda non era sul tuo essere di sinistra :). Il punto che non mi è chiaro è: in che modo si vive il conflitto, inteso come qui come parte fondante dell’essere di sinistra, quando la sinistra “vince” (è al governo, c’è la rivoluzione, quello che vuoi)?

    Per fare un esempio: se Syriza stravince le prossime elezioni in grecia i movimenti, le manifestazioni in piazza, le contestazioni saranno ( o diciamo che me le immagino in questo esempio che è e rimane di principio) prevalentemente dei destri. Il conflitto è fondante dell’essere di sinistra anche quando sei dall’altra parte e i poliziotti li mandi tu o le leggi le fai tu?

    Non so, il mio dubbio nasce dal fatto che questa importanza del conflitto mi sembra abbia un senso solo se si intende la sinistra come inevitabilmente di “opposizione”, e mi sembra un po’ riduttivo. Però dichiaro candidamente che forse non ho capito nulla, per questo chiedevo delucidazioni.

  17. Salve a tutti,
    questo è il mio primo commento su GIAP.
    Devo dire che il concetto di sinistra legato al conflitto, per come è stato espresso, non mi convince.

    Quello che non mi convince è il concetto di conflitto.

    Io credo che sinistra sia un modo di porsi rispetto al conflitto sul lavoro. Solamente sul lavoro. Gli altri conflitti non li escludo, ci mancherebbe, ma non sono peculiari del concetto di sinistra.

    Quando nell’intervista WM1 dice “Sì, puoi essere operaio sfruttato in fabbrica e poi padrone oppressore a casa con tua moglie”….. credo si stia facendo confusione sul concetto di sinistra.
    Il conflitto sul lavoro, determina il concetto di sinistra
    Il conflitto tra i sessi, o tra i gender – altrettanto rilevante – nulla ha a che vedere con il concetto di sinistra… voi invece li collegate chiaramente alla stessa matrice, l’essere o meno di sinistra..

    Riconoscere e sostenere chi subisce uno sfruttamento nel mondo del lavoro è di sinistra (come sostenere e che soluzioni dare a tale conflitto poi determina lo spettro ampio dell’essere di sinistra).

    Sostenere una parità di gender, non ha nulla a che vedere con l’essere o meno di sinistra.
    Una persona non di sinistra può tranquillamente riconoscere una parità di gender, senza per nulla avvicinarsi all’essere di sinistra. Questo non è possibile nel mondo del lavoro. Il conflitto sociale del lavoro (una volta si diceva di chi non detiene i mezzi di produzione e del capitale) e come ci si pone risetto ad esso determina in modo intrinseco l’essere o meno di sinistra……….

    Insomma ….. mi sembra che nell’articolo gli stessi WM abbiano disperso il concetto stesso di sinistra, legandolo molto ai modelli dei movimenti sorti dagli anni 70 in poi, che per quanto importanti (necessari direi) poco avevano a che fare con il concetto di sinistra in senso stretto.

    Comunque… grazie di aver creato questo blog e grazie di aver scritto i vostri libri …. che in alcuni casi raggiungono una bellezza imbarazzante ……

    A chi mi dice … quali sono i libri che non possono non essere letti nella vita rispondo con la mia lista personale:
    1) Guerra e Pace
    2) L’idiota
    3) Viaggio al termine della notte
    4) Dalla parte di Swann
    5) Q

    M.

    • Fatto sta che i regimi di destra hanno sempre calpestato i diritti della donna mentre quelli di sinistra, persino quelli più retrivi, hanno perlomeno dato sfoggio dei loro sforzi di emanciparla…
      Se la parità fra i generi non è un valore di sinistra allora nemmeno l’antirazzismo lo è… poiché allude a un conflitto non compreso “solamente nel lavoro”…. attenzione che questo è un concetto di sinistra che potrebbe facilmente esser fatto proprio anche dai cosiddetti rosso-bruni…

      Nella messe di commenti, ormai simil-Libero, su Repubblica c’è quello di Christian Dalenz che dice: io riconosco il conflitto ma la mia idea di sinistra consiste nel ricomporlo, che suona molto socialdemocratico e finanche peloso, dopo il discorso “doroteo” di Letta sui professionisti del conflitto… in verità aldilà delle idee personali di Dalenz, la visione da lui espressa non è contraria a quella che si evince dall’intervista.
      Riconoscere il conflitto non significa “godere del conflitto”, perché a goderci è solo il capitale ed il difensore dell’esistente, non di sicuro l’antagonista e lo sfruttato… è il capitale a innescare il conflitto, non “la sinistra” che lo riconosce e che sì, vuole ricomporlo, ma nel solo modo possibile: potenziando l’underdog contro il topdog nella lotta di classe, qualunque esso sia, il lavoratore, la donna, lo straniero sfruttato, la donna straniera sfruttata…

      • …che poi vorrei capire in che senso la contraddizione di genere non sarebbe “compresa nel lavoro”. La contraddizione di genere ha che fare con la divisione del lavoro in base al genere, con la guerra tra poveri in seno al contingente degli sfruttati (lo sfruttato che sfrutta la sfruttata), con un colossale monte-ore giornaliero planetario di lavoro (quello domestico) che non viene riconosciuto come tale e non viene retribuito perché è considerato parte della “naturale” divisione dei compiti tra i generi (è “naturalmente” compito della donna dedicarsi a certe mansioni e non altre). Sessismo e razzismo sono principii regolatori inconfessati del mercato del lavoro, servono a stabilire gerarchie tra i lavoratori, e quindi antirazzismo e antisessismo sono parte della lotta di classe. Bisogna avere un’idea ben riduzionistica del “lavoro” per pensare che la contraddizione di genere sia esterna alla tematica…

        • Ciao WM1,
          grazie del commento…. istruttivo…nonostante noto un tono un po’ aggressivo. Ma forse deriva solo da come io percepisco le cose.

          Quello che scrivi è tutto giusto. Ma sessismo e razzismo sono si strumenti di controllo, ma non peculiari de lavoro. Sono strumenti di controllo sociale. Esistono a prescindere dal conflitto sul lavoro.
          Certamente trovano un loro “utilizzo” nel modello del lavoro ma non ne sono una parte intrinseca.
          Cerco di fare un altro esempio per spiegare il mio pensiero.
          Paesi del nord Europa….. mediamente in questi paesi (non tutti e con gradazioni diverse) la condizione sociale e lavorativa delle donne sono certamente migliori rispetto alla situazione italiana.
          Questo non vuol dire però che questi paesi sono più di sinistra che altri.

          Antisessismo e antirazzismo fanno parte delle lotte sociali ed affiancano (anche in maniera forte) la lotta di classe ma non sono parte della lotta di classe

          • Scusa ma i tuoi esempi (radicali, Europa del Nord) dimostrano solo che *non basta* essere antisessisti e/o antirazzisti per definirsi di sinistra, il che mi sembra pacifico.

            • Non è così pacifico…. almeno non per me.
              Mi sembra infatti che la sinistra, in generale, si sia orientata più nella rivendicazione di questi conflitti che nel conflitto del lavoro.
              Il concetto stesso di sinistra mi sembra mutato.
              Andando all’esempio dell’M5S, molti interventi da parte di varie aree della sinistra affermano (stra-semplifico) che il movimento M5S sia un movimento di destra che usa tematiche tipiche di sinistra.
              Io mi chiedo…. ma quali sono le tematiche di sinistra che usa?
              La TAV?
              Il reddito di cittadinanza?

              Fermo restando la mia contrarietà alla prima opera e la propensione per la seconda iniziativa…. questi due esempi non mi sembrano tipici di sinistra.

              di sinistra mi sembra di più l’eliminazione di qualunque tipo di contratto atipico nel mondo del…. questo è di sinistra.

          • Ogni volta che uno dice qualcosa con un minimo di convinzione, senza “imho” né chiedere scusa preventivamente, si dice che ha un “tono aggressivo”. Non ho messo convenevoli perchè erano impliciti. Quindi, considerali impliciti anche ora.

            Antisessismo e antirazzismo sono parte della lotta di classe perché senza razzismo e sessismo, la divisione del lavoro capitalistica non esisterebbe. Questo mi sembra difficilmente smentibile.

            Se uno pensa che antisessismo e antirazzismo siano “esterni” alla lotta di classe e al massimo possano “affiancarla”, vuol dire che ha sposato in toto la lettura di quelle lotte in chiave liberale e individualistica, e pensa che si tratti solo di rivendicare “diritti civili” e “cittadinanza”. Invece antisessismo e antirazzismo hanno a che fare con l’assetto della società, la disuguaglianza economica, lo sfruttamento.

            La divisione del lavoro capitalistica va sempre letta non solo in chiave nazionale (meno che mai oggi, ma era già vero in passato, lo scrivono già Marx ed Engels nel 1848), ma nel contesto dell’economia-mondo, del mercato mondiale. Per capirci: nel nord del mondo si sta “mediamente” “meglio” (notare le virgolette, soprattutto quelle dell’avverbio) anche e soprattutto grazie al plusvalore estratto altrove. E quel plusvalore viene estratto in condizioni rese possibili ogni giorno dall’operare del razzismo e del sessismo come “regolatori” e “gradienti”. Non solo i lavori più di merda li fanno quelli che, senza ammetterlo, consideriamo “inferiori” nella gerarchia “razzializzata”, manodopera di paesi considerati “meno civilizzati”, ma le donne di quei paesi sono l’underdog dell’underdog. Non a caso “woman is the nigger of the world”.

            Solo il ritorno a questo frame può salvarci da narrazioni imperialiste e neocolonialiste della “questione femminile” in quei paesi, come proprio oggi si scrive qui:
            http://t.co/8w0BGsJ37f

            • Ciao,
              colgo l’occasione per l’inizio del tuo intervento per chiederti una cosa che mi ronza in testa da un po di tempo ma non sono sicuro di aver trovato tuoi/vostri interventi in proposito qui sul blog o altrove – in caso contrario posta pure link che forse non ho cercato bene-..ecco…dici..”Antisessismo e antirazzismo sono parte della lotta di classe perché senza razzismo e sessismo, la divisione del lavoro capitalistica non esisterebbe. “…secondo te può rientrare anche l’antispecismo nelle pratiche connesse alla lotta di classe? o meglio l’antispecismo, e i suoi annessi e connessi, non sono una parte non eludibile del conflitto sfruttati/sfruttatori?..perchè mi sembra che sia uno delle tante sfaccettature del problema che spesso viene messo un po in ombra o trattato separatamente da tutto il resto e unicamente da un punto di vista speculativo senza implicazioni “tattiche”(salvo rare eccezioni tipo Steve Best per dire)
              Grazie!

              • Ciao, potresti definire meglio cosa intendi per antispecismo e in cosa faccia parte della lotta di classe?

                In particolare, in questo caso, dove e come si articolerebbe il conflitto di classe?

