Combattere il fascismo: Tolkien, gli Arditi del Popolo e mamma li Volsci!

Un manifesto-shock, realizzato da uno dei gruppi più attivi dell’antifascismo militante romano.
Un manifesto scientificamente disegnato per lasciare attoniti i fascisti (ma in realtà non solo loro), far incazzare l’estrema destra che ha strumentalizzato e tuttora strumentalizza JRR Tolkien, e annunciare a costoro che i tempi stanno cambiando, per le strade e nella Terra di Mezzo.

Si sa che negli ambienti fascisti e nazi sono frequenti i richiami – terminologici e iconografici – a un immaginario “fantasy” di derivazione tolkieniana, immaginario che però viene pervertito nei modi che sappiamo: Tolkien diventa una specie di Evola, i personaggi dei suoi libri diventano dei piccoli Codreanu etc.
Roma è una delle principali “piazze” di questa mistificazione.

Questo manifesto, però, non è solo un vaffanculo, un beffardo ma tutto sommato banale “rovesciamento”: opera una sintesi – certamente ancora precaria, ma non è un sincretismo gratuito – di molti più elementi. Chi non sa quali reazioni chimiche siano in corso in certi laboratori romani, rischia di leggere quest’immagine fuori contesto, ed equivocare.

Da alcuni anni determinate realtà dell’antifascismo romano stanno tentando un’operazione difficilissima e rischiosa: riprendersi, “ri-semantizzare”, decontaminare elementi di immaginario, simbologie del movimento operaio e della sinistra rivoluzionaria che i fascisti – nelle loro razzie culturali finalizzate a un mélange confusionista – hanno inquinato oltre ogni decenza.
A fare questo lavoro sono soprattutto RASH/Avanguardia e Patria Socialista, entrambi con base nella storica via dei Volsci del quartiere S. Lorenzo.

Dopo la sconfitta degli Arditi del Popolo (1921-22), il fascismo potè usurpare e monopolizzare il retaggio dell’arditismo post-bellico: simboli, motti, colori… L’oblio a cui per molti decenni è stata condannata la “Prima Resistenza” (perché sarebbe giusto chiamarla così) ha impedito di conoscere e riconoscere un contributo importante, e di capire genealogia e natura delle riappropriazioni e mistificazioni fasciste.
Aggiungiamo il fatto che già ai suoi albori il fascismo parassitò e pervertì elementi dell’immaginario socialista, anarchico e repubblicano (dalla parola “fascio” al nero degli anarchici), e il quadro è completo.

Da anni l’ultradestra recluta giovani spossessati e piccoli borghesi in via di proletarizzazione offrendo loro un finto sovversivismo, un “combattentismo” distorto, una versione deviata e depravata della lotta di classe. Si trova sempre un falso nemico sulla cui denuncia costruire un “socialismo degli imbecilli”, si tratti dell’ebreo, del migrante, del Rom, dell’intellettuale, del frocio etc.

Oggi alcune realtà che ostinatamente tengono il culo nelle strade della Capitale hanno deciso di contrattaccare. La strategia è “show, don’t tell“: mostrare che quel sovversivismo e quel combattentismo sono travestimenti, mascherate, rappresentazioni impoverite della lotta vera. La lotta che il fascismo nacque per contrastare e reprimere.
A quegli spossessati, questi compagni dicono: vi fate sedurre da impostori. Il vero combattimento ha luogo su un altro fronte. E’ un’altra tradizione quella da cui potete sentirvi riscattati. Valga come esempio quest’altro manifesto:

Il fascismo è un prodotto dello spavento, sorge e si diffonde per reazione alle lotte del movimento operaio e bracciantile. L’ascesa del fascismo è l’oscillare del pendolo a destra dopo l’oscillazione a sinistra del “Biennio Rosso”. Il Nemico n.1 è la Bestia Proletaria che ha osato alzare la testa.
La “cattiva coscienza” del fascismo nei confronti della sinistra (dalla quale il suo Duce proviene) e dell’arditismo (dal quale provengono svariati squadristi, benché in minor numero di quanto si pensi) si manifesta nell’adozione di simboli e nell’imitazione di retoriche degli avversari.
Il fascismo vince, e la memoria di quegli avversari diviene bottino di guerra: il vincitore si presenta come unica forza popolare e unico nemico del capitalismo (o meglio, di una più comodamente denunciabile “plutocrazia”).
Facendosi regime, il fascismo carpisce il mana dei nemici che ha sconfitto.

Non saremo noi a negare che il tentativo da parte dei compagni redskin romani di riprendersi il maltolto (recuperando la bandiera col teschio della Prima Resistenza, i richiami all’arditismo, l’immaginario combattente etc.) sia non solo difficile ma anche controverso. Sono i primi a saperlo, lo constatano ogni giorno.
Il problema è che le retoriche, spostandosi da un campo all’altro, subiscono mutazioni che sono reversibili a fatica. Certe immagini e metafore, certi motti, non vanno solo strappati al nemico, vanno anche “depurati”, disinfettati dopo il lungo contatto con quelle grinfie. E vanno adattati a un nuovo contesto.
Ad esempio, la retorica dell’arditismo è improntata a un cameratismo solo maschile. La Seconda Resistenza ebbe una presenza e un protagonismo femminile che la Prima non potè conoscere. Ci sono dei mutatis mutandis alti come montagne di cui tener conto.
Ancora: l’uso di parole rese tossiche come “patria” e “onore” è un’operazione a cuore aperto dall’esito imponderabile, roba da far tremare i polsi al chirurgo più imperturbabile del mondo.
Anche esplorare l’intersezione storica tra arditismo, movimento operaio e impresa fiumana richiede un senso della misura, un “orecchio interno” da equilibristi. E il recupero di un certo “culto dell’azione”, se ad altre latitudini fa pensare a Che Guevara, da noi fa scattare tutt’altre associazioni.
Sia chiaro: non scriviamo questo per informare quei compagni dell’esistenza dell’acqua calda. Come scritto sopra, loro sono ben consapevoli dei rischi. Stiamo cercando di spiegare la loro impostazione a chi non la conosce.

Ve ne sarete accorti: siamo dalle parti del dibattito sulla vignetta di Paride Puglia che ritrae Raffaele Speranzon ed Elena Donazzan come scarafaggi. Anche quella vignetta rientra in un phylum metaforico e iconografico operaio e antifascista, ma ingenera fraintendimenti. Perché quel phylum è spezzettato, interrotto da interferenze, da vuoti, da semantizzazioni nemiche. E non può essere ripreso come nulla fosse. Va ripreso sapendo che qualcosa (qualcos’altro) c’è stato.

Ad ogni modo, il lavoro che stanno facendo i compagni romani è interessantissimo, un “caso di studio” coi fiocchi e i controcazzi. Stanno combattendo una guerra da una trincea avanzatissima, e con pochissime alleanze. Se il tentativo fallirà, nessuno sa cosa potrà ulteriormente succedere a quei simboli. Se riusciranno nel loro intento, avranno fatto un… “lavoro sporco” per tutt* noi.

L’appuntamento romano fa parte di una due-giorni bolognese e romana su simboli, cultura di destra, “idee senza parole”, antifascismo etc.
La sera prima, a Bologna, Wu Ming 1 ed Enrico Manera presenteranno l’ultimo numero della rivista-libro Riga, interamente dedicato a Furio Jesi. Uno studioso di miti e simboli il cui apporto rimane fondamentale per affrontare tematiche roventi come quella appena esposta.
Inizialmente, la presentazione doveva tenersi al Modo Infoshop di via Mascarella. Poi c’è stata la mobilitazione antifascista in via Guerrazzi e dintorni, dove CasaClown vorrebbe aprire una nuova sede, a pochi passi da spazi di movimento come Bartleby, Atlantide e il circolo anarchico “Berneri”, in una zona della città che ha già espresso a chiare lettere il suo rigetto. E così la presentazione è stata spostata al Bartleby, dettagli qui.

***

Rinfreschiamo anche la memoria (e forniamo più dettagli) su un’iniziativa importante, stavolta riguardante il #rogodilibri:

COMUNICATO STAMPA
“Liberi di leggere, liberi di pensare”: 4 appuntamenti sabato 12 febbraio
.
“Liberi di leggere, liberi di pensare” è la manifestazione letteraria che si svolgerà sabato 12 febbraio in quattro simboliche “Case della Lettura”, rappresentative della realtà culturale cittadina, per promuovere una politica culturale adeguata alle esigenze formative della persona e rispettosa delle differenze culturali delle comunità. L’iniziativa è realizzata dalla Biblioteca Civica di Mestre e dall’Assessorato alle Politiche Giovanili e Centro Pace in collaborazione con l’associazione Donne di Carta, la Fondazione Querini Stampalia, Bsd, Università Ca’ Foscari di Venezia, la Libreria La Feltrinelli e l’Associazione Italiana Biblioteche, sezione Veneto.Una ventina di “persone-libro” dell’associazione “Donne di Carta” racconteranno o leggeranno brani di opere di autori contemporanei come Cacucci, Biondillo, Dazieri, Evangelisti, Lipperini, Scarpa, Saviano, Senesi, Wu Ming, Carlotto, ecc…Il programma prevede due reading a Venezia:
dalle ore 14.30 alle 15.30 alla Fondazione Querini Stampalia in Campo Santa Maria Formosa;
dalle ore 15.30 alle 16.30 alla Biblioteca Servizio Didattico Università Ca’ Foscari a Dorsoduro 1392, Zattere al Pontelungo.
Altri due reading si terranno a Mestre:
dalle ore 14.30 alle 15.30 alla Libreria Feltrinelli al centro commerciale Le Barche, con la partecipazione dell’assessore comunale alle Politiche educative, Andrea Ferrazzi;
dalle ore 15.30 alle 16.30 alla Biblioteca Civica Mestre, in via Miranese, 56, con l’intervento dell’assessore alle Politiche giovanili e Centro Pace, Gianfranco Bettin.

