Un #Grillo qualunque – WM2 intervista Giuliano Santoro | #M5S

Un Grillo qualunque, copertina
È in libreria soltanto da due settimane, ma ha già attirato l’attenzione di quotidiani, blog, radio, tivù. Complice il successo dei 5 Stelle in Sicilia, certo, ma soprattutto grazie all’analisi profonda e multiforme che Giuliano Santoro ha dedicato a Grillo e al suo movimento. Un’analisi che riesce ad essere, nello stesso tempo, mirata e di ampio respiro, capace di prendere il largo a partire dal suo oggetto di indagine, per illuminare temi e questioni che spesso hanno fatto capolino anche qui su Giap: dalla “cultura di destra” al feticismo digitale, dal razzismo alle narrazioni tossiche. Nei ringraziamenti finali, l’autore cita per nickname alcuni giapster molto assidui e in generale tutta la comunità che si ritrova in questo blog, per avergli fornito un terreno di confronto. L’intervista che segue vuole essere anche un’opportunità per riprendere e rilanciare la discussione.

Una delle caratteristiche più interessanti del libro è la sua capacità di smontare alcune presunte “novità” del Movimento 5 Stelle, per tracciarne la genealogia e svelarne il contenuto ideologico. Al netto di questo prezioso lavoro, resta però uno scarto davvero inedito per il panorama politico italiano: quello di un movimento che partecipa alle elezioni senza candidare la sua personalità più in vista. Questo aspetto mi pare una novità anche rispetto al populismo, che tu definisci come “la capacità da parte di un leader di costruirsi attorno un «popolo» che gli corrisponda in pieno, mortificando le differenze e appiattendo le ricchezze”. Il leader populista, al momento delle elezioni, diventa così l’insostituibile candidato della sua gente. Grillo invece si sottrae, fa il “garante” del movimento: che ne pensi di questa sua rottura del rapporto classico tra capo e popolo?

Lo scarto di cui parli è uno dei tanti paradossi del grillismo. Provo a descriverlo: nell’era della crisi della rappresentanza politica, e della sua incapacità – diciamo così – di far da contrappeso al mercato, ecco che spunta un movimento carismatico che in nome della “democrazia diretta” (concetto che, come spiego nel libro, viene utilizzato come feticcio ideologico) punta tutto sulle elezioni per costruire il rinnovamento. È una contraddizione non da poco: Grillo all’inizio degli Anni Zero affrontava i grandi temi della globalizzazione, del global warming e della guerra spiegandoci che contava di più il modo in cui si faceva la spesa che la scheda che si metteva nell’urna. Era un modo per ribadire che il vero potere si trovava altrove, nel mercato e nelle multinazionali, e che i partiti erano solo sovrastruttura. E invece, negli ultimi due anni, siamo arrivati al punto che il Movimento 5 Stelle non fa altro che organizzare campagne elettorali permanenti, compilare liste di candidati, polemizzare con gli altri partiti. Paradosso nel paradosso: Grillo – capo carismatico, trascinatore di masse e fondatore del Movimento – almeno per il momento non si candida e anzi trae forza da questo non mescolarsi con “la politica”. Ciò forse avviene perché in questo modo è come se tutti i candidati fossero Grillo. A meno che qualcuno non sia così ingenuo da pensare che i voti li prendono i cittadini che spauriti compaiono a fare da scenografia ai comizi-spettacolo del comico-leader.

Marco Vagnozzi, consigliere 5 Stelle a Parma,  ha dichiarato che “Beppe è il padre del Movimento”. Un padre che a volte si comporta da padrone (il simbolo del movimento è di sua proprietà) e altre da nonno (non partecipa alla contesa elettorale – tipico atteggiamento del vecchio che “ha già dato” – e manda i figli allo sbaraglio). Su Giap abbiamo a lungo discusso intorno alla “evaporazione del padre” nella politica italiana. Una politica nella quale non è possibile rintracciare in maniera chiara le due metafore familiari con cui Lakoff spiega il bipolarismo americano: da una parte il Padre Severo – cioè il partito repubblicano – dall’altra i Genitori Comprensivi – ovvero i Democratici.
Abbiamo visto come Berlusconi ha colmato questo vuoto con il vuoto del godimento obbligatorio. E Grillo? Che tipo di (non-)padre è? Un padre adottivo? Un tutore di orfani?

Tentando di illustrare cosa ci fosse davvero all’origine di quella «comunità immaginata» che chiamiamo nazione moderna, Benedict Anderson ha spiegato che essa è un «artefatto culturale di un particolare tipo» che rimette in moto anche i meccanismi di appartenenza ancestrali (ed escludenti) che tengono in piedi la famiglia. Dunque, la nazione di Anderson viene descritta come «organismo sociologico che si muove ordinatamente in un tempo vuoto e omogeneo» e funziona come la famiglia allargata ma in fondo tradizionalista di Papi-Berlusconi: attraversa le differenze e inventa storie e tradizioni a uso e consumo del consenso.
Giustamente tu ricordi come il linguista George Lakoff abbia sostenuto che questo richiamarsi ai rapporti familiari appartiene a una sfera inconscia molto profonda, tanto che la politica conservatrice e quella progressista sarebbero legate a due modelli diversi di vita coniugale.

Umberto Saba

Umberto Saba affermava che solo col parricidio inizia una rivoluzione – e questo ci fa pensare anche a una celebre teoria freudiana. Ma, proseguiva il poeta triestino, siamo nel paese delle mancate rivoluzioni perché «gli italiani non sono parricidi; sono fratricidi. Vogliono darsi al padre, ed avere da lui, in cambio, il permesso di uccidere gli altri fratelli». Tutto ciò ha a che vedere col padre severo e con i genitori premurosi di Lakoff, ma riguarda anche il «Papi» del Ventennio breve berlusconiano, soggetto complice, un po’ morboso e – in quanto per alcuni aspetti oltre i generi, glabro come Lele Mora e il nostro Silvio – forse anche materno. In questo quadro, Beppe Grillo è lo zio che appare permissivo ma che non consente che si vada oltre una certa soglia di libertà. Grillo è quello che ci porta in giro a trasgredire, ma solo dentro il recinto che lui stesso ha costruito. Nello specifico, come spiego nel libro analizzando le vicissitudini dei 5 Stelle, questo confine è stabilito in termini tematici e geografici. In termini geografici, ognuno deve restare sotto il suo campanile : ai grillini è fatto divieto di costruire organizzazioni nazionali e coordinamenti tra diversi territori (quando ci provò, Valentino Tavolazzi venne epurato). In termini tematici, l’unica arma mediatica che detta l’agenda e la linea del Movimento 5 Stelle è il sito di Beppe Grillo. Ecco perché il Nostro non tollera che si vada in televisione.

Ho trovato molto interessante la tua analisi di alcune sconfitte elettorali del M5S. Dai comuni della Val Susa alla Vicenza dei No Dal Molin, dalla Milano di Pisapia alla Napoli di De Magistris, appare chiaro che i Cinque Stelle si trovano in grave imbarazzo di fronte a due componenti: un movimento territoriale forte e la candidatura di outsider che rompono il frame “Grillo contro La Casta”. In un certo senso, credevo che questo schema fosse valido pure a livello nazionale: di fronte al montare della crisi economica e all’avvento di Monti, nel novembre 2011, Grillo è rimasto interdetto, balbettante. Poi però si è ampiamente ripreso: la crisi non molla, Monti è ancora lì, eppure il M5S ha sondaggi che lo danno al 20% sul territorio nazionale. Come ti spieghi questa sua forza montante?

Quanto a Vicenza e Val Susa, la risposta è semplice: dove ci sono movimenti veri, i grillini non attecchiscono, o almeno non sfondano “a sinistra”. Qualcuno potrebbe pensare che nelle terre dei No Tav è successo esattamente il contrario, ma non è così: in Valle le liste a 5 Stelle hanno preso molti voti alle regionali, ma a quei voti non corrisponde mobilitazione reale. Mi sembra che quella di votare Grillo e non votare (come in molti avevano fatto) i partiti della fu sinistra, sia stata una scelta tattica da parte di una parte di un movimento autonomo e autorevole, che non si fa incantare da Grillo anche se per certi versi gli è riconoscente per aver parlato delle ragioni contro l’Alta Velocità quando non ne parlava nessuno.
Veniamo a Monti. Grillo dapprima è rimasto spiazzato perché il presidente del consiglio proponeva soluzioni “né di destra né di sinistra” e commissariava la politica, rompeva gli schemi dei suoi monologhi elettorali. Poi ha prevalso un’altra immagine, quella di un governo sostenuto praticamente da tutti i partiti presenti in parlamento, una sorta di ammucchiata della “Casta” contro la “Gente”. Il fatto che i partiti abbiano abdicato prima ai diktat della Banca centrale europea e poi al commissariamento impostole da Napolitano e Monti, in parallelo al crollo della Lega e del Pdl, hanno creato le condizioni per il boom elettorale del Movimento 5 Stelle.
Il risultato è, ancora una volta, paradossale: in tutta Europa, e anche negli Stati Uniti per certi versi, la gente protesta contro le politiche di austerità, tenta di organizzarsi dal basso per rompere la gabbia dei sacrifici. In Italia, dove pure abbiamo una certa tradizione quanto a movimenti sociali, tantissime delle persone che potrebbero mobilitarsi si limitano ad aspettare il giorno delle elezioni, per poter sostituire quelli della “Casta” con altri eletti, che peraltro non si sa come vengano scelti e messi in lista. Come se questo davvero potesse cambiare la situazione.
Anche a questa contraddizione è legata l’urgenza di scrivere questo libro, che si rivolge a tutti quelli che orientano la loro rabbia verso obiettivi sbagliati e alla ricerca di soluzioni inesistenti. Grillo non è la risposta giusta perché risponde ad una domanda erronea in partenza. Grillo non risponde alla domanda “Come facciamo a costruire altre relazioni di potere e di produzione?”. Oppure, non si chiede: “Come si fa a ottenere una più equa distribuzione della ricchezza?”. La domanda alla quale risponde Grillo è “Come si fa ad andare nei palazzi del potere al posto di quelli là?”.