            • Ciao WM1,
              ricambio i convenevoli.
              Vedi continuiamo a vederla diversamente.

              condivido appieno la tua analisi, ma non le conclusioni. Il problema dello sfruttamento imperialista di intere nazioni è solo di facciata di natura razziale o sessista (esistono, ovviamente, ma non ne sono l’elemento fondante). L’elemento di sfruttamento (di popolazioni o nazioni) è nello sfruttamento del lavoro.
              Il fatto che in occidente si viva meglio perché in altre parti del mondo esiste uno sfruttamento sistemico del lavoro (che l’imperialismo ha trasferito, parzialmente, da casa nostra ad altre case lontane, facendo in modo che le grida si sentano meno) non ha nulla a che fare con il razzismo… ma solo con il controllo del lavoro, con il suo sfruttamento.
              Gli imperialisti non sono ne razzisti ne sessisti… non gliene frega nulla del razzismo e del sessismo…. questo lo lasciano aleggiare come scontro sociale tra le persone. Loro sono pragmatici…. a loro interessa la possibilità di produrre attraverso lo sfruttamento sul lavoro. Se questo si ottiene meglio sfruttando popoli o generi, che sia così… ma è solo uno strumento.
              Elimina lo sfruttamento sul lavoro ed eliminerai lo sfruttamento su donne e migranti.

        • Mi sembra sia sempre lo stesso dispositivo della “narrazione tossica” che contagia anche i ben intenzionati… e che prevede l’omissione sistematica di una porzione di realtà… tutto può essere reso tossico, l’emancipazione femminile, l’antirazzismo, persino la lotta di classe come in questo caso… il trucco è “isolare” un saliente del conflitto, isolandolo dal resto del fronte…

          • Scusa Lo.FI,

            ma per che mi attribuisci pensieri che non esprimo (magari male).
            Io non isolo nulla.
            Nella mia vita (ho 41 anni e 3 pupi) non ho mai ne pragmaticamente ne idealmente separato o isolato la lotta di classe con le lotte sull’emancipazione femminile o sui diritti dei migranti.

            Attenzione a dare giudizi senza conoscere.

            Io sto solo cercando di dare il mio punto di vista a questa discussione, definendo cosa sia la sinistra.
            Perché parli di omissione sistematica di una porzione di realtà. Non ometto nulla, non sminuisco nulla, dico solo che non tutte le istanze di lotta provengono dal concetto stesso di sinistra.

            • io integrerei dicendo che antirazzismo e antisessismo ( chissà un giorno antispecismo, tanto per dire che non dovremmo pensare destra e sinistra come concetti immobili ) sono sì concetti intrinseci all’essere di sinistra, ma non sono esclusivi della sinistra. Per cui anche chi è di destra può includerli, per quanto storicamente ( e non per caso, dato che razzismo e sessismo, come è stato detto sopra, e come posso aggiungere io, hanno a che fare con il confine labile tra la differenza e la discriminazione, tra l’inclusione e l’esclusione; e tra ciò che fa credere nella giustizia di un mondo ordinato e fisso, da proteggere ) così non è stato.

              • Ciao Jackie.Brown,
                giusto un appunto veloce, purtroppo vado di fretta, sull’antispecismo che come chiedevo a wm1 mi preme come argomento.

                ecco io credo che l’antispecismo non possa, per ovvie ragione, essere un valore o una battaglia propria della “destra”, almeno della destra intesa come fascismo e filiazioni varie.

                altrimenti significherebbe far crollare una specifica visione del mondo basata su un dato e immutabile ordine gerarchico dell’esistente- ce lo vedi un evoliano antispecista? sarebbe il peggior incubo del Barone LOL.

                che poi questo tema, però più che antispecismo userei un generico “animalismo”, venga sfruttato e utilizzato per visibilità da certa destra estrema è un altro paio di maniche. ma non credo, per ovvie ragioni, che quella parte possa rivendicare questa specifica battaglia.

                altrimenti significherebbe abiurare da i capisaldi della loro visione del mondo.

            • Io non ti ho giudicato, sono unicamente entrato nel merito di quanto hai espresso… per farla breve, il “conflitto nel mondo del lavoro” di per sé, per come lo hai espresso separato da altre istanze, non è un concetto esclusivo di sinistra…. per dire, era proprio anche dei sindacalisti rivoluzionari, poi diventati sansepolcristi quindi fascisti a tutti gli effetti… anche il partito nazionalsocialista dei lavoratori, o NSDAP, come già si desume dal nome, se ne occupava… con questo non ti allarmare, non ti sto dando né del protofascista né nel nazista, ti sto solo mettendo in guardia dal ridurre la lotta di classe a valore unico “realmente di sinistra”… non per questo ho pensato tu fossi un maschilista e/o un razzista

              • Il conflitto non è ne di sinistra ne di centro ne di destra. il conflitto c’è e basta.
                Come viene interpretato e quali soluzioni adottare (da che parte stai) determina la sinistra dalla destra o da altre espressioni socio-politiche.

                La lotta di classe, come liberazione dello sfruttamento sul lavoro è il sinonimo di sinistra (non molto condiviso, sembra).

                Il percorso dei sindacalisti rivoluzionari verso posizioni interventiste, e poi apertamente fasciste (quello che viene chiamato il fascismo di sinistra) è un buon esempio per smascherare la finta sinistra che si definisce tale, si giudica tale, ma che poi preferisce vedere nel corporativismo la soluzione di compromesso alle lotte dei lavoratori… con tutto quello che ne consegue.

                ho da poco letto un libro di S. Lupo, Il fascismo, che ti fa entrare bene nel flusso e nell’evoluzione di quegli anni e di come aree sociali, tradizionalmente di sinistra sono confluite nei fasci prima e poi nelle gerarchie (anche alte) del Partito fascista.
                Una bella lettura ( a volte un po’ didascalica, ma interessante)

      • Ciao Lo.Fi,
        non vorrei essere frainteso. Se così è, me ne scuso.

        Non sto cercando di sminuire l’importanza del conflitto tra i generi, né tantomeno quello tra le razze.

        Concordo anche con te che è della sfera tipicamente di sinistra quello di aver rivendicato (in alcuni casi con molto ritardo e solo parzialmente) la centralità di altre forme di lotta, quali quelle da te menzionate.

        Ma ripeto, sia il femminismo che l’antirazzismo NON SONO intrinseche nel concetto di sinistra. La sinistra in altre parole esiste a prescindere da queste lotte. Non potrebbe invece esistere a prescindere dal conflitto sul lavoro. Semplicemente non esisterebbe senza esso.

        Per quanto riguarda il fatto che la sinistra sia stata più “morbida” della destra con le donne…. mi sembra un’affermazione un po’ generica.
        In Italia, il PCI è stato per nulla tenero con tutte le istanze femministe e lo scontro con i movimenti sui diritti civili è stato altrettanto duro.

        MA LA COSA PIU’ IMPORTANTE è che il tuo ragionamento ha in se un paradosso pericoloso (che secondo me smaschera la non sinistra). Cerco di spiegarlo con un esempio: il Partito Radicale.
        Secondo il tuo approccio – per cui è di sinistra chi combatte qualunque tipo di sfruttamento sociale – i radicali sono di sinistra. Certamente i Radicali sono stati in prima linea contro molti tipi di sfruttamento (donne, gay, migranti, reclusi….) e lo sono stati molti prima e con molta più convinzione di ampie aree della sinistra (più o meno istituzionale).

        Secondo me invece, nonostante questi meriti incredibili (che ha avuto e che continua ad avere sulle battaglie dei diritti), il Partito Radicale è sostanzialmente un partito/movimento/idea di DESTRA. Perché proprio nel conflitto sociale del lavoro adotta soluzioni liberiste.

        Questo esempio, forse, spiega meglio del mio tentativo iniziale di far capire il mio punto di vista e la critica che ho fatto alla posizione dei WM sulla loro intervista a REP.

        • Ti ho risposto sopra, in pratica. Secondo me essere di sinistra è riconoscere il conflitto e riconoscere che è un unico conflitto. Quello che tu contesti ai radicali è l’aver isolato “un saliente” (mi scuso per l’antipatica terminologia militare), quello dei diritti civili, per usarlo in maniera diversiva – tossica – oscurando la lotta di classe… ma a me sembra che tu corra il pericolo opposto, ovvero quello di isolare il conflitto nel mondo del lavoro dagli altri “teatri” della lotta… e attenzione che in questa congiuntura in cui si riaffacciano alla ribalta rossobruni, nazimaoisti, populisti aziendalisti vari e altra gentaglia inquietante ciò è ancora più pericoloso

          • Scusa,
            ma perché continui a dire che io li isolo.
            Ho mai scritto questo?

            No, ho scritto esattamente il contrario. che sono conflitti fondamentali da vedere e da gestire. Mi sono solo permesso di dire che non scaturiscono dal concetto di sinistra. Poi.. che vadano perseguiti, ci mancherebbe.

            Mi sembra anzi… che le lotte dei vari movimenti siano più concentrate su questo che sul conflitto del lavoro…

            • IMHO, bastano davvero quattro nozioni di marxismo (come quelle che ho io), apprese senza il paraocchi, per avere un’idea di sinistra ben diversa da quella che hai tu, un’idea che invece include antisessismo e antirazzismo come elementi imprescindibili della lotta di classe.

              Ma se non ci arriviamo con quelle, proviamo con un esempio: la questione del lavoro domestico. Perché pure lì c’è il conflitto – un conflitto particolarmente dilaniante perché interno alle relazioni più intime di ciascun*, e per questo spesso e volentieri taciuto e negato. Oppure quello non è lavoro? Da dove viene secondo te ‘sto fatto che le donne – abbiano o meno un lavoro fuori di casa – si devono mediamente caricare sulle spalle anche quello della casa e della famiglia? È masochismo, è natura, è qualcosa di cui il capitalismo si può liberare benissimo senza battere ciglio non appena qualcuna alza un po’ la voce (magari da un salotto dove sta comodamente bevendo il tè, tanto per dire)? È un caso allora che quando la classe lavoratrice è più debole (come ora) le donne vedano finire sulle loro spalle tutto il lavoro di cura che invece può/deve/era in parte appannaggio del pubblico, finendo sfruttate come badanti a 800 euro al mese o direttamente gratis, perché quella è la loro famiglia ed è naturale che se ne occupino fino allo stremo delle forze?

              • Ciao Arianna,

                concordo con te.
                Il tuo esempio è perfetto, e cerco di far capire la mia posizione…. con esso.

                Il problema nel tuo esempio, peraltro dominante nel modello capitalistico, non è nel gender ma anche in questo nello sfruttamento del lavoro della persona. Se fosse l’uomo a stare a casa e la donna al lavoro… cosa che inizia a verificarsi in modo sempre più frequente (maggiormente nei paesi a più alto livello di diritti e garanzie sociali)… lo sfruttamento sarebbe lo stesso.
                In altre parole lo sfruttamento capitalistico non risiede nel fatto che sia una donna a stare a casa a gestire tutto (a lavorare, quindi). Lo sfruttamento risiede nel fatto che quel lavoro non è riconosciuto e retribuito.

                quindi quello che tu presenti come un problema legato ad un fatto di genere, che nella prassi ovviamente così si manifesta, sottende in realtà un conflitto lavorativo, prima che di genere.