Per l’occasione sarà presentata a Venezia la “Carta dei diritti della lettura” che recentemente ha ricevuto un importante riconoscimento dal Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e che l’associazione sta presentando nelle biblioteche e librerie italiane.

Per informazioni: eventi.bibliotecacivica@comune.venezia.it, telefono  0412392082/62; centropace@comune.venezia.it tel. 0412747645/7671

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103 commenti su “Combattere il fascismo: Tolkien, gli Arditi del Popolo e mamma li Volsci!

  1. […] This post was mentioned on Twitter by Daniele Micci, massi508, Riccardo Cecchini, Matt.sto04, Gio Occhipinti and others. Gio Occhipinti said: RT @Wu_Ming_Foundt: Combattere il fascismo: Tolkien, gli Arditi del Popolo e mamma li Volsci!: Un manifesto-shock… http://goo.gl/fb/nQrSP […]

  2. Un paio di annotazioni a questo come sempre interessantissimo e stimolantissimo post: grazie anzitutto per avermi spiegato significato e collocazione politica di un gruppo come questo “Avanguardia” – e gli altri similari citati nel post – di cui avevo notato, nella mia ultima rapida trasferta romana, manifesti dalla simbologia che allora, nella fretta, avevo giudicato “equivoca” (dal nome scelto a quelle tre frecce) – ma che adesso mi si squaderna in tutta la sua ambiziosa progettualità politica di sinistra. Del resto un filosofo che anche a voi WM è sicuramente molto caro come Ernst Bloch (autore tra l’altro di un saggio su Thomas Müntzer che se non sbaglio è stato anche citato nei vostri post), proprio negli anni dell’ascesa al potere di Hitler, scriveva: “le vecchie forme collaborano parzialmente all’instaurazione del nuovo, quando sono correttamente impostate. Il nemico ha visto meglio degli amici che quelle forme sono estremamente efficaci. È tempo di recuperare qualcosa d’antico, l’urgenza dell’ora ce lo ordina” (cito da “Ereditá del nostro tempo”: il brano è del 1937, ma quell'”urgenza dell’ora” parla ancora a tutti noi).
    In questo senso – seconda annotazione – Furio Jesi è davvero un alleato preziosissimo: ho appena finito di leggere il volume monografico di Riga, e devo dire che, pur conoscendo assai bene tutti i saggi pubblicati del nostro, rimango ogni volta stupefatto nel vedere la passione, profondità e vivacità intellettuale che portava in tutto ciò che faceva; grazie anche a voi WM per aver contribuito al volume, e averlo piú volte segnalato.
    Un’altra breve annotazione riguarda infine le mobilitazioni circa l’affaire Speranzon/Donazzan/Preganziol, che ho seguito con grande attenzione: nel mio piccolo, essendomi trasferito da poco a Venezia, ho infatti proposto – con successo ed adesione unanime – a un circolo di lettura cui partecipo (che ha un respiro piuttosto impolitico), la lettura di un brano di un romanzo degli autori della “famigerata” lista del 2004 nel corso di una serata. Ora che mi avete edotto del reading a due riprese di sabato prossimo, parteciperò senz’altro.

  3. @ Gabriele
    Certo una cosa bisogna dirla: questo lavoro su Tolkien ci sta portando nei contesti più strani… Dall’Istituto Tomistico a via dei Volsci. Alla faccia di chi ci considera non dialoganti! :-)

  4. Plauso, corpo di Bacco!

  5. ci sono alcune cose che mi lasciano perplesso, non su tolkien, ma sulla possibilita’ (e sull’ utlita’) di recuperare certa iconografia.

    1) come dite voi, nel frattempo sono successe molte cose, e certi simboli andrebbero ri-semantizzati prima di poter essere ri-utilizzati. ma se un simbolo deve essere spiegato, perde tutta la sua efficacia.

    2) quell’ iconografia e’ legata a un tempo e soprattutto ad un luogo circoscritti. fuori dall’ europa non significa comunque niente.

    3) c’e’ il discorso di genere, che facevate voi: l’ arditismo era esclusivamante maschile.

    4) la cosa piu’ importante, per me. l’ esperienza dell’ arditismo di sinistra e’ comunque legata indissolubilmente alle trincee della prima guerra mondiale. essendo nato e vissuto sui luoghi di quella guerra, mi sono fatto l’ idea che quella guerra sia l’ ennesimo rimosso della coscienza collettiva italiana. per capirci: negli anni ottanta, quando ero un ragazzino ed ero in vena di far cazzate, con gli amici andavamo in giro per le vigne a fare raccolta di residuati bellici del ’15-’18 e li facevamo brillare sul greto del fiume. ogni tanto, dopo i temporali, trovavamo ancora ossa di soldati italiani o austriaci. mezzo milione di morti in un’ area non piu’ grande della provincia di bologna sono tanti. la retorica sotto cui sono stati sepolti e’ un ostacolo enorme anche solo per cominciare a parlare dell’ argomento.

  6. @ tuco

    Ti assicuro che anch’io ho le mie belle perplessità. Mica per niente nel post parliamo dei rischi a cui quell’operazione si espone. Si tratta di un’operazione di trincea, fatta da chi ci si sente o ci si trova, per le strade di Roma. Per altro, proprio dell’uso del simbolismo vorrei andare a parlare lì da loro, dato che i fascisti danno da sempre una lettura simbolista di Tolkien e in questo modo riescono a fargli dire quello che pare a loro. Tra il simbolo e l’idea ci deve stare la parola, anche a costo di perdere qualcosa in efficacia. Altrimenti vale tutto e il contrario di tutto (come piace ai fascisti, appunto).

  7. a proposito di:
    “Il fascismo è un prodotto dello spavento, sorge e si diffonde per reazione alle lotte del movimento operaio e bracciantile. L’ascesa del fascismo è l’oscillare del pendolo a destra dopo l’oscillazione a sinistra del “Biennio Rosso”. Il Nemico n.1 è la Bestia Proletaria che ha osato alzare la testa.”

    sto leggendo Canale Mussolini, di Pennacchi, che parla (fino a dove sono arrivato) di questa famiglia socialista che diventa fascista della prima ora e partecipa alla marcia su Roma.
    L’avete letto? Che ne pensate?

  8. Del resto anche gli orchetti non sono che elfi corrotti.

  9. Interessantissimo post. Ammetto la confusione generata da alcuni vostri tweet sull’argomento (la locandina di Avanguardia, in primis).

    Resto a Furio Jesi. In “Cultura di destra”, fra le altre cose, Jesi dedica spazio a quello che definisce lo “spirito legionario”, ovvero uno dei tratti fondamentali del catalogo valoriale del militante di destra. “Spirito legionario”, che l’autore pone in relazione ad una vera e propria “religione della morte”, alla ricerca, cioè, dell’azione per l’azione, del bel gesto, di una testimonianza intesa come vita eroica, guerriera. Ecco il senso stesso della militanza (a destra): “non il vincere o morire, ma il vincere morendo”. Jesi analizza, a supporto della sua teoria, l’esperienza e l’iconografia della Guardia di Ferro, del Tercio spagnolo e dell’arditismo italiano, pur trovando in quest’ultimo differenze importanti con i primi due (il vitalismo del fascistissimo “Presente!” alla commemorazione funebre, il “Me ne frego”, sono senza dubbio distanti dalla mitologia funeraria di una “religione della morte”).

    E allora, posto che di “spirito legionario”, seppur con alcune peculiarità, si possa parlare anche per l’arditismo, se nella pasta ideologica stessa di cui questo “movimento” si nutre possono essere rintracciati ideali “guerrieri”, non da ultimi quelli d’ordine e gerarchia, e quindi del militarismo; se nello spirito degli arditi appare possibile rintracciabile la volontà di appartenere ad una “élite di eroi”, che combatte sprezzante del pericolo e finanche per la “mera testimonianza” (religione della morte), mi pare quantomeno complessa la successiva immedesimazione dell’arditismo ad una cultura socialista e, in definitiva, di sinistra. Perché il militarismo (le marce, i rullanti, le bandiere, gli anfibi e le mimetiche delle parate RASH), il patriottismo (tricolori e identità nazionale), l’uso politico che la violenza riveste per l’arditismo “contemporaneo” di Avanguardia e Patria socialista, sono in palese contraddizione con l’internazionalismo, con l’egualitarismo ed il pacifismo, valori consolidati nelle culture di sinistra, per quanto antagoniste esse si dichiarino.