Pronto, il telefono?

Si sente dire spesso che il M5S è un prodotto della Rete, di un nuovo modo di comunicare e coinvolgere, del fantomatico “popolo di Internet” emerso negli ultimi anni. Tu invece metti in stretto rapporto la “neotelevisione” che ha plasmato Grillo (con Antonio Ricci in prima fila) e la retorica partecipativa del web 2.0. E’ spiazzante ricordare come Nino Frassica, il “bravo presentatore” di Indietro Tutta, facesse la satira di una certa mentalità già nel 1988: “grazie a chi ha partecipato, e anche a chi non ha partecipato, perché la trasmissione la fate voi da casa”. L’accento sul “tu”, sul consum/attore, sul “prosumer” pervadeva la logica dei media già molto tempo prima che Time scegliesse “You” come personaggio dell’anno (2006). Il diffondersi del web ha ingigantito questa logica, presentandola tout court come un meccanismo liberante, come un dispositivo che genera di per sé “intelligenza collettiva”, collaborazione, qualità. Una certa “mistica della Rete” attraversa così progetti molto diversi e distanti nel tempo: dalla rivista Decoder a Indymedia, da Wikipedia al Movimento 5 Stelle. Dove stanno, secondo te, le principali differenze?

Intanto c’è una differenza numerica: i primi nodi della rete telematica italiana appartenevano al mondo underground, erano avanguardie di un movimento e spesso venivano dalla stessa cultura. Conservo i numeri di Decoder con devozione e devo dire che, al netto di qualche entusiasmo eccessivo per le nuove tecnologie, quella rivista aveva avuto la capacità di cogliere le possibilità della telematica, prima ancora di Internet, legandole ad un’analisi avanti rispetto ai tempi sulla composizione sociale e produttiva nel nostro paese. Allo stesso modo, al netto di tutti i limiti, non possiamo negare che col movimento di Seattle Indymedia ha rappresentato un esperimento imprescindibile per fare informazione dal basso.
Il problema nasce quando la massa entra in Rete. Perché lo fa proprio in quanto “massa” indistinta, senza coscienza di essere “parte” o di rappresentare un preciso interesse o almeno una determinata cultura. Non è un caso che molti dei grillini della prima ora rivendicassero di rappresentare il 100 per cento della popolazione italiana. Una pretesa che aveva e ha qualcosa di inquietante.
Mi viene in mente “Reality”, l’ultimo film di Matteo Garrone. Racconta in maniera molto plausibile, con estremo realismo, la storia di un uomo che lentamente, in maniera impercettibile e quasi senza che i suoi familiari se ne accorgano, scivola verso l’ossessione per l’apparire. L’unica ad allarmarsi è la moglie del protagonista, tutti gli altri proseguono l’attività quotidiana e le dicono “Ma no! Poi gli passa”, oppure addirittura assecondano il delirio dell’uomo, incoraggiandolo a perseguire l’insano proposito di divenire finalmente qualcuno passando per il tritacarne del protagonismo mediatico.
C’entra tutto questo con la “mistica della Rete”? Secondo me sì. Perché dal punto di vista culturale, non tecnologico, un nuovo mezzo di comunicazione si afferma solo quando è in grado di rispondere alle domande che aveva suscitato quello precedente. Questo avviene oggi con il Web 2.0 in relazione alla televisione. Saremmo degli ingenui se pensassimo che un paese che per trent’anni è stato egemonizzato dal piccolo schermo all’improvviso diventasse il laboratorio della comunicazione interattiva. Ed è una menzogna dividere con l’accetta i media, come fa Grillo, dicendo che da una parte c’è “la Rete” e dall’altra “la Televisione”. I media si muovono nello stesso ecosistema.
Ogni giorno 14 milioni di italiani, un numero impressionante, si collega a Facebook e si mette in questa gigantesca vetrina. Pensano di diventare famosi? Ovviamente no. Ma giocano a esserlo. Allo stesso modo, molti giocano a fare la Rivoluzione a 5 Stelle, postano messaggi indignati, si mostrano attenti alle cause più disparate. Non tutti saranno prigionieri di questo schema, ma io penso che per la maggior parte degli elettori che ha prodotto il boom elettorale di Grillo sia così. Tant’è vero che all’esplosione di consensi per il M5S non ha corrisposto un aumento dell’attività dei MeetUp o una maggiore partecipazione dal basso. È solo questione di rappresentazione e voti, cioè di delega e non di reale democrazia diretta.

Coluche président!

Coluche président!

Poche settimane fa, parlando con WM4, ci dicevamo che soltanto in Italia poteva arrivare un comico ad occupare il vuoto politico creato dalla combinazione di crisi economica e crisi della rappresentanza. In altri paesi europei quello stesso vuoto è stato sfruttato da formazioni di estrema destra, ma pur sempre “interne” al sistema dei partiti e senza eccessivi personalismi. Da noi – ci dicevamo – la cultura democratica è più debole e la voglia di leader spettacolari è sempre molto forte. Leggendo il tuo libro mi sono accorto che quella conclusione, tirata giù in due minuti, era doppiamente sbagliata. Da un lato ci sono le affermazioni elettorali dei Pirati tedeschi, una formazione radicalmente diversa dai partiti tradizionali, per quanto priva di un leader carismatico paragonabile a Grillo. Dall’altro c’è l’esempio di Coluche, il comico francese che nel 1981 si candidò per l’Eliseo (con il sostegno di Gilles Deleuze) e nel 1985 recitò con Grillo in “Scemo di Guerra”. C’è qualcosa di simile tra queste due esperienze e il M5S, oppure è tutta un’altra storia?

Intanto una premessa. Grillo dice: “Ringraziate che ci sono io, altrimenti ci sarebbero stati i neonazisti”. Ora, a parte il fatto che non ci vuole molto ad essere “meglio dei neonazisti”, e su questo concorderebbe chiunque appartenga al consesso civile, questa è più un’affermazione minacciosa che rassicurante. Come a dire “Li tengo a bada io, questi disperati”. Se fossi un elettore dei 5 Stelle mi incazzerei.
Il Partito Pirata ha molte analogie con il Movimento 5 Stelle. C’è la grossa differenza della struttura proprietaria e verticistica messa in piedi dallo Zio Beppe. Ma li accomuna un’ideologia profondamente liberista. Sia i grillini che i piraten, in fondo, pensano che la Rete serva a ristabilire la libera concorrenza, che in questo spazio virtuale si possa realizzare l’utopia liberale della “mano invisibile” che premia i più meritevoli e fa vincere la “verità”. Ancora una volta: non esistono classi, rapporti di forza, conflitti. Esistono solo individui che finalmente avrebbero opportunità di realizzarsi. Quelli del Partito Pirata, ad esempio, sono a favore del reddito minimo garantito perché sostengono che questo permetterebbe a chiunque di concorrere sul mercato in maniera più efficace. Il reddito non è un diritto, è uno strumento per perfezionare il funzionamento della libera concorrenza.
Citi poi l’esempio di Coluche. Sicuramente il comico francese ha influenzato Grillo e come ricordavi i due hanno avuto anche occasione di conoscersi. Coluche annunciò la sua candidatura nel contesto francese di crisi economica e politica che poi aprì le porte all’era del socialista Mitterrand. Senz’altro utilizzò la sua fama e la sua abilità attoriale per arrivare al 16 per cento nei sondaggi, ma non si mise in testa di costruire una vera e propria organizzazione politica. Oltretutto Coluche era uno che, per capire il suo spirito provocatorio, usava le strisce di cocaina come segnaposto. Grillo al contrario è in fondo rassicurante, non nasconde mai la cultura piccolo-borghese dalla quale proviene. Tutt’al più dice qualche parolaccia. La candidatura di Coluche serviva a rompere gli schemi, non a costruire un altro potere. Credo che in questo senso sia stata appoggiata da fior di intellettuali come Deleuze, Bordieu o Touraine. Da questo punto di vista, la discesa in campo di Coluche ricorda quella di Jello Biafra, il cantante dei Dead Kennedys che nel 1979 si candidò a sindaco di San Francisco, arrivando quarto con oltre il tre per cento dei voti. Il suo programma prevedeva ad esempio che, in tema di “sicurezza dei cittadini”, i poliziotti utilizzassero costumi da clown al posto della divisa o che i detenuti venissero trasferiti nei campi da golf della contea per facilitarne la riabilitazione.

A proposito di comicità, c’è un paragrafo molto importante del libro dove utilizzi Eco, Bartezzaghi, Serra e Pirandello per spiegare come Grillo possa tramutare la cassetta degli attrezzi del comico in macchina elettorale. Poiché la comicità si basa sulla sintesi e la semplificazione, Grillo è libero di semplificare a tutto spiano, e dunque di liberarci dal peso della complessità. Allo stesso tempo, in quanto comico, non deve rispondere delle sue banalizzazioni, ha una sorta di immunità teatrale. Inoltre – scrivi citando Eco – la risata del comico è causata da una trasgressione per interposta persona. Presuppone l’esistenza di una regola, molto ben radicata, e poi la trasgredisce per conto del pubblico. Funziona quindi in base a un meccanismo di delega e all’istituzione di una gerarchia. Per questo, a differenza della tragedia, la comicità non sarebbe davvero catartica e liberatoria. Su questo punto non sono del tutto d’accordo: certo finché sono seduto in poltrona, a teatro, delego il comico a dissacrare per conto mio, ma una volta che mi alzo e torno per strada, non è detto che quanto ho visto e sentito non mi responsabilizzi, proprio perché sul palco non c’è più nessuno, e dunque la delega non funziona più: tocca a me trasgredire. Il problema mi sembra nascere quando il ruolo del comico deborda e diventa leader politico, fondatore di un movimento. Allora anche la delega deborda e investe l’agire politico di chi si riconosce in quel capo carismatico. Chiediamo al comico-leader di trasgredire le regole al posto nostro, così come chiediamo all’eroe-leader di aver coraggio al posto nostro, e al magistrato-leader di fare giustizia al posto nostro. Ma è il farsi leader, la personalizzazione, che attiva le tossine insite nel comico, nell’eroe, nel magistrato e in molte altre maschere della commedia umana. Tu che ne pensi?

