Due appuntamenti d’agosto: «Timira» e «Arzèstula»

Giap tornerà attivo negli ultimi giorni di agosto. Nel frattempo segnaliamo gli unici due appuntamenti live di questo mese.

Domenica 19 agosto, h. 20, Wu Ming 2 e Antar Mohamed presenteranno Timira alla XXI Festa di Radio Onda d’Urto, Brescia. Qui dettagli, materiali e link audio interessanti.

Venerdì 24 agosto, h.21, Wu Ming 1 e i Funambolique – anzi, i Funambolique feat. Wu Ming 1 – eseguiranno Arzèstula al Parco della Biblioteca civica “Don Gilberto Pressacco” di Codroipo (UD). In caso di maltempo il concerto si terrà al Teatro Comunale “Benois De Cecco”.

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116 commenti su “Due appuntamenti d’agosto: «Timira» e «Arzèstula»

  1. Errata corrige: sarà solo Antar Mohamed a presentare Timira questa sera a Brescia.
    Entrambi, invece, saremo a Belluno & Treviso, il 31 agosto e 1 settembre, in una doppia data di cui daremo presto notizie più precise.

  2. “Giap tornerà attivo negli ultimi giorni di agosto.”

    Aspettiamo con ansia pareri e discussioni sulle vicende anarco-punk-femministe e cyber-dissidenti di questo caldo mese… :D

    • GLI ANTIMPERIALISTI DEL “MENO PEGGIO”

      Cerco di placare la tua ansia, anche se qui siamo abbastanza OT.

      Il problema è duplice: l’assurdo primato che, anche nella sinistra antagonista, si attribuisce alla “geopolitica”, allo scontro tra blocchi, e il troppo facile scivolare nella teoria del complotto. Teoria che è sempre una narrazione reazionaria, perché si basa sull’assunto che tutto quanto accade sia stato programmato dai poteri costituiti.

      In questo schema, la logica del “meno peggio” e del “male minore” che si rifiuta con veemenza a casa propria, viene riproposta per altre parti del mondo: non possono esistere rivolte e proteste autodeterminate contro regimi orribili – peraltro, regimi capitalisti e talvolta ultracapitalisti, comunque sempre basati sul dominio di classe e dominati da una cricca di ricchissimi.
      No, non può esserci rivolta reale, deve per forza trattarsi di attività prezzolate dagli USA. E così, di fronte all’Amerika e al suo strapotere militare e di intelligence, si sceglie il “meno peggio”, che sia Gheddafi, Assad, Putin, Ahmadinejad o il PCC.

      Peccato che Russia, Cina o Iran siano il “meno peggio” per noi che non ci viviamo, non per chi sopporta quotidianamente (a seconda dei casi) il potere degli oligarchi o del PCC, il mix di liberismo e autoritarismo, il “capitalismo con valori asiatici”, lo strapotere del fanatismo religioso etc.

      E peccato che – per fare l’esempio degli esempi – USA e Cina non abbiano affatto interessi economici contrapposti, stanti gli investimenti incrociati dei rispettivi capitalismi nelle rispettive nazioni e zone d’influenza. Per gli operai cinesi che lottano contro lo sfruttamento – e lottano al tempo stesso contro una multinazionale occidentale e il potere locale del partito-polizia – questo discorso del “meno peggio” non esiste.

      Dopodiché, sicuramente ci saranno agenzie transnazionali che istigano determinati sviluppi delle lotte, intrallazzano, finanziano la tal corrente a scapito di quell’altra, strumentalizzano… Ma se noi neghiamo che nelle rivolte arabe o nel movimento che appoggia le Pussy Riot si esprimano spinte più che giustificate, soggettività genuinamente rivoltose e per nulla descrivibili come “filo-occidentali”, praticamente stiamo consegnando quei movimenti agli stronzi.

      I compagni che assegnano un primato analitico, logico e retorico alla geopolitica e al complotto sanno bene che ogni società è divisa in classi, plasmata dal conflitto e dalle contraddizioni, e che non è un “Uno”. Lo sanno benissimo quando si parla dell’Italia o di qualche altro paese europeo o nordamericano… Ma quando passano al livello internazionale, globale, dell’antimperialismo, di questo tendono a dimenticarsene, e ragionano – a volte senza rendersene conto – per blocchi, per società omogenee, per scontri “molari” troppo facili da descrivere.

      Sulla “fissa geopolitica” e le distorsioni che genera, tempo fa, abbiamo scritto questo commento:
      http://www.wumingfoundation.com/giap/?p=6524&cpage=1#comment-10221

      Cose non dissimili, pur nella diversità dei toni (ma è normale, in mezzo ci sono state le polemiche estive su Pussy Riot e Siria), le ha scritte Finesecolo sul blog di Baruda:
      http://baruda.net/2012/08/12/dalle-pussy-riot-alla-siria-passando-per-un-coglione/#comment-7319

      Rimando anche a una sotto-discussione che ebbe luogo qui su Giap quando la rivolta egiziana era appena cominciata:
      http://www.wumingfoundation.com/giap/?p=2840&cpage=1#comment-4302

      Ad ogni modo, per dirla in termini maoisti (eh! eh!), queste non sono contraddizioni “tra il popolo e i suoi nemici”, ma “contraddizioni in seno al popolo”. Vanno superate con la discussione, senza mazzate, senza chi-vi-paga, senza dare per persi spezzoni di movimento che in questo modo verrebbero regalati non si sa bene a chi.

      • Perdonatemi, io però questi e altri li do persi e di sicuro non ci provo nemmeno a spiegargli dove e perché si sbagliano, c’è un limite a tutto :D

        http://www.statopotenza.eu/4319/a-difesa-della-russia

        • Si parlava di spezzoni di movimento. In questa definizione, ovviamente, non includiamo gentaglia criptonazi, rossobruna e quant’altro, ributtanti difensori di questa o quella stirpe o nazione “una, ortodossa e indivisibile”.

          • eh, pero’ quelli di rash-roma hanno ripreso l’ articolo dei rossobruni di “statoepotenza”. per come la vedo io, questo e’ il sintomo di qualcosa che non va, non va proprio per un cazzo.

            tempo fa in un’ altra discussione avevo linkato questo articolo

            http://www.ecn.org/reds/mondo/europa/balcani/jugoslavia/balcani0102destraserba.html

            in cui si parla di come un noto fascista serbo fosse riuscito a spacciarsi, in italia, per esperto di geopolitica, e a farsi pubblicare su “liberazione”. lo linko di nuovo, perche’ e’ una storia molto istruttiva. la cosa interessante non e’ solo, non e’ tanto la “strategia dei camaleonti”, di cui parlava anche valerio evangelisti, ma il meccanismo che scatta in certa sinistra antiimperialista, e che la porta a cadere in modo moooolto naturale nella trappola.

  3. Ultime notizie: l’orario di Villorba (Tv), Libreria Lovat è alle 18.
    A Sospirolo (BL) saremo al riparo di una solida tensostruttura…

  4. Ecco, proviamo a superarla con la discussione, anche se la vedo dura, perchè ormai è subentrata la logica del partito preso, per cui da una parte le Pussy Riot – et similia – sono i nuovi alfieri dell’anticapitalismo rivoluzionario, da appoggiare acriticamente senza se e senza ma; dall’altra, la logica del complotto geopolitico è intervenuta mischiando mele e pere, per cui ogni sussulto di vento è finanziato dalla cia.

    Ovviamente, non ci iscriviamo a nessuno dei due partiti, ma questo commento di Wu Ming 1 somma indiscriminatamente tutte le critiche al fenomeno Pussy Riot, come se venissero tutte da una stessa fonte e marciassero tutte nella stessa direzione, mentre le differenze sono evidenti (e parlo solo nel “nostro” campo, fra compagni, perchè fra i rossobruni stile “stato e potenza” neanche vale la pena ragionare).

    Qui mi pare che si continui a confondere l’antimperialismo e la geopolitica, e secondo noi deriva dal fatto che nessuno, o quasi, fa più analisi antimperialista, per cui ogni analisi internazionale deve per forza essere geopolitica.

    A questo proposito, non si capisce dove e quando dovremmo difendere Putin. C’è chi lo fa (i geopolitici), e c’è chi lo inserisce nello stesso solco capitalista dei suoi nemici internazionali (cioè noi, ad esempio).

    Solo che, mentre qua da noi siamo tutti pronti a sviscerare le rivolte “sincere” e oggettivamente “socialistiche” da quelle “funzionali” al sistema, se accade in qualche altro Stato non lo facciamo più, e diamo per buona qualsiasi scureggia avvenga amplificata dai media (e solo per questo, perchè se non intervenisse il mainstream nessuno ne verrebbe a conoscenza).

    Qua siamo capaci di distinguere movimento no-tav e rivolta dei forconi, rivolte anti-casta e movimenti sociali, grillismi vari e manifestazioni dei lavoratori, riuscendo a capire ogni volta (più o meno), le rivolte “giuste” perchè sincere e progressiste (esempio: no-tav, le lotte sindacali dei lavoratori, i movimenti per l’acqua pubblica, ecc..) da quelle funzionali al sistema (grillismo-dipietrismi vari, i forconi, gli scioperi dei padroncini o dei tassisti, ecc…).

    Bene: dov’è che qualcuno, a sinistra, avrebbe affermato che una rivolta sociale contro Putin non sarebbe giusta, sacrosanta, “socialistica”, progressista, da appoggiare? Confermiamo e ribadiamo, lottare contro il potere capitalistico costituito in ogni paese “non-allineato” è necessario.

    Quello che però qui sfugge, è che il fenomeno mediatico Pussy Riot difficilmente rientra in queste categorie (così come non ci rientravano le rivolte contro Gheddafi, anche se i piani sono decisamente diversi). Non è una protesta sociale, non è un movimento politico “de sinistra”, ma un gruppo anarco-situazionista dedito a performance artistiche in chiave anti-Putin, che deriva da gruppi artistico-situazionisti (Voina) creati da ex dissidenti sovietici, e presenti nelle manifestazioni che le opposizioni liberali (quelle legate agli oligarchi repressi da Putin) fanno saltuariamente contro il governo (quelle a cui viene puntualmente arrestato e rilasciato Kasparov, per intenderci, e forse qualche intervista a Kasparov dovremmo leggercela tutti, per avere idea di cosa si muove in Russia e quali sono le fazioni “ideali” che si oppongono a Putin).

    E’ giusto manfiestare contro Putin? Certo. E’ giusto farlo da quelle posizioni? Non crediamo. A meno che la doppia etica politica non ci porti anche a manifestare coi tassisti perchè contro Monti, oppure coi forconi perchè contro il caro benzina, o coi grillini perchè anti-casta.

    Perchè questi sussulti estivi non sono avvenuti quando altri fatti di repressione, ben più gravi, ci hanno riguardato come compagni (*ci* in senso generale, non noi come collettivo)? Forse perchè la mediaticità del fenomeno Pussy Riot ha orientato l’opinione politica degli stessi, per cui è scomparsa ogni forma possibile di critica al fenomeno mediatico in corso? Se un fenomeno mediatico cresce in questa maniera, chiedersi quali ragioni lo sottende significa automaticamente schierarsi sul fronte della repressione contro il dissenso, o vedersi affibiata la nuova scomunica definitiva, quello di *geopoliticismo*?

    • Caro Collettivo Militant,
      parlo per me, ma forse molte compagne saranno d’accordo. State facendo di tutta l’erba un fascio: il vostro post, ha scatenato l’incazzatura di molte di noi NON per la critica alle Pussy Riot (di cui personalmente mi interessa poco), quanto per il tono di sarcasmo sessista con cui avete affrontato l’argomento.

      Provo a spiegarmi:
      1) quell’odioso “Fighe riottose”. Nessuna autocritica su questa cosa, anzi. Solo che riottoso significa “litigioso, recalcitrante”. Ci vien facile pensare che a voi le fighe piacciono solo accomodanti, e noi non lo siamo.

      2) la critica superficiale e moralistica ad alcune pratiche (come la performance al supermercato), una critica concentrata sul metodo, non sul merito. Questo non ci è piaciuto: ci sono molte compagne che fanno porno attivismo, abbiamo difficoltà a capire il perché di tanto sarcasmo, se non pensando che siete moralisti.

      3) la precisazione (che è stata peggio del post) in cui tirate fuori l’argomento dell’antisessismo per affermare che non siete femministi. Nessuno vi chiede di essere femministi, ma (a parte l’argomento miope che dimostra quanto poco capiate di femminismi) di rispettare le compagne che lo sono.

      4) il fatto di subordinare la liberazione delle donne alla “Rivoluzione” suona francamente ridicolo a tutte le compagne con qualche esperienza di movimento e di relazione con il mondo. E, in quel contesto, ci convince ancora di più che tra compagne e compagni la questione di genere deve ancora essere sviscerata e compresa. (ovviamente ci ha dato anche fastidio che molti abbiano fatto una scala di priorità secondo cui la lotta delle donne non deve disturbare la lotta di classe, ma su questo capisco che le opinioni siano diverse).

      Come vedi materiale di discussione ce n’è molto, senza considerare minimamente la questione PR e assumendo che sull’anti-capitalismo siamo tutte d’accordo con voi.

      Invece siete stati sordi, ciechi e violenti. Vi siete rifiutati di provare a comprendere le obiezioni delle compagne e vi siete fossilizzati sulla vostra tesi, lo state facendo anche qui. (Se poi hanno iniziato a sfottere, che dovevano fare? continuare a parlare coi muri?).

      L’invito è di provare a riguardare i vostri post e i commenti con sguardo oggettivo e vedere se, come credo, ci sono spazi per fare autocritica.

      • Dimenticavo anche il tono di sufficienza con cui avete liquidato la sentenza “mite” a due anni. Io la repressione la condanno sempre, non solo quando le vittime sono gli amichetti miei.

      • Cerchiamo però di non replicare qui su Giap, per filo e per segno, le discussioni avvenute altrove. Già siamo clamorosamente OT rispetto al post, e pazienza, ma almeno sforziamoci di produrre senso e di dar vita a un confronto diverso. L’estate sta finendo, le temperature sono in calo, cerchiamo di convincere, anche perché una discussione così frontale non la può “vincere” nessuno.

        • qui sta piovendo :-)
          sto cercando di spiegare, con calma, che a scatenare le femministe (per usare un linguaggio che vi piace) non sono state le critiche alle PR per se.

          E che per affrontare le questioni in seno al popolo c’è da discutere, approfondire.

    • Ma è proprio in nome della necessità di discernere, di distinguere le lotte, di valutarle caso per caso (per quanto possibile, visto che ci sono distanze geografiche, barriere linguistiche, tradizioni di militanza diverse) che io invito a fare attenzione.

      Giustamente dite che bisogna distinguere l’antimperialismo dalla complottologia geopolitica, ma essere tranchant sui conflitti che avvengono secondo modalità diverse da quelle che ci piacerebbero non aiuta a mantenere salda questa distinzione.

      Io non sono certo un esperto di Pussy Riot, Voina etc., ma vengo da un percorso che ha fatto sistematicamente ricorso all’happening, alla performance, alla beffa mediatica, e non capisco perché di per sé queste pratiche dovrebbero caratterizzare negativamente un movimento… anche perché l’uso politico dello scandalo e di tattiche agit-prop è pienamente nel phylum della sinistra rivoluzionaria. Poi si può essere critici sul come, sul quando, sull’efficacia, ma è un altro paio di maniche.

      Le descrizioni di Pussy Riot e Voina e le prese di posizione che ho letto in rete cozzano abbastanza con quella che fornite voi nel commento. Ad esempio, sul NYT Vadim Nitikin ha scritto che quel milieu è anticapitalista, anti-liberaldemocratico, nemico tanto di Putin quanto dell’occidente, e ce l’hanno anche con ex-oligarchi passati all’opposizione e “attivisti dei diritti umani” simpatici ai media europei e americani:

      “Anyone who has bothered to see them beyond their relevance as anti-Kremlin proxies will know that these young people are as contemptuous of capitalism as they are of Putinism. They are targeting not just Russian authoritarianism, but, in Tolokonnikova’s words, the entire “corporate state system.” And that applies to the West as much as to Russia itself. It includes many of the fawning foreign media conglomerates covering the trial, like Murdoch’s News Corp., and even such darlings of the anti-Putin “liberal opposition” establishment as the businessman and anti-corruption campaigner Aleksei Navalny.
      Pussy Riot’s fans in the West need to understand that their heroes’ dissent will not stop at Putin; neither will it stop if and when Russia becomes a “normal” liberal democracy. Because what Pussy Riot wants is something that is equally terrifying, provocative and threatening to the established order in both Russia and the West (and has been from time immemorial): freedom from patriarchy, capitalism, religion, conventional morality, inequality and the entire corporate state system.

      Dopodiché, non capisco perché mai si debba ragionare per aut aut ed esclusioni: per esempio, si può dare solidarietà alle Pussy Riot e al tempo stesso ai cinque cubani da anni prigionieri “en la Yuma” (Gerardo Hernández, René González, Ramón Labañino, Antonio Guerrero e Fernando Gonzáles). Le due cose non si elidono a vicenda.
      E non è nemmeno giusto prendersela con chi ha dato solidarietà alle Pussy Riot rinfacciando che anche i nostri compagni subiscono la repressione. Come se Baruda o le compagne di Femminismo a Sud non avessero denunciato in ogni modo la repressione nostrana!

      Sia chiaro: con le Pussy Riot si può essere in disaccordo.

      Sia altrettanto chiaro: è giusto denunciare l’evidente componente ipocrita e strumentale del sostegno occidentale alle Pussy Riot (lo fa anche Nikitin nel pezzo linkato sopra). Loro stesse hanno preso le distanze da certe manifestazioni “pelose” e declinato inviti che avrebbero snaturato il loro approccio (all’invito di Madonna e Bjork che le volevano sul palco con loro hanno risposto “noi ci esibiremo solo in modo illegale. Rifiutiamo di farlo nel sistema capitalistico, in concerti dove si vendono i biglietti”).
      Solo, vorrei vedere più sforzo di andare oltre tali strumentalizzazioni e ipocrisie, più curiosità per chi ne è oggetto, più disponibilità a discernere tra l’immagine delle Pussy Riot e il dissenso reale che in qualche modo esprimono.

      • Freedom from this, freedom from that, freedom from everything.
        A me piace costruire più che liberarmi dalle cose, e per questo delle PR me ne frega il giusto.