                E quando dico ‘prima’ intendo di maggior peso.
                SPIEGO:
                Anche se in un sistema sociale si riuscisse a bilanciare il carico del lavoro domestico tra uomini e donne: 50% delle famiglie tengono la mamma a fare i lavori di casa e il 50% delle famiglie tengono il papà a fare i lavori di casa….

                questo soluzione non ridurrebbe di un centesimo lo sfruttamento capitalistico…. non lo sposterebbe per nulla. Non ci sarebbe un problema di genere (nell’esempio solamente) ma ci sarebbe per intero il problema di conflitto di classe.

              • @mauro giorgetti:
                Stesso discorso per quanto riguarda il razzismo: sostituisci alle donne i lavoratori del sud del mondo –sia nei loro paesi che nei nostri– e agli uomini le persone occidentali –uomini e donne– e vedrai che i meccanismi articolati che portano all’estrazione di valore da una categoria a vantaggio di un’altra non sono poi così diversi da quelli che in una società capitalista regolano i rapporti fra padroni e lavoratori.
                La donna non si fa forse carico della quasi totalità del *lavoro* domestico? E i migranti non fanno per due spicci –quando va bene– *il lavoro* che noi “non vogliamo più fare”? Che poi la retorica usata sia diversa è ovvio, la chiesa solidarizzerà a parole con i poveri e i migranti e opprimerà de facto le donne, mentre queste verranno “difese” –sempre a parole, le “nostre donne”– dai partiti xenofobi che attaccano i migranti in quanto stupratori. Inoltre l’utilizzo della donna in quanto strumento per contrastare l’immigrazione è quanto di più fascista ci sia, così come propugnare il discorso “lavoratori italiani vs. immigrati”, quindi occhio ad affidare a ciò che non sia oggettivamente sinistra (in base a questa analisi) la difesa di concetti, categorie, classi sociali oppresse, perché spesso si risolve in un alimentare una guerra fra poveri atta al mantenimento dello status quo.

                L’importante, ciò che questo post asserisce, è come la sinistra debba riconoscere e stare nel conflitto –agito dal basso verso gli oppressori–, ovunque esso sia e qualsiasi ne siano gli attori, anche riconoscendo eventuali lacune passate e abbracciando nuovi fronti di lotta e conflitto.

              • @Mauro Giorgetti: se mio nonno avesse le ruote sarebbe una carriola, ma non le ha. Non le ha perché gli esseri umani non hanno le ruote incorporate. Nessun sarto cuce abiti per esseri umani con le ruote, sarebbe estremamente stupido. Quindi, fare ipotesi controfattuali su un mondo in cui sono gli uomini a sobbarcarsi il lavoro domestico e di cura, è una cavolata. Perché non succede, non è così, non è la realtà. C’è una questione di genere, punto, per quanti sforzi tu faccia per negarla. Sforzi che sono anche una forma piuttosto spregevole di indifferenza nei confronti della fatica e del lavoro di metà della popolazione mondiale.

                Di nuovo: tu dici se in un sistema sociale si potesse suddividere equamente il lavoro di cura e domestico….Ma non accade! Quando è accaduto che l’obbligo del lavoro domestico e di cura è diventato meno gravoso per le donne(come ad esempio con l’introduzione degli asili e via dicendo…), è stato a causa di forti spinte da parte della classe lavoratrice. Quando quelle spinte hanno rallentato, come negli ultimi anni, si è tornati indietro, e lo vediamo benissimo. Questo perché il capitalismo sfrutta a suo vantaggio le disuguaglianze che ci sono nella società, riconfermandole e acuendole, e lo farà sempre a meno che non siano le lotte a mettergli un freno. Il capitalismo è razzista e sessista, e non ha senso ipotizzare che non lo sia.

              • non penso che si possa antropomorfizzare il capitalismo. Quindi i capitalisti possono essere razzisti e sessisti, ma non è che lo debbano essere. La divisione del lavoro per genere, a parte che di per sé non è una pratica sessista, non è esclusiva del capitalismo. Che poi antirazzismo e antisessismo vanno di pari passo con la lotta di classe non nega quanto detto finora. Capisco che sembrano seghe mentali, però visto che se ne parla.

              • Arianna,
                ti scrivo qui per esaurimento di livelli di incapsulamento nel post successivo, solo per dire poche cose.
                Commentare queste tue affermazioni:
                a) C’è una questione di genere, punto, per quanti sforzi tu faccia per negarla
                b) Sforzi che sono anche una forma piuttosto spregevole di indifferenza nei confronti della fatica e del lavoro di metà della popolazione mondiale

                MA COME TI PERMETTI.

                Non ho mai scritto nulla del genere (leggili i post)

                Personalmente sono nato in una famiglia con mia madre parte attiva delle donne in nero di roma (sai cosa sono?), nella mia vita ho scelto una compagna del collettivo separatista di San Lorenzo (sai cosa è?).
                Ho speso la mia vita anche a combattere il sessismo, soprattutto dentro la sinistra ….

                Non solo quindi quanto tu mi attribuisci non mi appartiene come persona, ma non ho mai espresso tali posizioni nei miei post, precedenti.

                Dovresti vergognarti, la tua mi sembra disonestà intellettuale, o quantomeno la non volontà di capire quanto scrivo.

                La mia posizione può ovviamente non essere condivisa (così come io non condivido per intero la posizione dei WM nel loro articolo sulla REP) ma darmi del sessista vuol dire non aver letto quanto scritto o non averlo proprio capito.

                Io sto solo cercando di esprimere la mia posizione: il concetto di sinistra è legato in modo indissolubile unicamente con il concetto di lotta di classe. Le lotte di genere e di razza, per quanto fondamentali e vitali (cerca di leggere senza paraocchi) non sono intrinseche della lotta di classe, e quindi del concetto di sinistra. Inoltre affermo (esempio a te fatto) che è la lotta di classe che se portata alla sua naturale conclusione incorpora in se la soluzione delle altre lotte, ivi inclusa quella di genere … peraltro posizione marxista molto diffusa sin dagli anni 60….

                Non ho parole, veramente

    • Mauro Giorgetti, pure io ti rispondo qui per esaurimento dei livelli di incapsulamento.

      Secondo me, prima di dire a tutte/i che non capiscono quello che scrivi, a vedere aggressività in chi ti risponde e a continuare a scrivere cose sempre più aggressive (quelle sì), dovresti rileggere quello che hai scritto perché in tant* capiamo la stessa cosa da quello che scrivi, cioè quello che ti ha scritto Adrianaaa (Adriana, non Arianna, già la dice lunga sul tuo livello di attenzione).

      Se è così forse sei tu a spiegarti male, non trovi? Magari se ti spieghi meglio nessuno offenderà la tua sensibilità mettendo in dubbio la tua posizione sulla questione di genere.

      • Scusami daniela,

        Ma le parole per me sono importanti.

        Sarò’ confuso, ma mi potresti dire dove avrei scritto che io nego il conflitto di genere, o che esso sia poco rilevante e che addirittura quello che dico sia addirittura una forma spregevole di indifferenza nei confronti delle donne?

        Lo vorrei capire…..
        Grazie della tua precisazione

        • La posizione di Mauro Giorgetti è questa: “Le lotte di genere e di razza, per quanto fondamentali e vitali (cerca di leggere senza paraocchi) non sono intrinseche della lotta di classe, e quindi del concetto di sinistra. Inoltre affermo (esempio a te fatto) che è la lotta di classe che se portata alla sua naturale conclusione incorpora in se la soluzione delle altre lotte, ivi inclusa quella di genere …”. Una posizione determinista che – sarò aggressiva – non posso considerare meno che ottusa, che vede il marxismo come una serie di formule matematiche con la magica capacità di prevedere il futuro, mentre non è questo. Il futuro è da costruire, e sono i lavoratori e le lavoratrici a dover decidere come farlo.

          • Ciao Antonia,
            Si sei aggressiva.

            Comunque preferisco il termine materialista al termine determinista, da te citato.

            Il fatto che tu poi ritenga l’approccio materialista e quindi marxista ottuso, e’ del tutto lecito… Sei in ottima compagnia.

            Buone lotte e hasta siempre, come dice quel signore che è’ su tante magliette.

            • Quella che hai in mente tu e’ una caricatura del marxismo e dell’approccio materialistico, e non si capisce da cosa tu l’abbia ricavata, vista l’importanza che la contraddizione di genere ha sempre avuto da Marx in avanti. Non poteva non averla, perche’ se c’e’ un aspetto della realta’ che un materialista dovrebbe riconoscere e’ proprio il ruolo che la divisione dei generi ha nella vita concreta delle persone e nel funzionamento della macchina sociale.

      • Decisamente d’accordo con @Adrianaaaa e con ultimo intervento di @danielafinizio. E il mio sesto senso mi dice che @MauroGiorgetti eluda gli argomenti. O cerchi di disinnescarli con i “se”.
        Che dici della retribuzione del lavoro domestico?
        E del lavoro sessuale?

  18. Avete colto nel segno!
    Pochi giorni fa ho letto da qualche parte un’intervista a De Gregori (si, quello famoso) che mi ha fatto rabbrividire e che fa il paio con i politici che si autodefiniscono “di sinistra”. E’ già da un pezzo che quest’ondata buonista ha sommerso, lentamente ma inesorabilmente, l’area cultural-politica che una volta con fierezza ed orgoglio chiamavamo sinistra e che oggi me la sentire distante; è proprio la negazione del conflitto (che non è tirare pietrate contro la filiale della BNL) a rendere melensa e stucchevole sia la “sinistra” che oggi ci governa che quella che, per mero motivo aritmetico, sta all’opposizione…

  19. Quando ho letto l’intervista su Repubblica mi trovavo in Islanda: giusto uno sguardo, prima di andare a dormire, per capire se al mio ritorno avrei trovato il paese a ferro&fiamme stile Egitto o Berlusconi di nuovo sul trono (parlo di quello in parlamento, non quello della villa in Sardegna!). E decidere di conseguenza se prendere l’aereo del ritorno o trovarmi un lavoro da quelle parti.

    A parte gli scherzi, devo dire che ce l’avete messa tutta per non farmi dormire: in quelle “poche” righe c’erano condensati molti concetti, importanti e fondamentali a mio parere, primo fra tutti, che ci sono tante sinistre unite “dalla convinzione che la società è divisa,che il conflitto è endemico, inevitabile” e che “Poi ci sono vari modi per affrontarlo…”.
    Come mi capita di ripetere spesso su Giap, oltre al riconoscere l’esistenza delle diverse sinistre e all’evitare di volerle unire col tentativo di omogenizzarle, è altrettanto necessario (altrettanto = non secondario) trovare strategie. Per costruire piattaforme politiche. Per comunicare. Per portare, uniti, avanti le lotte. Cosa che accade ad esempio in Spagna (tema che riprendo alla fine di questo commento, con qualche link).