Attenzione. Ovviamente non sostengo che la comicità sia in sé una forma di deresponsabilizzazione. Bisogna inserire quel paragrafo nel contesto del ragionamento più ampio, che va oltre Grillo. Dopo l’ennesimo dibattito tra Barack Obama e Mitt Romney, allo scrittore statunitense Paul Auster è stato chiesto cosa ne pensasse, come era andata… Auster ha risposto più o meno così: “Non parliamo di politica o di contenuti, si tratta di commentare una performance attoriale”. Nel libro cito il memorabile speech di Arthur Miller sul rapporto tra il mestiere di politico e quello di attore, che è illuminante da questo punto di vista. Pensiamo alle primarie del Pd e a come è stato rappresentato lo scontro tra i due principali contendenti: da una parte c’è Matteo Renzi, un candidato che ha debuttato come concorrente de “La Ruota della Fortuna” e che ha scelto come spin doctor uno degli artefici della televisione berlusconiana come Giorgio Gori.

Matteo & Mike

Matteo & Mike

Dall’altra c’è Pierluigi Bersani, che viene da un altro mondo, quello del Pci emiliano e delle riunioni di partito, ma che è stato umanizzato dalle battute di Maurizio Crozza (il tormentone “Ma ragassi, siam mica qui a smacchiare i leopardi” e via metaforizzando). Bersani ha scelto come portavoce Alessandra Moretti, che i giornali accostano al mito di bellezza degli anni Ottanta Carol Bouquet e che proprio pochi giorni fa ha mostrato ai cronisti le foto del segretario Pd da giovane e ha detto “Non sembra Cary Grant?”.

Archibald Alexander Bersani, detto Pier Grant

Archibald Alexander Bersani, detto Pier Grant

Tutto questo per dire che la relazione, sempre esistita, tra recitazione e politica va infittendosi sempre di più. Grillo è un effetto di questo meccanismo, non la causa. Dunque – ed eccoci alla comicità – avanzando nel ragionamento arrivo a chiedermi: come mai il primo attore che diventa leader politico (e non come di consueto il politico che deve anche imparare a fare l’attore) è proprio un comico? La risposta è quella che sintetizzavi tu. Da una parte la comicità è sempre a rischio populismo perché una battuta funziona quando è semplice e comprensibile e uno dei tratti del populismo è proprio il rendere semplici i problemi complessi. Dall’altra, ridere significa delegare la trasgressione. Rido perché qualcuno fa una cosa che io non farei mai: tirare la torta in faccia a qualcun altro invece di mangiarla o mandare a quel paese il potere. Quindi quella risata, paradossalmente, rafforza la regola invece di metterla in discussione. Se la regola sottesa (le torte si mangiano e non si tirano in faccia al primo che passa e il potere non si manda a quel paese) fosse messa in discussione il comico non farebbe più ridere. Non avrebbe motivo di esistere.

Basta con le supercazzole! Che 2 palle!!1!! Uno ke fa le domande per sembrare intelligente, l’altro che gli risponde per far vedere che ce l’ha più lungo…Ma chi siete, i Qui Quo Quà? Dite che Beppe è un comico e dice le cose semplici: ma allora com,é che voi professorini non ce state a capì un cazzo? Ad esempio tutta la menata sulle idee senza parole di Furio Yesi, un tizio che nessuno lo conosce, ma siccome piace ai wuminkia allora pioace pure a Santoro (SVEGLIA!!!Lo sanno tutti che siete amichetti, basta fare una ricerchina in rete: vi recensite i libri a vicenda e frequentate gli stessi salotti). Idee senza parole. Se Grillo c’ha un difetto e quello che parla, parla, parla pure troppo…Come fa ad avere idee SENZA parole? Me lo fate un esempio? Perché secondo me è l’incontrario, siete voi che c’avete parole senza idee, sembra che dite un sacco di cose e invce poi non dite un bel niente. Ma tanto rassegmnatevi: in Rete la verità viene sempre fuori, è dimostrato.

Il libro contiene una specie di disamina dello schema argomentativo (che si ripete sempre uguale) del troll grillista. È uno schema che ha dato vita anche a un gruppo su Facebook che parodizza le campagne emozionali di Grillo e che si chiama “Siamo la gente, il potere ci temono”. Il blogger (e giapster) Jumpinshark ha scritto una vera recensione di Un Grillo Qualunque utilizzando questo linguaggio.
Proprio ieri ho partecipato ad un dibattito televisivo su Beppe Grillo. In studio c’era anche un grillino, un imprenditore del varesotto ex leghista e forzitaliota che ora aveva scelto la causa del Movimento 5 Stelle. Quando la conduttrice gli ha chiesto cosa del programma di Grillo lo convincesse particolarmente, lui ha risposto (cito a memoria): “Ci ha fatto vedere la luce. Per noi Grillo è una luce in fondo al tunnel”. Pochi minuti fa, invece, una elettrice grillina mi ha scritto su Facebook che “La democrazia partecipata è un concetto unitario e unificante”. Ecco degli esempi di “idee senza parole” dei grillini. Alla radice della loro ideologia pret-a-porter c’è qualcosa di inspiegabile, inesprimibile, irrazionale. Altro che intelligenza collettiva: Grillo muove emozioni, dà vita ad un impasto di politica, spot pubblicitari e sentimenti che ricorda il ragionamento di Furio Jesi di cui avete scritto più volte su Giap. Non a caso Jesi utilizza il concetto di “idee senza parole” utilizzato da Spengler anche per ragionare della civiltà dei consumi, degli spot pubblicitari, dei romanzetti rosa di Liala.

Nelle conclusioni del libro scrivi: “Peccheremmo di schematismo se dicessimo che Beppe Grillo è la prosecuzione di Berlusconi con altri media”. Primo, perché il blog di Grillo è un esempio di “uso televisivo della rete”, comunicazione verticale con una spruzzata di partecipazione (i commenti, dove peraltro il comico non interviene mai). E secondo? Giorni fa Vittorio Feltri ha sostenuto che il Berlusconi degli esordi non è nemmeno paragonabile a Grillo, ma che ogni epoca ha il suo Berlusconi, e in questa ci beccheremo Grillo. Quindi, senza peccare di schematismo, il paragone ti sembra fattibile oppure no?

Non è la stessa cosa, ma le analogie ci sono: il partito-azienda privato, l’utilizzo degli schemi televisivi e dei video fatti in casa per parlare agli elettori, l’utilizzo del Corpo per superare la divisione tra Politica e Intimità (la traversata dello Stretto di Messina a nuoto compiuta da Grillo ha molto a che fare con il reality show sul Corpo di Silvio mutante). Il problema è che abbiamo chiuso frettolosamente l’era berlusconiana, non abbiamo capito cosa abbia significato davvero, che scorie culturali abbia lasciato nel nostro paese. E quindi ci troviamo ad avere un oppositore che forse opera in modo diverso ma sicuramente si muove, come direbbe Vincent Vega in Pulp Fiction, “nello stesso fottuto campo da gioco”.

***

Per chi vuole farsi un’idea delle reazioni, recensioni, interviste e approfondimenti che sono fioriti in queste due settimane intorno a Un Grillo Qualunque, Giuliano Santoro ha messo insieme un breve indice sul suo blog.

 

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58 commenti su “Un #Grillo qualunque – WM2 intervista Giuliano Santoro | #M5S

  1. Grazie, questo libro mi mancava e mi interessa assaje. Da un po’ di tempo m’interrogo su Grillo e M5S e il libro di Santoro potrebbe darmi qualche risposta – benissimo – o approfondire le mie domande – che va sempre bene -.
    Visto l’autore, ne approfitto anche per ringraziarvi perché mi avete fatto scoprire “Su due piedi”, che non c’entra niente con Grillo, ma che da mezza calabrese mi sono “bevuta” con sommo gaudio. :)

  2. Era un pezzo che aspettavo una summa ragionata sul grillismo, sono davvero curioso di mettere le mani su questo libro. Quando giorni fa il Beppe ha sfidato intrepido la furia di Scilla e Cariddi armato di solo mouse, mi è scattata una molla nel cervello e mi sono chiesto dove avevo già visto fare simili imprese eroiche. Poi mi sono ricordato di quel Romagnolo che negli anni ’20-’30 scalava montagne, arava la terra, fondava edifici, attraversava oceani davanti alle webcam dell’istituto Luce, a petto nudo, mani nude e crapa pelata. Quindi mi è corso un brivido lungo la schiena.

  3. Ne approfitto per una comunicazione di servizio: oggi presentiamo “Un Grillo Qualunque” a Roma, al centro sociale Astra (in via Capraia 19, al Tufello) alle 19 con Roberto Ciccarelli del Manifesto e Gianluca Passarelli dell’Istituto Cattaneo. Presto altre date in giro per l’Italia. g.