        • Di cosa non ti sei liberato è piuttosto facile constatarlo. Facci vedere cos’hai costruito.

          • Tanto facile, che magari se lo constati e dici le cose, invece di suggerirle, possiamo addirittura capirci. Magari lo capisco anche io, può essere che faccia un passo avanti.

          • Vuoi che ti liberi dal dubbio e dall’incertezza, insomma. Freedom from dubbio, freedom from incertezza, freedom from non capire. Io invece sono uno a cui piace costruire, perciò di questa tua esigenza di liberarti dalle cose me ne frega il giusto.

          • A parte tutta questa finezza dialettica al limite della masturbazione, a me sembra che il mio commento non fosse per nulla vago e anzi, quasi troppo netto.
            Il fondamento ideologico di certi tipi di proteste, a me sembra essere un individualismo liberale che ha il suo punto di forza nello sviluppo -isolato- della persona. Citavo i vari “freedom from” come prova che l’idea di libertà congeniale a questa antropologia vede nelle strutture sociali essenzialmente un ostacolo al libero sviluppo. A questo contrapponevo un’altra concezione, costruttiva e collettiva, che mi sembra essere incompatibile con la prima; se non incompatibile, perlomeno potenzialmente in contrasto, anche perchè non può prescindere, teoricamente, dall’idea di strutture sociali.
            Non è che tu debba essere d’accordo, ma essendo luogo di dibattito, non mi sembra di aver esagerato nel dire la mia.
            Dai che dal dubbio, alla fine, ti ci ho tolto io.

          • Va be, mi sa che il messaggio di fondo era: “non sputare sentenze, articola”. E’ stato recepito, e l’articolazione ora c’è.

          • Lo vedi che la maieutica funziona? *Adesso* hai espresso un’argomentazione. Quella di prima era una boutade.
            Da quando in qua affermare l’esigenza di liberarsi da qualcosa, dal dominio di qualcuno, equivale al ritenere ostacoli tutte le strutture sociali? Citami, se riesci, una lotta, un divenire rivoluzionario, che sia stata solo ed esclusivamente pars construens e non anche pars destruens. Nella realtà, la dicotomia tra “destituire” e “costituire” non esiste proprio: per il solo fatto di costituire si avvia la destituzione di qualcosa/qualcuno. Anche i filoni più “destituenti” della tradizione rivoluzionaria erano e sono per la costituzione di una nuova società (a meno di non pensare che l’anarchismo voglia solo la distruzione). Al contempo, i filoni rivoluzionari più “costituenti” hanno predicato e praticato la “liberazione da” strutture oppressive. Se non ci sbarazziamo di quelle, non cambieremo nulla.

          • Ora che stiamo parlando, vorrei aggiungere un paio di cose.
            La prima è che non sto parlando in astratto, ma in concreto. Non sostengo che, in termini assoluti, la liberazione implichi il nulla costruttivo: sostengo che, nello specifico caso delle PR, questa liberazione mi sembra fine a sè stessa. Fine a sè stessa però forse non è il termine adatto, perchè non voglio dire che ci sia una totale assenza di parte costruttiva. Penso che la parte costruttiva ci sia, ma che sia, di fatto, individualista, ed il marchio tipico dell’individualismo è l’enfasi sulla negazione, sull’abbattimento delle strutture sociali. Forse ora è più chiaro.

            Resta il punto di fondo, che è un giudizio su un fenomeno concreto e non una deduzione logica: in parole spiccie, a me, queste, sembrano animate da riflessi ideologici liberali. Il che non è un male, ma non mi stimola simpatia, tutto qui.

            PS: Raccolgo, per gioco, la sfida sui movimenti o pensatori rivoluzionari puramente negativi. Mi verrebbe da dire Georges Sorel, ma so che non è del tutto vero. Mi restano i nichilisti del grande Lebowski.

          • PPS: non penso comunque che per il solo atto di destituire, si istituisca qualcosa di nuovo. Le rivoluzioni consacrano l’esistente, sanciscono la vittoria giuridica di un ordine sociale che c’è già. Ma il lavoro, per costruire quell’ordine, è enorme, ed avviene prima dell’atto distruttivo.

          • Ehm… Hai invertito l’ordine dei fattori, e quindi stai rispondendo a un’argomentazione (e sollecitazione) diversa dalla mia :-)
            Io ho scritto che per il solo fatto di costituire, si destituisce qualcosa o qualcuno, e ti ho invitato a fare un esempio di una lotta reale che fosse solo pars construens. A me non ne viene in mente nessuna.
            Sul fatto che Voina e Pussy Riot abbiano un’impostazione “liberale”, boh, una conclusione del genere mi sembra azzardata, puramente indiziaria. Bisognerebbe saperne di più, documentarsi, conoscere il contesto.

          • Tutto ciò che vedo di buono in una qualsiasi lotta reale è pars costruens. La pars destruens magari serve, ma è un male necessario. Senza argomentazione, ma contando sullla tua generosità interpretativa. Buona serata!

          • Purtroppo devo uscire, ma la butto li: il PCI dal dopoguerra al crollo. Costruzione, tanta, negazione poca.

          • Mannò, figurarsi, dài… A prescindere dal giudizio che possiamo avere su quell’esperienza, la “costruzione” del PCI non avveniva mica in uno spazio politico vuoto: perché si realizzasse, era necessaria la destituzione o comunque l’indebolimento di altri poteri (padronato, prefetture, DC etc.). Il PCI si diceva contro qualcosa e qualcuno, combatteva contro qualcosa e qualcuno, voleva costruire egemonia contro qualcosa e qualcuno, aveva avversari e li additava chiaramente al pubblico ludibrio (Togliatti in questo era addirittura perfido, e Pajetta, e Amendola…). La retorica dei suoi dirigenti e del suo giornale evocava comunque la lotta di classe e la rivoluzione (nel segno della nota “doppiezza”, certo, ma comunque era un frasario rivoluzionario) e fino agli ultimi momenti il suo statuto parlò esplicitamente di anticapitalismo, società senza classi etc., anche quando la politica del partito era de facto socialdemocratica.

            Inoltre, il PCI del Dopoguerra doveva il suo profilo e la sua dimensione di massa al ruolo che aveva avuto nella guerra di liberazione, che aveva diretto e combattuto armi alla mano, e quella fu anche “liberazione da” e pars destruens, processo destituente. Andavano destituiti i nazifascisti. In Francia il PCF era detto “il partito dei fucilati”, qui da noi l’espressione non si usava ma la sostanza era quella: il partito era stato plasmato da clandestinità e lotta armata.

            E, a modo suo, il PCI fu “destituente” anche nei confronti del Cominform, con certe scelte che fece a partire dagli anni Sessanta.

            Nella cultura del PCI ci fu sempre una pars destruens grande come una casa, una vena livorosa quasi sempre maldiretta, che prima del ’68 era poco visibile e si esprimeva nell’espulsione di dissenzienti (il caso più famoso è quello del “Manifesto”), mentre dopo il ’68 si sfogò con virulenza nei confronti di qualunque cosa si muovesse alla sinistra del Partito o comunque nella società fuori dal controllo dell’apparato. Quella vena livorosa il PD l’ha ereditata in toto.

            L’esempio, comunque, non lo trovo calzante: un partito non è una lotta ma un organismo, e nel caso del PCI una vera istituzione. Per forza i processi e momenti costituenti (se non altro, di costutizione e… manutenzione di se stesso, del proprio apparato) sono più visibili, ma nemmeno in quel caso sono separabili da quelli destituenti. Non c’è niente da fare, se si vuole cambiare il mondo (o si afferma di volerlo fare), bisogna anche disarticolarne gli assetti (o almeno, fingere di volerlo fare). Non a caso, il comunismo è il movimento reale che abolisce lo stato di cose presenti.

          • Rileggevo la discussione, e mi pare che abbia preso una brutta piega. Non ho mai sostenuto che la costruzione debba avvenire in uno spazio politico vuoto: è certo che avviene sempre contro un qualcosa, anche perchè un qualcosa, un ordine delle cose esistente, c’è sempre. Ma questa è proprio una banalità, sulla quale, certamente, sono molto d’accordo.

            Il mio ragionamento era un altro: quale razionalizzazione, fondo ideologico si può ricavare dalle azioni delle PR? A parte le insalate miste di “capitalism, religion and conventional morality”, intendo. Ecco, l’unica che posso rintracciare è un ideale di autodeterminazione individuale. Ideale di cui in Europa abbiamo fatto abbondanti scorte, e consumato, almeno per quanto mi riguarda, fino ad una leggera nausea.

            Percui non è questione di ‘pars destruens’ contro ‘pars construens’ ma di capire cosa bolle nel fondo di queste cantanti: io ci vedo un ideale di autonomia individuale, declinato in maniera punk ed anarchica.

            E’ un ideale che non mi piace parecchio, ma questi sono affari miei. Quello che vorrei chiedere, e sul quale mi piacerebbe sentire le opinioni delle compagne, è in che modo si coniughi con il femminismo. A mio modo di vedere le cose, l’unica soluzione teorica è un mondo di individui nei quali i ruoli di genere sono o inesistenti o ridotti al loro minimo biologico, un mondo nel quale ogni individuo è libero di autodeterminarsi a prescindere dal sesso con il quale nasce. Idee alternative?

    • Un paio di osservazioni…

      Qua siamo capaci di distinguere movimento no-tav e rivolta dei forconi, rivolte anti-casta e movimenti sociali, grillismi vari e manifestazioni dei lavoratori, riuscendo a capire ogni volta (più o meno), le rivolte “giuste” perchè sincere e progressiste (esempio: no-tav, le lotte sindacali dei lavoratori, i movimenti per l’acqua pubblica, ecc..) da quelle funzionali al sistema (grillismo-dipietrismi vari, i forconi, gli scioperi dei padroncini o dei tassisti, ecc…). […] Quello che però qui sfugge, è che il fenomeno mediatico Pussy Riot difficilmente rientra in queste categorie [cioè tra le rivolte “giuste”]

      Insomma, la conclusione sarebbe che le PR fanno lotte (che prima però definite “scureggie”, mostrando un evidente preconcetto) funzionali al sistema, allo stesso modi di grillismi-dipietrismi-forconismi-taxismi-ecc.
      Non mi pare però che ci sia qualcuno tra questi ultimi “funzionali al sistema” che il sistema stesso abbia ringraziato con due anni di galera per i servigi resi…
      E’ un po’ strano essere funzionali al sistema e, allo stesso tempo, essere processati *dal sistema* (e da quelli che dovrebbero essere i tuoi “compagni” che lottano contro di te anziché contro il sistema) e finire a fare due anni nelle galere *del sistema*… o no?

      Perchè questi sussulti estivi non sono avvenuti quando altri fatti di repressione, ben più gravi, ci hanno riguardato come compagni (*ci* in senso generale, non noi come collettivo)?

      Forse questi sussulti estivi non sono avvenuti anche (e certamente non principalmente e non solo) perché a quei fatti di repressione ben più gravi è mancato ogni rilievo mediatico… cosa che magari ci sarebbe anche stata se qualche compagn* anarco-situazionista “dedito a performance artistiche” (mi sfugge la scadente ironia usata in chiave negativa nel post) fosse andat* – che so – a pulirsi il culo davanti a un certo tribunale con un fazzoletto con su scritto “la legge è uguale per tutti”…

  5. @ Collettivo Militant

    Sarò sincero: la cosa più grave su cui vale pena discutere e/o scazzarsi non è mica lo specifico del caso Pussy Riot. Io non so se le ragazze in questione vanno ascritte alle tendenze reazionarie che agiscono in Russia o a quelle progressiste, perché non ho avuto modo di documentarmi a dovere.

    Il punto è che dal caso specifico saltano fuori tic ideologici (i quali magari riverberano anche in tic linguistici, come sempre capita) che qualcuno ingenuamente pensava fossero superati o per lo meno fossero stati messi in crisi in certi ambiti di discorso. Ad esempio l’idea balzana, vetero-novecentesca, che la battaglia femminista sia una battaglia “da secondo tempo”, subordinata e “subordinanda” a quella primaria, la battaglia anticapitalista. Come se il patriarcato e la discriminazione di genere non preesistessero al capitalismo e non potessero quindi anche sopravvivergli. Come se anche nei paesi socialisti la questione di genere non avesse fatto una fatica improba ad affermarsi concretamente (quante leader donne di partiti comunisti o presidentesse di repubbliche socialiste ci sono state o ci sono?).

    La storia dimostra proprio il contrario: che la battaglia per il socialismo non coincide, ahimé, automaticamente con la battaglia femminista, ed è capitato e capita di vedere liquidate troppo facilmente e sbrigativamente esperienze di lotta di genere in nome della loro scarsa anticapitalisticità, del loro sviare dall’obiettivo primario, del loro invertire le priorità. Oppure le si attacca per le pratiche non rivoluzionariamente ortodosse che metterebbero in atto, laddove l’ortodossia è stabilita però su parametri maschili (infilarsi un pollo nella vagina sarebbe poco serio, mentre dare sfoggio di maschia potenza contro un poliziotto o una vetrina andrebbe benissimo). Questa è una delle modalità attraverso le quali il potere maschile ha mantenuto la propria presa anche all’interno dei movimenti che aspiravano a cambiare il mondo, evitando appunto di affrontare le proprie contraddizioni e rimandandole al “dopo”.

    Contraddizioni che – concordo con il mio socio – sono maosticamente interne al popolo e come tali vanno affrontate, non aggirate né trasformate in guerre civili. Si tratta cioè di tornare a porre le questioni.

    Ripeto: questa mia constatazione vale a prescindere dal caso Pussy Riot, e si concentra su quanto il caso ha invece portato alla luce “di rimessa”. A mio parere un gap di pensiero, un’arretratezza che dà da pensare a quanta strada ci sia ancora da fare e a quanto sia importante porre al centro la questione di genere per il futuro di ogni lotta che voglia quanto meno aspirare a un parziale successo.

  6. Il più importante insegnamento del femminismo è che le donne devono smetterla di occuparsi delle cazzate, e puntare in alto, puntare a cambiare tutto. Per liberarci di simili cerini di maschilismo, compagne, basterebbe un soffio, due secondi del nostro tempo. Deve bastare un soffio. Così avremo più tempo, energie, spazio per occuparci di tutto il resto. E di quei cerini non rimarrà neanche un filo di fumo, a filtrare da sotto alla terra che avremo ribaltato da cima a fondo.

  7. Premetto: non intendo buttarla in polemica. Non mi va neanche di essere presa in giro. Se partecipo o leggo una discussione mi aspetto un minimo comune di onestà intellettuale e di rispetto.
    Stavo per l’appunto compiacendomi dei toni molto più pacati, distensivi, usati dal collettivo militant nel suo commento, lo stavo prendendo come il segno di un possibile confronto.
    Dopo qualche ora su twitter appare un link a questo http://www.militant-blog.org/?p=7576&cpage=1#comment-19504
    Data per assunta la totale libertà di ognun*, singolo o collettivo, di esprimersi liberamente (soprattutto sul proprio blog), io però mi prendo la libertà di non farmi prendere in giro. Scusate se il commento è fuori luogo, ma credo che per una discussione utile, gli elementi debbano essere tutti presenti, o non si capisce più quali sono i nodi da sciogliere.

    • Cerchiamo di evitare i “rimbalzi” tra i vari blog. Noi ci atteniamo a quel che si dice qui sopra.

  8. @ Detta Lalla
    Su Giap le regole di comportamento sono note. Paese che vai usanze che trovi. Abbiamo detto che qui, se si vuole affrontare il nocciolo della questione lo si fa (e ho specificato qual è il “nocciolo”, secondo me, nel mio commento precedente) tralasciando le schermaglie di superficie e non importando su Giap i toni da sfida all’ok corral.
    Dopodiché sul proprio blog ognuno faccia quello che vuole: provocare, cedere alle provocazioni, infamarsi telematicamente, socialnetworkamente, dirsene di cotte e di crude. E’ uno sport che personalmente non mi ha mai appassionato. Anche perché poi capita di avere giornate piene, impegni, bollette da pagare, etc…
    Scusa se sono spiccio, ma non ho voglia di trovarmi in mezzo alla “nube”.

  9. tranquillo, ottima anche la ‘spicceria’, lo so bene. aspetto la continuazione sul nocciolo (qui ovviamente).

  10. “In ogni opera di pensiero – e forse in ogni opera umana – vi è qualcosa come un non-detto. Ma vi sono autori che cercano di avvicinarsi come possono a questo non-detto e di evocarlo almeno allusivamente, e altri che lo lasciano, invece, consapevolmente taciuto”

    Ora, partendo dallo spunto di Agamben, a noi sembra che attorno a tutta questa polemica ci sia un non-detto palese, e cioè un problema politico che, a seconda di dove butta la discussione, vira dall’altra parte, perchè il detto è solo il pretesto per discutere di differenze politiche.

    Nello specifico, dopo settimane in cui sembrava che il fenomeno Pussy Riot fosse centrale nella politica italiana, ora scopriamo da questa discussione che in realtà non frega nulla a nessuno. Era solo un pretesto, insomma.

    Dunque, il problema sarebbe nel metodo, e non nel merito (però, diamine, quando la mettevamo sul metodo ci si rispondeva nel merito..e vabbè).
    Nel merito, non capiamo se il “problema” è la visione antimperialista, giusta o sbagliata che sia, perchè quando parliamo di questo ci si contesta il presunto sessismo; quando invece rispondiamo sul sessismo, la si ributta sull’antimperialismo. Ogni tanto il problema è l’utilizzo di alcuni termini; altre volte, di alcuni concetti. E via continuando, questo non-detto non riesce ad emergere (e cioè le differenze politiche fra strutture e collettivi, fra aree politiche e movimenti differenti, che si accuserebbero *a prescindere* dalla polemica in corso, e utilizzano questa polemica strumentalmente, come scomunica).

    Ovviamente questo non-detto non esiste fra noi e Wu Ming, quindi è per questo che rispondiamo qui e non altrove, perchè altrove sarebbe tempo sprecato. Le accuse ci sarebbero anche se avessimo tappezzato Roma di manifesti a difesa delle Pussy Riot.

    Sulla questione femminista.

    “Ad esempio l’idea balzana, vetero-novecentesca, che la battaglia femminista sia una battaglia “da secondo tempo”, subordinata e “subordinanda” a quella primaria, la battaglia anticapitalista. Come se il patriarcato e la discriminazione di genere non preesistessero al capitalismo e non potessero quindi anche sopravvivergli”.