    Qualcosa che mi è piaciuto meno è stato il passaggio su Grillo “L’ Italia è una strana eccezione, forse perché qui c’ è stato il grande diversivo del movimento di Grillo che ha rallentato i processi”: ancora non ho sentito la registrazione, per cui potrebbe esserci qualcosa che è stato “malamente condesato” dal giornalista, ma quel passaggio non mi è piaciuto, un po’ perchè così sembra che sia solo Grillo il motivo di questa eccezione, un po’ perchè così sembra che Grillo oltre a costruire un partito abbia creato delle condizioni, che in realtà erano preesistenti.
    Ripeto: mia interpretazione e probabile sintesi giornalistica.

    Quanto al tema “movimenti in Spagna”, citati nell’intervista e in questo post (e alle “piattaforme” a cui accennavo all’inizio) sto cominciando a vedere un po’ di materiale di Javier Toret e del gruppo dataanalysis15m
    (Análisis y visualización de datos del sistema-red #15m)
    https://datanalysis15m.wordpress.com/
    si tratta di documenti scritti in spagnolo con alcuni riassunti/slide in inglese.

    “Este no es el tiempo de enseñar. Lo único que podemos hacer es compartirlo para que se multiple en red de forma autónoma. EL tiempo es un tiempo histórico, no psicológico. Se anticipa para saber dónde puedes actuar”

    Una intervista in italiano a Toret e Simona Levi ( goo.gl/NpeylO ) condensa la “presa di coscienza”, da parte di alcune persone, su cosa è successo in quei giorni (ormai anni) spagnoli.

    PS: il titolo “BASTA CON IL POLITICAMENTE CORRETTO” poteva pesare sul resto negativamente sull’intervista (un po’ come è successo recentemente in un’intervista, sempre su Repubblica.itte fatta a ZeroCalcare “il populismo del rancore quotidiano” http://www.zerocalcare.it/2013/01/16/il-duro-mondo-della-sintesi-giornalistica/ ) :-D

  20. @ paul_o ( scrivo qua che ho perso l’orientamento )

    ci sono molte persone che pensano che l’antispecismo e la destra si escludano, e io sono in disaccordo totale. Poi tu certo parli di fascismo, ma il fascismo probabilmente escluderebbe un concetto di antispecismo esteso ( per es. un certo antispecismo “politico” ), ma non direi il concetto di antispecismo specifico. Ed io ho parlato di destra, non delle sue filiazioni, legandomi al commento di Giorgetti. Né credo che uno debba dispiacersi se parti di estrema destra sfruttano certi temi, anche fosse per mero sfruttamento mediatico. Se è solo per questo, cmq si parla di un tema poco conosciuto, se non è solo questo, a quelle persone male non fa, tanto non è che spariscono.

    • @jackie.brown

      Sì certo ho puntualizzato parlando di fascismo e filiazioni. E proprio per questo penso che, alla luce della loro ideologia, possano, al limite, fare proprie battaglie -“animaliste” ma non possono far proprie battaglie antispeciste. I nazisti in questo senso erano sicuramente “animalisti” – vedi leggi tutela animali, battaglie anti vivisezione etc etc – ma di certo non erano antispecisti. La diversità biologica da un lato,la lettura del divenire storico legato a solide ed immutabili regole gerarchiche rendono incompatibili destra e antispecismo.

      In ogni caso mi interessava il nesso specifico antispecismo, lotta di classe e anticapitalismo. Per me si tratta di 3 concetti che vanno di pari passo. E non solo da un punto di vista teorico ma anche e sopratutto politico.

      C’è chi, come Singer, fa della questione una semplice questione etica o morale, delegando alle singole sensibilità individuali il come comportarsi nel quotidiano. Questo lo trovo un atteggiamento limitante.

      Poi c’è chi ne fa una questione di lotta politica legata all’anticapitalismo e al conflitto sfruttati /sfruttatori, inglobandolo quindi nella generale lotta anticapitalista.

      • eh, ma credo che incontrerai molte difficoltà a vederli andare di pari passo. Io nel mio piccolo sono quasi-vegano e non ho mai fatto militanza, né di sinistra né antispecista, però leggendo in rete vedo che al di là di chi si impegna sul piano teorico ( non solo ) perché si riconosca la liberazione animale come necessaria per la liberazione umana, c’è anche il chiedere a chi è di sinistra di appoggiare l’antispecismo come “naturale” estensione del proprio essere di sinistra. Io non saprei, per me già l’antispecismo ha problemi enormi, teorici e pratici, e lo considero impossibile o irricevibile così come è posto ( nel suo non voler porre limiti alle specie prese in considerazione, e nel suo parlare di specie animali e non vegetali, ad esempio ). Così a naso mi viene in mente che le cose sono legate assieme dal punto di vista del modello di produzione e di sfruttamento, ma non sul piano etico e che anzi per paradosso, l’antispecismo cerca un mondo che non c’è e non ci sarà mai, più
        di destra che di sinistra.

  21. @Ariannaaaa @mauro giorgetti @omnifagos
    Il capitalismo é sessista e razzista…verrebbe da chiedersi cosa non lo sia :)
    Due le questioni che mi incuriosiscono maggiormente visti i commenti precedenti
    1 la questione di genere.
    Riguardo a questo credo che il punto di vista finora espresso sia un punto di vista estremamente italico. Non in tutto il mondo il lavoro di cura ricade sulle donne e soprattutto non a tutti i livelli sociali (questo anche in Italia). Il lavoro domestico ricade sulla donna solo per le famiglie a basso medio reddito, per le coppie meno emancipate/istruite, a causa di tradizioni culturali(e non solo) : Nel XXI secolo sono molti i badanti, i figli che si occupano dei genitori, i padri che si occupano dei figli. In ceti ad alto reddito si paga qualcuno per questi lavori (molti i maggiordomi, i domestici, i badanti…). Tutto ciò ben separato dalla concezione che l’uomo ha della donna, che invece é un discorso legato al processo di percezione/creazione/ridefinizione del genere, peculiare di ogni stato/cultura/regione e quant’altro, e che richiederebbe un altro articolo e altri commenti.
    2 la definizione di sinistra.
    Secondo voi ci si definisce di sinistra in merito ad un contesto geografico (quindi posso essere di sinistra in un paese e di destra in un altro) ? Ci si definisce di sinistra in merito alla tradizione storica della sinistra (lotta di classe, lavoratori…proletariato) ?
    Le domande sono tutt’altro che retoriche e nascono dalla mia personale condizione di vita : di sinistra, italiana ma che non vivo in Italia, troppo giovane perché il comunismo abbia piu’ valore positivo del capitalismo e perché il proletariato sia realmente una classe sociale a cui posso sentirmi vicina.
    Il mio mondo é il multiculturalismo (parola che avevo scelto nel sondaggio di Repubblica.it « Le parole di sinistra ») e credo fermamente che si debba sempre sapere da dove si viene (la storia dell’idea di Sinistra  ) per poter lavorare un minimo sul dove si va, ma bisogna anche fare i conti con la tanto abusata « realtà » e qui si infrangono molti sogni e ideali…

    • SteMarta, qui si parlava – o si cercava di parlare – della funzione del genere nella divisione del lavoro a livello globale, sul piano della “economia-mondo”.

      E’ un dato di fatto che a livello mondiale le donne siano mediamente meno pagate degli uomini, anche a parità di mansioni e orario di lavoro. Nella “avanzata” Europa, in media, le donne guadagnano il 17,5% meno degli uomini.

      E se si parla del lavoro domestico salariato e del lavoro “di cura”, lo squilibrio di genere che assegna “naturalmente” certi lavori alle donne e non agli uomini risulta ancora più evidente: alcuni paesi dell’est e del sud del mondo si sono da tempo specializzati nell’export verso i paesi dell’occidente “avanzato” di lavoro quasi esclusivamente femminile: le Filippine esportano colf, Ucraina, Moldavia e Russia esportano badanti (ma anche colf). Tutte donne. Magari super-qualificate, laureate etc. ma vengono a ovest a fare le badanti o a fare le pulizie. Tutte le statistiche dicono che le donne hanno una scelta d’occupazione più limitata. Questa è de facto una forma di segregazione.

      Segregazione che viene acuita dalla maternità, anche nella “avanzata” Europa: la partecipazione delle madri europee al mercato del lavoro risulta dell’11,5% inferiore rispetto a quella delle donne senza figli; mentre, nel caso degli uomini, il tasso di partecipazione dei padri è *superiore* dell’8,5% a quello degli uomini senza figli. Per i maschi, professionalmente parlando, la genitorialità non ha nulla di penalizzante, anzi. La penalizzazione è tutta per le donne.

      Collegato a questo c’è un altro dato di fatto: il 70% degli estremamente poveri del mondo (cioè, secondo il parametro dell’ONU, che vivono con meno di 1 dollaro al giorno) è costituito da donne.

      Ecco a me sembra che (vivere in) Italia o non (vivere in) Italia c’entri poco. Questi sono dati europei e planetari, e fotografano una disuguaglianza di genere che è strutturale, sistemica, parte del funzionamento della “macchina”. L’attuale mercato del lavoro si basa su tale disuguaglianza. Questa è la realtà con cui tu stessa dici che si dovrebbero fare i conti.

      Riguardo alla definizione di “sinistra”, non sto a ripetermi, dopo svariati post su Giap negli ultimi mesi, l’intervista su Repubblica e l’audio integrale dell’intervista. Direi che chi vuole sapere come la pensiamo ha modo di informarsi e approfondire.

      Quanto alla frase “troppo giovane perché il proletariato sia realmente una classe sociale a cui posso sentirmi vicina”, stai mescolando pere e mele, anagrafe e condizione sociale. Non si è parte del proletariato in base all’età ma in base alla posizione nel mercato del lavoro e nella produzione. “Proletariato” sarà anche una parola dichiarata démodée dai pifferai di regime, ma indica una condizione sempre attuale, quella di chi non ha altri mezzi per sopravvivere oltre alla propria forza-lavoro. Che non è necessariamente bruta forza fisica ma comprende anche capacità intellettive, pazienza, capacità di sopportazione etc.

      Sulla “preferibilità” del comunismo al capitalismo, anche lì tutto sta a intendersi sul termine. Per me “comunismo” è, come lo definì Engels, “la scienza delle condizioni della liberazione del proletariato”.