  4. Spero di non andare OT, volevo dire due cose sulla questione del successo elettorale del movimento 5 stelle in Piemonte, premettendo che non ho letto il libro, quindi non so se/cosa ne dica.
    Alle regionali 2010 io ho votato Davide Bono (M5S) come presidente di regione e PRC come partito, questo perchè non c’erano candidati presidente a sinistra della Bresso (Erano in tutto 4 Bono, Bresso, Cota e Rabellino, che era sostenuto anche da Forza Nuova).
    Fino a poco prima delle elezioni pensavo di non votare, a malincuore, anche perchè nella lista PRC c’era un candidato che conosco personalmente e stimo, alla fine la candidatura di Bono è stata quella che mi ha dato la possibilità di esprimere il voto di lista. Penso che in molti abbiano fatto un ragioneamento simile, dato che i voti di Bono furono 90mila, quelli della lista M5S 69mila, e che mentre Bresso prese circa 10mila voti meno di Cota la somma delle lista che la sostenevano ne presero circa 10mila in più di quelle di Cota. Qui i dati http://www.consiglioregionale.piemonte.it/elezioni2010/online
    Insomma, il ‘successo’ piemontese mi sembra tale solo in apparenza, o per meglio dire perchè è arrivato cronologicamente prima.
    Poi andrei molto cauto nel collegare quel risultato alla questione notav, anche se è indubbio che su quella è l’unico partito (pardon, movimento) che è sempre stato coerentemente contro (almeno tra quelli che superano l’1%). Bono nel 2010 ha preso il 4%, un anno dopo, alle comunali di Torino (quindi ‘zona notav’ esclusa) Bertola ha avuto il 5.

  5. io solo non capisco una cosa, e non solamente riguardo a Grillo: o mi piazzo davanti a Report, oppure non so cosa siano i fatti in relazione alla politica. Non mi interessa più di tanto se Bersani si fa fotografare col sudoku e la birra; se Obama ha una bella famiglia e una voce profonda; se Grillo attraversa lo stretto a nuoto: mi interessa ciò che dicono di voler fare e ciò che, una volta eletti – se eletti – hanno fatto. Capisco che la comunicazione abbia un ruolo, ma mi chiedo, forse ingenuamente, perché la politica non possa essere: partito, programma elettorale, buon o cattivo governo. Prometto a,b,c: mi piace, lo trovo giusto, ti voto; poi fai solo a, o nemmeno quello, non ti voto più.
    Lo dico da persona che si sente “di sinistra” ma trova pochissime figure politiche di riferimento (se ne conoscete siate cortesi segnalatemele).
    Ho letto il programma del m5s ma non ne sento mai parlare, né in bene né in male.

    • Credo che la questione “programma”, che pure sarebbe da dibattere, sia parzialmente fuorviante.
      Credo sia assodato che l’azione di un partito o movimento politico sia data, oltre che dal suo programma, dalla prassi quotidiana, per cui ad esempio i metodi di gestione del dissenso interno e di democrazia interna al movimento sono degni di essere parificati al programma per importanza, in quanto danno in buona misura idea di come e quanto quel programma sia poi traducibile in azioni.
      Peraltro è più o meno lo stesso ragionamento con cui il m5s contesta i partiti tradizionali etichettandoli come “impossibili da cambiare”.
      Insomma, anche *prima* di essere eletto *fai* e difficilmente sarà quello che *dici* a prevalere una volta eletto.
      Tra l’altro il tutto, tornando alla tua richiesta finale, si riflette anche sul programma del m5s: non se ne parla perché al di là delle apparenze è difficile individuare quale sia. Ad esempio si è partiti da un “movimento pulito” per cui per avere il logo del m5s bastava, essenzialmente, la fedina penale a posto, si arriva in questi giorni all’isolamento di consiglieri che non rispettano richieste fatte da Grillo di non apparire in TV: ma obbedire alle indicazioni politiche fatte sul blog non era originariamente condizione per far parte del movimento – e credo ancora non lo sia, per cui la prassi ha palesemente travalicato il programma inziale. Per questo credo sia più interessante soffermarsi sulle contraddizioni del m5s, perché è l’azione che costruisce i programmi, non il contrario.

      • In realtà nel regolamento (“non-statuto”) del M5s scritto da Grillo o chi per lui è chiarito molto bene che:

        – “il movimento (…) trae origine e trova il suo epicentro nel blog http://www.beppegrillo.it

        – “Il “MoVimento 5 Stelle” (…) va a costituire, nell’ambito del blog stesso, lo strumento di
        consultazione per l’individuazione, selezione e scelta di quanti potranno essere candidati
        a promuovere le campagne di sensibilizzazione sociale, culturale e politica promosse
        da Beppe Grillo così come le proposte e le idee condivise nell’ambito del blog
        http://www.beppegrillo.it

        A me sembra abbastanza chiaro…

        Inoltre mi sembra interessante anche de-mistificare il termine “non-statuto”, che a prima vista può sembrare un plus di democrazia e “alterità” positiva, in realtà identifica bene la non-democrazia del movimento:

        – gli statuti, infatti, sono uno strumento di garanzia democratica per gli iscritti a un’organizzazione, quale che sia la forma che questa organizzazione si dia

        – e, di solito, prevedono la possibilità di essere modificati dagli iscritti, cosa che, appunto, nel non-statuto non c’è…

        Io credo (ma sarebbe interessante verificare se è effettivamente così) che Grillo abbia trovato una forma giuridica per evitare il codice civile relativo alle associazioni/partiti/organizzazioni e mantenerne il controllo.

    • Capisco il tuo interesse per i fatti, ma non li terrei separati dalle parole. I fatti da soli non parlano, bisogna raccontarli: e allora serve una retorica, una cornice concettuale, spesso e volentieri un’ideologia. Dentro Report non ci sono “i fatti”: c’è una narrazione che li mette in fila e li rende significativi. Lo stesso si può dire del programma di un partito o di un movimento. Ecco perché a noi interessa molto come vengono dette le cose, e spendiamo tante parole per ragionarci su. Il mito dei “fatti” è spesso il contraltare di un altro mito: quello che ci sono “i problemi” e “le soluzioni”, e che le soluzioni si dividono in “efficaci”, “utopiche” e “sbagliate”. Dunque le soluzioni non sono né di destra, né di sinistra. Invece mi pare chiaro che un “problema” è tale a seconda di come lo descrivi e che tra molte soluzioni possibili, indicarne una è il senso della politica, dell’essere di Destra oppure di Sinistra.
      Quanto al programma dei 5 Stelle, a me pare attraversato in lungo e in largo da miti, più che da fatti. E quel che Grillo dice a proposito dell’immigrazione – un discorso di Destra nemmeno troppo mascherato – mi basta e m’avanza per tenermi alla larga.
      Detto questo, ci sono senz’altro luoghi dove del programma di Grillo si discute in maniera approfondita. Qui su Giap, che è un blog di cantastorie, ci interessa soprattutto come quel programma viene raccontato, veicolato, inquadrato in una cornice narrativa.

      • Il punto è proprio questo: davvero pensiamo che Grillo al momento abbia il 20 per cento nei sondaggi, pescando elettori da tutti gli schieramenti e al nord soprattutto dal corpaccione cosiddetto “moderato” che finora ha votato berlusconi&bossi, perché la gente apprezzi il suo “programma”? Non sono forse il “format” e il suo modo di comunicare e mettersi in scena che catturano l’audience elettorale?

    • Prima di entrare nel merito dei contenuti del programma, personalmente cercherei di capire da dove quel programma deriva, che opinioni rispecchia, dove si colloca nel panorama dei molteplici interessi conflittuali della società, quali meccanismi lo hanno prodotto (e non intendo meccanismi sociali, che non generano mai direttamente programmi, ma meccanismi decisionali).

      Il programma e il cosiddetto “non statuto” si trovano in versione scaricabile su una pagina del blog di Beppe Grillo. Quei due documenti non sono mai cambiati dal momento della loro pubblicazione (vuol dire da almeno due anni, se non dalla fondazione nell’ottobre 2009).

      In tutte le discussioni dei grillini, nella retorica che riflette l’immaginario di pratica democratica e partecipazione dal basso su cui è basato il consenso, gli attivisti del M5S descrivono come è organizzato democraticamente il movimento, spiegano che ogni proposta è condivisa e discussa, sottoposta ad attente analisi e votata dalla maggioranza, che il programma è scelto dal basso, che ciascuno può fornire la propria opinione e costruire un progetto politico in rete e attraverso i comitati locali. Si riempiono la bocca di questa retorica a ogni piè sospinto.

      Però c’è un problema: il “non statuto” (e immagino anche il programma) non è mai cambiato: è sempre rimasto identico a come Grillo e Casaleggio lo hanno scritto. Questo fatto basta da sé a dimostrare che esiste un’incoerenza abnorme e gravissima tra ciò che il M5S dice e ciò che invece fa.

      Quale programma, quindi? Quello “democratico” scritto da un consesso ristrettissimo di individui prìncipi, capi politici e manager dell’azienda-movimento (al limite estremo solo una o due persone, tanto è facile scrivere così superficialmente)?