  10. Beh, mi pare che tony barrell non potesse dir meglio (e auspico che apra un dibattito, e non solo levate di scudi pro o contro).
    Io personalmente non so, per esempio, se dividere semantica e semiotica (ovvero segni – frecce, avanguardie, élite eroiche, arditismo, virilismo comunitario) e significati (vale a dire, testi, contesti e sistemi entro cui quei segni si depositano e assumono valore) basti a sostenere la plausibilità politica di tali operazioni; se in altri termini sia sufficiente che quei segni vengano usati dai “compagni” (e dunque da coloro che si richiamano ‘comunque’ al vocabolario e al sistema valoriale marxista, sia pure nella sua accezione più lata), per renderli fruibile e legittima. Vi assicuro che non é per polemica, insomma per partito preso, che scrivo questo, ma perché è un argomento che a me interessa e che in questo caso va pesantemente chiamato in causa. Penso qui a una figura certo esemplare in questo senso come Ernst Niekisch, di formazione socialista-consiliare, poi amico di Ernst Jünger e teorico della “santa alleanza” tra socialismo prussiano e bolscevismo sovietico, legato alla Rivoluzione Conservatrice e in seguito perseguitato e imprigionato da Hitler; dopo la guerra sceglie di abitare a Berlino Est e, anche se non se lo fila nessuno, continua a predicare quel “nazionalbolscevismo” per cui era diventato famoso negli anni ’30…
    Una figura così è di destra o di sinistra?

  11. @ tony barrell:

    Il mio intervento alla presentazione muoverà precisamente da “Cultura di destra” di Jesi. Infatti il caso Tolkien, la sua sussunzione da parte della destra, è paradigmatico di quello che Jesi scrive nel saggio. Inoltre presentiamo un libro in cui Tolkien mette in discussione proprio il paradigma eroico tradizionale… Per altro, la contraddizione tra eroismo vecchio stampo e ricerca di un eroismo diverso anima l’intera opera di Tolkien, quindi, che dire? Non andiamo certo a Roma per blandire un certo tipo di immaginario.
    La domanda che dovremmo porci infatti è piuttosto un’altra: ne usciremo incolumi? :-0

  12. Salve, scrivo da Parigi in connessione volante. Vorrei provare a tenere dei punti fermi, perche’ mi sembra che l’intervento di Tony, benche’ benintenzionato e fondato su preoccupazioni (e problemi) reali, faccia un po’ di confusione su alcuni nodi storici, e il rischio e’ che da qui la discussione debordi.

    1) Quella dell’arditismo di sinistra e degli Arditi del popolo fu un’esperienza importante e pionieristica di resistenza popolare organizzata e dal basso allo squadrismo. Gli Arditi erano una forza composita, interpartitica, eterogenea, c’erano militanti di base socialisti, anarchici, repubblicani, comunisti. Fu principalmente questo a suscitare i sospetti dei partiti operai, e a determinare un vero e proprio boicottaggio con conseguenze fatali. L’ascesa del fascismo era resistibile e scongiurabile, ma il settarismo fece il gioco delle camicie nere.

    2) Ridurre quel movimento – che suscito’ le simpatie di persone come Errico Malatesta – a istanze militariste e a una “religione della morte” legionaria e’ una semplificazione infondata. Puo’ solo basarsi sull’amplificazione delle risonanze di qualche segno che *oggi* e’ simbolo fossilizzato e impoverito, mentre allora era ricco di sfumature e operante in una situazione vivace e complessa.

    3) Gli AdG non volevano affatto “vincere morendo” ne’ tantomeno “fare testimonianza”. Il fascismo volevano fermarlo davvero. E l’accostamento – anche se solo “tematico” – ai fascisti spagnoli e’ offensivo, dato che alcuni importanti ex-AdG, come Alceste De Ambris, in Spagna ci andarono con le brigate internazionali, a combattere *contro* chi gridava “Viva la morte!”

    4) Gruppi come RASH e Patria Socialista si muovono quotidianamente in un territorio metropolitano in cui l’estrema destra gioca sull’alienazione e frustrazione di tanti ragazzi, e li attira a se’ promuovendo “sottoprodotti” e surrogati di antagonismo. Mi sembra comprensibile che abbiano sviluppato una strategia di ricostruzione di un immaginario combattente: si tratta di sottrarre ai fascisti un enunciato alla volta, un centimetro di territorio alla volta, un ragazzino alla volta. E’ difficile opporre alle spranghe e alle lame le “punte di forchetta”, è difficile giudicare se non si sta in quel territorio e in quei milieux di cultura giovanile;

    5) Il fatto che i compagni (perche’ va ribadito con forza che sono compagni) di Avanguardia abbiano invitato WM4 a presentare un libro in cui si criticano e smontano il “coraggio nordico” (che e’ poi la stessa religione della morte denunciata da Jesi) e lo *smodato* (“Ofermod”) senso dell’onore guerriero (su cui invece fanno leva le letture destrorse di Tolkien) testimonia apertura mentale e dimostra che, come si scriveva nel post, sono ben consci del problema, se lo pongono e vogliono discuterne;

    6) I rischi ci sono eccome, e lo abbiamo scritto. Ma concentrarci solo sui rischi ci impedirebbe di capire molte cose e riconoscere quello che e’ comunque un contributo importante all’antifascismo, dato da gente che lavora sul campo. Insomma, l’impostazione di questi compagni puo’ essere ritenuta controversa (e infatti suscita controversie), ma non e’ gratuita.

    N.B. Rettifica aggiunta dopo: ho scritto “Alceste De Ambris”, ma non era a lui che pensavo (e non era un AdG), mi riferivo a Guido PicellI.

  13. I simboli sono magici, posseggono un forte “mana”, non a caso vengono rivendicati da una cultura o dall’altra, nn c’è dubbio.

    Un’altra caratteristica dei simboli è quella di essere un attratore verso chi li detiene, chi fa uso di un simbolo ha un potere su coloro che ne sentono l’attrazione.

    Proprio questo mi rende perplesso, se ci si slegasse dal potere di quei simboli che sono impugnabili, ci ritroveremmo a muoverci verso un modello più individuale (ma non individualista eh).
    E’ più facile radunarsi intorno ad una immagine forte ed aggregante che ragionare sul contesto in cui questo concetto è nato, dove sta andando e dove ci porta.

    Mi rendo conto però della necessità di riappropriarsene visto il potere di cui sono dotati è legato a doppio filo con coloro che lo riconoscono in esso, indi per cui meno icone possiede una cultura degenere, meno fattori aggreganti potrà mettere in gioco.

  14. @ Wu Ming 1

    Al di là delle legittime perplessità e delle battute, bisogna dire di più. Questo è il primo invito che viene da sinistra a presentare il mio lavoro su Tolkien. Finora le mie discussioni su Tolkien le ho condotte o qui su Giap o vis-a-vis in contesti non militanti, con accademici, filosofi tomisti, laureati della Gregoriana, etc. Per la prima volta il mio lavoro su Tolkien (faccio notare che sono almeno tre anni che mi impegno in questo senso, senza contare la stesura di Stella del Mattino) viene trasferito “in strada”, nella riflessione e nella pratica politica quotidiana, che poi è là dove dovrebbe stare sempre, secondo me.
    E poi le contraddizioni non devono far storcere il naso a nessuno, sono quelle che mandano avanti le lotte e ci aiutano ad acquisire consapevolezza. Come diceva il Grande Timoniere: che cento fiori fioriscano! :-)

  15. …l’importante e’ che siano tutti rossi.

    (cosi’ la pensava il Timoniere) ;-)

    Hai fatto bene a integrare il mio commento, a maggior ragione va riconosciuto il contributo dei compagni romani, sono la prima realta’ di movimento a manifestare un interesse concreto per il tuo lavoro su JRRT.

  16. Ho da poco letto “Fiume di tenebra” di Massimiliano e Pier Paolo Di Mino, romanzo che racconta gli ultimi giorni dell’impresa di Fiume e che se non sbaglio nasce proprio nell’ambiente romano di cui sopra.
    Di difficile interpretazione ma consigliatissimo.

  17. Piccola considerazione sulla grafica (da “addetto ai lavori”):
    il manifesto è davvero shock e credo vada esattamente nella direzione voluta di risemantizzazione falsamente di destra.
    Detto questo, non credo ( e neppure i compagni dei Volsci, immagino) che basti riprendersi determinati simboli (o colori) perchè questi cambino di significato. Penso, però, che sia giusto iniziare a farlo, quantomeno per recuperare una parte di memoria storica su cui -proprio a causa di, chiamamoli, misunderstanding- è calato il silenzio.
    Il caso degli Arditi del Popolo lo trovo paradigmatico:
    oppositori del fascismo, prima gli “rubano” i simboli e poi ne viene cancellata la memoria. Ovvio che, per parlarne adesso, come dicono i Wm, sia necessario “un orecchio interno da equilibristi” ma devo dire che l’operazione rappresenta una vera e propria case history di strada.
    Strada dove i riferimenti, da destra, di quell’immaginario sono inquetantemente presenti.