    • a SteMarta:

      a quanto già risposto da WM1,aggiungo solo qualche riferimento:
      1) tanto per cominciare puoi leggerti la pagina ‘feminization of poverty’ su wikipedia, che forse ti metterà la pulce nell’orecchio
      2) per proseguire, puoi leggerti una qualsiasi buona ‘storia delle donne’ sul lungo periodo, come per esempio l’ ‘histoire des femmes en occident’ diretta da georges duby e michelle perrot (perché guarda che quasi tutti i soggetti che hai citato per la cura nel ‘XXI secolo’ sono, ancora, donne; e, almeno per l’occidente, lo sarebbero anche se avessi citato tutti i secoli precedenti)

      e poi, a tutti,
      e anche in coda allo scambio qui sopra fra adrianaaaa e jackie.brown in limite di nidificazione, vorrei ribattere a jackie.brown che dire del capitalismo che è ‘sessista e razzista’ non significa necessariamente antropomorfizzarlo, quanto piuttosto individuarne due tratti strutturali, in quanto senza sessismo e razzismo il capitalismo occidentale come lo conosciamo, in effetti, probabilmente non esisterebbe.

      a riguardo di questo ruolo strutturale, per il razzismo non ho link utili sottomano, ma per il sassismo consiglio a tutti questo video ‘indignado’ in cui cristina carrasco descrive l’economia (capitalista) come una sorta di struttura a piramide che ha un’enorme base sommersa costituita dal lavoro di cura, senza la quale crollerebbe.
      http://www.youtube.com/watch?v=A3vuhxemZ2s
      (purtroppo non mi ricordo il punto esatto in cui ne parla, mi dispiace; il video è un po’ lungo, ma in ogni caso lo consiglio a tutti per intero: secondo me è una bella introduzione all’economia femminista e al suo ruolo ->potenzialmente<- rivoluzionario).

      • p.s. dimenticavo, riguardo ‘multiculturalismo’, questa è una parola di cui quanto meno sospettare (e infatti era nell’imperdibile sondaggio ‘repubblichino’).

        per un’idea dei malintesi e degli errori che l’uso a sproposito di ‘multiculturale’ contribuisce a generare, e di cio’ con cui andrebbe sostituito con profitto, linco la pagina più informativa che ho trovato al volo (anche se purtroppo, politicamente, è a contenuto critico minore di zero):
        http://tedcantle.co.uk/resources-and-publications/about-interculturalism/

        • ciao, grazie per il link, per ora ne ho visti 15′, considerando che non conosco lo spagnolo, però a ‘recchia qualcosa si intuisce, e poi grossomodo immagino dove si va a parare. La storia delle donne l’ho cominciata a leggere qualche mesetto fa. Non so bene se il punto sia poterlo antropomorfizzare o meno, magari si può, ma che dire che sessismo e razzismo ne siano tratti strutturali per me è comunque sbagliato. Ovvio che essendo tratti strutturali della storia occidentale, ma pure umana, dato che se li andiamo ad analizzare i meccanismi mentali che sono sottesi vengono tutti da una stessa matrice, le cose si sovrappongono, ma questo dovrebbe significare che in nessuna società è possibile un sistema capitalista che esclude sessismo e razzismo, e non mi pare vero a priori. Oltretutto le società si modificano nel tempo e non credo che si possa dire che questa sia sessista e razzista allo stesso modo di sempre, e parliamo solo di questa società. Questo cmq non ha nulla a che vedere con tutte le critiche possibili al sistema capitalistico. Inoltre il fatto che finora si è sviluppato in un certo modo ha un suo senso a partire dalla struttura che si è man mano sviluppata, ma questo non impedisce oggi ad una donna di studiare e di fare carriera come può farlo un uomo, in seno a un sistema capitalista.

          • jackie.brown, a me viene in mente come il sistema capitalista sia emerso in un contesto occidentale, in maniera funzionale allo sfruttamento di popolazioni –se il mondo fosse un villaggio potremmo dire “categorie” o “classi”– più deboli se considerate entro certi aspetti. se il fine ultimo del capitalismo (antropomirfizzato o meno) è l’accumulazione del capitale, e questa accumulazione avviere attraverso l’estrazione di valore da un soggetto a un altro, ecco che i soggetti svantaggiati –vuoi perché meno inclini allo sfruttamento, vuoi perché meno organizzati, vuoi perché più deboli fisicamente– non possono che essere determinati soggetti.
            ecco perché il capitalismo è razzista e sessista intrinsecamente: perché alla luce del fine ultimo del capitale e dei mezzi di cui esso si serve per procedere alla propria accumulazione –per una serie di complessissime ragioni storiche, culturali e geografiche– i soggetti deboli sono le donne e i migranti. che poi anche questa situazione sia in continua evoluzione è scontato;

            e qui faccio anche una considerazione a proposito di quello che diceva @maurogiorgetti: magari la lotta per l’emancipazione femminile ha storia breve rispetto allo sviluppo della lotta di classe così come credo la intendi tu (anche se poi, una delle conquiste concettuali più rilevanti della comune di parigi era la parità fra uomo e donna, argomento già cruciale appena 23 anni dopo la stesura del Manifesto, per cui ci andrei con le pinze), e la questione dei migranti nel nostro paese assume rilevanza ancora da meno tempo (per quanto, sempre durante la comune di parigi…), però ciò non significa che su certi temi non si debba iniziare o continuare a ragionare, e non vadano fatti propri e inseriti nel vocabolario della sinistra. d’altronde se da una parte la legalità viene spacciata come parola fondativa per la nuova sinistra non vedo perché slegare l’antisessismo e l’antirazzismo dalla lotta di classe, la quale, per il fatto stesso di essere la lotta degli oppressi contro gli oppressori, deve saper essere più inclusiva possibile e trarre forza da tutte le categorie oppresse, ognuna con le sue specificità. specialmente in un momento di stordimento collettivo come quello da cui stiamo cercando di uscire.

            scusate se sono stato banale o OT.

            • vero che pare una faccenda tetrapilectomica, però finché non interviene Saint_Just…

              Un paese capitalista nel quale le donne non lavorano produce meno ricchezza di un paese capitalista nel quale le donne lavorano, e ciò non sarebbe possibile se il capitalismo fosse intrinsecamente sessista. Per quale ragione l’accumulo del capitale o il diritto alla proprietà privata si fondano sulla discriminazione su base sessuale o di genere?

              • sento che sta per arrivare la mannaia :D
                comunque la ricchezza non si “produce” e basta, così in astratto, la ricchezza si estrae.
                ridurre la “produzione” di ricchezza a un dato totale, nazionale, indifferenziato è fuorviante, perché se in un paese si “produce” più ricchezza è perché da qualche altra parte se ne “produce” di meno.
                la ricchezza “prodotta” è il saldo fra il lavoro svolto e la paga corrisposta: se impiego donne, che pago meno degli uomini, guadagno di più. se non le impiego “produco” meno ricchezza perché sfrutto di meno ed estraggo meno valore. se impiego migranti clandestini poi, sai che affari…

              • guarda, puoi scrivermi a infinitejest@email.it, anche se la modalità tendina dovrebbe consentire ugualmente lo scambio infinito.

                Io ho posto una domanda generale alla quale rispondi con una situazione già in partenza sessista, che però non risponde alla mia domanda. Senza contare che dài per scontato il fattore sfruttamento, che però è ideologico. Il fatto che un capitalista possa guadagnare di più sfruttando donne e migranti non l’ho messo in discussione. Discuto il fatto che il capitalista in quanto tale sia razzista e sessista. Non che sia una convinzione così rilevante, ma non mi pare comunque corretto nei confronti di chi crede nel capitalismo né una critica giusta in sé, tanto più che non elude minimamente la questione razziale e sessista.

      • Io un link ce l’ho, se non pecco di presunzione proponendo un mio articolo :-)

        http://fb.me/1y8H6FegT

        In questa riflessione sul razzismo non parlo esplicitamente di un suo ruolo strutturale inteso come indispensabile al mantenimento del capitalismo occidentale, ma la questione è molto simile: la struttura del sistema di sfruttamento è intrinsecamente basata sulla disuguaglianza e sulla marginalizzazione.

        Capitalismo e razzismo delineano sistemi in cui le relazioni sociali sono strutturalmente asimmetriche: il razzismo richiede, per poter esistere e diffondersi, che le persone siano educate alla disuguaglianza, considerandola naturale, e che siano disposte a discriminare, ovvero ad attribuire diritti diversi a persone diverse, a conferma della stessa disugualianza.
        Questo è esattamente una breve descrizione di ciò che accade nel sistema economico capitalistico, in cui esiste una disuguaglianza economica, ritenuta naturale, che si traduce in una disuguaglianza di diritti per cui chi produce è escluso dalle scelte connesse alla produzione, e tale esclusione è ritenuta anch’essa naturale.
        Allora non è una tendenza, ma una componente strutturale del sistema economico, che è intrinsecamente gerarchico, autoritario ed escludente. E in un sistema escludente l’esclusione appare normale, è un boccone facile da digerire: se il modo di produzione esclude quotidianamente e sistematicamente, ci si abitua all’idea, e allora perché non escludere su base razziale? Perché non su base di genere? Perché non su base religiosa?
        A questo “dispositivo psicologico” della discriminazione si aggiunga il vantaggio economico del razzismo: esso è funzionale al sistema di sfruttamento. Permette di formare e mantenere un sottoinsieme della classe lavoratrice in condizioni di ricattabilità e a bassissimo costo, con la comodità che tale suddivisione interna agli sfruttati può essere perpetuata senza l’uso di forza militare, ma semplicemente costruendo una narrazione razzista che assecondi una preesistente assuefazione alla marginalizzazione.
        Il razzismo e il capitalismo si rafforzano e si compenetrano, si nutrono l’uno dell’altro: il primo è funzionale al secondo, il secondo legittima il primo.

  22. In bundle con l’intervista c’era pure il sondaggio sulle parole della sinistra. A parte la solita cagata estiva del sondaggio da ombrellone, mi chiedo a) se chi ha risposto si consideri di sinistra, b) come è possibile che le parole più votate siano lavoro (sinonimo di schiavitù) e legalità (sinonimo di asservimento).

    • Ciao, perdona la schiettezza, ma a me stupisce il tuo stupore e la tua presunzione di cosa le persone dovrebbero volere. Al di là del continuare a descrivere le persone come non veramente di sinistra ( non credo che serva a far cambiare idea a nessuno, né a diffondere un’idea diversa ), i sinonimi che dài a lavoro e legalità sono solo negativi, e a parte l’ovvia ragione per cui in questo periodo sono due “bisogni” fondamentali, sono bisogni comprensibili e accettabili anche per ciò che significano, e inseribili in un discorso di sinistra. Lavoro e legalità sono anche sinonimi di benessere e rispetto.

      • Non parlo di quello che dovrebbero volere le persone, ma di quello che NON voglio io.

        Il lavoro oggi (ma probabilmente da sempre), in queste condizioni sociali, è una condanna, non un valore positivo.
        Lavoro perché devo sopravvivere.
        Dal lavoro ricavo il sufficiente per cibo da supermercato (ossia prevalentemente industriale) et circensem televisivi per cerebrolesi.

        La legalità è quell’insieme di norme per cui se io mi faccio una canna mi tolgono la patente, o grazie alle quali, per qualsiasi arbitrario motivo un funzionario dello stato mi può (LEGALMENTE) trattenere in questura per 48 ore senza avvertire familiari o amici.
        Non do patenti di sinistra a nessuno.
        Mi meravigliavo del fatto che se chi si ritiene di sinistra ha queste parole in testa, allora sbaglio io a ritenermi di sinistra.
        La schiettezza è bene accetta.

  23. Va bene, ma ciò che non vuoi tu lo negozierai con gli altri, e come fai a dire da solo cosa è e cosa non è auspicabile? Poi anche rimanendo delle tue convinzioni, comunque come si fa a dire sinistra è questa cosa qua e basta? Ti riconosci e avrai varie idee che in parte coincideranno in parte no, ma che non per forza si escludono; oltretutto a cosa serve avere delle idee che non vanno insieme con nessuna delle idee degli altri?