      • In realtà il programma evolve, nel senso che sono stati segnati gli *obiettivi raggiunti*, tipo l’abolizione del Lodo Alfano o il blocco del ponte sullo stretto, come se fossero conquiste dei cinque stelle…

        • sul programma in evoluzione e gli obiettivi raggiunti a cui accennava punto_fra mi sembra che rientrino nel modo in cui il personaggio narra se stesso (il parlamento europeo lo ha voluto ascoltare sulla crisi finanziaria, hanno fatto eleggere vendola, hanno vinto i referendum sull’acqua ed il nucleare, al-jazeera e bbc lo chiamino per chiarimenti sulla situazione italiana, krugman che si rifà alle sue idee, etc): una mitopoiesi dell’influenza del Blog (con la maiuscola solo questa volta perchè, nella narrazione stellata, è un soggetto).

          in ogni caso, se da un lato questo stato evolutivo degli obiettivi può rientrare nei falsi frame di nè destra nè sinistra e di processo di costruzione dal basso, dall’altro denota come l’universo grillino manchi di orizzonte prospettico.

          credo anche che il procedere per punti si pone in linea con la cultura del tifo (inutile ribadire come il m5s ne sia permeato): nella partita dei ‘giusti contro i corrotti’ ogni ‘successo’ diventa un goal del blog (indipendentemente dall’eventuale incidenza effettiva).

          tra le cose interessanti di questo frame c’è il fatto che, oltre a fornire la falsa idea di vivere in un punto di svolta della storia (che quindi appartiene solo a chi fa parte del ‘cambiamento’), prevede che sia solo chi proietta l’immaginario a decretare la natura del goal.
          ma le partite prima o poi finiscono. molto sta nel vedere se e quando grillo chiamerà il fischio finale (cosa di cui dubito) o se la sua base vorrà riconoscere un avvenimento come segnale di fine partita prima di una sua indicazione in merito

          un aspetto controproducente di questa narrazione è rappresentato dal fatto che le partite prima o poi finiscono e che quindi, dopo il climax della vittoria, perde d’intensità (specialmente considerando il bisogno di consumo di dissenso della base cha ha allevato).

          a questo punto sarà interessante vedere se lo ravviverà con ‘nuovi e più temibili nemici’ tipo una serie che continua ad aggiungere stagioni o se sceglierà di chiamare un fischio finale, rivendicando la vittoria della partita/campionato/coppa_uefa_e_del_mondo e sceglierà di cambiare frame.
          certo, potrebbe anche accadere che i grillini scelgano di decretare loro la fine della partita… ma se consideriamo quanto questo paese ami i salvatori mi pare un’ipotesi molto remota

          • “potrebbe anche accadere che i grillini scelgano di decretare loro la fine della partita… ma se consideriamo quanto questo paese ami i salvatori mi pare un’ipotesi molto remota”. A meno che la fine della partita non coincida con il fallimento dei propositi salvifici di Grillo e con i grillini che si rivoltano contro il loro guru e se lo “magnano”, sacrificandolo sull’altare delle proprie colpe.

  6. Su Giap, è stata fatta pochi mesi fa la discussione credo più esaudiente sul M5S, sia per quanto riguarda la sua attività politica che per le questioni riguardanti il marchio, le contraddizioni: tutto questo emerge ora più di prima, esplicitamente: Grillo (e non solo lui) la fa sempre più da vero padre padrone. Sulle ultime vicende linko questo post:
    http://ilbipolare.blogspot.it/2012/10/il-capo.html

  7. Riporto qui quello che dice un amico grillino della prima ora, già deluso e uscito dal meet-up diversi anni fa: “Nel Movimento 5 Stelle ognuno vede ciò che vuole”.

  8. Tralascio il fatto che Beppe Grillo mi sta antipatico per uno scambio di battute avvenuto circa 30 anni fa ad un suo spettacolo. Trovo che Grillo sia capace di raccogliere i sentimenti e le emozioni più retrive del popolo, per cui è l’antonomasia del “populismo”.

    Una cosa non ho capito di ciò che ha detto Santoro, perchè non riconosce a Berlusconi la palma del “primo attore sceso in politica”, mica penserà che B. fosse un “imprenditore”? Era e resta un attore – e pure bravo – prestato alla gestione per conto terzi di capitali di dubbia provenienza, proprio per le sue doti – innegabili – di fascinazione. E’ rimasto quello che cantava sulle navi …

    Poi siamo onesti, non aveva l’aplomb dello statista e definire il capo di un governo straniero ed alleato “una culona inchiavabile” lo pone di diverse lunghezze avanti a Grillo nella comunicazione umoristica di stampo populista-maschilista.

    • Hai ragione in linea di principio, ma diciamo che *formalmente* Citizen BerlusKane era un imprenditore prestato alla politica, con tutto il corredo ideologico dell’effiecientismo aziendalista e della fine del politico-di-professione.
      Una precisazione però bisogna farla: la tua osservazione mi ha fatto venire in mente che prima di di Grillo c’è stato Ronald Reagan. Anche se era ancora un passo indietro: in quel caso un partito lo chiamò in causa per fargli vendere il suo prodotto. Qui siamo alla sceneggiatura di uno spettacolo che gradualmente si fa programma politico.
      G.

      • Infatti. E non dimentichiamo che nel 94 la gente votava Berlusconi con l’argomento “è stato così bravo con le sue aziende quindi farà altrettanto con lo Stato”

      • Anche io leggendo l’articolo avevo pensato a Reagan, che è sicuramente l’esempio principe della spettacolarizzazione della politica avvenuta negli ultimi decenni. Ma se si allarga lo sguardo si capisce che, in forme diverse, l’istrionismo ha sempre fatto parte della prassi politica fin dal tempo dei Romani. Non per niente il politico era prima di tutto oratore e la retorica era una delle più importanti arti liberali, se non la più importante. Inoltre al suo interno una delle componenti costitutive era proprio l'”actio”.

  9. Dopo il fuorionda di Favia, la crocifissione della Scalsi e il M5S al 20% nei sondaggi nazionali è il caso di riaprire il dibattito.

    Il concetto che mi piace nell’intervista a Giuliano Santoro è quello della “delega della trasgressione”. Riprende in parteun post che sto pubblicando in parti sul mio blog, dal titolo “Il web-gnostico”. L’ideologia della non-ideologia di Grillo, con la forma dello sfottò al potere, tenta si sostituirsi al potere. Anche se nella pratica vuole distruggerlo, a livello di “pensiero” sta ridefinendo le sovrastrutture mentali di migliaia di persone.

    Un breve video di Zizek è esplicativo:
    http://youtu.be/xCD3hg6OEQw

    Segnalo anche le analisi di Anonimoconiglio:
    http://anonimoconiglio.blogspot.it/2012/06/beppe-grillo-e-il-nuovo-berlusconi.html

    E quelle del sottoscritto sul “Capitalismo Etico” di Grillorama:
    http://nexusmoves.blogspot.it/2012/04/adagio-beppe-grillo-e-lideologia-di.html

    ***
    Se riesco, passo alla presentazione al Tufello ;-)

  10. Non ho letto il libro e spero di poterlo fare presto, del resto l’intervista concede tutta una serie di appigli di discussione molto interessanti.
    Ciò che politicamente mi pare rilevante sopra tutto è il riferimento al populismo e al suo rapporto (che ad un certo punto viene sfiorato, parlando dello spazio occupato in altri paesi da partiti di estrema destra), appunto, con l’estrema destra. L’inafferabile che concerne il M5S credo risieda proprio nell’analisi del populismo e di QUANTO un soggetto politico sia populista, che di certo non significa possedere o servirsi di stili populisti relativamente a certi temi o certi tipi di discorso politico, perché in questo caso, da Obama a Renzi, diventerebbero tutti quanti attori politici populisti. Del resto il populismo sfida le categorie di destra e sinistra mostrando in modo sismico le insufficienze delle democrazie liberali e il caso venezuelano di Chavez è emblematico, di certo non si tratta di un uomo di estrema destra. Condivido, assumendo una prospettiva partigiana, che in Italia movimenti come il 5 Stelle creano una alternativa al riformismo tanto più capace di dare risposte politiche alla crisi quanto meno lo è la sinistra di produrre una alternativa che sia “di sinistra”, cioè rivoluzionaria e autorganizzata rispetto alle sfide politiche da affrontare (restrizione dei diritti, privatizzazione delle vite, venerazione dei consumi, insomma al solito dispiegarsi del capitale).

  11. “Se la regola sottesa (le torte si mangiano e non si tirano in faccia al primo che passa e il potere non si manda a quel paese) fosse messa in discussione il comico non farebbe più ridere. Non avrebbe motivo di esistere.”

    però questa mi pare una considerazione ovvia: la trasgressione e la trasgressione comica in particolare esiste grazie al fatto che in tutte le società umane ci sono delle regole. Senza regole sottese, l’eventuale trasgressione perde di significato, non è possibile nè utile nè desiderabile

  12. Nel frattempo Tonus sintetizza il tutto con un’immagine delle sue:
    http://marcotonus.blogspot.it/2012/11/maovimento-5-stelle.html

  13. So di non essere pertinente al 100% con il tema generale ma un riferimento fatto nell’ articolo mi ha portato ad una riflessione: secondo voi parlare di wikipedia come dimostrazione del funzionamento di un sistema collaborativo significa cadere ancora nell’ errore feticista del “popolo della Rete”?

    • Wikipedia è senza dubbio un’opera collettiva ottenuta grazie a un processo di collaborazione. Il feticismo comincia invece quando: a) Si immagina che questa forma di collaborazione debba/possa avere come obiettivo ideale l’eliminazione del conflitto e dei punti di vista. b) Si immagina che la Rete abbia prodotto, quasi dal nulla, questa forma di collaborazione. c) Si immagina che l’intelligenza collettiva sia una forma di intelligenza “superiore” a qualunque altra.
      L’errore di prospettiva a) ha una lunga e veneranda tradizione nella storia del pensiero. Leibniz sognava la possibilità di costruire un linguaggio logico-simbolico che permettesse di risolvere qualunque disputa sedendosi a un tavolo e dicendo: “Calculemus!”. E’ il mito della scienza (o della tecnologia) che elimina il conflitto, perché trova la soluzione più giusta per ogni problema.
      L’errore di prospettiva b) è il contrario dell’imperativo categorico di Frederic Jameson: “Always historicize!”. La Rete tende a farci considerare nuovi, inediti e rivoluzionari fenomeni che essa ha più semplicemente potenziato, fatto emergere, riprodotto su più vasta scala.
      L’errore di prospettiva c) nasce da una distorsione del termine “intelligenza collettiva”, dove si finisce per intendere il sostantivo “intelligenza” come derivato dell’aggettivo “intelligente”, e si finisce quindi per dare al termine un’accezione sempre e comunque positiva, di continuo e benefico sviluppo, quando invece il concetto formulato da Lévy non esclude affatto l’esistenza di una “stupidità collettiva” come prodotto dell’interazione telematica tra cervelli.