    Esattamente. Non potevi trovare parole migliori. Non siamo un collettivo che fa del femminismo una delle sue battaglie principali, per un semplice motivo: sebbene i rapporti umani non paritari e sessisti inizino prima del capitalismo, sono presenti tutt’oggi e permangono anche fra compagni (e chi l’ha mai negato?), è solo con la costruzione di un nuovo modello di società, che potranno essere cambiati.

    A meno di non voler considerare l’*uomo* in senso astratto e astorico, il suo comportamento è determinato dalla società in cui vive. Pensare di risolvere la questione di genere rimanendo nello stesso modello sociale è una visione quantomeno idealistica.
    La società socialista porta automaticamente alla parità sessuale? No, ma ci tende, o quantomeno ne è lo strumento (e questo è un altro non-detto: quanti degli accusanti pensano che la soluzione sia il socialismo, e quanti invece utilizzano l’accusa di femminismo come sineddoche per dire che non è il socialismo il fine della lotta politica?).

    Fra compagni esiste un sottaciuto sessismo? Chiaramente, ma allora questa è una battaglia culturale da fare al nostro interno, semmai. Ma, come sappiamo, le battaglie culturali da sole non portano a niente, visto che la cultura dominante è il prodotto dei rapporti fra classi. Le battaglie culturali affiancano le battaglie sociali, ed è per questo che una dinamica femminista è perfettamente condivisibile accanto alla lotta di classe ma non slegata da essa.

    “…infilarsi un pollo nella vagina sarebbe poco serio, mentre dare sfoggio di maschia potenza contro un poliziotto o una vetrina andrebbe benissimo”

    Non capiamo: ma noi abbiamo in mente di ribaltare la morale dominante, oppure proporre un’assenza totale di ogni forma di etica? No perché, se alla fermata dell’autobus uno se lo tira fuori e se lo smanetta, non è che noi, siccome ci opponiamo alla morale religiosa inculcata nei secoli, consideriamo tale pratica legittima, o di rottura col potere costituito. Più chiaramente: se all’interno di un supermercato viene messa in pratica un’azione del genere, il “mezzo” (cioè la messa in scena), scavalca l’eventuale contenuto e diventa solo volontà di apparire. E infatti, quanti parlano dello strumento mediatico utilizzato, e quanti invece hanno idea del contenuto che quell’iniziativa proponeva? Dubitiamo che qualcuno abbia capito il nesso fra mezzo e messaggio, se non dopo una spiegazione (raffazzonata) delle stesse. E’ comunicazione fine a se stessa, apparire, bucare lo schermo. Adottando, tra l’altro, i modelli dominanti che si cercano di superare.

    Se invece, con un’azione politica me la prendo con un obiettivo politico, lo scopo è chiaro, e se lo scopo è chiaro determino i miei mezzi come mi pare.

    Infine, sinceramente, questa divisione tra le pratiche “femminili” (infilarsi un pollo nella vagina) e “maschili” (prendersela con un poliziotto o con una vetrina) ci sembra, questa sì, molto sessista. Quelle che definisci come pratiche maschili non sono altro che pratiche “unisex” – come dimostra, tra l’altro, l’infame condanna anche di alcune compagne per devastazione e saccheggio. Altrimenti rischiamo di trasformare le donne da “angeli del ciclostile” a “angeli del supermercato”: un ruolo che francamente rifiutiamo in toto. E questo non perchè le donne debbano adattarsi, secondo noi, ai modelli maschili, quanto perchè ognuna è libera di autodeterminarsi come vuole, scegliendo quando vuole di adottare pratiche ritenute maschili solo e semplicemente perchè storicamente le donne non le adottavano/potevano adottare. Tra l’altro, se l’azione del pollo l’avesse fatta un uomo (tra l’altro è un’azione di Voina, cioè di un collettivo misto: ci chiediamo se sia stata davvero un’azione “femminile” o se gli uomini che ne fanno parte l’abbiano proposta per avere un maggiore risalto mediatico..), mettendoselo in culo il nostro giudizio politico non sarebbe cambiato di una virgola. Quando un collettivo sceglie di adottare determinate pratiche – qualunque esse siano: tanto la vetrina, quanto lo scontro con la polizia, quanto un pollo nella vagina – sa che si sottoporrà al giudizio (che, attenzione, è in primo luogo politico, non morale) del resto nel mondo. Come tutti, fatta salva la legittimità di tutte le pratiche, possono criticare e valutare in termini di efficacia politica le pratiche altrui – e siamo certi che dopo il 15 lo hanno fatto anche quelli che ora difendono la legittimità di mettersi un pollo nella vagina, azione che dovrebbe essere sottratta da ogni giudizio, secondo loro – riteniamo che un giudizio politico possa essere dato anche sulle azioni di Voina e delle PR: perchè ci sembrerebbe assurdo non poter criticare delle pratiche solo perchè adottate da donne o perchè inerenti alla sfera sessuale.

    • Il dibattito se – logicamente e strategicamente – le contraddizioni di classe vengano prima di quelle di genere o viceversa è stato sviscerato per decenni, e non si è mai arrivati da nessuna parte, per il “semplice” motivo che le contraddizioni di classe non sono affrontabili a prescindere da quelle di genere, e quelle di genere non sono affrontabili a prescindere da quelle di classe. Non c’è una contraddizione “primaria” che renderebbe l’altra “subordinata”: sono due aspetti della stessa contraddizione.

      In un certo senso, il genere *è* la classe: nel patriarcato, la femmina è il proletario del maschio, lavora per lui, “plus-lavora”, e la percepita “naturalità” di questo rapporto di sfruttamento rende invisibile quel lavoro.
      Al contempo, anche se l’immagine risulta meno immediata, la classe è definita da un parallelismo col genere: nel capitalismo, il proletario sta al padrone come la donna sta all’uomo patriarca, lavora per lui, produce valore, “pluslavora”, e anche questo rapporto di sfruttamento è percepito come “naturale”, “normale”, e il feticismo della merce occulta il rapporto sociale che esso incorpora, cioè il lavoro del proletario.

      (Peraltro, lo stesso Marx scrisse che lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo era reso possibile dallo sfruttamento dell’uomo sulla donna)

      Nel sistema capitalistico, sessismo e razzismo sono anche e soprattutto princìpi regolatori del mercato del lavoro, cioè rendono possibile lo sfruttamento su tutti i livelli e in tutti gli ambiti. Grazie al sessismo e al razzismo, si possono mettere in competizione tra loro i lavoratori, si possono assegnare i lavori più merdosi a soggetti ritenuti “inferiori”, si possono descrivere come “naturali” le assegnazioni di certi lavori (come quello domestico alle donne) che quindi scompaiono in quanto tali e si può evitare di remunerarli.

      Ragion per cui, è del tutto evidente che non possa esistere una società capitalistica priva di sessismo e razzismo. Su questo, penso che siamo d’accordo tutti quanti.
      Ma questo cosa implica? Che prima dobbiamo superare il capitalismo e poi potremo risolvere la questione di genere?

      Io penso che nessun compagno sano di mente possa pensarla in questo modo, perché non si può pensare di abbattere il capitalismo senza lottare contro le sue logiche, la sua divisione del lavoro, e quindi contro il sessismo (e il razzismo). Le battaglie (quella generale e quella più specifica) si fanno insieme, contemporaneamente… perché non sono veramente due battaglie, sono la stessa. Se è vero che non si lotta veramente contro il sessismo se non si lotta contro il capitalismo, è altrettanto vero che non si lotta veramente contro il capitalismo senza lottare contro il sessismo.

      E attenzione: ci sono lotte specifiche contro il sessismo (e il razzismo) che non si dichiarano esplicitamente anticapitaliste, e a volte non sanno nemmeno di esserlo, eppure attaccano capisaldi culturali, logiche e divisioni di ruoli indispensabili alla sopravvivenza del capitalismo. Vogliamo riconoscere e valorizzare quelle potenzialità, oppure derubricare quelle lotte come “secondarie” perché non troviamo in esse la purezza dell’espressione di classe?
      E sennò con chi vogliamo portarla avanti, la rivoluzione, con chi ci alleiamo? Attendiamo le condizioni mature e confidiamo nel formarsi del “partito storico puramente proletario forte dell’invarianza del programma comunista”, à la bordiguiste? Oppure pensiamo – come penso io – che senza le lotte hic et nunc, anche… “spurie”, il programma di cui sopra nemmeno possa esistere?

      Queste erano considerazioni generali, svolte rapidamente in uno scambio di vedute tra compagni. Esulano dallo specifico del caso Pussy Riot, sul quale – per quel che può valere – ho detto la mia nei commenti sopra.

    • a me invece pare che il “non detto” sia che la russia e’ un paese in cui si vive di merda, in cui il governo tollera che decine di migliaia di neonazisti si organizzino militarmente e commettano azioni squadristiche contro gli immigrati, e omicidi mirati contro gli attivisti antifa. che la chiesa ortodossa si e’ ripresa con gli interessi tutto quel che le era stato tolto dopo la rivoluzione. che le discriminazioni contro le minoranze etniche e contro i gay sono istituzionalizzate. che la condizione delle donne e’ spaventosa (al punto che per molte donne la prostituzione diventa l’ opzione di gran lunga preferibile, se non l’ unica praticabile). che a mosca si organizzano congressi “scientifici” in cui si invita come speaker l’ ex presidente del kkk. e si potrebbe andare avanti per ore.
      in che senso la russia sarebbe per la “borghesia internazionale” un paese “da normalizzare”? e in che senso la “borghesia nazionale russa” sarebbe migliore della “borghesia internazionale”?

  11. C’è da dire che se un uomo si fosse infilato un pollo nel culo avrebbe invertito il modello dominante del senso di circolazione dell’apparato digerente.

    • Boh, io quest’improvviso sussulto contro happening e performances artistico-politiche non lo comprendo granché. Soprattutto, non lo comprendo da parte di comunisti rivoluzionari. Un certo Majakovskij risulta, in qualche pagina del breviario? E quel tale Gramsci che scrisse cose di un certo rilievo sul futurismo e la simpatia che all’inizio riscuoteva presso gli operai? E André Breton, Benjamin Péret, il contributo dei surrealisti (anche armi alla mano) alla lotta contro il fascismo? Non pervenuti? E perché “anarco-situazionista” viene usato come epiteto dispregiativo? Il nome di Abbie Hoffman dice qualcosa? Suona qualche campanello se accenno a tutte le tattiche mutuate dall’avanguardia (Dada, Fluxus etc.) che diventarono patrimonio collettivo del movement contro la guerra in Vietnam? E siamo sicuri che all’epoca quegli exploit fossero meno “scandalosi” di quelli che vengono attribuiti oggi a Voina?

      Tra l’altro, a proposito dello sforzo necessario a comprendere lotte, tattiche e movimenti che di primo acchito ci appaiono lontani e comunque non troviamo congeniali, varrebbe la pena leggere quello che sempre Gramsci scrisse sull’impresa di Fiume e l’opportunità sprecata dai socialisti, che avrebbero dovuto infilarsi nelle contraddizioni aperte da quell’exploit, per acuirle e spostare gli equilibri.

  12. Quanto all’esibizione degli organi sessuali. In Olanda è già ammesso fare sesso nei parchi pubblici. Non è che quel Paese è un po’ troppo avanti, rispetto al vostro concetto di morale socialista?

  13. @ Collettivo Militant

    Forare mediaticamente non è di per sé un male, dipende dal messaggio che si fa passare, dall’effetto che si provoca, etc.
    Quando Smith e Carlos alzarono il pugno guantato al cielo sul podio olimpico nel 1968 sapevano di essere ripresi da milioni di telecamere e lo fecero proprio per quello. E con un effetto dirompente.
    Quando gli hippies degli anni Sessanta si spogliavano nudi ottenevano un effetto ancora diverso, ma che è stato importante per quell’epoca. Un’azione, una performance, una provocazione, va valutata in base alla sua efficacia (anche mediatica) rispetto al contesto, caso per caso.
    Detto questo l’etica la lascerei da parte, dato che è una cosa un po’ più complessa di quello che uno fa in pubblico con i propri organi genitali (con aggiunta di gallinacei o no), e sinceramente non mi interessa proseguire la discussione su questo terreno.

    Io ritengo che se vuoi costruire un modello di società che riesca a porre la relazione tra i generi su un piano diverso da quello visto finora nella storia, allora devi essere disposto a dare centralità alla suddetta questione, perché prima di tutto devi essere disposto ad affrontarla tu stess@. Altrimenti non produrrai affatto un modello di società migliore sotto questo punto di vista.
    Troppo facile e autoillusorio dire: io lotto per il socialismo, unico strumento per raggiungere la parità tra i sessi, quindi non so che farmene del femminismo che crede di ottenere qualcosa a prescindere dalla lotta di classe.
    Come se le borghesissime suffragette inglesi a cavallo tra Otto-Novecento non avessero portato un progresso lottando e ottenendo il voto femminile… Come se le vittorie parziali non contassero niente. Come se l’affermazione di un principio di diritto universale non potesse diventare una leva per fare scoppiare contraddizioni culturali, utili proprio alla battaglia materiale per la trasformazione delle cose.
    La battaglia culturale non deve “affiancare” la lotta di classe, bensì, gramscianamente, innervarsi a essa. Deve essere parte integrante della lotta di classe. E la dimostrazione è proprio la questione di genere, che è al tempo stesso una battaglia culturale e una battaglia materiale, dato che, diceva quel tale, la donna è il proletario dell’uomo, e che le donne sono proprietarie dell’1% della ricchezza mondiale. Non so che farmene di un’idea della lotta di classe che non parta da questa concretezza, perché si può stare certi che produrrà un socialismo al maschile, come quello che si è visto nel Novecento.

    Troppo comodo accusare i movimenti femministi di non essere abbastanza classisti nel loro approccio. Bisognerebbe chiedersi quanto chi propugna la lotta di classe è disposto a lasciarsi permeare e anche mettere in discussione dalle tematiche di genere. O se in fondo – sotto sotto – non le veda come una contingenza, una questione implicita e che quindi si risolve nella lotta stessa. Non è così, perché una lotta può essere declinata in molti modi diversi.

    Per concludere potrei raccontare la storia di una compagna che a metà anni Settanta del secolo scorso si ritrovò moglie di un funzionario di un piccolo partito dell’ultrasinistra extra-parlamentare. In base alle regole del detto partito lei non poteva avere un impiego perché la causa del socialismo pretendeva che i funzionari si spostassero sul territorio nazionale, un anno da una parte, un anno dall’altra, e i coniugi dovevano marciare al seguito, per non creare conflitto tra militanza e affetti famigliari. Va da sé che nel 99% dei casi i coniugi al seguito erano donne. Il risultato pratico era che in quel partitino marxista-leninista l’autonomia e l’emancipazione economica delle donne era subordinata alla maggior causa del socialismo di là da venire. Allora sì che le donne si sarebbero emancipate… Nel frattempo si ritrovavano a fare le casalinghe e a dipendere economicamente dal marito-partito.
    Ecco, questa lotta di classe avrebbe avuto bisogno di una lotta di genere al suo interno, di una bella “contraddizione in seno al popolo” da far scoppiare forte e che facesse un gran rumore. Con o senza polli nella vagina.

    • Decisamente nulla da aggiungere ai commenti di Wu Ming 4, se non un grazie per la chiarezza e per aver messo a disposizione lo spazio in cui affrontare con lucidità queste “contraddizioni in seno al popolo”.

      Sono argomenti difficili da affrontare con lucidità, anzi difficili da affrontare e basta. Accettare di iniziare a parlarne e a sviscerare le questioni, anche da posizioni diverse, è già un gran passo avanti.

      • @ danielafinizio

        Non c’è di che. Il punto è che io appartengo alla schiera degli illusi che – da un contesto privilegiato, mi rendo conto – avevano dato per scontati e archiviati certi approdi del discorso molti anni fa. Invece quali approdi? Stiamo in alto mare e tocca tenere la barra a dritta e ritracciare ogni volta la rotta. Proprio per questo consiglio calma e saldezza in mezzo alla burrasca. Ma mentre elargisco questo consiglio, torno a pensare che lo faccio da una posizione privilegiata della tolda. Perché sono un maschio e perché sono figlio della compagna di cui sopra.

  14. Al di là di altre risposte in altre sedi, in cui intervengo collettivamente, mi sentivo di aggiungere una piccola considerazione.

    Davvero non capisco perché alzare tutto questo polverone sulla questione Pussy Riot se era così ben illustrata dai media filostatunitensi…in fondo così ci abbiamo speso solo un po’ più di tempo quest’estate (tempo che nel mio – nel nostro – caso sarebbe stato per altro speso comunque).
    Se era per spiegarci che la geopolitica e il campionato ( http://www.militant-blog.org/?p=7547#more-7547 ) funzionano allo stesso modo, mi sa che ho dei problemi a condividere il messaggio.
    Comunque bravi, quelli che hanno capito come si sfruttano i mezzi di informazione. Magari la prossima volta saranno più fortunati. Però non critichino le Pussy Riot, perché la strategia era la stessa (sfruttare una roba che fa notizia per far passare altro).

    Anche se continuo a pensare che tanto fastidio fosse dovuto al fatto che erano un gruppetto scanzonato di ragazzette, o quel “provengono da Voina, che fu antisovietica”.

    Per quanto riguarda la lotta di classe e il genere, continuo a consigliare della letteratura, made in italy e di donna, quell’Arte della gioia di Goliarda Sapienza che quest’estate mi ha fatto ridere e piangere delle nostre miserie da ambiente sovversivo/rivoluzionario che dir si voglia.

    nb. al tanto declamato pollo nella vagina, avrei preferito un cetriolo, quantomeno per un discorso minimale su antispecismo e/o produzione industriale. Cosa che comunque non interessa alla lotta di classe immagino. Non è che se mi difendo sul fronte repressivo un gruppo poi devo accettare acriticamente in blocco tutto quello che fa o dice.

  15. @ Elettra
    Se volevi discutere il post, potevi farlo. Se non volevi discuterlo, liberissima. Se volevi parlarne a voce, ieri stavamo a renoize, dal pomeriggio all’alba. Ma questo psicologia contorta per cui discuti di nostri post su altri blog non la capiamo (e dire che noi non censuriamo nessuno, men che meno chi tenta di argomentare piuttosto che insultare, dunque saresti stata la benvenuta).