    Parliamo di persone “libere”, non di chi subisce in toto le condizioni sociali. Se per te è una condanna il fatto stesso che si deve sopravvivere, beh, è la vita ad essere sinonimo di schiavitù, sotto qualsiasi condizione sociale. Ci sono molte persone che non si sentono affatto condannate, e non sto parlando di privilegiati o di ricchi.

    E certo la legalità è una forma di costrizione, ma non è solo quello, e non vedo in questo un fatto completamente negativo. Che poi in questi anni nell’immaginario di sinistra la legalità sia diventata così importante ( anche senza una vera riflessione sotto, certamente ), fa pensare, ma ben venga. Sarà sbagliato togliere la patente per una canna, ma è così sbagliato togliere la patente? O per te è sbagliato il fatto stesso che esista un’autorità in grado di agire in tal senso?

    • La mediazione è tattica giornaliera. Ognuno di noi ci convive (ahimè). Ma a ben pensarci, se i mentecatti di Repubblica mi chiedono tre parole, il mentecatto sono io che partecipo al loro giochino estivo. “dammi tre parole sole, cuore, amore”….benpensanti di sinistra del ca….

      Se vogliamo tornare seri , io, a differenza dei Wu Ming che a vent’anni hanno già certezza di tutto (ahahahah) ho il dubbio che non esistano persone libere che non subiscono il ricatto sociale.

      Se sei giovane e precario (per definizione) subisci ed è eclatante, ma se sei “garantito” sei ugualmente precario e subisci allo stesso modo, perché di garanzie e di diritti non ce ne sono più. Provare per credere le condizioni di lavoro dei dipendenti dentro le aziende e delle partite iva che fanno da banca e da riserva infinita di capitale umano alle multinazionali. Che cazzo di lavoro e di vita è? Nessuno si salva da questa merda.

      E la legalità, tanto cara ai M5S e ai Marchi Travagli è da un lato il pio desiderio di far funzionare un macchina scassata e soprattutto progettata per non funzionare, mettendovi alla guida un autista che rispetti il codice stradale e dall’altro il bisogno d’ordine dietro cui ripararsi dalla grande paura di un mondo che non si è in grado di controllare (e quando mai lo si è stati?).

      P.S.
      se fumi, ti tolgono la patente anche se ti hanno beccato mentre camminavi pacifico. Se ti sei bevuto due otre litri di vino e cammini per strada la patente te la lasciano. (è solo un esempio per dire come la legalità in sé possa essere una stronzata e di come ci hanno fatto una capa tanta per cui ci sentiamo tutti dei piccoli Fazio-Saviano….)

      • Ma per te il ricatto sociale è ineludibile o dipende dal tipo di società? Perché per come l’hai messa è il fatto stesso che l’umanità lotta per sopravvivere ad essere schiacciante, senza contare che essendo un animale sociale, non vedo come non subire un qualsiasi ricatto sociale, se la vita in società prende il nome di ricatto. A meno di non pensare che l’uguaglianza in Terra cambi la situazione, ma in che modo sottrae l’umanità dalla sopravvivenza? Senza contare che l’uguaglianza stessa può diventare un’imposizione ai desideri delle persone ed essere vissuta come un ricatto sociale.

        Ma visto che poi passi all’esempio concreto del lavoro oggi e dei diritti oggi, allora vedo un problema, perché se parliamo di diritti è perché ipotizziamo che garantiscano la possibilità di salvezza, altrimenti significa dire che comunque il lavoro così come è fatto, e non per una carenza di diritti è sinonimo di schiavitù, e non mi pare giusto, perché le persone vivono in maniera diversa le condizioni di vita, e tu stai proiettando le tue considerazioni sulle esperienze altrui. Un conto è produrre una critica definitiva a questo sistema per le sue disuguaglianze e un conto è pensare che ognuno viva male per il fatto stesso che vive in questo sistema.

        Sulla legalità poi ti ho fatto una domanda precisa, perché sul fatto che in sé possa essere una stronzata sono d’accordo, ma anche qua proietti un sacco di presupposti sul perché le persone vorrebbero legalità.

        • In un altro mondo il lavoro potrebbe essere qualcosa di diverso: lo sforzo creativo che si concretizza nella realizzazioni di qualcosa, con fatica fisica o intellettuale che però appaga (come quando scrivi un bel post o fai crescere dei bei pomodori). E’ questo che intendono i lettori di sinistra di Repubblica? Non so, non penso, potrei sbagliare. Di nuovo sulla legalità. Non so cosa risponderti. L’esempio che porto è paradigmatico. Ma siccome la legalità nasce dal potere, non è mai neutra. Forse è ineluttabile, ma da qui a farne un valore ce ne passa.

        • @jackie.brown “altrimenti significa dire che comunque il lavoro così come è fatto, e non per una carenza di diritti è sinonimo di schiavitù, e non mi pare giusto, perché le persone vivono in maniera diversa le condizioni di vita, e tu stai proiettando le tue considerazioni sulle esperienze altrui.”

          Non si tratta di proiettare. Si tratta di elaborare una critica del mondo, e se tu critichi il mondo è ovvio che tocchi anche la vita di altre persone, un sistema funziona così no?

          Se io dico che il lavoro nella maggior parte dei casi non nobilita l’uomo ma lo rende rancoroso, privato delle sue potenzialità, debilitato fisicamente e psicologicamente (altro che proletariato germe anticapitalista! lol), non è che voglio essere maoista e combattere i dissidenti a colpi di “rivoluzioni culturali”. Critico il mondo e questo critica crea necessariamente un conflitto, anche aspro, ma non necessariamente leninista nell’elaborazione (accentrato) o maoista (formale-repressivo).

          Però il lavoro questo è. Pensa ai cosiddetti “bullshit jobs”, http://libcom.org/library/phenomenon-bullshit-jobs-david-graeber, che nonostante il nome fuorviante producono profitto. O alla massa di lavoratori/lavoratrici che ancora è sfruttata in tipologie di lavoro fordiste che producono oggetti destinati ad una obsolescenza istantanea e con margini di profitto paradossalmente impressionanti. Pensa poi agli enormi sprechi di cibo di cui il sistema capitalistico necessita. E poi l’orrore degli allevamenti intensivi, che da un lato succhiano X volte più risorse che la rispettiva alternativa vegetale e dall’altro creano le condizioni del peggiore orrore che la storia del regno animale abbia mai sperimentato.
          E non dimentichiamo tutti i processi di valorizzazione che passano attraverso azioni di vita che diventano “lavori” nel momento in cui creano profitto. Scrivere su facebook, compilare codice opensource per hardware costruito da schiavi, qualsiasi aspetto della vita che possa essere tramutato in dato utile.

          Adesso dimmi tu se non si deve parlare di lavoro in questo modo. Se i diritti devono perpetrare il capitalismo (fordista e cognitivo) allora fanculo ai diritti.
          Io voglio un mondo diverso.

          • Ma questo è un discorso che critica a monte un sistema basato sul profitto, e può darsi che le stesse persone che chiedono lavoro sarebbero d’accordo nel desiderare una società nella quale le relazioni e le attività non siano commerciabili. Ma in questo sistema chiedono lavoro. E se tu mi parti dalla concezione del lavoro come sfruttamento e mi arrivi a dire che ogni attività umana che genera profitto diventa lavoro ( scrivere su facebook, ma pure andare a un concerto ), e metti tutto assieme, allora non ti seguo, perché lo sfruttamento non è oggettivo, e nessuno si sentirà mai sfruttato per il fatto stesso che la sua attività produce profitto per qualcun’altro. Questa è una critica che pretende di dire agli altri come dovrebbero sentirsi.

            @ lantar

            ma già in questo mondo il lavoro è qualcosa di diverso ( il mondo dei lettori di repubblica, ma l’Italia in generale ), poi certo stiamo sempre parlando di un mondo che si regge anche sullo sfruttamento dei deboli, ma se proprio una persona oggi dovrebbe avere un moto di ribellione è per via di questa contraddizione, non certo per come è fatto il lavoro in Italia, che non presenta affatto le condizioni di cui parli, per questo ti stupisci.

            • Andare a un concerto non particolarmente. A meno che non lo scrivi su facebook ;) Non si tratta di mettere tutto assieme ma di riconoscere i processi di valorizzazione nelle diverse forme. Ovviamente non si tratta sempre di “sfruttamento” come lo intendi tu. Non ci deve essere per forza una sofferenza “fisica”. E figurati che la pratica stessa del lavoro può cambiare quella che tu chiami percezione oggettiva. Esempio: le persone che fanno lavori di merda ma che quando non li devono fare si ritrovano oggettivamente a disagio perché non sanno che fare.

              Valorizzare, creare profitto, vuol dire tagliare pezzi dell’esistenza, rimasticarli, e cacarli fuori sotto forma di denaro e/o merci.
              Io non pretendo di dire agli altri come dovrebbero sentirti ma interloquisco con persone che sono assemblagi di sensazioni ed esperienze. Non c’è altro modo, non esiste un dibattito basato solo su dati oggettivi. E per fortuna direi.

              Che ti devo dire, le persone chiedono lavoro e fanno male. Non è che io non posso esercitare la critica fuori dal mio orticello. Lo sai quante influenze ha subito una persona per arrivare ad avere questa visione del mondo? Non facciamo finta che si nasca col capitalismo in testa.

            • @Jackie.brown
              Non stiamo parlando del fatto di cercare/chiedere/implorare un lavoro per sopravvivere, ma di dare al lavoro, che abbiamo definito in questo thread scambio mercantile di tempo/merce/vita un valore, una parola identitaria della sinistra.

              Stesso ragionamento fatto in precedenza con la parola “legalità”.

              @togg
              grazie per aver dettagliato le mie impazienze

              • @lantar
                figurati. anche per me il tema del lavoro deve essere uno dei temi principali di qualsiasi agglomerato che si voglia definire di sinistra. Come diceva Antonio Caronia basta vedere chi va cianciando di progresso per smascherare le finte sinistre. Io non voglio lavorare per fare progredire su una falsa linea retta. Abbiamo più merci di quanto sia possibile consumarne nel tempo della vita che ci rimane dopo i sempre più pervasivi processi di valorizzazione. Così tante esperienze possibili (che il capitalismo aiuta a rendere possibili ma non che sia l’unico sistema capace di farlo intendiamoci!) ma che devo continuamente essere castrate sempre dalle stesse esigenze di valorizzazione.

                Essere di sinistra è riconoscere il conflitto anche in seno a le stesse idee di esistenza che si scontrano all’interno dei nostri corpi. Combattendo i surrogati di vita creati dal sistema capitalistico, dove la valorizzazione non fa che rimandare a se stessa tagliando via costantemente parti di reale.