    Un’ultima considerazione, leggermente OT e sempre da grafico: certo che se si recuperasse anche la tradizione grafica antifascista che parte da Albe Steiner (http://it.wikipedia.org/wiki/Albe_Steiner), non sarebbe male…

  18. Capisco le perplessità, i caveat e i distinguo, ma non sarei troppo rigido nel vincolare simboli e significati, significati e contesti. Come le narrazioni, anche i simboli sono sempre negoziabili, proprio perché in rapporto stretto con le conoscenze di sfondo di chi li usa. Se è possibile “raccontare altrimenti”, allora è anche possibile “simboleggiare altrimenti”, nella doppia accezione di usare simboli diversi per dire le stesse cose e di usare gli stessi simboli per dire cose diverse. L’importante è che siano chiare le differenze, chiari i contesti, cristalline le pratiche, altrimenti il simbolo “riposa in sé stesso” o finisce per “dire tutto e il contrario di tutto”.
    Pensate alle mille giravolte che ha fatto nei secoli un simbolo mortifero come il Jolly Roger dei pirati e di Capitan Harlock: http://it.wikipedia.org/wiki/Jolly_roger

  19. per farsi girare la testa:

    http://ita.anarchopedia.org/File:Battaglione_anarchico_Malatesta.jpg

    http://ita.anarchopedia.org/File:Miliziani_antifascisti_della_centuria_Errico_Malatesta.jpg

    (nell’ anno 2011 pero’ continuo ad essere perplesso. ma non vivo a roma e quindi probabilmente non posso capire.)

  20. (Premettendo che mi rode abbondantemente il culo, perchè l’argomento Tolkien mi interessa assai ma il 19 sto a Ferrara. )

    Secondo me, la stessa croce celtica (Che poi, non contenti, hanno accozzato con l’Aquila romana, che è come mettere il Kokopelli nativoamericano sulla bandiera americana) è assurda, come simbolo fascista: A) E’ nata in Francia, ma -che io sappia- è propria dei celti irlandesi/britannici, non dei galli. Quindi, pur volendo giustificare l’appropriazione come simbolo “patriottico”, secondo me, resta un’appropriazione indebita. B) Rappresenta l’unione tra il terreno e il celeste (Oltre che -vabè- un simbolo religioso del cristianesimo Irlandese, San Patrizio&co., che anche i Cristiani l’han sempre saputo fare bene, appropriarsi dei simboli altrui, del resto) . Quindi, se tralasciamo l’interpretazione che le è stata cucita addosso DOPO l’appropriazione fascista da quel cretino di Guenon e ripresa da quell’altro cretino di Evola, secondo me, manco come senso c’azzecca.

    Il discorso, è lo stesso, con la svastica nazista. Per non parlare, poi, di Nietzsche, per dire solo il primo che mi viene in mente. Ma lui, per fortuna, ce lo siamo quasi completamente ripreso.

  21. L’interesse dell’esperienza RASH rientra a pieno titolo nel tentativo di ridefinire uno stile popolare, militante, critico e autorevole, che sia in grado di comunicare davvero con le periferie. Uno stile di lotta adatto all’oggi.
    La dialettica, dice Tronti, non è mai tra vecchio e nuovo. E’ sempre tra ciò che merita di rimanere e ciò che è costretto a cambiare. Credo che ognuno di noi, noi che abbiamo concepito l’idea di una emancipazione radicale ed egualitaria del reale (del reale che è l’essere sociale dell’uomo) debba confrontarsi con il peso di tutta la tradizione di lotta che portiamo sulle spalle, e assumercene se possibile una totale responsabilità.
    Per quanto mi riguarda, ogni sforzo condotto in quella direzione è encomiabile

  22. Vi riporto al volo il commento che ha appena fatto Raul, il compagno libraio franco-spagnolo che mi ospita a Ivry-sur-Seine. Gli ho riassunto il dibattito e gli ho mostrato il poster “Roma combattente”, e lui ha detto: “estaran de muy mala hostia los fachas” :-)
    P.S. Stavamo ascoltando “Italia degli sfruttati” dei Nabat, che anche qui sono una band di culto :-)

  23. @ wm5

    il problema pero’ e’ che certi simboli ormai attivano certi frame, e non e’ che questo si possa “riprogrammare” in due agili mosse. ripeto: io non vivo a roma e probabilmente non posso capire. pero’ ad esempio capisco benissimo la reazione che questi sloveni di basovizza/bazovica

    http://www.youtube.com/watch?v=7lPEWf-F0KE

    avrebbero di fronte a un’ estetica che ricordasse, anche solo vagamente, quella di questi cazzoni

    http://www.youtube.com/watch?v=o31u7wiDYsI#t=2m50s

    anche questi aspetti non vanno sottovalutati.

    (cio’ non toglie che gli arditi del popolo dovrebbero finalmente avere il posto che gli spetta nella famiglia dell’ antifascismo)

  24. la locandina e` fantastica. Mi sembra incredibile che sia il primo invito da sinistra per parlare di Tolkien. Ancora c’e` l’ostracismo? troppo assurdo. E` evidente che non sia una narrazione di destra quella di Tolkien. Non ho mai capito come possa essere stata interpretata cosi`in Italia.

  25. Vedi che succede quando ti colleghi e lasci commenti al volo? Mi arriva un sms di Girolamo De Michele con scritto: “Alceste De Ambris sarebbe andato volentieri a combattere in Spagna, ma è morto nel ’34!” E allora mi accorgo della svista: volevo scrivere Guido Picelli, e invece – siccome si era evocata l’impresa di Fiume – dai polpastrelli è uscito De Ambris, che non era nemmeno negli AdG! :-(

  26. Liberare Tolkien dalle grinfie del neofascismo è sacrosanto.
    Ma ciò che “Patria socialista & Co.” portano avanti è molto altro, e non mi piace.
    Sono nato e vivo a Parma, città delle Barricate, quelle che nel 1922 fermarono le squadracce di Italo Balbo grazie agli Arditi del Popolo di Guido Picelli che trasformarono un intero quartiere popolare – l’Oltretorrente – in un fortino inespugnabile.
    Oggi io milito in una organizzazione comunista internazionalista che ha la sede nel cuore dell’Oltretorrente e che è dedicata a Guido Torricelli, compagno di Picelli sulle Barricate.
    Per i compagni di Parma, insomma, le Barricate del ’22 e gli Arditi del Popolo sono un vero e proprio mito, ma questo non significa recuperare degli Arditi proprio gli aspetti più ambigui e deleteri, gettando alle ortiche l’elemento più irriducibile e più antitetico all’ideologia fascista che è L’INTERNAZIONALISMO PROLETARIO.
    A Roma non ci sono solo quelli di “Patria Socialista”, ci sono anche gli internazionalisti (e non parlo solo dei “nostri”) che devono guardarsi le spalle dalla teppa nera, che cercano di lavorare nelle periferie, e che proprio per questo insistono sul classismo e sull’internazionalismo, non certo sulla patria, “ultimo rifugio delle canaglie”. L’amore per la propria terra non c’entra un fico secco con l’uso politico che di questo sentimento hanno fatto fascismo e STALINISMO.
    Non si tratta solo di simboli e forme: si tratta di contenuti!
    E’ necessario combattere il fascismo, ma anche lo stalinismo. Contro il nazional-socialismo, per il socialismo nazionale?
    No grazie.

  27. In fondo, mi pare ci sia accordo sul fatto che “rileggere” Tolkien, depurandolo della retorica con cui certa destra ha provato a spacciarlo ai contemporanei, sia un’operazione culturale importante e da condividere.

    Ma il punto qui verte (anche) su altro. Perché, ammettendo pure l’utilità di una “riscoperta” dell’arditismo degli albori come Resistenza, mi pare forzata e, in fin dei conti, cedente al passatismo l’azione dei compagni romani sul recupero della simbologia combattentistica degli anni Venti. Che senso ha “riappropriarsi” di un catalogo di immagini (ormai) “comunemente” associato ad una certa cultura? Immagini consolidate, sedimentate nella memoria di un Popolo e della sua storia. Mi si risponderà che il fulcro della discussione è proprio questo: rimettere a posto le cose, fare ordine nel racconto collettivo di un Paese. Ma, ripeto, a quale scopo?

    Essere presidio urbano (e i compagni a San Lorenzo lo sono), strappare periferie e zone d’ombra alla deriva del radicalismo di destra, è Resistenza nel senso più alto del termine. Ma è davvero necessario riproporre (o riappropriarsi) di un metodo, un linguaggio, una simbologia considerata oramai da quasi un secolo distintiva del fascismo, in particolare della sua versione movimentista e squadrista? Io credo di no. Credo che, al contrario, si possa difendere a denti stretti un principio di solidarietà, senza scivolare nel cameratismo. Che ci sia spazio per la fratellanza, senza produrre appartenenza elitaria. Che si possa “presidiare” un territorio, uscendo dalla “logica dell’assedio”. Un territorio “fisico” (l’Università, il quartiere, la periferia, la Curva) e culturale (l’antifascismo), da non intendere più come qualcosa da “difendere” (logica reazionaria dell’assedio), ma da “condividere”. Anche se questo aprirebbe un discorso addirittura più vasto sul senso (e sulle contraddizioni) dell’antifascismo militante oggi.

    Perché mai “uno stile di lotta” per essere “adatto all’oggi” (WM5) dovrebbe cedere al compromesso con la dignità storica, ed iconografica, di questo Paese?