    • Credo che il rischio ci sia, eccome. Pur riconoscendo la sua indubbia utilità e la buona fede della maggior parte dei contributori, wikipedia è uno strumento che si presta anche a manipolazioni e mistificazioni e a volte è evidentemente condizionata da precisi interessi ideologici o addirittura commerciali (è di pochi giorni fa l’uscita di un’inchiesta che rivela che alcuni wikipediani preparavano le voci su alcuni “vip” dietro compenso, purtroppo non trovo più il link di riferimento).

      L’accettazione acritica e adorante di wikipedia e del “popolo” che la sostiene rischia di nascondere molti aspetti controversi e fa cadere il discorso all’interno di quell’orizzonte del mito tecnicizzato della Rete
      secondo cui wikipedia sarebbe dotata di uno spirito positivo che evolve necessariamente verso le magnifiche sorti e progressive.

      In definitiva, sebbene wikipedia sia potenzialmente uno strumento che nasce da pratiche liberanti della rete, può anche essere usata come strumento di condizionamento. E in questo è evidente l’aspetto assoggettante della rete.

      • @marco_b: questa è proprio l’ idea che mi ero fatto inizialmente, in un certo senso è la storicizzazione (aggiungerei “contestualizzazione”) di cui parla WM2…
        Non credevo infatti che fosse inadeguato riscontrare in Wikipedia una grande e forse rara realizzazione dello spirito collaborativo, quello che resta importante è attribuire questo lavoro ad abitanti del pianeta Terra e non a fantomatici “internauti”, per capirci.

        Poi ci si potrebbe chiedere grazie a quali condizioni favorevoli non solo Wikipedia ma anche il mondo dell’ Open Source sono potuti nascere e fruttare, certo non è la prima volta nella Storia che una comunità realizza un progetto collettivamente ma forse è da certe condizioni pratiche caratteristiche della rete (accessibilità e gratuità delle risorse) che si è venuta a creare l’ idea di Rete quale mezzo così rivoluzionario.

        Tornando al discorso principale del post e per ricollegarci all’ eliminazione del conflitto leibniziano, non si può non riproporre questa squisitezza tutta grillina, perchè ricordatevi:

        “[Nel M5S] non c’è bisogno di nessuna democrazia interna…….. perché nel M5S non c’è niente da decidere!!!”

        (l’ ha detto davvero: http://www.beppegrillo.it/2012/09/il_movimento_5_stelle_e_diverso.html)

        • “Non c’è bisogno di nessuna democrazia interna…….. perché nel M5S non c’è niente da decidere!!!”

          Per la precisione, non l’ha detto Grillo, ma un’esponente del gruppo milanese.
          Questo tipo di approccio ai problemi politici del movimento è diretta emanazione della convinzione che non esistano alternative fuori da quelle proposte dal pensiero dominante: esistono delle soluzioni da applicare, non si decide ma si esegue.

          Questo pone un interrogativo molto, molto pregnante: se non c’è niente da decidere… cos’è la democrazia per questo movimento? Se non è un meccanismo decisionale, qual è il suo significato e la sua funzione politica?

          Provo a indovinare: è una strategia di marketing.

          • Sisi certo non è stato Grillo in persona, comunque è citato sul sito ufficiale…
            Per quanto riguarda la loro “interpretazione” di democrazia basta leggere poche righe più sotto per trovare quest’ altra perla:

            “Questo strombazzare sulla “democrazia interna” segna un pericolo grande per lo spirito rivoluzionario del non-statuto.”

            …e allora viva la non-democrazia! :D

  14. Sull’uso commerciale e “anarco-capitalista” della rete e per una analisi del web né luddista né feticista è molto utile l’e-book “Nell’acquario di Facebook”, nuovo lavoro del gruppo Ippolita. Lo trovate qui: http://www.ippolita.net/it/nellacquario-di-facebook

    • Scusate il piccolo OT. La teoria che vuole i luddisti come un gruppo di fanatici contro ogni tipo d’innovazione tecnologica é un poco datata. A partire da un vecchio articolo di Hobsbawm (http://tinyurl.com/3xf3mgz), si é sviluppata una letteratura abbastanza ampia che inquadra le loro rivolte come parte di uno spettro più ampio di prime risposte ai nascenti capitalismi.

  15. Trovo un che di inquietante e allo stesso tempo ridicolo nell’uso dell’espressione “non-statuto”: inquietante per l’uso che ne fanno i grillini, che lo citano come se quel “non” davanti fosse la parolina magica che li rende diversi e immuni alla corruzione e al sistema dei partiti; ridicolo perché ogni volta che lo leggo non posso che pensare al cappellaio matto di Alice e alla sua festa di non-compleanno… o forse anche questo è inquietante…

  16. […] si muove, come direbbe Vincent Vega in Pulp Fiction, “nello stesso fottuto campo da gioco”» (Intervista di G. Santoro a WM2, Giap, 8 novembre 2012).  Sennonché, il «fottuto campo da gioco» di cui si parla non l’ha […]

  17. […] si muove, come direbbe Vincent Vega in Pulp Fiction, “nello stesso fottuto campo da gioco”» (Intervista di G. Santoro a WM2, Giap, 8 novembre 2012).  Sennonché, il «fottuto campo da gioco» di cui si parla non l’ha […]

  18. Ho letto il libro, e nel complesso mi sembra che l’analisi proposta da Giuliano Santoro sia corretta e molto utile.

    In particolare, leggendo il libro ci si misura con uno sguardo ampio e lucido sul fenomeno, che permette di prendersi un momento di riflessione un po’ “a freddo”. Per chi fa politica attiva, e si trova ad ingaggiare un confronto quasi quotidiano con il grillismo, il populismo (digitale e non) e tutte le molteplici conseguenze tossiche di questo milieu ideologico, si tratta di una pausa salutare, vista l’incandescenza della materia.

    Ci sono però anche alcuni aspetti critici relativi al libro, su cui secondo me vale la pena soffermarsi. Coinvolgono diversi aspetti, ma hanno una radice comune, relativa ad un’impostazione generale che unisce analisi politico-sociale e riflessioni di carattere più “massmediologico”.

    L’utilizzo consistente di riferimenti presi dal pensiero filosofico, dalla sociologia della comunicazione, dalla psicologia cognitiva ecc. per prima cosa, dà al libro un carattere di riflessione intellettuale, più che di strumento spendibile nell’azione politica concreta e nella lotta. Questo perché il ricorso ad un certo armamentario analitico opera inevitabilmente una selezione “a monte” del bacino dei potenziali lettori.

    Ma non è questo, ovviamente, il problema principale. Sarà semmai compito di chi fa militanza attiva dotarsi di strumenti adeguati (pamphlet, opuscoli più “diretti” e accessibili) per riparare a questa mancanza.

    Il grosso dei rilievi critici si concentra su altri aspetti. Il fatto è che, adottando una prospettiva così sbilanciata sull’analisi culturale del fenomeno, secondo me si finisce per assecondare un po’ troppo quel “frame” ideologico su cui il grillismo stesso sta costruendo le sue fortune. E questo rischio è dimostrato, secondo me, delle conclusioni che Santoro ricava rispetto alla risposta da mettere in campo nei confronti del populismo digitale. Mi spiego.

    Che politica e rappresentazione, discorso politico e narrazione, siano fortemente connessi, non è una novità. Che questo legame sia diventato particolarmente forte negli ultimi decenni è altrettanto innegabile; non si spiegherebbe altrimenti perché fenomeni come il berlusconismo o il grillismo abbiano assunto delle proporzioni così rilevanti.

    Tuttavia, sarebbe esagerato sostenere che ci sia stata una vera rottura, una cesura netta fra un “prima” e un “dopo”. Il discorso politico ha *sempre* fatto leva sulla dimensione emotiva, sulle dinamiche identitarie, così come sui “concetti senza parole” ecc. Lo sviluppo dei mezzi di comunicazione ha sicuramente accentuato queste dinamiche, ma questo fatto non è dovuto ai mezzi in sé; ragionando in termini materialistici, la sua radice va ricercata semmai nello sviluppo dei rapporti sociali ed economici, ossia nella buona vecchia “struttura” di marxiana memoria.

    Questa consapevolezza è tutt’altro che assente nel libro. E’ il modo in cui è declinata a lasciarmi un po’ perplesso. Così come mi lascia perplesso la conclusione.

    La risposta al populismo, per Santoro, consiste nel rifiuto di farsi amalgamare in un’entità collettiva priva di specificazioni (il “popolo della Rete” tanto caro a Grillo e Casaleggio, per intendersi). Su questo punto penso che l’accordo sia unanime.
    Ma siamo sicuri che tutto ciò possa far leva semplicemente su un uso alternativo della rete caratterizzato “dall’esigenza di riconoscersi tra diversi in quanto soggetti portatori di desideri, speranze, rivendicazioni che non sono trasversali”?
    Non si finisce così, nei fatti, per assecondare un “frame” in cui la sovrastruttura (le narrazioni, le pratiche costitutive di soggettività ecc.) finisce per contare più della struttura?

    La “soluzione”, messa in quei termini, mi suona tanto più allarmante in quanto, in altri passi del libro, Santoro sembra individuare negli esperimenti “arancioni” di Pisapia e De Magistris delle valide risposte alla retorica populista del grillismo.
    Che nei contesti in cui si creano lotte e mobilitazioni solide e organizzate il grillismo fatichi a trovare spazio è indubbio. Ma, al tempo stesso, le contraddizioni palesi fra realtà e rappresentazione che stanno esplodendo oggi rispetto agli esperimenti “radical-riformisti” di Milano e Napoli, secondo me preparano il terreno non ad una possibile vittoria contro la retorica populista, ma ad una sconfitta sicura, che non appena si sarà consumata aprirà spazi ulteriori al populismo, digitale o meno.