    Nel merito, ti sveliamo una cosa: quella del campionato era una metafora. E poi, semmai, il parallelo era fra vittoria del campionato e presa del potere. Insomma, ma l’hai letto? Per non parlare della geopolitica, ma che c’entra?

    @ Tuco
    “..a me invece pare che il “non detto” sia che la russia e’ un paese in cui si vive di merda..”
    “..in che senso la russia sarebbe per la “borghesia internazionale” un paese “da normalizzare”? e in che senso la “borghesia nazionale russa” sarebbe migliore della “borghesia internazionale””?

    Riportiamo quanto abbiamo scritto, perchè evidentemente certi post si commentano ma non si leggono:
    “…Putin è l’altra faccia dell’imperialismo, nessuna collusione, anche solo ideale, ci può essere con chi ha contribuito a distruggere non solo il socialismo, ma ogni ipotesi di cambiamento di segno progressista in Russia. ”
    “..Le condanne occidentali nascondono l’obiettivo politico di ridimensionare il ruolo internazionale della Russia, oggettivamente nemica degli interessi occidentali (non per questo buona o progressista, sia chiaro)”.

    Forse (forse è un modo di dire, dopo l’intervista di Assange, e Assange non riporta opinioni ma documenti secretati dai governi), il fatto che in Siria si stia combattendo una guerra civile armata, finanziata e pubblicizzata dall’occidente, e che questo Stato abbia come uniche due sponde la Russia e l’Iran, c’entra qualcosa con tentativo di intervenire sugli equilibri russi?

    A noi sembra che la storia sia disseminata da scontri mortali fra capitalismi, in cui ogni volta la sinistra di classe ha preso una posizione. Così, a mente, nel 1939/1945, e soprattutto fra il ’43 e il ’45 lo scontro fra capitalismi (liberista da una parte, autoritario dall’altra) non vide una sinistra che se ne lavò le mani, ma che si appoggiò tatticamente a una forma di capitalismo per eliminarne un’altra (per poi, subito dopo, tentare di rovesciare la forma capitalista uscita vittoriosa). Anche all’epoca, insomma, si parlava di male minore…

    • @militant

      se cominciamo il gioco delle citazioni, allora io riporto questo passo:

      “Secondo tutti i media occidentali, le pussy riot sono vittime di un regime repressivo che addirittura condanna delle giovani ragazze solo perché fanno musica punk. A spiegarci la vicenda è il noto filantropo e progressista Mickhail Khodorkovsky, che a colpi di un’intervista al giorno sui giornali di tutta Europa ci spiega quanto è dura la repressione russa. L’oligarca (quello che nel giro di una notte, grazie all’amicizia con Eltsin, comprò le compagnie petrolifere sovietiche moltiplicando il prezzo del petrolio e non pagando un centesimo di tasse, finito in prigione per nove anni, altro caso di chiara antidemocraticità del regime russo-zarista-putiniano) ci spiega infatti che in Russia non c’è libertà d’espressione, e che la vicenda delle fighe riottose è uguale alla sua, in carcere ovviamente per le sue idee (e non perché deve miliardi di dollari alle casse dello stato).”

      per me questo passo, per come e’ scritto, per gli artifici retorici su cui e’ costruito, e’ mistificatorio. porta chi legge a sottostimare la gravita’ della situazione in russia, perche’ la denuncia della gravita’ della situazione viene associata a figure lerce come khodorkovsky. e’ un po’ come quando in italia si zittisce chi critica la magistratura citando le sparate di berlusconi contro la medesima.

      per il resto, la situazione odierna e’ completamente diversa da quella del ’39-’45. e anche quella non era proprio cosi’ schematica come la descrivi tu. ad esempio come si colloca in questo schema la guerra violentissima tra i partigiani comunisti jugoslavi e i cetnici di draža mihailović?

      • Per quel che so, lo scontro agguerrito tra partigiani titini e cetnici nazionalisti, si svolse secondo più livelli. Uno era certamente la visione del futuro jugoslavo. I primi volevano costruire il socialismo, i secondi affermavano la superiorità del “sangue” jugoslavo e tenevano per il re che intanto se la svernava – esiliato – a Londra, protetto da Churchill. Già, Churchill. Ormai sappiamo che ciascuna delle potenze vincitrici della seconda guerra mondiale si è servita, in un primo momento, delle formazioni partigiane per sovvertire regimi e occupazioni nazifasciste, per poi, a guerra finita, allontanarsene e combattere le formazioni politiche che uscivano rafforzate dal periodo di lotta partigiana. Poi Churchill decise che Tito era più affidabile di Mihailovic, e ne favorì l’ascesa ( ciò che non intacca comunque l’impresa partigiana da parte dei comunisti jugoslavi, che fino al 1945 dovettero fronteggiare oltre che i nazifascisti, anche i collaborazionisti di Mihailovic che addirittura presero una posizione “neutrale” nei confronti dell’occupante, e ad un certo punto presero a darle addosso anche ai partigiani titini).
        Tra l’altro, gli echi di questa guerra intestina tra comunisti e nazionalisti, più o meno sopita negli anni di Tito al potere, si è riverberata fino al decennio delle guerre jugoslave, facendo riemergere questi contrasti nella cornice di una Jugoslavia che di lì a poco crollò ( e fu fatta crollare).

        • @punkow

          non e’ solo che “[i cetnici] ad un certo punto presero a darle addosso anche ai partigiani titini”. fu proprio una guerra nella guerra, al punto che in un’ occasione tito addirittura negozio’ coi tedeschi un cessate il fuoco temporaneo, per concentrare le forze contro mihailović. inoltre la posizione dei cetnici non e’ incasellabile facilmente come “collaborazionista”. gli italiani appoggiavano i cetnici contro tito, ma i tedeschi erano piuttosto incazzati per questa cosa.

          ma quel che mi premeva di dire, con questo esempio, e’ che tutto questo casino non e’ leggibile utilizzando esclusivamente la categoria a noi cara della lotta di classe, e nemmeno quella “geopolitica”, diciamo cosi’, dell’ alleanza con l’ imperialismo “meno peggiore”.

          se poi arriviamo all’ ’89, ci accorgiamo che la guerra non e’ scoppiata per il riemergere del conflitto tra comunisti e nazionalisti, ma esattamente per il motivo opposto: e cioe’ per il venir meno di quel conflitto, con la conseguente nascita del regime rossobruno di milošević in serbia e di quello parafascista di tuđman in croazia. e’ su quel materiale tossico che poi sono intervenuti germania, francia, italia, vaticano, usa, ecc. ecc., ben prima che comparisse sulla scena otpor.

        • scusate se parlo di balcani, ma secondo me e’ li’, nell’accettazione acritica da parte della sinistra italiana della lettura puramente “geopolitica” di quella guerra (frame imposto sia da milošević e tuđman, sia dalle cancellerie europee), che sono nati gran parte dei nostri casini attuali.

          (io ricordo benissimo la totale mancanza di empatia, da parte di molti “compagni”, nei confronti delle donne bosniache stuprate dalle milizie irregolari serbe. un tanto per riallacciarsi alle questioni di genere, e chiudere il cerchio).

          • @tuco

            [scusandomi anch’io di quest’ingresso a gamba tesa nei Balcani]

            Non sono pienamente convinto che i processi che hanno portato alle guerre balcaniche degli anni novanta siano caratterizzati dalla mancanza di quella dicotomia cetnici/comunisti cui fai riferimento. Nel senso che all’altezza del ’91-’92 ma in realtà già nel decennio precedente, lo scenario comprendeva sia la scomparsa – oggettiva, storica – di quella dicotomia, ma anche una sua riedizione. La dicotomia si rinnovò, con altri nomi e sotto altri stendardi, tra chi fomentava e attuava l’odio nazionalista e chi ha tentato di resistervi ( tra etnie diverse e all’interno della stessa etnia). Sono d’accordo con te che non sia possibile spiegare quel conflitto, decennale e sanguinoso, con una visione che mette al centro solo la geopolitica, o il concetto di lotta di classe o il rinascere di nazionalismi (che, da marxista, interpreto come capro espiatorio rispetto a condizioni socio-economiche molto più pregnanti). Il conflitto jugoslavo è la complessità per definizione. Ogni volta che ho tentato di tirare la corda da una parte, ho perso pezzi dall’altra, anche se la mia visione attuale della questione “guerre jugoslave” è lontana da una tranquilla equidistanza dalle parti. Adesso siamo paurosamente OT :-)

    • Effettivamente ho fatto l’errore di commentare qua un post che era là, ma proseguivo un ragionamento sulla comunicazione, più che altro cui non mi pare abbiate risposto – sul problema di genere mi pare che ce ne sia a sufficienza, anche se repetita iuvant. Comunque mi scuso.

      Per quanto riguarda la metafora, non era un problema di comprensione, ho scritto di fretta geopolitica ma la questione mi era chiarissima. Comunque quoto Wu Ming4 in merito.
      Fra l’altro a prendere il potere, per ora preferisco cercare di costruire l’altro mondo possibile tutti i giorni e da lì parto…Il personale è politico, dicevamo una volta.

    • Compagni di Militant, mi spiace, ma con la ricostruzione del periodo ’39-’45 non ci siamo. Sarà anche “a mente”, ma ci sono troppi svarioni.

      Nessuno dei capitalismi che si scontrarono all’epoca era liberista. L’economia liberale classica era da tempo screditata presso tutte le borghesie nazionali, e mancavano ancora trent’anni al suo revival.
      Dopo il crack del ’29 – e, aggiungo, prendendo non pochi spunti dal’URSS – il capitalismo aveva scelto la via statalista/dirigista, negli USA con il New Deal rooseveltiano, in Germania e Italia coi programmi implementati dai regimi nazista e fascista. Si può dire che fu uno scontro tra diverse opzioni keynesiane.

      [Aggiungo che, secondo diverse correnti del marxismo, anche quello sovietico era capitalismo. Per analisi marxiste sul “capitalismo di stato”, si vedano diversi scritti di Bordiga, di Ernst Mandel o del collettivo/rivista francese “Socialisme ou barbarie”; devo dire che la definizione mi ha sempre lasciato perplesso, ma la menziono per completezza.]

      Tra l’altro, “liberista” e “autoritario” non formano un’antitesi: il liberismo è un insieme di ricette economiche, l’autoritarismo è una modalità del governare. Autoritarismo e liberismo vanno d’accordissimo tra loro e negli ultimi trent’anni lo abbiamo visto pressoché ovunque: il primo garantisce l’imposizione del secondo. Non a caso, il grande laboratorio delle ricette neo-liberiste fu il Cile di Pinochet.

      In Europa non c’era una sola sinistra di classe, ce n’erano diverse, e nel corso degli anni Trenta (e anche durante la guerra) si scontrarono duramente, arrivando alla scomunica reciproca e talvolta al fratricidio, non sulla necessità di opporsi al fascismo – quella era data per scontata -, ma sul come, con chi e a che prezzo farlo.

      Per dirla in modo il più possibile preciso, la questione era: a quanta autonomia d’azione il proletariato poteva e doveva rinunciare in nome della lotta al fascismo? Fino a che punto l’urgenza di sconfiggere il fascismo doveva far rinunciare alla lotta di classe, all’anticapitalismo e all’antimperialismo? Quali concessioni si potevano fare all’antifascismo nazional-patriottico e borghese, e quali proprio non si dovevano fare? Anche nella Resistenza ci fu lotta politica interna su questo, talvolta sfociata in regolamenti di conti e rappresaglie.

      Dopo la guerra, dopo Yalta, durante il Piano Marshall, mentre i partigiani venivano arrestati etc., correnti significative della sinistra rivoluzionaria europea sostennero – e sostengono a tutt’oggi – che di autonomia se n’era ceduta troppa, se non tutta quanta. Secondo quei compagni, il proletariato aveva rinunciato a un punto di vista di classe e a un’azione non subalterna, schiacciandosi totalmente sugli Alleati (da un lato) e sulla realpolitik cominternista (dall’altro). “Resistenza tradita” è solo uno dei tanti modi in cui si è sintetizzata la questione, ma esistono formule anche più spicce, come la notoria boutade bordighista secondo cui “il peggior prodotto del fascismo fu l’antifascismo”.

      Quindi, come si vede, la questione non fu semplice e non andò per niente liscia, come invece parrebbe leggendo che “la sinistra di classe appoggiò una forma di capitalismo per eliminarne un’altra”. E a parte la sventurata sollevazione in Grecia, da nessuna parte si tentò “subito dopo, di rovesciare la forma capitalista uscita vittoriosa”. Yalta aveva chiuso i giochi, da lì in avanti si parlò molto di “patria”, di “democrazia progressiva”, di pace e coesistenza, e molto meno di rivoluzione, almeno presso i partiti europei del Kominform.

      Detto ciò, a me quest’esempio storico sembra poco calzante. Suggerisce un’improbabile – e probabilmente da voi non voluta – proporzione in cui Obama sta a Hitler come Assad sta a… Roosevelt?! Uhm…

      Ma soprattutto, a me sembra che oggi il problema nella sinistra antagonista sia esattamente capovolto rispetto ad allora, ovvero: a quanto antifascismo si è disposti a rinunciare in nome dell’antimperialismo?

      Sull’antifascismo vostro io ci metto la mano sul fuoco, ma guardiamoci intorno, non mettiamo la testa sotto la sabbia: ci sono settori di movimento totalmente privi di anticorpi nei confronti di discorsi neo-nazionalistici, che spesso sono il viatico di orridi esperimenti “rossobruni”. Ci sono settori di movimento che subiscono la fascinazione di questo o quel regime buro-autocratico e liberticida solo perché appare nemico dell’America, del “mondialismo” etc.
      Questo è l’antimperialismo degli scemi: chi ne professa uno migliore, dovrebbe compiere *ogni possibile sforzo* per distinguersi da simili porcherie, e intensificare la lotta contro ogni nazionalismo, razzismo, sessismo e autoritarismo.

  16. @ Wu Ming 4

    La mia sensazione è che sulla questione di genere abbiamo fatto passi indietro. Ormai sento molte compagne che iniziano un discorso “di genere” con: “Io non sono femminista, però…”. Poi le chiedi il perché di questa affermazione e scopri che in realtà il disclaimer è una forma di autodifesa e serve per essere ascoltata, in un assemblea, collettivo, al bar, etc.
    Salvo alcune isole felici (per lo più nidi costituiti da due o più individui) sembra che tutto il lavoro di decostruzione delle femministe degli anni ’70 è ben lungi dall’essere patrimonio collettivo e condiviso.
    Sul moralismo, invece, il discorso è un po’ diverso. Io vedo due tendenze. La prima è quella tipica di molti marxisti-leninisti, che non accettano pratiche di liberazione del corpo (non le PR, ndr) in nome di un più alto interesse della Società Socialista, perché le pratiche di liberazione decostruiscono e mettono in discussione le strutture di potere. L’altra tendenza è il moralismo anti-berlusconiano: certe forme di libertarismo/libertinismo sono diventate simbolo di quel potere decadente, per cui si è iniziato a identificare l’opposizione antiberlusconiana con certi giudizi morali su degli stili di vita delle donne (senza fare troppi distinguo sull’uso/sfruttamento del corpo etc).

    • @ danielafinizio

      Temo che se “il lavoro di decostruzione delle femministe degli anni ’70 è ben lungi dall’essere patrimonio condiviso”, ciò sia in parte anche responsabilità loro. La mia impressione è che è mancata la capacità di rideclinare certe tematiche al presente e di ascoltare le donne delle generazioni successive. Soprattutto però è la società che è regredita culturalmente e politicamente e dunque la merda è salita a livelli impensabili fino a pochi lustri fa, travolgendo tutto.
      Per quanto riguarda le due tendenze di cui parli, a me pare che siano assai meno forti di quello che sembra. Da un lato il moralismo comunista a cui fai riferimento è piuttosto residuale, direi. Il moralismo anti-berlusconiano, be’, anche questo sembra già molto affievolito dopo la scomparsa dalla scena politica del Berlusconi medesimo (assolta la funzione di incrinare la sua immagine non serve più). So che molte/i non la pensano come me, ma sinceramente il moralismo non mi sembra il primo dei problemi rispetto alla questione di genere. Però la mia è la percezione soggettiva di un maschio, quindi probabilmente lascia il tempo che trova.

      • @ Wu MIng 4
        Sul femminismo degli anni 70 hai in parte ragione tu. Ma mi chiedo cosa sarebbe successo se ci fosse stata un’attenzione diversa e più ampia.

        Sulla questione del moralismo, mi riferivo al moralismo del “popolo”, non a quello dei suoi nemici (che è peggio).
        In ogni modo, più in generale, credo che, pur non essendo il problema principale, è uno degli elementi che alimenta il “Problema”. Nel senso che il moralismo giustifica e alimenta quella visione dicotomica delle donne, o madre o puttana, che è un po’ la premessa per quegli altri problemi (fino al femminicidio).

        • @ danielafinizio

          Le visioni dicotomiche sono comunque imbeccate da qualcuno. Non solo madre/puttana, ma anche “femminista moralista”/”puttana libertaria”, che è stata la risposta degli agip prop di Berlusconi al moralismo anti-berlusconiano, cioè il tentativo di ribaltare la dicotomia, mantenendola intatta. Sì, la strategia di contenimento, di riduzione della pluralità a un binomio, mi pare evidente.