  28. Compagni, sono tutti spunti importanti e preoccupazioni che, come avete visto, in varie misure condividiamo. Ma rinnovo il mio invito a non semplificare. E infatti sono molte le questioni che complicano il quadro:

    1) d’istinto, l’uso della parola “patria” urta anche me, però mi sforzo di andare oltre la prima impressione, perché so che quel termine assume significati diversi a seconda del contesto. Leggete questo motto degli Arditi del Popolo:
    “La nostra Patria è ovunque siano popoli oppressi: operai, masse lavoratrici, Arditi d’Italia: a noi!”
    [Sì, anche “A noi!” i fasci l’hanno rubata…]
    Ora, ditemi se c’è qualche differenza sostanziale rispetto a:
    “Nostra patria è il mondo intero, nostra legge la libertà, ed un pensiero ribelle in cuor ci sta”.
    Gli Arditi del Popolo ebbero contatti e osmosi con gli anarchici. Uno come Malatesta li avrebbe mai cagati o addirittura rispettati se fossero stati nazionalisti anziché internazionalisti?

    2) sempre sull’uso di questa parola, io riscontro l’esistenza di due-pesi-e-due-misure.
    *Da sempre* la rivista ufficiale dell’ANPI si chiama Patria indipendente (che, volendo, è più fiacco e “a destra” di “Patria Socialista”) e ha il tricolore nella testata, ma non mi vengono in mente chissà quali levate di scudi.

    3) Tony, il tuo secondo commento è ponderato e le domande sono più che pertinenti, però io credo che tu stia saltando troppo facilmente da una metafora a un’altra che ha implicazioni molto diverse, cioè dal presidio urbano all’assedio (subìto, in questo caso). La strategia comunicativa dei RASH e di Patria Socialista può convincere o meno, ma non mi sembra difensiva. Mi sembra eminentemente offensiva, basata su continue e perturbanti incursioni in territorio nemico. E infatti i fasci “estan de mala hostia”.

    4) Giacomo, sai meglio di me che se c’è una posizione che gli Arditi del Popolo non ebbero (e storicamente non avrebbero potuto avere), questa è lo stalinismo. Parliamo di un movimento proletario autorganizzato dalle forti pulsioni libertarie, operante quando, a molte migliaia di km di distanza, Lenin era ancora vivo e Stalin non aveva ancora presentato la tesi del “socialismo in un solo paese”. Nel coacervo di riferimenti che trovano in quei manifesti romani una prima sintesi, lo stalinismo mi sembra tutt’altro che dominante. Anzi, non c’è proprio.

  29. @ EveB.
    Un altro simbolo da purificare dall’immaginario di destra sarebbe la svastica. Simbolo antichissimo e diffuso in molte culture (ne ho vista una a più braccia anche su un kardiophylakes abruzzese, scusate il campanilismo). Per un suo significato rimando a quel “cretino” di Guénon, che ogni volta che ne parla non perde occasione di infamare quei “razzisti tedeschi” che se ne sono appropriati dandogli un significato abominevole.
    Saluti.

  30. Anche Ernst Bloch osserva che il fascismo ha trafugato determinati elementi del patrimonio simbolico rivoluzionario, e punta il dito contro l’insipienza della sinistra che si è lasciata derubare:

    “Cio’ che il partito comunista ha fatto prima dell’ascesa di Hitler era giusto; solo ciò che non fece era sbagliato; sbagliato, per esempio, che non notasse l’ubriacatura e non accettasse il montage che catturava la fantasia. Fece così uso, nella sua propaganda, d’una lingua che non raggiungeva i ceti a cui si rivolgeva. I concetti di ubriacatura, montaggio, espressionismo sarebbero dovuti entrare nel movimento. Avrebbero dovuto contribuire a rifunzionalizzare la sua lingua e i suoi contenuti. I nazisti ci hanno continuamente derubato; vivevano del fatto che noi avevamo abbandonato i territori della grande tradizione rivoluzionaria, conservandone al massimo i nomi, come Spartaco. La dottrina del Dritte Reich (Terzo Regno) risale a Gioacchino da Fiore, dal XIII secolo. […] L’espressione usata da Heine e anche da Ibsen, circola un po’ dappertutto. I nazisti, infine, l’hanno assunta e banalizzata […]”. Ernst Bloch, Marxismo e utopia, Editori Riuniti 1984, pp. 90-91; citato in Id., Spirito dell’utopia, Rizzoli 2009, p. 365n.

    Questa dinamica si è verificata spessissimo un po’ a tutti i livelli. Si pensi al concetto di “libertà” e a come abbiamo permesso che se ne appropriassero i nostri avversari. Per questo l’iniziativa dei compagni romani è interessante e meritoria: è ora che iniziamo a riprenderci ciò che è nostro.

  31. Salve, sono Pier Paolo uno degli autori di Fiume di tenebra. Intervengo sulla nota di marco (che ringrazio per il consigliabilissimo). Spero che la difficile interpretazione del romanzo non riguardi la nostra collocazione ideologica. Se non bastasse l’aggiornata storiografia sull’impresa dannunziana a togliere molte ambiguità, dovrebbe valere il fatto che di questa “utopia” raccontiamo la sua ala più oltranzista. Se il racconto può dare adito ad ambiguità (spero di no), può essere dovuto al fatto che siamo stati molto più attenti al carattere, per così dire, mitologico dei personaggi che alla rappresentazione storica. Ma il racconto di eroi che patiscono e subiscono una sorta di “iniziazione” dolorosa che li portano a lottare più per difendere che per conquistare, e a curare più che a distruggere è nelle nostre intenzioni una metafora che ancora di più ci colloca lontano dalle retoriche di destra. In generale, penso che tutti stiamo cercando di fare un lavoro diverso da quello di appropriarsi di simboli altrui, o elaborare semplici paradossi. Il 19 sarà una bella occasione per parlare anche di questo.

  32. credo che @tuco abbia colto un aspetto fondamentale in questa questione: Roma.
    Qui, a Roma appunto, già solo pronunciare il nome della nostra città apre una ridda di immagini che certamente “voi umani, compagni, potete immaginare”…
    Il Colosseo davanti agli occhi sempre, e il Balcone (lo sapete, vero?, che è stato solennemente riaperto ed è visitabile, da quel bel monumento storico che è?), e via Rasella (ogni volta bisogna ricominciare da capo a raccontare com’è andata), e i muri sempre e comunque pieni di simboli, frasi, slogan fascisti, e gruppi di intellettuali evoliani che ancora continuano a incontrarsi in salotti riservati come se il buon Julius fosse ancora vivo, e come dimenticare Casa Pound…
    Questa è Roma: una città che è di per se stessa un’immagine vivente, un simbolo tirato non da tutte le parti, ma da una sola. Per questo abbiamo assoluto bisogno di scardinare il legame “immagine-concetto”, abbiamo assoluto bisogno di ricostruire la storia, di spiegarla, di raccontare.
    Roma ha resistito, ma non è stata città di Resistenza. Non tutti abbiamo nonni, zii, bisnonni che sono andati in montagna a combattere; è più facile avere un bisnonno capo-caseggiato, purtroppo. L’atmosfera “diffusa” è questa. Altrimenti dalle bancarelle di via del corso sparirebbero i calendari dedicati al Duce, anzi: sarebbe impossibile trovarli.
    Non voglio semplificare, ma solo spiegare perché sia così importante questa lotta, e perché – con tutte le attenzioni del caso – sia così importante combatterla a partire dalle immagini.