    I punti fondamentali allora sono due:

    – a livello di sovrastruttura: il frame populistico è parte di un frame più ampio, quello che vede oggi nella sfera della rappresentazione il terreno decisivo di intervento e di azione politica; combattere il populismo senza combattere, anzitutto nella pratica, il frame che oggi lo sostiene ad un livello più profondo significa secondo me fare lasciare il compito a metà; l’uso diverso dei mezzi di comunicazione, in assenza di un rilancio significativo dell’intervento concreto nello scontro di classe (e forti di una solida prospettiva anticapitalista e di strumenti organizzativi adeguati) rischia di mettere nuovamente le sinistre con le spalle al muro;

    – a livello di struttura: le condizioni materiali che hanno costituito il terreno di coltura ideale per il frame populistico (opportunamente “aggiornato” all’era del web e della neo-televisione) non sono eterne né immutabili, e gli sviluppi della crisi le stanno anzi spingendo verso mutamenti imprevedibili nel dettaglio ma abbastanza chiari per quanto riguarda la tendenza; sicché il recupero di strumenti d’analisi e forme d’intervento politico troppo facilmente liquidate come “vecchie” o “novecentesche” si sta ponendo sempre di più come strada obbligata… anche nella risposta a fenomeni come il grillismo.

    • “Il recupero di strumenti d’analisi e forme d’intervento politico troppo facilmente liquidate come “vecchie” o “novecentesche” si sta ponendo sempre di più come strada obbligata… anche nella risposta a fenomeni come il grillismo.”

      Per chiarire il senso, a scanso di equivoci: alla disorganizzazione “de facto” eletta a principio fondante di un’intera pratica politica, bisognerebbe rispondere ponendo una volta di più l’accento sulla necessità dell’organizzazione; ad un programma politico confuso, contraddittorio, ambiguo e nell’insieme reazionario, con un programma chiaro, rivoluzionario e che poggi su un’analisi forte della società; all’assenza di legami con la storia e il passato, rivendicando il legame con le lotte del passato e con la storia del movimento operaio; ad un generico interclassismo, con una chiara prospettiva di classe.

      • Ciao Don,
        grazie per la riflessione e per aver esaminato il libro con tanta attenzione. Non voglio risponderti di fretta perché le tue osservazioni meritano un po’ di tempo per riflettere, ma (giuro) lo faccio quanto prima.
        A presto :)

    • Eccomi. Scusami ma non volevo rispondere frettolosamente, magari (orrore) digitando da un telefonino.
      Intanto sono contento che il libro ti sia piaciuto.
      Cominci da una questione a cui tengo molto, quella del “genere” di scrittura di “Un Grillo Qualunque” e dici che è più una “riflessione intellettuale” che uno strumento di lotta. Posto che se fosse così, come giustamente precisi, non ci sarebbe nulla di male, ti dico però che non è l’obiettivo che mi ero proposto.
      L’idea era di scrivere una cosa che approfittasse di un espediente “narrativo” (la vicenda pubblica di Grillo e poi la storia del suo Movimento) per inanellare una serie di riflessioni e analisi. Trovo molto accattivante lo stile di certi saggi anglosassoni, che riescono a coniugare la divulgazione alla densità di scrittura. Devo dire – a costo di sembrare inelegante, ma è un fatto e lo metto sul piatto della nostra discussione -che sia diversi lettori “accademici” che parecchi colleghi giornalisti mi hanno scritto per complimentarsi del fatto che il libro riesca ad essere appunto sia divulgativo che attento ai contenuti e ai riferimenti teorici. Era l’unico modo, peraltro, per non cadere nella trappola della contrapposizione ad personam nel quale sguzza Grillo e fargli un’opposizione pacata sì ma anche argomentata e tenace.
      Veniamo alla critica vera e propria, che mi pare rimandi ad una questione ben più complessa – che giustamente citi – tra narrazione e forze produttive e tra “struttura” e “sovrastruttura”. Ora, lungi da me scadere in facili postmodernismi, ma credo che un fenomeno come quello di Grillo (e prima, in termini diversi, quello di Berlisconi) testimoni proprio l’intreccio tra questioni che un tempo avremmo detto “strutturali” e vicende che sarebbero invece appartenuta alla sfera “sovrastrutturale”. E vengo al riferimento alla questione dei “rapporti di produzione” che invochi . Nel libro spiego (lo ha giustamente sottolineato Roberto Ciccarelli nella sua recensione sul Manifesto che compare in versione estesa qui: http://furiacervelli.blogspot.it/2012/11/grillo-la-precarieta-diventa-un-reality.html?spref=tw) come il primo nucleo di attivisti grillini appartenga alla “generazione fantasma” (la definizione è di Mario Monti) dei trenta-quarantenni. Questa generazione ha una composizione produttiva ben precisa. Parliamo di lavoratori tipicamente postfordisti, spesso precari, sempre soggetti allo stress che comporta il binomio contradditorio reazione-sfruttamento. Mi sono anche convinto del fatto che si tratta di persone frustrate e incazzate, ma talmente abituate a farsi maltrattare e ad essere mobbizzate da non accorgersi neppure del mobbing che esercita lo staff di Grillo nei loro confronti, chiedendogli i curricula, mettendoli in competizione l’uno con l’altro, facendosi scudo della loro rabbia quando ha bisogno di licenziare (ooops, epurare) uno che ha deciso di contestare i vertici dell’azienda (ooops, forza politica). Dentro questo terreno, che è tipico dell’antropologia del lavoro cognitivo e che è fatto di alta capacità di cooperare e mettersi in movimento per usare i propri strumenti di lavoro per fare altro (la Rete) ma anche di un “lato oscuro”, si gioca la partita.
      E allora la sfera della “rappresentazione” non è il terreno decisivo, dici tu. Ma non lo è neanche quello della “rappresentanza” politica. E, come dimostrano molte lotte in corso anche in questi giorni in Europa e le piazze finalmente piene in Italia, trovare modi di raccontare e narrarsi senza affidare la propria voce e il proprio logo a un Capo è un antidoto alla falsa coscienza e persino un terreno di ricomposizione delle lotte. Questo nel libro c’è, ovviamente non è la parte centrale, ma è a un esito di questo tipo, che apre una partita tutta da giocare, che cerco di condurre il lettore.

      • Sulla prima questione, non metto in dubbio l’ottimo equilibrio fra riflessione “colta” e divulgazione. Il mio dubbio, se vuoi, è molto più terra-terra: mi pongo il problema di come interagire, per fare un esempio preso dalla quotidianità, con la coscienza del metalmeccanico attivista del M5S, completamente sfiduciato rispetto all’azione sindacale e ai partiti tradizionali, che ho incontrato sabato scorso mentre facevo diffusione di materiale al mercato.

        Penso che, pur con tutti i suoi pregi, un libro come il tuo possa essere utilizzato molto difficilmente come strumento di azione politica, di agitazione e di contro-propaganda. E non penso affatto che un opuscolo o un pamphlet di questo genere si riduca, come dici tu, ad una “contrapposizione ad personam”… anzi!

        Ad ogni modo, ho precisato che spetterà semmai a chi fa militanza attiva il compito di preparare del materiale più adatto a questo scopo.

        Per quanto riguarda le considerazioni che fai sulla seconda questione, condivido molto di quello che dici. Tuttavia continuo a credere che la sperimentazione di forme di narrazione (e auto-narrazione) alternative non sia affatto una “soluzione”; tu in effetti parli di “antidoto”, e se limitiamo il ruolo di queste pratiche a questa funzione, per così dire, di contenimento posso anche essere d’accordo.

        Va anche detto che il motivo per cui non potremo mai concordare al 100% è legato al fatto che secondo me c’è una divergenza di fondo nell’analisi. Io non penso che quello che tu chiami “lavoro postfordista” individui un cambiamento così profondo e radicale nei rapporti sociali di produzione e nelle dinamiche proprie del sistema capitalistico. Quello che contesto, in altri termini, è il carattere “fondativo” di questa categoria, l’idea che possa ridefinire l’intero impianto della nostra analisi e, conseguentemente, le nostre strategie di azione politica.

        Il fatto di prendere troppo sul serio le conseguenze della lettura post-moderna o post-operaista, ha fatto anzi sì che si creasse un’ampia zona grigia, a metà fra militanza (fortemente depotenziata) e narrazione (con un tendenziale sbocco individualistico/narcisistico), che ha covato, negli anni, il rifiuto delle pratiche politiche “tradizionali” (tra mille virgolette, il termine mi piace poco ma non mi viene in mente un sinonimo adeguato), il rigetto del’organizzazione, la sopravvalutazione delle pratiche rappresentative.

        Chi ha beneficiato di tutto questo? Chi, per porre la questione in termini più espliciti, ha beneficiato dell’abbandono e della sfiducia dei nuovi lavoratori precari, trenta-quarantenni, nei confronti delle vecchie modalità di azione politica – quelle che, per inciso, hanno consentito ai nostri padri, nonni, bisnonni, trisavoli, di conquistare tutti i diritti e le tutele che noi oggi stiamo progressivamente perdendo?

        In politica il vuoto non esiste. E infatti questa deriva è stata ampiamente capitalizzata dal M5S, dai vari movimenti che hanno utilizzato la rete come terreno di confronto primario (cose tipo Zeitgeist, MMT ecc.), e dai politici più “tradizionali” che sono stati abbastanza furbi da annusare per tempo la tendenza (Vendola, i vari “arancioni” ecc.).

        Insomma: anziché ricompattare e ricomporre, in nome della lotta di classe, dell’unità fra i lavoratori (e fra studenti e lavoratori), la diffusione massificata di queste pratiche ha spianato autostrade per progetti politici di carattere riformista o reazionario. La marginalità (perché è inutile che ce la raccontiamo…) delle pratiche di narrazione davvero alternative, e la crescente incapacità di mettere in campo una risposta organizzata e generalizzata a partire da queste pratiche, dimostrano secondo me che non è quella la strada.

        Queste pratiche possono fungere da “antidoto”, per carità. Ma non bastano; se non si affiancano all’azione politica organizzata, e se non evitiamo una volta per tutte di assumerle a paradigma di quest’ultima, continueremo a perdere terreno. E qualcuno continuerà, imperterrito, a “mangiarci su”.