  24. Ci sarà un motivo se si parla di “femminilizzazione del lavoro”. E quel motivo non si esaurisce nell’ingresso delle donne nel mondo del lavoro, anzi. Come dice Cristina Morini, “è anche il nome di una estensione paurosa delle condizioni di sfruttamento e assoggettamento *storicamente* fatte alle donne all’intera sfera della produzione”.

    Non è che le donne siano sfruttate meno o nulla oggi, né in Italia né fuori, il punto è che le forme di sfruttamento che sono state la primaria condizione delle donne (e vale lo stesso per i migranti) si estende al resto dei lavoratori, che tra l’altro non è che prima non fossero sfruttati.

  25. Sconsiglio vivamente di accostare le posizioni di Giorgetti a qualsivoglia lettura (anche malintesa, superficiale o distorta) del marxismo. Il problema di quelle posizioni e’ proprio il fatto che ignorano basi concettuali ed evoluzione storica del marxismo, dove la questione di genere e’ basilare, e’ fondamento della nascita della famiglia, della proprieta’ privata e dello stato, ed e’ da sempre connaturata alla lotta di classe. Questo lo hanno scritto in modo inequivoco Marx, Engels, Lenin, Luxemburg e tanti altri. “La donna e’ il proletario dell’uomo” e’ una frase scritta da un tizio qualche tempo fa, aspetta, com’e’ che si chiamava?
    Insomma, prima di imbarcarsi in discussioni azzardate scomodando concetti di cui non si conoscono premesse e genealogia, bisognerebbe darsi qualcosa di piu’ di un’infarinatina…

    • Ancora una volta devo dire che il tuo intervento non mi sembra aggiunga nulla alla discussione.

      Continuò ad essere convinto che sia marxista ritenere che sia unicamente nel conflitto del lavoro la lotta di classe. Sia marxista ritenere che sta nel possesso o meno dei mezzi di produzione la causa unica del conflitto moderno, e che la questione femminile, per quanto rilevante, non ne sia una componente intrinseca.

      È continuo ad esserne convinto, non aprioristicamente, ma perché’ nei tuoi interventi, come in quelli di altre persone, non si entra nel merito cercando di spiegarmi la tua posizione, discutendo e in modo propositivo. In altre parole, in molti commenti ricevuti ho riscontrato principalmente attacchi (sarei un ottuso, antifemminista, ignorante di marxismo, che tende a dividere i conflitti alimentando narrazioni tossiche della realtà’…. Solo per citarne alcune).
      Quindi non solo mi sembra che mi rispondiate con poche contestualizzazioni fattuali ma anche con aggressività ed astio, in alcuni casi attribuendomi peraltro considerazioni e posizioni mai espresse.

      A questo punto mi sembra sterile, quantomeno per amor proprio, continuare questa discussione.

      Mi dispiace veramente di questo. Non pensavo ti trovare questo atteggiamento in questo spazio, e certamente non è quello che cercò io.
      Ma il fatto di non sentire altra via che lasciare questo spazio ritengo sia una sconfitta. Invece che includere, credo sia dominante, almeno in questo caso, un attitudine esclusiva. È questo e’ un peccato, specialmente quando questo avviene .

      In bocca al lupo per tutto, e spero di poter leggere a breve un nuovo libro vostro.

      • In questo thread ho piu’ volte spiegato, con tanto di dati ONU sulla disuguaglianza di genere nel mercato del lavoro europeo e mondiale, il ruolo che il sessismo svolge nel capitalismo. Altre/i hanno proposto link e integrato le mie spiegazioni. E’ tutto qui, a disposizione di chiunque voglia leggere. Tu evidentemente non l’hai fatto, eri troppo impegnato a fare il Ghedini di te stesso. Peraltro, a un certo punto si e’ ricreata la solita orrenda situazione del maschio che ridimensiona il ruolo del genere e le donne che, siccome il sessismo (anche sul lavoro) se lo vivono sulla pelle ogni giorno, gli fanno notare che il suo discorso non sta in piedi. Quello reagisce stiracchiando il discorso ancora di piu’, preoccupato solo di difendersi. Per dire cosa, poi? In soldoni, che puo’ esistere una sinistra anche senza conflitto nella contraddizione di genere. Ecco, una “sinistra” cosi’ tienitela. Qui non interessa a nessuno.
        Credi che il fatto di avere apprezzato Q ti dia qualche bonus o privilegio in questo spazio? A noi del teatrino del “lettore deluso” non frega niente. Q e’ solo un romanzo, puo’ piacere a tanti per i piu’ diversi motivi. E’ piaciuto anche a gente con cui non vorremmo mai avere a che fare. Lo ha letto persino Venditti, figurarsi…

  26. Piu’ in generale, visto che e’ stato piu’ volte nominato Saint-Just: le sottodiscussioni di questo thread stanno diventando tetrapilectomiche chiacchierate a due dimentiche del fatto che questi confronti devono essere seguibili da tutti e rivolti a tutti. Ripigliatevi, per favore.

  27. io ho letto l’ articolo di monsieur en rouge qui sopra, e mi è piaciuto, pero’ non sono d’accordo sullo scegliere la ‘discriminazione’ come il nodo problematico principale nell’avversare il razzismo capitalista.

    e questo non solo per la sua difficilissima gestione sul piano pratico – come si vede per esempio dal fallimento amministrativo e dalle falle logiche nelle pratiche di ‘discriminazione positiva’ nel sistema statunitense – ma proprio perché sul piano della teoria (femminista e anticapitalista) e dell’azione politica a questa parallela, porre la ‘discriminazione’ come l’errore di fondo avalla un universalismo delle percezioni, dei processi di soggettivazione e delle elaborazioni teoriche che vi si fondano che non corrisponde per niente all’esperienza degli individui e dei gruppi minoritari (e spesso meticci) che ne sono ‘oggetto’, né alle negoziazioni teoriche e politiche complesse che nella pratica di lotta ne derivano necessariamente.

    sovraimporre a queste esperienze e alle loro elaborazioni il problema ‘discriminazione’ significa quindi, immediatamente, porsi in una posizione paternalistica e tutelare (e alla fine isolata e sterile) nei confronti di esse, se non per altro per ignoranza delle istanze di atodeterminazione che questi gruppi esprimono – a livelli diversi e in forme spesso incompatibili, del resto, coi contenuti e le forme dei discorsi anticapitalisti, antirazzisti e femministi, che storicamente, in ‘occidente’ (cioé comprendendo anche posti come l’autralia, per intenderci), sono per la maggior parte centrati sull’esperienza bianca e tutto sommato borghese (almeno fino a tempi recenti, per ragioni ovvie di alfabetizzazione forse).

    a questo riguardo, e anche in risposta a un tema intorno al quale si è girato varie volte in questo thread, vorrei dire che le teorie che presuppongono (la necessità o anche ‘solo’ il dato di fatto della) gerarchizzazione delle oppressioni (cioè il problema di da dove partire pragmaticamente: dalla lotta di classe? dalla lotta di genere? dalla lotta antirazzista per i diritti civili?) sono ormai considerate inservibili da gran parte del pensiero antirazzista e femminista anticapitalista, che gli preferisce il concetto di intersezionalità (cioè della necessità del considerare come primaria la particolarità dell’intersezione fra oppressioni tipicamente categorizzate come multiple (e eventualmente – secondo i sistemi usati – considerate come non solo distinte, ma strutturalmente separate), e quindi anche il superamento della dicotomia fra modelli ‘additivi’ e modelli ‘a incastro’ delle teorie e pratiche di lotta: cioè fra teorie e pratiche che necessitino di privilegiare strategicamente una cateogoria e subordinarle le altre, e altre che invece partono dall’intersezione di oppressioni multiple (ma in maniera sempre sociologicamente considerata come ‘situata’ – per esempio in un individuo-un genere-un gruppo-un territorio, e (in modo più complicato) una classe – e cercano di tracciarne le implicazioni ramificate per arrivare a rivendicazioni più potenti e generalizzabili (e, insieme, più rivoluzionarie e meno astratte di quelle cui si arriva a partire da presupposti non interesezionali).

    sull’intersezionalità linco questo articolo (centrato sulla prospettiva femminista nera, che del resto è stata trainante in questo campo), ‘black feminist thought in the Matrix of Domination’,
    http://www.hartford-hwp.com/archives/45a/252.html
    e consiglio la lettura magica di bell hooks, che – anche al di là del suo ruolo critico nei confronti del femminismo capitalista radicale bianco americano (che ci riguarda, perché è quello che sta diventando egemonico anche in europa, sebbene tant* non vogliano ammetterlo), secondo me provoca anche armonici speciali e è di eccezionale importanza per noi (in particolare donne) del sud europa, per questo gesto proprio fondativo che si ritrova in tutti i suoi scritti: l’affermazione antagonista simultanea di identità multiple e multipli livelli di oppressione che vanno affrontati come un meccanismo connesso se vogliamo cominciare a smontarlo e a liberarcene.

    scusate per il commento fiume.

    • ciao, a proposito di intersezionalità io finora ho letto qualcosa qua, visto che linki sempre articoli in lingue del cavolo :-)
      http://incrocidegeneri.wordpress.com/category/intersezionalita/

      sono andato poi avanti con il video a proposito dell’economia femminista, che cercherò di conoscere. Però onestamente, io non vedo il punto. tempo fa partecipai a un laboratorio in cui realizzammo un documentario. abbiamo intervistato delle donne di diversa età. quelle anziane alla domanda chi faceva i lavori a casa rispondevano “io”. quella giovane ha risposto “ci dividiamo i compiti”.

    • Francamente la questione relativa all’inservibilità delle teorie che presuppongono la “gerarchizzazione delle oppressioni” mi lascia piuttosto perplesso; di più, ritengo sia uno dei fraintendimenti che più abbiano pesato sulla deriva dei movimenti antagonisti ed anticapitalisti a partire da Seattle e da Genova e che, ancora oggi, continuano a pesare sulle spalle di una nuova generazione di militanti, ad oggi del tutto sprovvista degli strumenti concettuali idonei ad un’adeguata comprensione della realtà. Quella che definisci “gerarchizzazione delle oppressioni” è una precisa scelta metodologica; come giustamente osservato da WM1 il problema attiene la scarsa conoscenza delle basi concettuali ed epistemologiche del marxismo ed oggi, liberatici dal ciarpame deterministico, positivistico e storicistico, con l’acqua sporca stiamo gettando via anche il bambino.