  33. Si sa che esistono due concetti molti diversi associabili alla parola “patria”. Nell’Ottocento e nel Novecento in Europa quella parola è diventata sinonimo di “nazione”, slittando da un ambito ideale e di principio a quello geografico, etnico, perfino razziale. Il movimento socialista non è certo rimasto immune da questo slittamento semantico, come fa notare Giacomo. Lo stalinismo infatti propugnò il “socialismo in un solo paese”, e rideclinò l’internazionalismo proletario come movimento incolonnato dietro un solo paese guida, l’Unione Sovietica. Tuttavia l’universalismo illuminista, nel Settecento, aveva originariamente attribuito alla parola “patria” un significato del tutto diverso. Voltaire diceva che la patria è laddove si vive felici. Patria era un’idea strettamente connessa al cosmopolitismo illuminista, che, se vogliamo, è ciò che il socialismo rideclina in termini classisti approdando all’internazionalismo proletario, appunto. La Rivoluzione Francese era sì “patriottica”, ma nel senso che propugnava ideali universali e aveva la pretesa di esportarli in tutto il mondo. Produsse infatti una Dichiarazione dei diritti dell’Uomo e del cittadino, laddove il cittadino era cittadino del mondo.
    Se per esempio guardiamo alla storia dell’America Latina, continente multietnico e di fortissima immigrazione, ci rendiamo conto che lo slittamento da “patria” a “nazione” ha trovato molte più resistenze, ovvero è rimasto (tanto nell’Ottocento quanto nel Novecento) più legato all’accezione illuminista-massonica del termine. Da Simon Bolivar a Che Guevara esiste laggiù tutta una tradizione bicentenaria di combattenti internazionalisti che con le loro azioni e i loro discorsi sottoscrivevano il motto “Patria o muerte!”, intendendolo come sopra.
    Giustamente Tuco e altri fanno notare che nel 2011 non si può fare finta che la storia europea non sia trascorsa e che il concetto di patria non sia diventato scivolosissimo. Lo è eccome, l’abbiamo detto a chiare lettere. Ma questo scivolone è stato possibile soprattutto perché quel terreno è stato abbandonato all’avversario. Le parole, come i simboli, appunto, vengono risemantizzate dalle lotte e dai conflitti reali. E’ precisamente quello che ci dice Tolkien con il suo lavoro sulla parola “ofermod” ne La Battaglia di Maldon. Lavoro di filologia creativa e, come dice Tom Shippey nella post-fazione al volume da me curato, di sovrainterpretazione “politica”. Una forzatura, quella di Tolkien, che nasce appunto da istanze morali e politiche, ovvero dall’osservazione di quello che i nazisti stavano facendo in Germania negli anni Trenta e a cui – continua Tolkien – certa accademia britannica aveva implicitamente contribuito almeno dall’ultimo quarto dell’Ottocento. Tolkien lo diceva da cristiano, non certo da marxista, ma la sostanza non cambia. In altre parole Tolkien problematizza la neutralità della filologia e, a conti fatti, ne sancisce l’impossibilità. Perché i simboli e le parole non sono neutri, e non “riposano in se stessi”, ma vengono fatti agire nel mondo. Per questo vanno spiegati, enunciati, “etimologizzati”.
    E questo vale tanto più per lo stesso caso Tolkien nel suo insieme. La questione non è rivendicare l’autore a un filone progressista nel quale non può in alcun modo essere inserito (che è quello di cui ci accusano i fascisti, per confondere le acque), ma al contrario restituirlo alla complessità che gli è propria. Non siamo noi che vogliamo riprenderci Tolkien, sono loro che se ne sono indebitamente appropriati, livellando le contraddizioni che lo hanno animato per tutta la vita e che ne sanciscono la grandezza letteraria, ovvero elidendo o traducendo a modo loro i mille “ofermod” (parole, scene, concetti) di cui la sua opera è piena zeppa.

  34. chiedo scusa se mi ripeto, ma vorrei richiamare l’ attenzione su una cosa. se si parla di arditi, bisogna parlare di fiume. ormai la storiografia ha (giustamente) rivisto il giudizio sull’ esperienza fiumana, evidenziandone le componenti libertarie e socialiste. ma da qui a far pendere la bilancia tutta da quella parte ce ne passa. l’ impresa di fiume nacque dalla retorica della “vittoria mutilata” e come continuazione dell’ irredentismo. possono essere interessanti alcuni dati sulla composizione demografica di fiume presi da wikipedia:

    “nei risultati del censimento ungherese del 1910: su 50000 abitanti, il 48,6% di lingua materna italiana; il restante 51,4% era diviso in varie etnie. Nel censimento promosso dal Consiglio Nazionale Italiano cittadino nel 1918, su una popolazione totale leggermente diminuita: 62,4% italofoni; 37,6% altri”

    voglio dire che la questione di fiume e’ complessa, come del resto tutta la questione delle terre annesse all’ italia nel 1918 (bella scoperta, direte. ma credo che il 99% degli italiani non abbia la piu’ pallida idea di dove sia fiume). vivendo a trieste, vedo che di solito in italia il modo di ragionare su fiume e’ molto italocentrico, e non tiene conto di quel 50% di non italiani che vivevano nella cosiddetta venezia giulia. da queste parti oggi, nel 2011, i nazionalismi italiano, croato e sloveno sono in fase di recrudescenza. vorrei che ci si rendesse conto di queste cose, perche’ quel che a roma puo’ avere un senso, qui ne ha un altro completamente diverso. dal mio modesto punto di vista: dove ci sono varie “patrie” che si scontrano ormai da cento anni, forse l’ unica via d’ uscita e’ quella di mandare a cagare l’ idea di “patria” e di inventarsi qualcosa di diverso.

  35. @ tuco

    Mandare a cagare l’idea di patria e inventarsi qualcosa di diverso è una strada, certo, così come tentare spericolatamente di risemantizzarla, per quanto il rischio di scivolare sia alto. Come fai notare, molto dipende dai contesti, che sono diversissimi l’uno dall’altro. Resta il fatto che quel qualcosa di diverso sarebbe comunque soggetto alle forze reali della storia, ai processi di appropriazione indebita, etc., proprio come è successo al concetto di “patria” nel passaggio dall’illuminismo a romanticismo.

  36. @ Kulma,

    pensare di poter liberare la svastica dalle connotazioni naziste sarebbe a dir poco velleitario, qualunque tentativo in tal senso sarebbe votato al fraintendimento più violento e al fallimento immediato. In occidente la svastica è non-depurabile, e tale rimarrà per secoli. La svastica è diventata “simbolo” nell’accezione negativa del termine, quella che noi usiamo quando contrapponiamo la fissità e chiusura del simbolo alla vivacità e mobilità dell’allegoria. In Europa e nel resto dell’occidente la svastica è chiusa e non riapribile, è ferma e non riavviabile, è pesante e non alleggeribile, “significa quella cosa lì”.

  37. @tuco: io l’idea di Patria l’ho “mandata a cagare” da un pezzo, il termine su di me ha un effetto emetico, oggi a Bologna gli autobus sono impavesati col tricolore per ricordare le foibe, e a me viene voglia di prendere quelle bandierine e di pulirmici il culo. Detto questo: la mia idiosincrasia non significa che chiunque, in qualunque contesto, utilizzi quel concetto (e sottolineo “utilizzi”), abbia torto a priori. Dipende da cosa mette in pratica e da quanto è consapevole di richiami, rimandi, fascinazioni. Certo Bologna è diversa da Roma e da Trieste. Qui da noi un discorso molto simile lo si potrebbe fare col dialetto e le storie locali, trasformati in Tradizione posticcia dalla propaganda leghista. E se poi qualcuno, in un contesto del genere, mi venisse a parlare di “Padanìa Socialista”, beh, non è detto che mi starebbe antipatico…

  38. @ WM1
    Rispetta il tuo errore come un’intenzione nascosta, diceva Brian Eno. Alceste De Ambris non era un ardito, ma con gli arditi ha organizzato la difesa di Parma nel 22, dopo aver cercaro, con gli arditi fiumani e gli anarchici di malatesta, di organizzare una rivoluzione antimonarchica nel 21. La sua biografia è tanto misconosciuta quanto esemplare dei tanti percorsi della rivoluzione possibile del 21-22 (e la sua liason con D’Annunzio mostra aspetti di D’Annunzio molto diversi dalla vulgata corrente del poeta-Vate precursore del fascismo). E prima o poi un lavoro come quello di WM4 su Tolkien bisognerà farlo su Fiume e su D’Annunzio.

  39. @wm5. Al solito c’hai ragGGione (alla romana, con tre g)! Romani per romani, un Tronti che non fa mai male:

    Tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio degli anni Sessanta del Novecento, in uscita dall’epoca delle guerre civili europee e mondiali, sulla spinta del baby boom di allora, l’essere giovani è diventata una condizione specifica, un particolare modo di vivere, che aveva bisogno di espressione autonoma. Forse solo il jazz aveva espresso qualcosa del genere: però, questo, abbastanza presto passato da espressione di un mondo a riserva di élite. Il rock, per usare questa formula riassuntiva di tante esperienze diverse, ha invece assunto e conservato questa impronta di massa. Tanto che l’industria del consumo subito si è avventata sul fenomeno. Le band alternative sono state protagoniste di un’operazione coraggiosa: hanno preso quel linguaggio per dire cose, per parlare, e per far parlare quelle generazioni, fuori dal mercato, fuori dal potere, in antagonismo a mercato e potere. «Essere folli per essere chiari»; «essere contro per andare verso»: ecco The Gang. Essere così, e dire di esserlo, quando loro arrivano, agli inizi degli anni Ottanta, questo è coraggio.
    Una cosa che mi piace molto dei Gang è il loro gusto del tempo. Sanno in che epoca vivono.
    Sanno quello che c’è stato fin qui. Sanno che non c’è mai un oltre senza un prima. Lo dicono in tanti modi, con le parole e con la musica. Cosa anche questa non facile da dire, appunto dagli anni Ottanta in poi, quando si è diffusa la pessima idea che il nuovo, tutto, è bello e buono e il passato, tutto, è brutto e cattivo. Da allora, in realtà, sulla memoria c’è una battaglia da combattere ed è lotta politica, decisiva per il rapporto di forza, su chi sarà in grado di governare il futuro. Scrivono Marino e Sandro: « Cercare di ricomporre frammenti della cultura di massa e popolare in una qualche forma di unità non significa tornare indietro per restaurare il passato, ma andare avanti per reinventare il futuro. Perché senza la memoria dello sfruttamento,
    dell’espulsione, della violenza subita non si riuscirà a inventare niente e resteremo solo ‘invenzioni’ altrui». La lezione di Walter Benjamin è penetrata nel cuore degli indisponibili di oggi, nascosti nelle pieghe di questa società nemica. « Il dono di riattizzare nel passato la scintilla della speranza è presente – diceva – solo in chi è compenetrato dall’idea che neppure i morti saranno al sicuro dal nemico, se vince. E questo nemico non ha smesso di vincere ».