  17. Non è chiaro in che senso uno stato-mafia capitalista come la Russia contemporanea possa essere in qualche misura un male minore rispetto all’imperialismo americano.
    Così come non è chiaro come possa esserlo una dittatura monofamigliare, di fatto retta dai servizi segreti, come quella siriana.
    O la teocrazia iraniana.
    Sullo scacchiere geopolitico forse… ma c’è pure della gente di mezzo.
    Non mi sentirei proprio di mettere i suddetti stati sullo stesso piano di Cuba o del Venezuela o della Bolivia, annoverandoli in un fantomatico “fronte antimperialista”, per una macroscopica discriminante, che qualcuno – ad esempio il sottoscritto – si accanisce a ritenere fondamentale: in questi paesi latinoamericani il governo non spara sul proprio popolo. Governi antimperialisti e socialisti come quelli, con tutti i loro limiti ed enormi difetti, si distinguono – e infatti tengono botta – anche per questo, perché si rifiutano di reprimere con la forza la propria gente. E non è che anche al loro interno non agisca la lunga mano americana a incitare chiunque si muova contro il governo.
    L’antimperialismo diventa un’etichetta inutile nel momento in cui non consente di operare i dovuti distinguo. Quale sia il “male minore” lo deve decidere chi quel male lo subisce, non certo noi, comodamente seduti davanti al nostro computer. Qualcuno di costoro ad esempio potrebbe ritenere un passaggio utile politicamente riuscire ad affermare certi diritti fondamentali della persona laddove non ci sono, e magari provare a giocarli retoricamente contro i nuovi padroni del vapore che subentrano con l’appoggio degli “imperialisti”. E’ appunto la scelta tattica che la sinistra europea fece nel periodo 1939-1945, ritenendo i regimi liberali preferibili al nazifascismo, e rimandando il confronto di classe a un secondo momento.
    E forse sarebbe il caso di ricordare che la lotta per l’indipendenza indiana ebbe come guida carismatica un avvocato cresciuto e pasciuto (si fa per dire) nel diritto anglosassone e che seppe farlo retroagire contro i suoi avversari imperialisti.
    Per chi guarda il mondo da qui, i diritti umani possono anche essere visti come un mero strumento nelle mani della borghesia internazionale per imporre le proprie politiche espansioniste. Sono diventati anche questo, sì. Ma chi ha lottato e lotta per affermarli, ha sputato sangue e fatto rivoluzioni e imbracciato le armi. L’habeas corpus – tanto per dirne una – non è soltanto un pretesto dell’avversario per esportare la democrazia, è anche il principio giuridico sul quale puoi basare una lotta, una difesa in tribunale, una denuncia politica, sfruttando ogni margine e ogni contraddizione interna al sistema. Se non ce l’hai è tutt’altro paio di maniche, eccome: stai in gaiba in attesa che facciano (o mentre fanno) di te ciò che vogliono.
    E se quelli che lo fanno sono “antimperialisti” oppure no, credo che per chi ci si trova importi davvero poco.

  18. Non so se sono solo io, ma ogni volta che cerco di registrarmi per lasciare un commento succede qualche impiccio. :/
    Comunque, sul “moralismo” io credo che il “dispositivo di controllo sulla sessualità” sia strumento fondamentale per soggiogare istanze di autodeterminazione e liberazione che potenzialmente potrebbero far saltare il sistema di sfruttamento proprio dell’ “eterosistema” (o eteronormatività) che -anche attraverso la violenza- subordina un genere all’altro. Credo sia un nodo centrale. Altrettanto centrale il discorso su riproduzione e “cura”.

  19. @ wu ming 1
    Ci sembra indubbio che la sinistra di classe scelse di appoggiare una forma di capitalismo piuttosto che un’altra, e lo scelse tatticamente. Le questioni storiche interne alla sinistra di classe, che sintetizzi bene, stanno la a dimostrarlo, mica a smentirlo. Le differenze interne al movimento erano proprio quelle di quanta autonomia sacrificare in quella scelta tattica. D’altronde, negarlo significherebbe negare la storia: al di là dell’esegesi sulle scelte, la scelta ci fu. Qualcuno la fece con più convinzione, qualcun’altro meno, ma la fecero tutti.

    Successivamente, le scelte strategiche della maggiore organizzazione comunista (il PCI), sono le scelte strategiche della direzione, ma non si può negare che nei militanti socialisti e comunisti era ferma la teoria del doppio passaggio: prima eliminare il fascismo, poi il capitalismo. Questa d’altronde fu la base della doppiezza del PCI dopoguerra: quella di ammiccare sempre alla successiva svolta rivoluzionaria (anche se poi, nei fatti, venne abbandonata già nel 1944).

    La retorica (sacrosanta) della “resistenza tradita” sta proprio in questo: nel mancato secondo tempo. Mica fu tradita per l’appoggio tattico agli alleati, ma per non aver rovesciato l’alleanza dopo la guerra. La base venne tradita dai vertici, ma la base ci credette almeno fino agli anni settanta!

    Capitalismo/capitalismi: non si può storicamente sostenere che il nazifascismo e il capitalismo anglosassone fossero lo stesso capitalismo, altrimenti non si sarebbe giunti alla guerra, e altrimenti non avrebbe senso dirsi antifascisti (basterebbe, tout court, definirsi anticapitalisti). E invece mi pare che ci teniamo alla distinzione, e si da quasi per scontato il potersi definire sinceramente antifascisti senza per questo essere anticapitalisti.
    Il capitalismo non è tutto uguale: il capitalismo cinese non è quello anglosassone; quello scandinavo non è quello russo, ecc…inserirsi nella contraddizione secondo noi è uno dei compiti (inseririsi nella contraddizione non significa appoggiare, ma se questi vengono allo scontro capire quale, per noi, è meglio che ne esca vincitore).

    In estrema sintesi: il nuovo fascismo, secondo noi, è la dittatura neoliberista. Il neoliberismo è il nemico politico/economico da combattere, perchè è quello che più abilmente ha disarticolato gli strumenti che i lavoratori hanno, storicamente, per portare avanti la lotta di classe. E’ la forma di capitalismo più evoluta, quella che riesce a mantenere se stessa non per una sua forza intrinseca, ma per la capacità che ha di assorbire e depotenziare ogni opposizione a se stessa. Dunque, diciamo che è il nemico principale. Anche, o forse soprattutto, culturalmente.

    Decostruire ogni forma di retorica dominante, che sottende a una giustificazione del presente, è per noi fondamentale.
    Ad esempio: wu ming 4 descrive la Russia come stato-mafia capitalista. Questa è una definizione che possiamo accettare solo se definiamo così anche l’Italia, gli Stati Uniti e tutti gli altri stati in cui le mafie (di vario tipo) controllano le scelte politiche di determinati paesi. Riferirla solo alla Russia significa rientrare nella retorica dominante dell’individuare nel nemico temporaneo dell’occidente il nemico assoluto. Allora tutto va contestualizzato, e se la mia narrazione coincide con quella mainstream si accende la spia, l’allarme inizia a suonare come un pazzo, e sta li a metterci in guardia.

    Dunque, storicizziamo: in Europa non ci sarà più un fascismo stile anni venti (almeno, oggi, non ce ne sono le avvisaglie). C’è, però, un nuovo tipo di fascismo, con lo stesso compito storico, quello cioè di impedire l’emancipazione sociale dei lavoratori: la dittatura neoliberista. Contro questo fascismo vanno concentrati gli sforzi e non fatti regali culturali.

    Ultimissimo: settori di movimento neo-nazionalisti non ne vediamo. Ci sono frattaglie rossobrune, micro-gruppetti affascinati da certa retorica, ma stiamo parlando del nulla. Esistono in rete, o in oscuri ritrovi endogamici, ma parliamo del nulla a cui internet ha regalato i 15 minuti di gloria. Nelle strade non ci sono, nelle piazze neanche, nelle assemblee di movimento non esistono. Il problema dei movimenti è tutto, tranne quello di retoriche nazionaliste. E’ l’esatto contrario: l’a-storicizzazione dell’antinazionalismo che si è trasformata in assolutizzazione dell’antistatalismo. Ogni cosa riferita allo stato è il nemico, ogni retorica contraria allo stato qualcosa da vedere con interesse. Sovrapponendosi alla retorica neoliberista dell’abbattimento dello stato.

    Scusate l’ennesimo pippone troppo lungo

    • Sul presente, faccio un esempio: nell’ambito dell’economia-mondo e del sistema finanziario globalizzato, con la Cina che tiene in piedi gli USA perché detiene la maggior parte del suo debito pubblico, e gli USA che importano dalla Cina il 16% delle loro importazioni totali (e sono più di 300 miliardi di dollari annuali che la Cina non può permettersi di perdere), e le più importanti multinazionali USA che hanno tutte gli stabilimenti in Cina e sfruttano la forza-lavoro cinese, è evidente a chiunque che i due capitalismi sono innervati tra loro, interdipendenti, in simbiosi. In che senso sarebbero antagonisti? Perché o crediamo agli “scontri di civiltà” e alle cazzate di Huntington, e di conseguenza diamo il primato alla geopolitica, geocultura etc. oppure pensiamo che l’economia politica mantenga una certa importanza…

      Sul 1939-45: certo che la scelta venne fatta, a maggioranza, però la questione non è semplice come la ponevate voi. Era e rimane contraddittoria: il discorso sulla mancata autonomia non riguarda solamente l’assenza del mitizzato “secondo tempo”, perché già certe scelte fatte durante la lotta armata resero chiaro ad alcuni che un secondo tempo non ci sarebbe stato: la subalternità di molte scelte, il mancato sfruttamento di occasioni, la rinuncia a esercitare un’egemonia reale, l’esasperazione dell’aspetto “patriottico” della lotta (la liberazione nazionale che cancella quella sociale). Sto riportando la posizione di settori della sinistra di classe che presero parte alla lotta, minoritari ma non marginali. Oggi appaiono marginali solo perché è stato occultato il loro contributo. Un buon compendio di certe posizioni si trova qui.

      Nel thread “Sfiga e rivoluzione” diversi compagni che studiano l’economia politica hanno affermato, supportando l’asserzione con dati e riferimenti precisi, che ormai quella neoliberista è solo, appunto, una retorica, mentre la sostanza delle scelte del presente e avanzato e del futuro prossimo è e sarà “iperkeynesiana”.

      In ogni caso, quello che ci siamo abituati a chiamare “neoliberismo” non è affatto contrario allo stato, anzi, per imporsi ha bisogno di esasperare le caratteristiche più odiose della forma-stato (lo stato come gendarme e carceriere), e al contempo di depurarla dai tratti che le lotte sociali gli avevano imposto (uso della spesa pubblica per garantire conquiste e diritti). Più lo stato viene “alleggerito” su quest’ultimo versante, con la scomparsa di “ammortizzatori” e strumenti per mediare il conflitto, più viene “appesantito” su quell’altro. Il “neoliberismo” è statalista alla grande, per quanto riguarda l’esercizio del dominio di classe, la difesa della proprietà etc.

      A essere contro lo stato è invece il marxismo. In esso l’uso dello stato è sempre visto come transitorio, direi “emergenziale”. Il rafforzamento, nella Russia degli anni Venti, delle strutture statali esistenti derivò dalla molteplice emergenza della guerra civile, del boicottaggio mondiale, dell’arretratezza del paese. In tutta la teoria marxista (anche in Lenin) il processo da innescare è la progressiva estinzione dello stato.

      • @Militant

        Mi colpisce che venga tirato fuori il “secondo tempo”. Questa teoria dei “due tempi” (o delle “due fasi”, o dei “due stadi”) è uno dei grossi problemi che da sempre piagano parte del movimento comunista. La svolta di Salerno, cioè l’accettazione del “capitalismo buono” (democratico, progressivo, atlantico ecc.) contro il “capitalismo cattivo” (fascista) da parte del gruppo dirigente del PCI, era un’applicazione di questa teoria tipicamente stalinista. Il secondo tempo, come sappiamo, non solo non ci fu ma non ci poteva essere dopo che nel momento più rivoluzionario (’43-’45) ci si era dedicati a collaborare lealmente con gli Alleati e addirittura a proibire bandiere rosse e saluti col pugno nelle brigate partigiane (avrete senz’altro letto Pavone su questo argomento). Alcuni stalinisti in buona fede ci credettero per anni dopo il 1945 e restarono in una messianica attesa dell’ora X, ma dopo l’attentato a Togliatti ebbero un amaro ritorno alla realtà.

        Ma questa teoria dei due tempi ha origini più bieche: nella guerra mondiale precedente. I menscevichi e Kerenskij, com’è noto, sostenevano che bisognasse prima finire la guerra e poi completare la rivoluzione in Russia; i bolscevichi si imposero proprio contro questa dottrina fasulla. In Europa occidentale (ma non in Italia), i socialisti sostenevano che bisognasse prima vincere la guerra (ciascun partito dal lato della sua borghesia nazionale) e poi si sarebbe visto cosa fare. In Italia, Benito Mussolini iniziò la sua mutazione genetica in fascista quando disse che bisognava appoggiare la guerra contro il capitalismo peggiore (quello autocratico e feroce degli Imperi Centrali) per poi usare le armi prese nelle trincee per fare la rivoluzione proletaria: curioso che poi lui sia finito ad allearsi con gli eredi proprio di quel “capitalismo peggiore”…

        Ma aggiungo: anche rispetto alla questione femminile esiste una teoria dei due tempi, che dice che prima fai la rivoluzione sociale e poi vedi come si emancipano le donne, ma nel frattempo per evitare di creare divisioni nella classe devi lasciar perdere temi troppo scottanti. Ancora una volta, questa teoria porta il marchio dello stalinismo, che in Occidente teneva posizioni ambigue e spesso moraliste, mentre nella stessa Russia degli anni Trenta, pur garantendo condizioni molto migliori dell’Occidente capitalista, riportava indietro la lancetta della storia cancellando alcune delle conquiste dell’Ottobre come il diritto d’aborto, la socializzazione del lavoro domestico, l’eguaglianza giuridica degli omosessuali ecc.

        Mi sa che il tema caldo è proprio questo.

        Capisco che in questo caso la questione sia complicata dalle caratteristiche coloniali o semicoloniali di alcuni di questi Paesi, ma per il marxismo mi risulta che sia la politica estera a rappresentare una prosecuzione della politica interna e non viceversa. Del resto, se in Siria e in Libia parlare di antimperialismo ha senso (ma non lo farei in un modo che butti il bambino con l’acqua sporca), mi chiedo che senso abbia in Russia, che non è solo un Paese capitalista da ormai vent’anni buoni, ma è anche un Paese imperialista sebbene “minore” rispetto agli USA – ma tutti gli imperialismi sono “minori” rispetto agli USA, Italia inclusa…

  20. [metacommento] è interessante notare come i commenti si dilungano volentieri sull’analisi della storia del PCI e PCUS esulando dal tema proposto da Wu Ming 4 e da molte e molti (qui e altrove).

    Forse perché è più difficile? Perché per affrontare quella questione “prima di tutto devi essere disposto ad affrontarla tu stess@”? Forse perché per quel discorso mancano proprio le parole, se non le idee.

    • Abbi pazienza, Daniela, è necessario anche questo: se certe posizioni vengono prese e giustificate in nome del marxismo e facendo riferimenti alla storia della lotta di classe, anche su quel terreno vanno discusse. La contesa non riguardava solo le Pussy Riot, il sessismo e la questione di genere (sulla quale ho scritto un commento molto lungo, qui sopra), benché nel movimento quello sia stato il casus belli definitivo. Queste differenze tra compagni/e sono già venute fuori per la Siria, per la Libia, per il presunto ruolo di Otpor in Egitto, e si trascinano ormai da anni, riguardo alle scelte di certe aree della sinistra radicale, come il Campo Antimperialista. L’argomento “sono quattro gatti senza importanza” che qualcuno ha utilizzato è un argomento fallace: i gatti visibili sono quattro, ma certi miagolii sono molto diffusi e producono cacofonia e confusione.

      • WM1, certo non sarò io a dire che tra le contraddizioni in seno al popolo ci sia una lista di prioritá :) solo che una volta una speravo che, col vostro aiuto, si potesse parlare di genere e movimenti. Ma appassiona più la funzione antimperialista di Ahmadinejad. Ubi maior…

  21. @ danielafinizio

    “Forse perché per quel discorso mancano proprio le parole, se non le idee?”.
    Credo sia così, in effetti. E mi ci metto dentro pure io, sia chiaro. C’è una difficoltà di fondo perché la questione di genere ti spinge ad andare a fondo con le analisi, a fare un passo ulteriore. Ma una volta che lo fai, quel passo, rischi di voltarti e di vedere le cose che pensavi sotto una luce diversa (e pure di doverti guardare “dentro”). E questo spaventa eccome, non è rassicurante come una visione del mondo fatta di concetti-formina a cui adattare la realtà. Come dice Zizek, il problema non è essere più o meno estremi, ma essere davvero radicali, ovvero esserlo abbastanza per riuscire a passare al pelo e contropelo anche se stessi, ciò che si pensa e si fa. Personalmente credo che non possa esistere discorso radicale – cioè che prova a cogliere la radice delle cose – se non parte dalla questione di genere. Perché è la questione che “taglia” trasversalmente tutte le altre. E quando guardi a ciò che ti circonda attraverso il prisma della questione di genere, le cose che vedevi e che pensavi possono anche rimanere le stesse, ma ti appaiono in una prospettiva completamente nuova e più complessa.
    [Sul PCI e sul PCUS, poi, è una questione di dinamiche maschili, ma non devo certo spiegartelo io. E pensa che mi toccherebbe ancora una precisazione… Abbi pazienza]

    • C’hai ragione da vendere, e pure Zizek :-) è che mi piacerebbe tanto avere l’opinione dei compagni (soprattutto di Militant). Ma non l’avrò.

      Comunque, mi ripeto, grazie davvero a voi (e a te) per provare a portare la discussione su questi temi.

      [sul PCI e il PCUS: ce lo so… che noia]

      • @daniela finizio

        non so se la cosa sia molto importante, dal momento che sono estraneo alle dinamiche dei movimenti, ma sono d’accordo con te, con con wm1, con wm4 e con žižek.

        ma abbi pazienza, io vivo in una citta’ (trieste) che e’ intossicata di geopolitica.

  22. @ Collettivo Militant

    E’ vero, la mia definizione della Russia come “stato-mafia capitalista” è al tempo stesso limitata e troppo generica, quindi disutile.
    Provo a farmi capire lasciando perdere le definizioni, allora, così non si accendono spie e segnali d’allarme e nessuno si agita.

    Io concordo assolutamente sull’affermazione che il capitalismo non è tutto uguale e che bisogna “inserirsi nelle contraddizioni”. Tuttavia, dato che non siamo nel 1939, quello su cui non concordo è la modalità di inserimento in tali contraddizioni. Continua cioè a sfuggirmi in base a cosa stabiliamo che è meglio che dallo scontro intercapitalistico escano vincitori Putin, Assad e Ahmadinejad, piuttosto che Obama e Cameron. E soprattutto, mi chiedevo, se questa distinzione geopolitica che facciamo alla tastiera del computer possa in qualche modo tangere l’esistenza di chi sotto certi regimi si trova a vivere e ad agire politicamente. Io mi rifiuto di stabilire sulla pelle degli altri quale spezzone del capitalismo mafioso internazionale sia il meno peggio.