        In questo senso, secondo me, è il frame “profondo” del grillismo – azione politica come rappresentazione – a costituire il nodo centrale del problema, più che il frame “manifesto” – pratiche massificanti e para-televisive ecc. da combattere con pratiche alternative di narrazione.
        Su questo fronte abbiamo già perso abbastanza terreno. O saremo in grado, in futuro, di rilanciare la prospettiva di classe e di promuoverla attraverso l’organizzazione e la lotta, dandole la possibilità di rappresentarsi in modo indipendente (sia dalle vecchie strutture decotte della rappresentanza *borghese*, sia dai circuiti della “rappresentazione”); oppure la sconfitta – contro il grillismo, così come contro il sistema di cui il grillismo è l’escrescenza – è servita.

        • Non sono mai stato anarchico e tantomeno penso che una qualche forma di organizzazione sia inutile. Di certo, non penso che questa organizzazione corrisponderà a quelle del secolo scorso. Non faccio del facile nuovismo, anche se alcuni temi (il rapporto tra riforme e rivoluzione, la costruzione di meccanismi si mutualismo e cooperazione) sono quelli che il movimento operaio in tutte le sue forme si porta dietro dall’Ottocento.
          In “Un Grillo Qualunque” ho preso un esempio che tutti conoscono, anche persone al di fuori dei nostri circuiti, per affrontare alcuni temi che non riguardano solo il Movimento 5 Stelle e l’Italia: le possibilità e i rischi della diffusione di massa del web, ma fine della sinistra e l’occupazione dei suoi spazi ad opera di qualcos’altro, l’intreccio tra rappresentazione mediatica e rappresentanza politica.
          Detto ciò, che le pratiche alternative di narrazione non abbiano una funzione costituente di per sè, non c’è nessun dubbio. Ne sono una condizione fondamentale, però. A patto che intendiamo lo spazio dei saperi e le circolazione delle “storie” non come mero spazio di attività intellettuale ma come luogo aperto dalle lotte e dal loro intreccio con la vita delle persone e con il modo in cui esse comunicano e cooperano. Ecco perché il libro è dedicato a chi lavora nei movimenti, senza scorciatoie leaderistiche o cappelli da marketing aziendale.

  19. […] Un Grillo Qualunque” di Giuliano Santoro sarebbe un best-seller da combattimento» Wu Ming (clicca qui per leggere la discussione con Wu Ming 2 […]

  20. Domattina “Un Grillo Qualunque” impazza su Radio Popolare. Alle 8.40 con Wu Ming 2 sulle frequenze di Bologna (dal nodo di Radio città del capo e Milano) e alle 10.30 a Roma.

  21. Non ho letto il libro, e perciò non dovrei scrivere. Eppure suppongo di avere una domanda, laterale e obliqua, che spero non venga considerata troppo OT.
    Mi chiedo spesso che rapporto ci sia tra gli invasati grillini e quelli della mela. Premetto che sono un utilizzatore mac, ma li considero macchine da lavoro (grafico, nel mio caso), non oggetti da feticismo digitale. Come le matite, sono oggetti che mi servono, non che io adori particolarmente. Condivido le osservazioni fatte su giap, e le denunce delle condizioni di produzione deggli ioggetti.
    Intravedo somiglianze di famiglia fra gli invasati grillini e i tizi davanti agli store, accampati come davanti a Medjugorje. Per l’appunto, ravviso un bisogno di credere religioso, senza farsi troppe domande, perché la fede, quella vera, non si domanda, ma crede. Le vedo come forme di feticismo digitale, l’una più casereccia, l’altra più caratteristica di una cultura tecnicizzata. Che rapporto sussiste fra i due popoli della rete? I mac evangelist (si chiamano così, ma ci sono anche i wacom evangelist, e via dicendo) e i frati trappisti grillini? Io trovo sia profondo, e legato al bisogno di credere immediato in qualcosa di migliore. Un residuo del cattolicesimo in salsa berlusconiana?

  22. Finalmente posso commentare, reduce di un po’ di impegni.

    Che dire, complimenti intanto per il libro @AmicoFaralla :)
    Non appena avrò l’occasione me lo procurerò perché voglio leggerlo.

    Pochi giorni fa parlando con Figuredisfondo dell’argomento mi è sorta questa riflessione che vorrei sottoporla anche a voi.

    Ho sempre cercato di fare la distinzione tra Grillo & Casaleggio e la persona che si iscrive al M5S perché lo ritiene una vera alternativa ed è in buona fede.

    Tant’è che ho conosciuto molta gente che sostiene il solito “Grillo esagera, io non condivido tutto quel che dice, lui è solo un portavoce”, e giustificano così la loro attività per conto del M5S in base a una logica di visibilità che non avrebbero altrimenti.

    Ma Grillo, come sottolineato benissimo da AmicoFaralla, è cambiato, non è più lo stesso degli Anni Zero che andava contro il “sistema”, anzi ora addirittura lo rafforza non solo con il meccanismo della delega, ma anche fomentando la logica della visibilità come mezzo per raggiungere la carica politica di cui parlavo prima.

    Quindi col tempo trovo che oramai essere “attivista” sotto un logo col nome di Grillo sia come candidarsi sotto un logo col nome di Berlusconi.

    Mi chiedo, che differenza c’è tra un candidato del M5S e un candidato del PDL? Entrambi sottostanno ad un logo col nome del loro leader e sono subalterni a lui.

    E io non provo particolare stima per chi pur sapendo chi fosse Berlusconi sceglieva di sottostare al suo logo per visibilità, figuriamoci per chi fa lo stesso ma col logo di Grillo…

  23. Audio dell’incontro “Cultura di destra, neofascismi e populismi digitali” http://sciaradacorridonia.blogspot.it/2012/11/cultura-di-destra-neofascismi-e.html con Wu Ming 2 e Giuliano Santoro. Dopo appena 7 mesi, siamo riusciti a ripescare l’audio di quell’incontro tenutosi il 24 aprile a Corridonia (mc) ;). Ascoltarlo oggi fa uno strano effetto ed è comunque davvero molto interessante. Quindi … scusate il ritardo!

  24. Ultimi aggiornamenti dalla Toscana:
    per chi non lo sapesse, Domenica 11 Novembre, a Pontedera, un gruppo di fasci forzanovisti ha fatto irruzione in un teatro in cui si teneva la consegna della cittadinanza a centinaia di bambini senegalesi, con tanto di cori e volantini razzisti.

    Oggi davanti alla sede di Merda Nuova di Pontedera è stato lanciato un presidio convocando tutte le forze antifasciste della regione e non solo.

    Ebbene, questo è il comunicato in cui il M5S Valdera spiega le sue ottime ragioni per cui non partecipa all’ evento, che si potrebbero riassumere in “perchè tanto è vero che per colpa degli immigrati alla sera non si gira e che i cinesi non comprano dai nostri negozi quindi non si integrano bene ma alla fine la colpa è dei partiti, ma noi non lo siamo”.

    Leggere per credere:
    http://www.valdera5stelle.it/2073/perche-il-m5s-non-aderisce-alla-manifestazione-di-domenica-1811.html

    • Questo comunicato del #M5S è un perfetto esempio di cerchiobottismo: non stiamo coi fascisti ma in fondo hanno ragione, gli extracomunitari sono un problema, comunque la sede di FN va chiusa. Oplà!

  25. Le prime presentazioni di “Un Grillo Qualunque” nel “Beat-the-Cricket tour” http://suduepiedi.net/2012/11/cricket-tour-2012/

  26. […] qui per leggere l’intervista che mi ha fatto Wu Ming 2 per Giap a proposito di “Un Grillo […]

  27. […] dicembre BOLOGNA h. 18, Libreria Ubik via Irnerio, 27 WM1, WM2 & Giuliano Santoro presentano: “Un Grillo Qualunque” Qui la diretta in […]

  28. […] 5 dicembre, su questa pagina verrà trasmesso lo streaming della presentazione bolognese del libro Un Grillo Qualunque di Giuliano Santoro, con Wu Ming 1, Wu Ming 2 e Marco Trotta (il “Branzino” di Bologna […]

  29. […] Molti voteranno il M5S. Meno del 20%, ma saranno tanti lo stesso: il terzo “partito” in Italia.
    Penso sia un grave errore, al di là degli attacchi ai sindacati, agli immigrati ed ai meridionali e delle affermazioni di Grillo sul suo obiettivo di sciogliere il movimento quando avrà preso il controllo del Parlamento (brrrr) […]

  30. […] di Casapound» (quindi è quello che mescola la minestrina). Recensendo sul «Secolo d’Italia» il libro di Giuliano Un Grillo qualunque – dove l’arsenale teorico di Jesi è utilizzato in modo intelligente e non scontato – costui […]

  31. […] All’inizio, al di là delle modalità organizzative e dello stile della comunicazione, il M5S era animato da temi prevalentemente “di sinistra” […]

  32. a proposito di comici a me sembra che l’esperienza del Partito migliore guidato da Jon Gnarr a Reykjavik vada approfondita.
    in Italia sono giunte poche notizie, spesso sensazionaliste o folkloristiche.
    ma, anche alla luce del risultato del M5S, uno sguardo sull’ islanda non mi sembra superfluo.
    anche per capire affinità e divergenze tra i due movimenti.
    in ogni caso, complimenti al collettivo e a giuliano per l’intervista.

  33. Complimenti per il libro,
    volevo chiedere per chi come me ha acquistato la prima edizione, se è possibile acquistare un “aggiornamento” anzichè l’intera seconda edizione.
    Grazie

  34. […] prelettorale di una serie di critiche fumose, quando non – con le parole di un lettore del blog Giap del gruppo Wu Ming – “goffe e sghangherate”. Ne citiamo una, a firma del […]