  40. Su Fiume sono d’accordo con Tuco, la questione è molto complessa e l’italocentrismo non aiuta a comprendere. Nessun problema a riconoscere che c’erano anche (ed erano importanti) componenti libertarie e socialiste, e va ricordato che la Russia di Lenin fu il primo paese a riconoscere la nuova repubblica etc. Tuttavia, quella gente si era mobilitata grazie a una narrazione tossica, quella della “vittoria mutilata”. L’irredentismo culturale e il revanscismo territoriale su Istria e Dalmazia, di lì a poco, porteranno agli estremi che conosciamo, a terribili politiche di italianizzazione forzata, sfociate in tragedia epocale. Io che bazzico Trieste, capisco molto bene quel che dice Tuco.

    Però invito a considerare l’impresa fiumana e gli Arditi del Popolo due fenomeni diversi, perché tali sono. Non tutto l’arditismo andò a Fiume, molti AdG non erano stati arditi in guerra, molti AdP disprezzavano D’Annunzio. La loro preoccupazione principale fu formare un esercito popolare in grado di schiacciare il fascismo prima che alzasse troppo la testa.

    Sull’altra cosa che diceva Tuco, cioè che gli sloveni di Basovizza reagirebbero molto male vedendo gente la cui estetica ricorda quella dei “commemoranti” fasci che ogni anno vanno a impestare quei luoghi, ha senz’altro ragione: reagirebbero male.
    Però attenzione: gli skin di sinistra o comunque antirazzisti e antifascisti esistono da parecchi anni. Oggi redskin, SHARP, RASH etc. sono una presenza consolidata e rilevante nei movimenti di tutta Europa, e sono sempre in prima fila nella lotta contro i fascismi.
    Già nella seconda metà degli anni Ottanta, il loro contributo fu inestimabile. A ripulire le strade di Parigi dalle squadracce neo-nazi e da movimenti come la JNR, non furono belle parole liberaldemocratiche: furono i RED WARRIORS
    http://www.youtube.com/watch?v=EfDbTgb6uyc

  41. Il documentario che ho appena linkato coi sottotitoli inglesi (“Antifa. Chasseurs de Skins”)
    è anche qui coi sottotitoli italiani
    http://www.vimeo.com/9004197
    Invito a guardarlo ché vale la pena.

  42. @WM1
    Purtroppo ne sono cosciente. E’ da un po’ che mi appassiono di simboli e la svastica mi affascina moltissimo.
    Però dai! secoli? Mi butti proprio giù :(

  43. @ kulma
    sì, secoli. Del resto, il centenario della fondazione del partito nazista (1920) non è mica lontano. Un secolo se n’è già andato, e la svastica è ancora incandescente come subito dopo la guerra.

  44. Interessante notare come uno dei simboli degli AdP fosse un’ascia (di guerra…) che taglia il fascio. Come dire: la stessa ascia che nella simbologia del nemico sta in mezzo al fascio di verghe, noi ce la riprendiamo, la liberiamo da quella stretta e la usiamo per spezzarla.
    In un’immagine semplice, tutto un programma politico e culturale.

  45. Dubbio-domanda che centra poco col discorso della simbologia fascista ma tanto col discorso delle icone in generale.

    Mettiamo il caso in cui è l’icona stessa a prestarsi a diverse interpretazioni, addirittura a favorirle (non parlo tanto di icone “simbolo”, statiche, quanto di “icone” persone). Rovesciamenti filosoficopoliticireligiosi nel corso della vita (Prendete Ferretti), difficoltà interpretative (Prendete Nietzsche o lo stesso Tolkien), adesioni di comodo (Prendete Pirandello). Ora, in questi casi, non è “forzata” e “culturalmente violenta” la collocazione da una parte o dall’altra? Non si rischia di fare specularmente quello che fanno loro? Non è preferibile “staccare” il contenuto dalla persona?

    (E io personalmente una risposta a riguardo non sono riuscita a darmela)

  46. in questo momento a Roma la presenza nazifascista è forte, almeno nell’immaginario. Reagire a un eventuale apertura di un luogo di aggregazione fascista, come avviene a Bologna, è difficile se non impossibile.
    Le prime volte che vedevo, distrattamente, i manifesti di Patria socialista o Avanguardia per strada provavo uno strano schock e pensavo, visto che lo fanno sempre, che i fascisti si fossero appropriati di altre ns. istanze o storie o immaginari.
    poi invece, guardandoli bene, a parte il fastidio iniziale inconscio dovuto a una terminologia e a un immaginario che mi mettevano un brivido, nascevano curiosità e interesse.
    se si cerca di rovesciare il loro immaginario, così come fanno ormai da anni loro, si rischia una grandissima confusione forse ma si prova anche a far riflettere.
    forse non è il modo migliore, forse si fa solo confusione, ma penso sia un tentativo che bisogna cercare di mettere in atto.

  47. @ WM1
    l’esaltazione della patria in campo comunista, infatti, non risale agli Arditi del Popolo, ma alla diffusione e al radicamento dello stalinismo durante la Seconda Guerra Mondiale, quando bisognava disinnescare il disfattismo rivoluzionario “alla Lenin” e imporre i fronti nazionali contro l’invasore.
    In Italia questo succede con la Resistenza. Il nome della rivista dell’ANPI non rende affatto giustizia a tutti quei partigiani che, cme dice la canzone, combatterono e morirono per “conquistare la rossa primavera” (la maggioranza?). Quelli a cui il PCI raccontava che la lotta al fascismo sarebbe stato solo il primo passo… tanto che qui in Emilia molti hanno continuato a sparare anche dopo il 25 aprile.
    Ora, l’impressione è che la patria di “Patria socialista” non sia il mondo intero, ma la nostra amata patria: l’Italia (“Patria, idea di unione culturale, di tradizione e terra di un popolo è la forza che unisce e spinge verso l’alto…” dal “Chi siamo”).
    E’ questo il modo di combattere oggi il fascismo? Inseguirlo sul terreno del patriottismo?
    Io insisterei sull’internazionalismo proletario.

  48. @ Girolamo e Wu Ming:”… e la sua liason con D’Annunzio mostra aspetti di D’Annunzio molto diversi dalla vulgata corrente del poeta-Vate precursore del fascismo. E prima o poi un lavoro come quello di WM4 su Tolkien bisognerà farlo su Fiume e su D’Annunzio.”
    Sono molto impegnata in questi giorni, faccio fatica a starvi dietro e a leggere tutti i commenti di questo thread bellissimo. Stavo per intervenire proprio su Fiume e D’Annunzio e… ZAC, è arrivato prima di me Girolamo di cui condivido in toto il pensiero: *prima o poi un lavoro come quello di WM4 su Tolkien bisognerà farlo su Fiume e su D’Annunzio*.
    Fermo restando che il poeta-Vate è figura da prendere con le molle e maneggiare con cura, vi lascio un breve contributo, tratto dalla biografia “D’Annunzio” di Giordano Bruno Guerri (Mondadori, pag. 260) :

    *Dal fiumanesimo i fascisti presero solo l’apparato esteriore, aggiungendovi il manganello e l’olio di ricino. E mai si sarebbe sentito, durante il regime, il saluto finale che d’Annunzio lanciò dal balcone del municipio: “Viva l’Amore! Alalà!”.*

    Ora, GBGuerri sarà pure un po’ di parte (per orientamento politico, per il fatto che è direttore responsabile del Vittoriale etc…) ma questo passaggio mi è tornato subito in mente non appena ho letto il post e mi è sembrato interessante riportarlo.
    Non ho tempo per aggiungere altro, il mio è un semplice spunto. Scusate la fretta, scappo per tornare ai miei impegni.

  49. Giacomo, e allora siamo in due, perchè anch’io insisto sull’internazionalismo proletario. Solo che non mi sento di ridurre il lavoro politico-culturale che questo thread sta analizzando al solo uso della parola “patria”, e non mi sento di “liquidare” o snobbare quello che stanno facendo questi compagni romani. E’ inevitabile che, vista la molteplicità degli elementi ripresi e rimessi in gioco, su alcune scelte si sia meno d’accordo che su altre, e che ci siano dei pericoli lo abbiamo detto tutti. Ma si sente subito che è una cosa “viva”, che nasce nelle strade e per le strade rimane. Si sente che sorge da una necessità reale.

  50. Non so, a me sembra davvero arduo rivalutare D’Annunzio. D’Annunzio *è* la “cultura di destra” di cui parla Jesi. D’Annunzio è stato tra i dottor Frankenstein della “religione della morte” che nel fascismo trovò la sua sintesi. D’Annunzio non è solo quello di Fiume (ammesso e non concesso che quello di Fiume sia da rivalutare tout court): è anche quello che assiste estasiato (prendendo appunti poetici) alle fucilazioni degli insubordinati durante la Grande Guerra (mentre, al contrario molti Arditi ammazzavano i carabinieri che avevano sparato ai disertori). Ed è quello che si “accomoda” senza problemi con il regime fascista per vivere un’esistenza pacificata, di quieta decadenza, all’ombra del potere.