    C’è un atteggiamento simmetrico all’accettare la retorica dominante, ed è ribaltarla specularmente nel suo contrario su base puramente ideologica, scevra da ogni conoscenza concreta sul campo, per sentirsi liberi da essa. Magari ci fa sentire più a posto con la nostra coscienza rivoluzionaria, ma temo sia un modo paradossale di rimanerci sotto a detta retorica dominante, non certo di “decostruirla”.
    Inserirsi nelle contraddizioni del capitalismo deve servire a farle esplodere, non a lasciarci incastrare in una finta dicotomia, all’aut aut tra merdoni “buoni” e merdoni “cattivi”.

  23. Le dinamiche maschili, maschiocentriche, fallocentriche, hanno caratterizzato e caratterizzano la Storia del mondo dai suoi albori: da qui la rovina del mondo, e la possibilità di intravedere un modo nuovo di stare assieme, di costruire una società che non ripeta gli stessi errori del passato. Il femminile del mondo come sfera cui si è dedicato troppo poco tempo e attenzione (da parte della società tutta) e a cui sono state date troppe poche chance ( o Zero Chance, per citare i Soundgarden).
    Fino a questo livello del discorso io ci sto, ci voglio stare, e nella quotidianità di maschio-cittadino-compagno-appartenente ad una comunità, sto tentando, in questi anni, di limare storture, di evitare l’aggressività nella discussione politica, di evitare l’esclusione a priori di certe categorie di pensiero/azione, di provare a vedere le cose tagliandole – come dice WM4 – ANCHE ( e non SOLO) con “l’accetta” della questione di genere. Ci si prova, noi della razza che ha rovinato il mondo. A volte con scarso successo, altre con qualche soddisfazione, che non è mai la tua singola soddisfazione, ma quella di una comunità, o di un gruppo di persone maggiore uguale a 2.
    Processo in divenire il guardarsi dentro: non finirà domani, e non sarà mai uguale a se stesso. Premettendo che non conosco approfonditamente la galassia del “nuovo” femminismo, provo a porre delle questioni di fondo.

    Il brodo di cultura in cui il nuovo femminismo e le attuali questioni di genere sono cresciute è quello dell’individualismo spinto, del dominio della forma/apparenza sulla sostanza, dello strapotere mediatico dell’immagine (dittatura dell’occhio). Questo semplicemente perchè tale brodo ha bagnato tutta la società, e nessuno ne è uscito immune. Non ne sono uscite le singole persone, non ne sono uscite i partiti, le comunità in lotta, i gruppi, le associazioni etc etc. E’ il contenitore culturale degli ultimi 30 anni almeno, ha dettato e detta i tempi della comunicazione, influenza scelte politiche, influenza scelte personali. Dunque un femminismo che voglia diffondere la (le) visioni di genere all’interno della società, non può che dichiararsi *contrario* a questo maledetto vento, e combatterlo. Combatterlo non vuol dire cercare una purezza (concetto alquanto maschile) che non c’è, ma quantomeno tendere ad una non ambiguità di fondo. Se nella nostra società esiste la categoria di donna-oggetto, le donne ( e gli uomini) che si sentono violati nel corpo e nei pensieri da questa “riduzione di complessità”, dovrebbero come minimo proporre e poi attuare coerentemente, un’immagine e una realtà del femminile che non riduca totalmente una persona al suo corpo, e soprattutto all’essere oggetto del desiderio dell’occhio dittatoriale maschile. Sul lungo periodo, chi si oppone a tale visione maschilista, dovrebbe immaginare un *altra* idea di donna, e anche di uomo. E comunicarla in modo diametralmente opposto a quella attuale. Capisco che ogni tanto, anche e soprattutto tra i movimenti radicali, ci sia bisogno di “bucare” lo schermo. Bene, lo si faccia quando serve, piegandosi ai mezzi e ai linguaggi che vanno per la maggiore. A lungo termine, quello spazio comunicativo, quel volantino, quel dibattito pubblico, se non parleranno altri linguaggi, saranno assimilati e assimilabili allo zeitgeist esistente.
    Ho esperienza di femminismi urbani in cui l’elemento della provocazione “formale” diciamo cosi, viene reiterato all’infinito in ogni comunicazione verso l’esterno: scioccare, provocare, ammiccare. Va benissimo. Ma chiediamoci come sia l’effetto a lungo termine di questo shock. A mio parere, molto flebile. Essendo sudditi della dittatura dell’immagine ( e dunque dell’occhio) ormai abbiamo delle reazioni “programmate” allo shock visivo (che è soprattutto dei corpi, come ci ha insegnato Pasolini). Lo scandalo dei corpi ha un impatto molto forte nell’immediato, poi comincia a confondersi, e se ne perdono le tracce. Io credo, IMHO, che ci sia bisogno di meno shock e più lavoro quotidiano da formichine. Il maschilismo non lo combatti con le tette di fuori, sul lungo periodo.
    Concludo dicendo che so perfettamente che il mio discorso è parziale, e che non sono un esperto in materia di femminismi. Il mio piccolo contributo, insomma.

    • Questa è una risposta politicamente corretta che mi fa incazzare più di tutte quelle politicamente scorrette che riuscivo a immaginare.

      Primo perché i linguaggi diversi ci sono eccome, peccato che appunto non buchino lo schermo. E se c’è chi alla fine decide di mostrare le tette per passare un messaggio io non vedo il problema. Il problema è che pure per i compagni c’è solo la parte dello shock visivo e sulla parte di contenuti o semplicemente altre forme di comunicazione non ci si interroga affatto.
      Poi dire che “il brodo di cultura in cui il nuovo femminismo e le attuali questioni di genere sono cresciute è quello dell’individualismo spinto, del dominio della forma/apparenza sulla sostanza, dello strapotere mediatico dell’immagine (dittatura dell’occhio)” in Italia è falso. La tradizione femminista italiana è sempre stata radicale, legata alla “differenza” (che io non condivido, ma che fu ed è un pensiero nuovo e produttivissimo) e alla lotta di classe (ad esempio le padovane). Le femministe occuparono posti, si opposero violentemente a stupratori, in alcuni casi scelsero la lotta armata e subordinarono il genere alla classe, in altri casi provvidero a far abortire le donne in maniera sicura quando ciò era illegale e così via. Anche se quell’humus oggi pecca spesso di imborghesimento (ai nostri tempi si che era bello occupare, ma oggi che abbiamo il culo caldo no) è da lì che veniamo. E mi sembra tutto meno che individualista. Se poi ti riferisci al femminismo di Se non ora quando, guarda meno tv.

      Sempre tornando al passato, Porpora Marcasciano raccontava che negli anni ’70 lo shock dei corpi passava per le assemblee dei compagni, quando tra un tirasedia e l’altro i “compagni busoni” e le trans si spogliavano, ricordando altre soggettività e altri modi di fare politica. Forse se i compagni avessero guardato meglio, oggi avremmo fatto altro insieme. Invece siamo ancora sulla difensiva. A erigere le barricate tra noi. Che tristezza.

      Per chiudere, per far passare un messaggio al di fuori dei nostri ambienti è necessario usare linguaggi comprensibili, cosa per cui per esempio ho sempre apprezzato Militant, e l’uso del corpo è uno di questi.

      • @Elettra

        Che sia una risposta politicamente corretta, mah, ciascuno di noi ha il suo margine, il limite tra corretto e scorretto non lo vedo così definito.
        Quanto alle esperienze che tu citi, non le nego affatto. Non ho detto che non esistono ( o non sono esistite) un linguaggio differente, un insieme di pratiche differenti (che, a detta dei gruppi femministi che ho conosciuto, è riscontrabile più nel lavoro quotidiano che in occasione dell’Evento Mediatico). E sono in accordo con te quando dici che il femminismo porta con se, quasi per definizione, una radicalità che in altri ambiti è raro trovare (l’esempio sugli aborti è calzantissimo).
        Quando parlo di brodo culturale, parlo di contesto. E ho sottolineato che tutta la società ne è vittima: non si tratta di qualche formazione o movimento politico, ma di tutta la società, sia la parte che propone e agisce sia quella che osserva.
        I mezzi di comunicazione sono, appunto, strumenti. Il mostrare corpi, ad esempio, è uno strumento, non credo sia il fine. Sono anche convinto che esistano mille modi di “mostrare corpi”, e che appunto per questo, un gruppo politico nel momento in cui sceglie quale tattica comunicativa adottare, vaglia le possibilità, i rischi, le opportunità, in una gamma che va dallo shock estremo fino alla comunicazione più banale e “piatta”.
        Ripeto: questo discorso vale per tutti: per i sindacati, gli autonomi, i partiti, le associazioni etc.
        Allora io penso che in una società fortemente individualista e devota all’apparenza quale la nostra, lo strumento di comunicazione e il suo linguaggio, siano come sempre anche sostanza. E che dunque se vogliamo, sul lungo termine, tentare di sanare queste cancrene, occorre trovare un modo per sfuggire non solo alle narrazioni dominanti, ma anche alle reazioni da corto circuito provocate da tali narrazioni.
        Vorrei rassicurarti su una roba: è esattamente grazie alla riproposizione delle questioni di genere che i “compagni” cercano di non limitarsi allo shock visivo, io mi ritengo uno tra questi. Quando mi capita di discutere con qualche compagna femminista, sono molto più interessato a capire le loro proposte su temi come l’ambiente e il lavoro, viste dalla prospettiva di genere, che conoscere come sarà composto il carro durante il prossimo Gay Pride.
        Ah, io non vedo tivvù dal 2005.
        Continuo a leggerti, e non ti sto affatto adulando in modo politically correct, Elettra :-)

        • Guarda, sulla questione del linguaggio sono piuttosto d’accordo. Anche nella ricerca di nuovi mezzi comunicativi e nella rifondazione della lingua in sé. Anzi a volte sono proprio una cagacazzi in merito (e qui uso un’espressione decisamente poco rifondativa :P).
          Detto questo
          1) sappiamo che non basta, purtroppo (sul fronte linguistico mi viene in mente il turco, che non ha genere, ma non è esattamente espressione di una società antisessista)
          2) quello che cercavo di dire è che tra femministe i metodi si sono cercati eccome, come si dice qui sotto sono stati creati parecchi simboli e modalità. Poi purtroppo alcune ne passano e altre no. Un po’ più di attenzione da parte dei compagni e delle compagne, anche che stanno su altre lotte (sono abbastanza convinta che tutt* non possano umanamente fare tutto) gioverebbero a chiunque. Questo rimane un appunto generale se sei tra i compagni che cercano di capire i messaggi ;) e comunque vale anche al contrario.
          3) su corpi oggetto e/o mostrati ci sono un bel po’ di riflessioni, una molto interessante è quella di Virginie Despentes in King Kong Girl, poi consiglio il lavoro di Pia Covre sulla prostituzione e tutto il mondo del postporno, che può essere condiviso o meno, ma è di sicuro un interessante approccio al tema.

          Insomma, oltre alle tette c’è di più. Ma non c’è nulla di male nell’usarle. (e mi associo anche alla questione dei cazzi di fuori – farebbe bene anche a tanta mitologia della grandezza/durezza – , anche se in prospettiva storica non direi che il patriarcato li ha sempre censurati vd. falloforie ecc.).

          E ovviamente prima citavo le trans, i trans, e chiunque voglia o non voglia assumere una soggettività perché penso che oltre a creare “l’uomo nuovo” e “la donna nuova” ci sia da ripensare e distruggere proprio la binarietà del genere. Come farlo in maniera non individualista è la bella sfida che il femminismo queer ci presenta…

          – troppo da dire e troppa confusione, spero sia almeno comprensibile –

    • @punkow, la questione “donna-oggetto” (inteso come “oggettosessuale”) è un’aspetto, una delle “sfaccettature”. Non si può ragionare su questo senza prendere in considerazione altre dimensioni della “questione di genere” che sono legate al tema di cui parli, sempre che abbia capito quel che vuoi dire. Credo sia più utile un chiarimento collettivo sulle specificità dell’oppressione/sfruttamento delle donne in un mondo che “oggettifica” in modo diversificato tante soggettività diverse. Inoltre l’ “oggettificazione” del corpo femminile ha molti aspetti mi sembra.
      Scusate se è incomprensibile, non mi rileggo e vado di corsa.

      • Si, è un aspetto. Magari il più macroscopico, ma è uno degli aspetti, come dici tu. Quando hai tempo, se vuoi, prova ad ampliare il tuo intervento, io son qui da non addetto ai lavori e vorrei capire.

        • Non è che ho molto da articolare. Non ritengo sia l’aspetto più “macroscopico” quello dell’oggettificazione sessuale, forse quello più “spettacolare” (e anche all’interno di questa cornice ci sono molte specifiche da fare). Penso piuttosto che sia interessante capire a cosa serve o a come funziona in un meccanismo più ampio. Ad esempio io penso che questo aspetto è legato a doppio filo al ruolo di moglie-madre. Credo sia importante rilevare a chi giova il lavoro gratuito di madri-mogli-nonne e quanto l’ “oggettivizazzione” sia necessaria o utile a questo scopo. Mi interessa capire come funziona la cosa. E come si tengono lì queste persone.

          Vorrei che venissero spese più parole sui meccanismi che portano all’enorme numero di morte/i a causa della violenza di genere, comprese le vittime “collaterali” (vedere http://bollettino-di-guerra.noblogs.org/ e questo è piuttosto macroscopico mi pare: i numeri e il silenzio da parte di gran parte degli uomini). Per la violenza “razzista” giustamente si ha sempre qualcosa da dire o si cerca di far emergere con chiarezza la cosa, di descrivere il fenomeno, per la violenza di genere di solito si ascolta un gran bel silenzio o un “bah-boh-buh-chissà” (salvo le solite voci e menomale che ci sono).

          Mi farebbe piacere sentire più spesso parlare di educazione sessuale, cosa che pare interessi a poch*.

          Comunque -sinceramente- non ho molta voglia di spiegare o raccontare perchè e percome può essere importante per molte persone (molte donne ma non esclusivamente) attraversare esperenze o pratiche di lotta che mettano in campo il corpo in tanti modi diversi. Ci sono tante storie a volerle ascoltare/leggere e tanti modi per avvicinarsi a queste generose narrazioni.

          Purtroppo ancora una volta ho il tempo che mi sfila la sedia da sotto il culo, mi dispiace. Leggere, pensare, articolare in alcuni casi è qualcosa per cui non sempre ho energie e tempo mio malgrado. =I

    • Premetto che conosco abbastanza bene la galassia del “nuovo” femminismo :-) e ti ringrazio per aver posto sul tavolo diverse questioni importanti per la storia del movimento femminista ma non solo.
      Sarebbe certamente importante capire perchè le questioni di genere vengano ignorate da buona parte degli appartenenti al genere maschile nella nostra società (ma non solo), e questo è un vero peccato perchè molti femminismi, sia quello della seconda ondata che alcuni di quelli che tu chiami “nuovo” femminismo, hanno contribuito notevolmente alla liberazione del genere maschile, ma mi dilungherei troppo sulle cause e concause che hanno portato a questo oscuramento.
      Ho scritto (a torto o a ragione a seconda del filone di pensiero) la parola “femminismi” perchè in realtà il movimento delle donne così come è attualmente e come è andato sviluppandosi nel tempo si è enormemente allargato e ramificato, diffuso in tutte le latitudini e diversificato negli intenti, negli interessi e nelle modalità.
      Esiste l’anarcofemminismo, l’ecofemminismo (mai letta Vandana Shiva?), il cyberfemminismo, il femminismo della differenza di tradizione italiana, le teorie queer da Foucault in poi passando per Judith Butler, la postpornografia, il movimento lesbico, il femminismo separatista e pure il femminismo che la Muraro chiama “femminismo di Stato” (quote rosa, paesi scandinavi ecc). Poi c’è il femmminismo islamico, quello indiano (guardati qualche film di Deepa Mehta) e quello americano di stato, rivoluzionario o antirazzista, quello africano connesso spesso a colonialismo e razzismo ecc ecc. Se continuo non finisco più.
      Mi dicono che perfino nel posto più sperduto della terra ci siano femministe che lavorano come formichine come dici tu contro discriminazione e sessismo, ed ogni femminismo pur essendo interconnesso con gli altri ha le sue peculiarità.
      In tutto ciò mi preme sottolineare come questa enorme rete, stando sotto il giogo del patriarcato, non sia visibile ai più, che continuano a vedere ciò che il patriarcato rende accettabile agli occhi della società tramite i media.
      Per questo motivo non vedrai mai una femminista come me che accompagna una donna sola e straniera a fare l’IVG (sono appena tornata) ma le tette delle Femen saranno spiattellate su tutti i giornali, pur essendo loro una sparuta minoranza nel gigantesco movimento femminista.
      E qui veniamo a ciò che è visibile.
      Molto poco a dire il vero, dopo anni di lavoro ancora si titola “raptus di gelosia” per indicare un femminicidio, sembra di sbattere la testa contro un muro di gomma. Ciò che ormai ha preso piede nelle fantasie di chi ignora i femminismi ormai sono i luoghi comuni e gli interessi mainstream pruriginosi per le azioni anarcosituazioniste di alcuni collettivi/gruppi artistici (e questo spiega perchè conosci le Pussy Riot e non Nawal al Sadawi ad esempio)
      Non mi dilungherò neppure qui sul perchè l’anarcosituazionismo abbia preso piede da alcuni anni a questa parte all’interno del movimento femminista in alcune parti del mondo occidentale (specie nell’est europa), suppongo che abbia trovato terreno fertile nel nostro tipo di cultura un po’ bigotta e non aggiungo altro, visto che buona parte delle azioni artistiche femministe sono molto più estreme di queste.
      Tornando allo “shock” di queste azioni anarcosituazioniste e in particolare ai corpi nudi (che fanno ancora scandalo), se ne discute all’interno del movimento femminista come si discute di mille altre cose: è giusta questa riappropriazione del proprio corpo in maniera plateale, è sbagliata, è così così. Ferma restando l’autodeterminazione delle donne di poter disporre del proprio corpo e di esibirlo volontariamente (sottolineo volontariamente) in segno di libertà e autonomia dall’occhio maschilista, nessuno potrà sapere già da ora se nel prossimo futuro questo sarà un bene o un male. Si diceva peste e corna negli anni ’70 dei reggiseni bruciati e del simbolo della vagina fatto con le mani ma alla fine il patriarcato non è affatto riuscito a riassorbire questa simbologia, che resta marcatamente femminista.
      Io invece credo che, visto lo scandalo che destano certe performances artistiche (alcune molto soft a dire il vero) ci sia ancora molto bisogno di tette di fuori per combattere il maschilismo. E anche di vagine di fuori, e se proprio la devo dire tutta, anche di cazzi, in assoluto la parte del corpo più censurata dal patriarcato.
      C’è proprio tanto bisogno di depatriarcalizzare e defascistizzare i nostri corpi, se così non fosse non ci sarebbe una levata di scudi reazionaria ogni volta che c’è un gay pride. Siamo molto lontani dall’abitudine allo shock e la paura che il messaggio alla lunga possa diventare flebile è molto al di là da venire. Purtroppo.