  28. marx, engels e lo stesso lenin hanno scritto parole inequivoche sulla condizione di sfruttamento della donna all’interno della famiglia nella società capitalistica. non bisogna conoscere a menadito “il capitale” (che peraltro parla d’altro), basta andarsi a rileggere le antologie di documenti storici del liceo per verificarlo.

    altra questione è la lettura critica che propone in forma pop, tra gli altri, il polemista zizek, dei movimenti contemporanei attivi per il riconoscimento dei diritti omosessuali (anzi gay, che per i puritani usa suona assai meglio) o di un certo femminismo, basato sul pensiero della differenza.

    in quell’ottica si può concordare sul fatto che, lo scrivo in forma assai sintetica, non ci sono diritti veri senza lotta di classe.

    in effetti questi sono movimenti ed attivisti assolutamente funzionali al rafforzamento delle strutture della società attuale in quanto propongono, al fondo, la normalizzazione e la borghesizzazione delle istanze e della condizione sociale di quei soggetti come antidoto alla discriminazione. infatti l’orizzonte rivendicativo massimo da loro espresso non è un cambiamento radicale della società, ma proprio un cambiamento radicale di quei soggetti, tramite il diritto al matrimonio, che è appunto il nucleo fondante dell’ordine borghese. si tratta in ultima analisi di un processo di normalizzazione ed onologazione assolutamente funzionale agli assetti attuali. e se volessimo avventurarci in una lettura dialettica dei processi, si potrebbe anche dire che quei soggetti, acquisita l’emancipazione economica ed il rango di soggetti-oggetti consumatori di rilievo – quante analisi abbiamo letto sul fatto che le coppie gay spendono più di quelle etero ed hanno redditi medio-alti – esprimono appunto rivendicazioni tipicamente da “terzo stato”, come il diritto al matrimonio.

    d’altronde, se ricordo bene, non è che lo stesso marx avesse proprio delle parole di apprezzamento per l’istituzione del matrimonio, anzi tutt’altro.

    allora, sul piano concreto, se è di sinistra, senz’altro, lottare contro ogni discriminazione, inclusa quella sessuale, questa lotta per essere davvero di sinistra, deve inserirsi in un frame più generale, antagonista all’ordine sociale ed economico vigente.

    sempre che per sinistra si intenda, in primo luogo, la coscienza e la consapevolezza delle diseguaglianze esistenti nella società, dunque il conflitto che ne è all’origine, e si voglia fare qualcosa per cambiare questa situazione.

    altrimenti ci sono sempre i sondaggi di repubblica per ammazzare il tempo sotto l’ombrellone.

    • Anche a me è venuto in mente Zizek, in particolare nella sua polemica con Laclau, nella quale egli sforza di sottolineare come il limite invalicabile del pensiero della differenza e di un certo multiculturalismo sia proprio da individuarsi nella sua incapacità di pensare oltre l’attuale cornice simbolica del capitalismo post-moderno, ponendosi anzi in un rapporto di costante complementarità e subordinazione rispetto a questa.

  29. Forse questo articolo è un po’ sovraccarico di commenti, ma c’è una cosa che mi ha interessato particolarmente nell’intervista e che vorrei rilanciare. WM hanno parlato di una sorta di “impriting di sinistra” che hanno ricevuto dalla loro condizione sociale. Mi sembra un problema interessante, perché lega il concetto di sinistra alle condizioni reali di vita delle persone prima che alla teoria politica. Da dove vengo, dove vivo, cosa faccio?: è rispondendo a domande come queste che ci si puo’ rendere conto di trovarsi nel conflitto e capire da che parte stare. La questione dell’imprinting, per cosi’ dire, chiama in causa la questione delle linee di frattura della società, delle faglie lungo le quali si sviluppano le dominazioni e il conflitto: dove c’è conflitto, lotta, sinistra? E questa questione è estremamente legata all’ “identità” della sinistra, perché ci obbliga a farci delle domande su quali sono i gruppi sociali coinvolti nel conflitto (quali classi?, quali lavoratori?, quali generi?, etc.).
    Ora, la questione mi sembra ancora più interessante perché Wu Ming rivendicano l’imprinting più “tradizionalmente” di sinistra: l’estrazione proletaria/operaia, se ho capito bene. Secondo me (e non è una critica a WM) questo imprinting non è, oggi, il più “produttivo di conflitto”. Cioè la linea di frattura sociale operaio metalmeccanico/padrone, in quanto tale, non è più, in un’epoca di desindustrializzazione e terziarizzazione, quella sulla quale si genera la gran parte dei conflitti sociali, sessuali, razziali, etc. Mi sembra che questo sia in gran parte trascurato dalla sinistra italiana (il fatto che si pensi di poter ripartire dalla FIOM – vd la manifestazione di qualche mese fa a Roma – mi lascia scontento). Non si tratta di delegittimare le lotte del movimento operaio, che ha invece una storia preziosa. Neanche di sottovalutare l’importanza di conflitti come quelli di Pomigliano, di Taranto, etc. Non voglio cioè dire che, siccome la classe operaia non esisterebbe più, ‘sti cazzi i problemi degli operai. Piuttosto mi chiedo: perché i metalmeccanici, quelli che lottano, sono isolati? Perché nessuno è sensibile all’importanza di quelle lotte? Perché il conflitto, riconosciuto nell’industria, non è riconosciuto con la stessa forza in altri settori lavorativi? Perché il conflitto non è riconosciuto?
    Mi sembra che l’errore della sinistra (e del sindacato) sta anche li’, nel non aver saputo individuare quali erano le nuove classi sociali subalterne, quelle che subivano le dominazioni. Tante categorie di lavoratori sono rimasti cosi’ esclusi dal conflitto/lotta: lavoratori interinali, immigrati, somministrati, precari, giovani laureati disoccupati, stagisti, etc. È una massa di lavoratori che subisce il conflitto, che si trova nella posizione del dominato e che pero’ è dispersa, atomizzata. È li’ che il conflitto è sommerso.
    Il fatto che i sindacati (a parte quelli di base) disertino le lotte per esempio dei lavoratori della logistica è un esempio di questo errore della sinistra.
    Secondo me bisogna ripartire dall’imprinting, cercando di crearne dei nuovi, adatti alla società in cui viviamo. L’imprinting operaio non basta, cosa fare? Quali sono i nuovi fronti?

    Parlando di queste cose, la mia ragazza mi ha consigliato la lettura di un libro di Bruno Trentin, “La città del lavoro”, pubblicato in Italia nel 97 e nel 98 e poi dimenticato, ora riesumato da un editore francese, Fayard (2012), “La Cité du travail. Le fordisme et la gauche”. Sto iniziando ora la lettura e, da quanto ho capito, il presupposto di Trentin è che la crisi della sinistra contemporanea è dovuta al fatto che essa ha accettato il “compromesso fordista” per cui esiste un’organizzazione tecnico-scientifica e razionale del lavoro (taylorismo, fordismo) che non puo’ essere rimessa in discussione (fiducia nel progresso) e che la causa delle ingiustizie è da ricercare nella cattiva distribuzione della ricchezza. Cosi’, i movimenti socialisti rivendicano una più equa distribuzione della ricerca e non un cambiamento sostanziale della concezione del lavoro (dunque, stato sociale). Accettando questo compromesso, si è accettato che il lavoro fosse la sede di pratiche monotone, dequalificanti e nocive (la catena per antonomasia), mentre il lavoro dovrebbe essere – dice Trentin – la sede della libertà e dell’esercizio della democrazia. Cioè il modello novecentesco dell’operaio che “delega” attraverso il voto il potere decisionale al partito (per quanto il partito fosse radicato e democratico) e al deputato è rimesso in discussione a favore di una democrazia più diretta e partecipativa. Si tratta di mettere in discussione anche la stessa divisione sociale del lavoro, che vuole l’operaio da una parte e il lavoratore intellettuale dall’altra, chi fa una cosa e chi fa un’altra. Perché la fabbrica non puo’ essere il luogo del lavoro intellettuale e della politica? Il lavoro è dunque considerato il cuore della “cité”, cosa che il “compromesso fordista” non permette.
    Nel momento in cui l’organizzazione del lavoro novecentesca, con la terza rivoluzione industriale, ha lasciato il posto ad una società postindustriale la sinistra non ha saputo fare altro che “accompagnare”, dice Trentin, il processo capitalistico, che offriva la sola via possibile, senza alternative. È una sinistra integrata al sistema, che ha smesso di essere conflittuale.

    • Il libro “La città del lavoro” di Bruno Trentin che hai citato è interessante per la tematica; purtroppo però la sua analisi è secondo me viziata da un forte antimarxismo preconcetto e superficiale.

      In estrema sintesi, secondo Trentin i marxisti avrebbero criticato lo sfruttamento capitalistico ma avrebbero mancato di criticare l’alienazione e l’oppressione connessi alla “catena di montaggio” taylorista. Ma in realtà, contrariamente a quanto sostiene Trentin, per Marx l’alienazione, l’oppressione e lo sfruttamento sono tre aspetti inscindibilmente connessi del modo di produzione capitalistico, ed una lotta che sia efficace deve per forza coinvolgerli tutti e tre.

      Questo fondamentale errore d’interpretazione fa incorrere Trentin in tutta una serie di forzature laddove parla del marxismo italiano: così Trentin fa apparire Gramsci un piatto apologeta del taylorismo, quando invece ne fu uno dei primi critici; Trentin riesce a criticare l’operaismo dimenticandone completamente il maggiore esponente, vale a dire Raniero Panzieri (il quale condusse una critica molto serie del taylorismo senza scindere l’alienazione dallo sfruttamento), ecc.

      Ma ciò che è più grave, l’impostazione di Trentin lo conduce infine a quello che è probabilmente l’errore peggiore che un sindacalista possa commettere, quello cioè di distinguere le lotte in “buone” (quelle contro l’alienazione) e “cattive” (quelle contro lo sfruttamento).

      Ricordo che, quando studiai il suo libro, ero senza lavoro e con seri problemi di reddito, mi incazzai tantissimo vedendo Trentin sostenere che il salario o la disoccupazione sarebbero dei falsi problemi. Stesi una critica che si può ancora leggere qui:

      http://web.tiscali.it/terzamusa/btrentin.htm

  30. Come mi succede sempre più spesso sono d’accordo anche con le virgole di quello che scrivete. Starò diventando un wuminghiano? o forse un wuminghista? e sarà questa la corrente che salverà la sinistra in Italia? chi può dirlo? Ad ogni modo oltre alla scontata bocciatura di Pol Pot mi farebbe piacere conoscere anche le vostre opinioni su Stalin e gli stalinisti, che forse avete già espresso altrove (non ho spulciato tutto Giap, lo confesso). Grazie in anticipo.

  31. Mosche bianche che riconoscono il conflitto. Grande rispetto, nonostante un percorso personale che non condivido appieno. (scusa, Mario, “per il paragone con la mosca…”) http://www.repubblica.it/la-repubblica-delle-idee/societa/2013/09/05/news/mario_tronti_non_facciamoci_distrarre-65921703/

  32. […] a questi pregiudizi è stato uno degli elementi distintivi della sinistra (insieme ad altri: ad esempio); opposizione che all’inizio è stata molto difficile, ma che in seguito (anche e soprattutto […]

  33. Anche negli USA c’è dibattito a sinistra sullo schierarsi e sulle posizioni “né destra né sinistra”. Posto qui, giusto perché penso possa interessare i giapsters, il link alla rivista newyorkese Jacobin nell’editoriale in cui si critica, da sinistra, Adbusters sia per la politica aperturista verso… Beppe Grillo (!) sia per le tendenze né-né di cui sopra.
    Insomma, il caso italico rimbalza oltreoceano e fa interrogare le menti ancora pensanti.
    http://jacobinmag.com/2013/10/adbusted/