      • Grazie anarcofem per il quadro che hai fatto della situazione, spero sia utile per chi voglia documentarsi. Conosco Vandana Shiva dal 2001, comunque.
        Mi sento abbastanza in linea con la tua analisi, soprattutto quando confronti il bigottismo ( che a mio parere è più marcatamente presente nell’ Europa mediterraneo/cattolica che in quella nordica/orientale) con le pratiche anarcosituazioniste. Sembra quasi che si “richiamino” a vicenda. Lo trovo un punto interessante, perchè da questa riflessione appare che quanto più una società si mostra bigotta (dunque falsamente libera a livello di sfera sessuale), tanto più vi sia necessità di performance artistiche anarcosituazioniste per ribaltare la questione. Però, a differenza tua, trovo che questa dinamica porti ad un’empasse che non sblocca nulla. Faccio un esempio.
        In questi anni, un pò scherzosamente ma anche seriamente, mi son chiesto : perchè non organizzare un Gay Pride tutt@ vestit@ in giacca e cravatta ( o a pois, o con cappotti di Astrakan, non è quello il punto) ? La proposta nasceva da questa considerazione : se per anni il movimento glbtq ha voluto sfilare per porre l’attenzione sull’omofobia, chiedere con forza più diritti e uguaglianza di trattamento nelle questioni economiche/lavorative/burocratiche indipendentemente dal gusto sessuale, perchè, PER UNA VOLTA, non si lasciava da parte l’atmosfera festosa e disinibita per concentrarsi sulle rivendicazioni ? A mio parere sarebbe (stato) un successo. O comunque andrebbe testato per vedere l’effetto che fa.
        Anche perchè, volenti o nolenti, il cittadino poco informato e tendenzialmente avulso da tali questioni, “tocca con mano” la questione glbtq spesso a causa della risonanza mediatica che questo tipo di eventi porta con se.
        E dunque, se per una volta, il mondo glbtq si fosse *mostrato* in modo spiazzante rispetto alla “media” di un Pride, a mio parere avrebbe concentrato l’attenzione sui diritti e le rivendicazioni, e non sulla Festa. Anche perchè vi sono altri 364 giorni all’anno per trovare un modo di festeggiare la disinibizione tramite l’atmosfera giocosa che di norma caratterizza un Pride. Io un tentativo l’avrei fatto, così, tanto per provare, tanto per spiazzare. Magari ho toppato di brutto.
        Ecco, questo per esemplificare la possibilità di sfuggire ai clichès mediatici e bucare lo schermo in modo diverso.

        • Capisco le tue motivazioni e potrebbe essere un’idea quella di tentare qualcosa di diverso mediaticamente una volta tanto ma alcuni movimenti sono talmente grandi e compositi che non gli si può dare una direzione unica (evviva l’antifascismo) neppure concentrandosi su un solo aspetto alla volta. In fondo è anche questo il bello di tanta differenza e di un percorso vero, vivo, pulsante e in continua metamorfosi.
          Si possono sempre lanciare delle idee e chi vorrà potrà raccoglierle ma non si può intervenire in maniera programmata: ci hanno provato qualche tempo fa le femministe di stato con SNOQ ma a lungo andare il gioco non regge, non può reggere. Proprio loro hanno pensato come te di proporre un modello alternativo alla donna-oggetto propagandando e scrivendo a caratteri cubitali la parola “dignità” dove per dignità si intende coprirsi di più ed essere meno libertine, col risultato (pessimo) di ricalcare quel modello patriarcale di donna, anzi Donna Vera (aka Madre della Rivoluzione come direbbero certi “compagni”), di angelo del focolare (oppure del ciclostile). Che angoscia. Qua ci vogliono due secondi per cancellare decenni di autodeterminazione e ripiombare nel moralismo.
          Noi invece si ragionava del fare una slut walk in Italia per un sacco di motivi: in primis perchè non s’è mai fatta e in seconda istanza perchè ce ne sarebbe proprio bisogno, visto che tra Ratzy e Cirillo io proprio non saprei chi scegliere. Scrivo “noi” perchè ormai penso al plurale: ne parleremo certamente al Feminist Blog Camp (Livorno 28/29/30 settembre, ex caserma Del Fante), vienici a trovare.

  24. Io davvero non capisco come da comunisti si possa anche solo immaginare di parteggiare per l’Iran, dopo che la Repubblica Islamica ha eliminato fisicamente tutti gli oppositori di sinistra già all’indomani della rivoluzione (tra l’altro il Tudeh era stalinista fino al midollo). L’Iran è uno stato clientelare in cui le fondazioni religiose manovrano un terzo dei soldi pubblici, in cui il santino di ‘Ali Shari’ati viene sbandierato tra i padri della rivoluzione nonostante al potere ci sia il peggio del conservatorismo, un conservatorismo che fa di tutto per mantenere una cappa di repressione e oscurantismo su tutto il Medio Oriente e l’Asia Centrale. Un paese in cui se ti trovano con dei volantini in tasca puoi sparire in una galera per sempre. Il mio caldo invito ai compagni di Militant è quello di andarsi a fare un periodo di attivismo politico da quelle parti, per rendersi conto di persona di quanto sia meglio del corrotto stato mafia capitalista italiano. Oppure potete parlare con un qualunque rifugiato politico. La mia insegnante di persiano, comunista del Tudeh scappata nell’80, si meravigliava sempre delle cazzate che riesce a produrre la sinistra italiana. Guarda un po’.

  25. Ovviamente mi associo anch’io alla richiesta di chiarimenti sulla questione di genere, anche se è la terza volta che ve lo chiedo e comincio a farmene una ragione.

  26. @ Adrianaaa
    Ma certo che l’Iran non è meglio, ma chi l’ha mai detto? L’Iran è il prodotto storico secolare di dominazioni, colonialismi, sfruttamenti, e si trova in quella condizione per determinati sviluppi storici che gli sono stati imposti dall’occidente. E’ chiaro che si vive meglio in Italia che in Iran, ma la ragione storica per cui questo è possibile è da indagare. Noi viviamo in un area geografica che ha sfruttato da sei secoli determinati territori, e questi oggi sono il prodotto di quella dominazione. Per ulterirori aggiornamenti, rimando a “Le vene aperte dell’america latina” di Galeano, così capiamo tutti un pò meglio il concetto di “accumulazione originaria”. Se no facciamo come quelli che ci dicono che si vive meglio negli Stati Uniti che a Cuba: grazie al cazzo, ma il perchè, ce lo vogliamo chiedere, oppure pensiamo che i popoli dell’Africa, del latinoamerica, dell’Asia sono poveri perchè scemi, ritardati e primitivi? In Iran c’è stato un regime eterodiretto dall’occidente fino al 1979, che l’ha sistematicamente spogliato di tutte le sue risorse culturali, politiche, economiche, sociali, ecc..

    Sulla questioni sessismi/femminismi, c’è un lunghissimo nostro commento più sopra, quella è la nostra posizione ed è molto chiara. Non è che dobbiamo scriverci otto commenti al giorno sulla questione, ci ripeteremmo e basta.

    @ wu ming 1
    Vorrei evitare di entrare in una polemica addirittura sullo stato, perchè sarebbe, credo, lunghissima. Ma, a meno che non diamo per giusta la strampalata serie di teorie post-operaiste di passaggio dal capitalismo direttamente al comunismo senza passaggi intermedi, senza rottura, lo strumento politico di cui i lavoratori di servono per arrivare al comunismo è proprio lo Stato, il suo rafforzamento e l’uso di tale strumento nella lotta di classe. Il problema, oggi, non è abbattere lo Stato ma prenderne il potere.

    p.s. non so che assemblee politiche frequenti : ), ma in vent’anni non abbiamo mai visto nessun rossobruno, statalista, neonazionalista parteciparvi. Ma dove stanno? Poi, ascrivere il campo antimperialista all’estrema sinistra..

    • E chi ha negato che lo stato vada utilizzato? Io ho contestato l’idea che chi si esprime contro lo stato stia facendo il gioco dei neoliberisti. Va sempre ricordato che, tra neoliberisti e marxisti, sono non i primi ma i secondi a pensare che lo stato debba estinguersi.
      Quanto alle assemblee politiche, mi risulta che qualche mese fa, a un direttivo nazionale del PRC, un dirigente abbia definito i cinesi “un miliardo e mezzo di compagni”. Ecco, magari quando si parla di politica non si fa riferimento solo a certi collettivi e centri sociali.

    • La vostra posizione mi ricorda tanto la gag di un telefilm scemo che ho visto ieri in cui due personaggi, di fronte a problemi dalla soluzione, dal loro punto di vista, procrastinabile, rispondevano sempre “ci penserà il futuro me”. Ed è una posizione che, appunto, in tante e tanti pensavano consegnata ai libri di storia. Speravo che riusciste ad esprimere qualcosa di un attimo più complesso, visto che dai tempi in cui la vostra posizione era maggioritaria è passata un po’ di acqua sotto i ponti. Trovo inoltre inaccettabile che liquidiate le battaglie femministe come “battaglie culturali”, come se il sessismo non fosse drammaticamente materiale. Una certezza materiale è invece che quando al socialismo si è arrivati davvero, e ci si è arrivati in un periodo in cui le donne erano considerate proprietà degli uomini, queste ultime si sono ritrovate a vedersi caricato sulle spalle gran parte del peso della sopravvivenza di quel socialismo. Perché bisognava dare figli al socialismo, perché il lavoro prima di tutto agli uomini, perché c’erano altre priorità più socialiste. E allora, siccome storicizziamo, sappiamo bene che per creare una società di uguali dovremo arrivarci preparate e dovranno arrivarci preparati i compagni, e non è una battaglia culturale proprio per niente. Inoltre, sapete, tante di noi hanno dei problemi contingenti proprio da risolvere ORA, se non vogliono finire a far le mogli come unica alternativa a far la fame. Materialissimo, ve l’assicuro.

    • Che l’iran sia frutto di domini e colonizzazioni è abbastanza improprio a meno che non si parli degli ultimi due secoli. Per la cronaca l’Iran si chiamava persia ed è certamente una delle potenze imperialiste storiche dell’area orientale. Ricordo anche una rivoluzione popolare, di massa contro lo scià, che fu presa in mano a suon di bastonate da Khomeini e i suoi accoliti.

  27. Gente, io mi rassegno. Un po’ perché ho da fare e un po’ perché ho capito che non riesco a ottenere risposta.
    Se l’Iran non è meglio degli Stati Uniti, allora perché dovremmo augurarci – sulla pelle degli iraniani – la vittoria del regime teocratico contro il satana occidentale? Non trovo nessun elemento concreto, marxianamente materiale, che dimostri che in uno scenario dominato dalle oligarchie mafiose russe, dagli ayatollah o dalle dinastie arabe, la lotta di classe avrebbe più margine per dispiegarsi che in un quadro di dominio occidentale. Tanto più che il supposto scontro tra i due capitalismi è assai meno “scontro” di quanto si creda e molto più una gara a chi fotte per primo i soci in affari.
    Prenderò dunque questo postulato come un atto di fede, di fronte al quale mi fermo, perché ritengo che ciò riguardi la sfera privata del singolo (e in questo mio atteggiamento rivelo una disgustosa inclinazione verso lo stile anglosassone piuttosto che verso quello iraniano, ma spero comunque che la suoneria dell’allarme non spacchi i timpani… :-)

    • Alla fine si scade comunque nella tanto vituperata “visione geopolitica”, che poi non è altro che un’analisi (oggi spesso assente, in realtà, in seno ad alcune componenti di movimento) della situazione internazionale, che non si limiti all’esaltazione ingenua per qualsiasi cosa succeda (l’importante è che succede! no?). Questo prima si faceva, si cercava di capire ciò che accadeva nel mondo. Ora non più. D’altronde cosa c’è da capire..c’è un dittatore e il popolo che si ribella contro di lui. In Iran ci sono gli ayatollah, in Russia Putin, in Siria quel sanguinario di Assad, in Libia c’era quel pazzo di Gheddafi, mentre adesso cosa ci sia in Libia non lo sa nessuno, forse una specie indeterminata di caos, farcito di integralismo religioso e di caccia al negro; il trattato “d’amicizia” con l’Italia per l’immigrazione è stato rinnovato in puro stile Gheddafi. La condizione della donna pare non abbia fatto dei grandi passi in avanti anzi, l’avvenire pare alquanto torbido (in Tunisia si parla ora della donna in termini di complementarietà all’uomo, non più di parità).
      Diversamente da Wu Ming 4, il mio atteggiamento non può inclinarsi verso lo stile anglosassone (come se fossimo costretti da questa dicotomia poi) perché ciò comporterebbe essere dalla parte di chi ha il grilletto facile, dalla parte di chi non ci pensa due volte a massacrare interi popoli con la scusa della liberazione dal dittatore di turno. Io non ci vedo la civiltà lì.
      Prima si parlava di America Latina: ecco, forse lì s’è capito qual’è lo “stile” da combattere. Soprattutto lì non si fa fatica a chiamare tale stile col proprio nome. Nome che qui, da una decina d’anni a questa parte, pare innominabile.
      Sono almeno sessant’anni che il popolo palestinese chiede giustizia, costretto com’è in un regime d’oppressione e di privazione della libertà, ma questo lo sappiamo tutti.. Ah occidente!!

      • Mi sa che la battuta sullo “stile anglosassone” non l’hai proprio capita. E mi sembra che a riproporre una dicotomia sia proprio il tuo commento: se si pensa che Gheddafi fosse un aguzzino e un pagliaccio, e il suo regime petro-clientelare fosse una merda, allora per forza si è a favore dei bombardamenti NATO. Se si pensa che quella dei Kim in Corea del Nord sia una grottesca dinastia che scimmiotta il diritto divino, allora per forza si sta con l’imperialismo USA. O si sta con gli uni, o si sta con gli altri.
        Con questa logica, nel ’14, le socialdemocrazie europee votarono i crediti di guerra.

        • @ Wu Ming 1

          Eh, no che non l’ha capita la battuta… ma va bene lo stesso :-)
          Pare che per non stare con gli imperialisti yankee io debba tifare per dei ceffi da paura. E se io non volessi schierarmi in un regolamento di conti tra cosche rivali del capitalismo internazionale? Se la volessi rifiutare questa logica merdosa “o con gli uni o con gli altri” che il pensiero dominante vuole impormi? E se fossi perfino convinto che questa idea dei due tempi e del male minore avesse una matrice staliniana e assai poco leninista, nonché per nulla marxista, come spiegava Mauro Vanetti in un intervento qui sopra?
          Nobis non licet. Mi si deve far passare per uno che sta con gli imperialisti. Così, tanto per prendere a calci l’intelligenza.
          Va bé, quello che avevo da dire l’ho già detto. Torno a occuparmi di William Morris, uno che oltre a essere socialista era pure anglosassone, pensa te!

          • @wm4
            beh, visto che variatio delectat, senza cambiare una virgola di quel che hai scritto puoi sempre divertirti a farti dare del filoiraniano filonordcoreano da qualche pasdaran dell’ occidente.

          • @ tuco

            In effetti svariati giornali di destra dipingono noi Wu Ming proprio così… :-)

          • OT
            @Wu Ming 4
            ti posso chiedere che stai facendo su William Morris? Scusate l’OT, ma mi interessa particolarmente

          • Tina, il tuo è l’unico commento *non* OT :-D

          • @ Wu Ming 1

            Tuttavia rispondo a Tina in privato. Vuoi mai che riparta la rumba… :-)

  28. @ wu ming 4
    Grazie (e sono quattro) stavolta perchè il tuo commento mi ha fatto decidere di rinunciare a scrivere un commento di quelli che poi Saint Just ci sarebbe rimasto male.
    I give up pure io.

    @ wu ming 1
    Le contraddizioni in seno al popolo stanno dove le abbiamo trovate quando abbiamo iniziato. Ma grazie del tentativo :)

  29. A me dire che i comunisti siano parassiti non va,ma non mi va neanche di fare il parassita o coinvolgere appanni storici balzani . Sei adorabile militant con il tuo fare regresso anarchico che patisce tanto di insofferenza verso l’umanità troppo occupata a non girarti intorno. L’umanità può star bene anche senza la progenie prevaricatrice ,ma se ti sacrificassi davvero per un pensiero tuo ,nel senso di aiutare una persona in difficoltà (coscienza) si potrebbe capire perchè il finto buon senso risulta solo patente di mendicità di corrosione. Se proprio non ce la fai a calmare questo vaco senso di cultura non sprangare le ovaie a chi non va di fare la mafiosetta .

  30. @ wu ming 4
    “..in questi paesi latinoamericani il governo non spara sul proprio popolo”

    Bene, se questa è una discriminante, allora gli Stati Uniti non solo sparano quotidianamente sul proprio popolo, ma soprattutto (e qui interviene l’analisi antimperialista), lo fanno ai 4 angoli del mondo, direttamente o per procura. La questione che i paesi occidentali non sparano o reprimono i propri “popoli” mentre, ad esempio, Assad si, è una cosa falsissima: i governi occidentali sparano quotidianamente sui popoli di tutto il mondo. Le loro aziende, la loro politica economica, le loro strategie “geopolitiche”, o “imperialiste”, producono ogni anno guerre, guerre civili, massacri, lotte fra poveri, scontri etnici. Dunque, perchè dovrei preferire, in uno scontro infraimperialista, l’imperialismo americano? Perchè dovrei pensare che un governo democratico-liberale sia preferibile a uno dispotico famigliare? Perchè spara lontano da casa mia?

    Secondo punto: in Siria c’è una guerra civile, e il governo siriano spara sul proprio popolo. Ma il problema è che la guerra civile è stata preparata e finanziata dai governi occidentali, da Israele e dall’Arabia Saudita, almeno a sentire Assange (che, certo, non è l’oracolo, però magari legge i documenti riservati dei governi, che in settimana dovrebbero essere pubblicati). Ora, rispetto a un governo che a un certo punto si vede un vero e proprio esercito all’interno del suo paese che, armi alla mano, tenta di sovvertire il potere costituito, perchè tale potere costituito non dovrebbe difendersi? L’esercito armato contro Assad non c’entra nulla con fantomatici lavoratori in lotta o con avanguardie lottarmatiste: gli Stati Uniti regalano aerei da combattimento all’esercito anti-Assad, gli regalano i militari che li guidano, è in atto un invasione, e noi stiamo davvero a chiederci se Assad è cattivo?

    Terzo punto: ma perchè nessuno parla di come si sono trasformati i paesi arabi coinvolti nelle proteste dell’anno scorso? Almeno le donne, che hanno visto la loro situazione peggiorare in ogni contesto, non trovano un pò di tempo per indignarsi? Oppure il fatto che ormai non possono più uscire di casa in Egitto, o sono state costituzionalmente sancite come essere differenti dall’uomo, come in Tunisia, è un fatto di secondo piano, tanto l’importante era manifestare in piazza?

    • @collettivo militant
      sono un’idiota a continuare a rispondere alle tue sciocchezze, ma me le tiri dalle mani le risposte. Primo: per tua informazione ci sono moltissime donne (molto spesso niente affatto militanti antagoniste, che magari manco a me stanno simpatiche) che non solo si “indignano” ma tessono reti con le donne dei paesi arabi per sostenere la loro rivolta contro l’arretramento (o la mancata conquista) di diritti, contro gli stupri “religiosi” della polizia in Egitto, contro la perdita dei diritti costituzionali delle donne in Tunisia o in altri paesi (inclusa la Palestina dove se non fosse per la rete di donne forte e politicamente legittimata forse – forse- in alcuni villaggi si sarebbe imposta la legge islamica, con le conseguenze che hai illustrato.)
      Secondo: la rivolta non esiste solo se la vedi tu e se non la vedi non esiste, col tuo sguardo miope poi… Non è concepibile ragionare, come fai tu, che ribellarsi a qualcosa escluda ribellarsi per qualcos’altro. Ti sei fissato con sta scemenza delle PR. Noi si parla, e si fa, altro.

  31. Poi, che la teoria dei due tempi (che poi possiamo criticare benissimo: abbiamo detto che storicamente è avvenuto così, non che fosse la scelta perfetta da fare e da riproporre in ogni circostanza) non fosse leninista è a dir poco discutibile. Proprio Lenin, una volta preso il potere, decise con la NEP di sviluppare capitalisticamente la Russia per poi farla transitare al socialismo. E aveva il potere nelle mani, dunque poteva anche fregarsene, ma gli venne in mente questo doppio passaggio. Anche qui, si può anche criticare (tutto si più criticare, anche Lenin, pure Marx s’è per questo), ma non che il passaggio graduale, anche contraddittorio, non fosse presente nella teoria leninista. Che infatti favorì la nascita di una classe di piccoli possidenti, in tutto e per tutto borghese. Insomma, preferì un male minore (la nascita di una piccola borghesia), al male peggiore (la sconfitta della rivoluzione per impotenza economica)
    Ed è solo un esempio, non ho detto che Lenin è uguale a Assad, Marx a Huntington, e i kulaki sono vetero-pussyrioters…:)

  32. @ Collettivo Militant

    Ma mi vuoi far tornare a lavorare o no?!

    Non so più in che lingua dirtelo che io non voglio farti preferire proprio nessuno. La logica del male minore l’hai introdotta e difesa tu, non io! Non ho mai detto che gli Stati Uniti siano casti e puri e Assad invece un merdone. Ho parlato di scontro tra cosche capitalistiche (parzialmente) antagoniste tra loro. Alla quarta volta che te lo scrivo, getto la spugna, perché se uno non vuole capire, non è che posso costringerlo.

    Sulla Siria. Ma tu che ne sai della Siria? A parte quello che dice Assange, ci hai mai parlato con un oppositore siriano? Sai chi sono, cosa pensano e cosa fanno? Sai cosa hanno subito? Io no. A me che Assad sia cattivo importa poco. Cosa mi cambia nella vita? Ma a chi è governato dalla famiglia Assad da quarant’anni forse sarebbe il caso di chiederlo, invece. E se per caso gli oppositori ne avessero subite di cotte e di crude e volessero opportunisticamente approfittare del momento “buono” per provare a sbarazzarsi di una dinastia dittatoriale? E se tentassero di farlo anche accettando l’aiuto degli americani? (tra l’altro, non è proprio quello che fecero i partigiani italiani nel ’43?) Personalmente penserei che la cosa non è un granché, e che in un’impresa del genere potrebbero infilarsi guitti di ogni sorta… che la fregatura ci sarà eccome. Ma non sarò certo io, comodamente seduto nello studiolo di casa, ad andare a dire a questi cosa devono fare delle loro vite. Non sarò io, che scrivo ogni giorno quel cazzo che mi pare su questo blog a dire a un siriano che lui invece deve starsene zitto e buono e tenersi gli Assad per altri quarant’anni perché altrimenti fa un favore agli yankee. Perfino l’ultimo stronzo opportunista voltagabbana di oppositore siriano avrebbe il diritto di sputarmi in faccia se pretendessi di imporgli un discorso del genere.

    Sulle rivolte arabe, vale di nuovo quanto detto sopra. Dire che la rivoluzione degli ayatollah del ’79 in Iran è stata una solenne fregatura per l’opposizione di sinistra, non significa difendere il regime dello Scià. Così un conto è esaltare l’occupazione di massa di uno spazio pubblico, la discesa in piazza di milioni di persone, la presa di parola, che si è verificata in Tunisia e in Egitto; un altro conto è difendere ciò che verrà fuori da quelle rivolte sul medio periodo. Si vedrà. Se ogni volta che si muove qualcosa dovessi giudicare in base a quello che decide di fare l’amministrazione americana mi condannerei a guardare la realtà con gli occhi di Obama o della Clinton e a schierarmi non in base all’osservazione della realtà ma al posizionamento di Washington… No, grazie. La realtà, fortunatamente è più complessa del “piace agli americani/non piace agli americani”. Ed è su quella complessità che il movimento che pretende di cambiare lo stato di cose presente deve scommettere.

  33. @ Collettivo Militant

    Scusatemi, ma non capisco dove stia la predilezione per lo Yankee – o per il capitalismo occidentale – da parte di WM4. Mi pare che abbia chiaramente detto che non vi è alcun presupposto per una scelta meditata che preferisca uno dei due campi. (Gli) fanno abbastanza schifo ambedue :-)
    Comunque, un punto sulla storia dei due tempi. Credo ci sia un equivoco di fondo : e cioè una cosa è parlare di “due tempi” su tempi lunghissimi, e cioè di una scelta politica che si compie a discapito di un’altra che probabilmente non vedrà mai il suo sorgere. Tale è da considerarsi la scelta del movimento socialista europeo sul finire e all’indomani della seconda guerra mondiale. Poco da fare, si scelse di rimanere nell’alveo delle democrazie occidentali, al massimo di attuare politiche socialdemocratiche. Tutto ciò andò a discapito della eventuale ( e non deterministica) rivoluzione socialista, che non si ebbe.
    Se però metti in mezzo Lenin e la NEP, a me non pare che stiamo parlando dello stesso ambito. Quelle furono scelte compiute nell’arco di *qualche anno* per fronteggiare una grave crisi economica e di risorse, dovuta alle precedenti politiche di nazionalizzazione forzata di industria e agricoltura in tempo di guerra civile, in un paese minacciato dagli stranieri. E però, appunto, questa è pura Politica Economica da parte di chi governa. Si tratta sì di passaggi graduali, di compromesso diremmo, è il governo bolscevico che sceglie di prendere – temporaneamente – una strada invece di proseguire indefessamente con la vecchia politica, che avrebbe portato al suicidio delle repubbliche sovietiche.
    Questi due esempi mi sembrano inconfrontabili, perchè hanno due velocità storiche diverse.
    Inoltre: cosa centrano i vostri esempi con la scelta sui due tempi che noi comodi digitatori occidentali dovremmo fare nei confronti dei due ( o tre, quattro) capitalismi che si alternativamente si fronteggiano e si alimentano a vicenda ?

  34. Wu Ming 4, c’hai ragione, però volevo vedere che effetto faceva farsi dare ogni giorno del difensore di Assad o di Putin quando sono giorni che diciamo l’esatto contrario, ma contestualizzato un ragionamento che non è: nè laviamocene le mani, nè apoggiamo tutto ciò che si muove contro Putin o Assad. Vedo che ora che ha perso la pazienza capisci come uno si sente e ribadire in ogni dove l’ennesimo concetto.

    Ah, p.s. Uno del nostro collettivo è arabo; molti di noi sono andati varie volte in paesi arabi, compreso l’anno scorso, a fare riunioni anche con compagni arabi; un altro del nostro collettivo lavora quotidianamente col mondo dell’immigrazione araba a Roma, praticamente ogni giorno parla di queste cose con qualche siriano, libanese, iraniano, marocchino o tunisino. Qualche idea, alla fin fine, uno se la fa pure, e ti assicuro che è molto distante dal mainstream..

  35. @ Collettivo Militant

    Non faccio nessuna fatica a credere che rispetto ai paesi arabi la realtà sia molto distante dal mainstream. Così come non ho dubbi che se uno non sta in loco, l’idea che può farsi tramite l’amico “arabo” è sempre assai parziale (direi che se mi facessi spiegare la situazione cubana da un balzero o da un emigrato a Miami dovrei mettere in conto una certa parzialità). Vale comunque la pena concedersi il beneficio del dubbio prima di consegnare mani e piedi qualsivoglia oppositore alla parte imperialista e sputare su tutto ciò che si muove. Il mondo non è fatto di bianco o nero.

    Quanto ai tuoi esperimenti sulla pazienza altrui, sei pregato di andarli a fare da un’altra parte, perché – come ho già detto tre volte – tempo da perdere non ne ho.

  36. Non capisco una cosa: ho cercato di rispondere alle tue domande e alle questioni che ponevi; non è detto che dobbiamo trovare una sintesi, possiamo tranquillamente rimanere su due sponde differenti; almeno, da parte nostra, nessuna volontà di convincere nessuno, ma quantomeno evitare che si faccia parodia o falsa ricostruzione del nostro pensiero (cosa che si continua a fare: ma di quale amico arabo parli, qui qualcuno di noi lavora da anni con le comunità arabe, di amici arabi ne vede centinaia al giorno, parliamo quotidianamente con una varia umanità non sintetizzabile politicamente in pro o contro Assad, abbiamo un prospetto di opinioni abbastanza variegato, ecc..è un pò differente che parlare con l’amico del cuore).
    L’unica cosa che ci preme sottolineare è che una lotta contro (semplifichiamo) Putin e Assad è sacrosanta, perchè oltre ad essere due stati capitalisti sono, almeno nel caso russo, anche imperialisti. Ma prima di appoggiarla capire se questa lotta sia sincera e progressista, o solo funzionale ad altri scopi, peggiori del male da combattere.
    Ora, per favore, chiudiamola qua, o continuiamo a parlare, ma non non ripartiamo da noi che appoggiamo Assad o Putin, perchè alla ventesima volta (non alla terza), non è più divertente.
    Non diciamo che in giro non ci sia chi lo faccia, ma non siamo noi. Su questo ci deve essere chiarezza.

  37. @ Collettivo Militant

    Perfetto. Avevo appena postato un esasperato P.S. per chiuderla qua, ma mi hai preceduto, quindi non ce n’è più bisogno e l’ho cancellato. Meglio così.
    Contento di sapere che avete “un prospetto di opinioni abbastanza differente” dai vostri amici arabi (non voleva essere parodico) e vi auguro di saperne fare buon uso per leggere la complessità mediorientale.

  38. Sulle rivoluzioni arabe solo un appunto. Sono stato in uno di questi paesi, durante la primavera. Moltissimi compagni davano anima e corpo al movimento. Comunque vada loro e le loro organizzazioni hanno giocato la loro partita in uno scacchiere in cui anche altri buttavano il proprio peso. Hanno perso, spesso, e sono rimasti opposizione anche dopo la vittoria dei movimenti. E’ vero. Ma che sarebbe successo se fossero rimasti a mani conserte durante la rivolta? La rivolta sarebbe esplosa comunque e senza di loro (non sono le trame internazionali che fanno le rivolte, ma semmai le persone e le condizioni di vita). Le masse popolari avrebbero affrontato la repressione dei regimi senza avere al proprio fianco i compagni. Avrebbe significato, per la sinistra del maghreb estinguersi per mancanza di credibilità ed estinguersi per centinaia di anni e non per uno o due decenni………………….
    Pensateci bene e pensate in quel contesto cosa avrebbe significato.

    • Scusate, ieri ho postato a tarda ora, centinaia di anni non si può sentire davvero, ma diciamo che, riducendo i tempi, il concetto che volevo esprimere resta chiaro.
      Quando ci sono mobilitazioni, se c’è spazio di manovra, bisogna giocarsi la partita. Nel Maghreb, aldilà degli esiti, c’era. Il nostro ruolo può essere quello ( comodo ), di emettere giudizi a posteriori ed a distanza, oppure può essere quello, più interessante, di supportare le frange più radicali e progressiste dei movimenti e di porci come interlocutori. In questo caso, in qualche modo, diamo un seppur minimo contributo a disegnare uno scenario diverso e migliore.

  39. […] Militant in calce al quale si è sviluppato un dibattito proseguito poi in altre sedi (qui e qui) e che ancora […]

  40. @MilitantBlog

    L’esempio della NEP che è stato tirato in ballo mi sembra che non c’entri tantissimo. O meglio, c’entra se si vuole dire che i rivoluzionari non sono semplicemente degli estremisti e quindi sanno scendere a compromessi; e la NEP era per l’appunto un compromesso provvisorio, che lo stesso Lenin spiegò sempre come tale. Ma non c’entra se si vuole dire che allora bisogna sempre scegliere il “male minore”, una filosofia che direi sia esattamente il contrario di una posizione rivoluzionaria.

    Il punto è proprio che in molti casi invece di accettare il male minore tra le scelte che ci offre il sistema, bisogna pensarne un’altra. Faccio notare che la NEP in effetti non era per niente “il male minore” tra quelli offerti in condizioni “normali” dal sistema, che in quel momento offriva come scelta ovvia quella tra mantenere il comunismo di guerra (economicamente insostenibile finita la Guerra Civile) o ripristinare il capitalismo tout court. I bolscevichi intrapresero coraggiosamente una terza via molto ardua, che col senno di poi possiamo dire che ebbe un esito solo parzialmente positivo: si mantennero l’economia nazionalizzata e le altre conquiste strettamente economiche dell’Ottobre, ma il rafforzamento della piccola borghesia diede la volata allo stalinismo… però questa è un’altra storia.

    Non condivido la visione (tipica dell’azzeccagarbugli stalinista per cui tutto va “valutato concretamente” e così si giustifica tutto, dal patto Ribbentropp-Molotov al compromesso storico) per cui il leninismo non sarebbe altro che “astuzia tattica”. Tipico di Lenin era invece proprio il tracciare sempre delle linee divisorie ben precise tra “noi” e “loro”, in nome delle quale prendeva anche posizioni molto scomode e fuori dagli schemi.

    PS: Lenin ha scritto un breve testo un po’ buffo che si chiama proprio “Sui compromessi”. Non l’ho trovato online in italiano, ma in inglese è qua: http://www.marxists.org/archive/lenin/works/1920/mar/x03.htm Ho sempre trovato l’esempio dei rapinatori che fa Lenin abbastanza divertente…

  41. Restando sull’OT dell’antimperialismo e delle due fasi, ho un altro commento che metto appositamente separato da quello precedente perché non vorrei che neanche lontanamente si pensasse che faccio confusione tra la discussione *tra compagni* e la critica delle puttanate dei rossobruni. Il discorso in qualche modo c’entra perché è un esempio dei pericoli di un approccio basato sul “male minore”, ma è un esempio *davvero estremo*.

    Il motivo essenziale per cui faccio questo esempio è perché ogni mattina me lo vedo davanti agli occhi andando a lavoro. Infatti nel mio percorso verso l’ufficio c’è una colonna dove un gruppo rossobruno a cui non voglio fare pubblicità ha incollato dei volantini di cui vi offro uno screenshot. Ho evidenziato (in un appropriato color bruno) i passaggi più inquietanti: http://postimage.org/image/x40z6l35j/

    “In favore dela Siria e del suo leggittimo presidente” [sic]

    “Così a livello internazionale con la Merkel dipinta come Hitler, quando sappiamo benissimo che è sotto attacco USA”

    Questi sono così antimperialisti che difendono Angela Merkel, leggittima canceliera della Tedeschia antiamerikana.

  42. @ Maurovanetti
    S’è per questo, i fascisti di tutta Italia parlano di lotta per la casa (e a Roma tentano anche di scimmiottarla), di opposizione al governo Monti, di lotta contro il caro bollette, di autoriduzioni, ecc..negli anni venti i fascisti parlavano di socializzazione, di socialismo; nella repubblicà di Salò parlavano chiaramente di anticapitalismo, ecc…insomma, se la questione è non occuparsi delle cose di cui parlano anche i fascisti non facciamo più politica. Il problema è “valutare concretamente” ogni cosa che si dice, perchè tutto va valutato concretamente, sennò è ideologia, e noi siamo contro ogni forma di ideologia.

    • @MilitantBlog

      Compagni, la premessa del commento non era una “paraculata”, davvero non si riferiva neanche un po’ a voi e davvero l’ho messo perché anche l’altra mattina sono passato davanti a questo volantino. Ma il problema esiste e va riconosciuto, e non è confinato ai fascisti o ai rossobruni: nelle manifestazioni contro l’invasione dell’Iraq ricordo manifestanti che portarono bandiere tedesche e francesi ai cortei, perché dicevano che l’Europa doveva tenere testa agli Stati Uniti rappresentando un “contrappeso di pace”.

      Continuando l’OT dell’OT dell’OT: sulle “lotte per la casa” dei fascisti, la Fiamma Tricolore e Casapound parlino di “mutuo sociale”, che non è la stessa cosa che intendiamo noi come lotta per la casa. Il mutuo sociale vorrebbe dire che in sostanza lo Stato aiuterebbe le famiglie senza casa a diventare proprietarie di un appartamento ciascuna: si tratta di un ideale tipicamente di destra, come la reazionaria teoria “distributista” (“una mucca a testa”) di cui si parla qui: http://www.wumingfoundation.com/giap/?p=7170