  51. Nell’impostazione di questa discussione c’è un elemento che mi genera dei dubbi, si tratta nello specifico della cornice concettuale del “furto dei simboli”. L’idea che i fascisti ci abbiano “rubato” dei simboli e se ne siano appropriati, risemantizzandoli, mi pare debole o quanto meno fuori bersaglio.
    Simboli e simbologie sono potenti germi d’immaginario attorno a cui si strutturano le narrazioni.
    Rispetto all’esperienza degli Arditi non credo che vadano dimenticati alcuni aspetti: primo fra tutti la radice “socialista” del fascismo, in secondo luogo il retroterra militare da cui sia l’arditismo che lo squadrismo hanno tratto la propria linfa.
    In questo quadro parlare di “furto” mi sembra inappropriato. Parlerei piuttosto di una circolazione di simboli legati più che ad una valenza politica ad un’esperienza.
    Cerco di spiegarmi con un esempio: l’esercito russo si chiama anche oggi “armata rossa” e mantiene tra i suoi stemmi la stella rossa con la falce e martello nella corona d’alloro. Tuttavia l’esercito russo è tutt’altro che comunista, perché allora non sostituire quei simboli? Io credo che vi fosse l’esigenza di salvaguardare il carattere tradizionale dell’esperienza militare, che è parte integrante della creazione dello spirito di corpo e del legame con quel corpo simbolico che è l’esercito nelle sue articolazioni gerarchiche.
    Mi pare che alcuni dei simboli che hanno circolato tra l’arditismo ed il fascismo (il gladio, il teschio, il pugnale, ecc.) facciano più riferimento all’universo militare e militaresco che non a quello politico.
    Non per nulla sono simboli che, nell’esperienza della Resistenza, trovano meno spazio. Sicuramente perché rigettati in quanto incrostati di ideologia fascista, ma forse anche perché quell’esperienza nasceva dal rifiuto della retorica militaresca e bellicista che aveva portato alla morte centinaia di migliaia di uomini sui campi di battaglia della Seconda Guerra Mondiale.
    Comprendo l’esigenza di ripulire dalle incrostazioni fasciste quei simboli di ritrovare la memoria di esperienze come quella dell’arditismo, specialmente come scelta strategica di fronte ad una destra che ha fatto della creazione di un immaginario rivoluzionario e, soprattutto, ribelle (pensate al uso che Casa Pound fa dell’estetica punk-rock) il suo cavallo di Troia. Ma questo significa anche fare i conti con la storia della sinistra e il rischio concreto è quello di riattivare una mitopoiesi di “resistenza” che potenzialmente può essere tossica.

  52. In questo dibattito mi piace ricordare (con le parole di Sanguineti) il nostro “primo romanzo moderno”, “il libro essenziale della ‘miseria italiana”, “il primo grande testo della disperazione di vivere dopo la rivoluzione, che rispecchia in primo luogo la caduta delle speranze giacobine, senza tuttavia sconfessarle minimamente, nel suo movimento dialettico di “illusione” e “disillusione”, il valore e il significato”. Vivere dopo la rivoluzione patriottica francese che con Napoleone “libera” l’Europa, a suon di trattati di Campoformio. Dalla prima lettera: ”Da’ colli Euganei, 11 Ottobre 1797 / Il sacrificio della patria nostra è consumato: tutto è perduto; e la vita, seppure ne verrà concessa, non ci resterà che per piangere le nostre sciagure, e la nostra infamia. Il mio nome è nella lista di proscrizione, lo so: ma vuoi tu ch’io per salvarmi da chi m’opprime mi commetta a chi mi ha tradito? […] E noi, purtroppo, noi stessi italiani ci laviamo le mani nel sangue degl’italiani. Per me segua che può. Poiché ho disperato e della mia patria e di me, aspetto tranquillamente la prigione e la morte. Il mio cadavere almeno non cadrà fra le braccia straniere; il mio nome sarà sommessamente compianto da’ pochi uomini, compagni delle nostre miserie; e le mie ossa poseranno su la terra de’ miei padri.”
    E infine l’esortazione alle storie: “Scrivete a quei che verranno, e che soli saranno degni d’udirvi, e forti da vendicarvi.”
    E se sembro OT, pazienza!

  53. @ Eve B.

    Per quanto mi riguarda è sempre sbagliato identificare tout court l’opera con l’autore. Ma il tipo di appropriazione messa in atto dai fascisti – ad esempio nel caso di Tolkien – nasce spesso dalla distorsione e/o dalla lettura selettiva. Occorre distinguere quindi tra una lettura dell’opera non appiattita sulla biografia autoriale e una lettura “self service” in cui dell’opera prendo quello che mi pare, ignorandone la complessità. Nel caso di Tolkien il movimento è addirittura doppio, perché i fascisti da un lato chiamano in causa le supposte idee dell’autore per confermare la propria lettura della sua opera, dall’altro rivendicano la presenza nell’opera di contenuti impliciti a prescindere dalle idee e dalle intezioni dell’autore stesso. In questa lettura a fisarmonica, opera e autore vengono avvicinati e allontanati, a seconda dell’opportunità. E in una pagina si può affermare quello che nella pagina successiva viene negato.

  54. Davvero molto interessante questo post . Mi sembra però che si discuta di cose molto diverse.
    Un piano di analisi storica ed uno immediatamente politico.
    Sul piano storiografico, il recupero di un patriottismo rivoluzionario che va dal “compagno ” Pisacane fino alle Brigate Garibaldi passando per gli arditi del popolo mi sembra operazione meritoria.
    Mi spiace per Giacomo ma sarò sempre con gli stalinisti come Pesce piuttosto che con gli internazionalisti “disfattisti”.
    Chi ironizza sull’inno del nostro paese , molto spesso ignora la figura di Mameli, democratico e rivoluzionario morto sulle barricate della Repubblica romana.
    Tra l’altro vi è un esplicito legame biografico tra mazziniani del tardo risorgimento e il primo movimento operaio.
    Quello che mi lascia perplesso è il recupero oggi del concetto di patria.
    In una fase in cui il nostro paese è diventato un paese di immigrati e non di emigranti, si capisce bene il rischio e l’ambiguità che si nasconde dietro ogni retorica patriottarda.
    Mi piacerebbe capire meglio.

  55. Ciao
    volevo dirvi che a Rozzano, Milano, si terrà un’iniziativa di letture e dibattito sulla questione del Rogo di Libri. Sabato 12 febbraio alle ore 15, Rozzano, MI, via Mimose 23. Magari qualche milanese alla lettura che non può andare a Venezia è interessato a venire.

  56. Son delle brutte bestie i simboli (e anche le bandiere). Personalmente non li amo molto. Perché poi succede che gli altri ti identifichino (per risparmiar tempo) con il simbolo. E scopri pure che sotto quello stesso simbolo si fanno ombra tanti individui con cui mai vorresti aver a che fare.
    Preferisco le parole, che pur ambigue, lasciano più spazio di manovra per la dialettica. Sempre che, ovviamente, non diventino “etichette”, perché allora torniamo punto e a capo.

    Un esempio per me è stata la parola “patria”.
    Effettivamente fa venire l’orticaria. Eppure, qualche giorno fa, mi sono imbattuto in Morin e la sua “Terra-Patria”. E’ bastato poco, ma da allora già mi fa meno ribrezzo.

  57. @ Flavio
    hai ragione, l’immagine del “furto di simboli”, a cui un po’ tutti abbiamo fatto ricorso (per comodità, per scorciatoia, per “famo a capisse”) non rende l’idea. Se vogliamo tenere ferma l’importanza della provenienza socialista di Mussolini e di molti suoi accoliti, e dell’origine arditesca di altri fascisti, allora l’immagine che mi sembra funzionare meglio è quella proposta inizialmente nel post: la cattiva coscienza porta a “carpire il mana” del nemico (ex-amico) annientato. Questo è molto più di un “furto di simboli”, è una specie di transfert. Sempre alimentato dalla cattiva coscienza. Aggiungo che uno dei tratti più appariscenti della mentalità fascista è un “complesso di inferiorità” nei confronti dell’antagonismo proletario. E’ come se i fascisti percepissero, seppure in modo confuso, che il loro è un “antagonismo” falso, di risulta, fatto di diversivi e surrogati, a fronte di una lotta *vera* che altri fanno o che si dovrebbe fare. Da qui il “travisamento”, il cercare di somigliare ai nemici che stanno su un fronte più importante (non la guerra tra poveri e la battaglia contro i “diversi” proposti come capri espiatori, ma la guerra dei poveri contro i ricchi – ovviamente tagliando di brutto con l’accetta!).

  58. Salve a tutti, non siamo soliti partecipare a discussioni che non ci permettano di guardare negli occhi i nostri interlocutori o udire le loro parole ma non abbiamo potuto fare a meno di vedere Patria Socialista citata in un percorso che non è del tutto errato da quello che viene presentato da alcuni partecipanti di questo convivio, ma neanche del tutto esatto.
    Ora, il punto è che nonostante il nostro sostegno ai nostri compagni della R.A.S.H. o Avanguardie e alle loro iniziative, il percorso che riguarda la presentazione del Libro in questione non ci vede co-protagonisti ne tantomeno avremmo pensato o fatto una iniziativa su Tolkien, pertanto vi invitiamo a non confondere la nostra visione Politica e Filosofica relativa alla Patria o all’onore e quant’altro con una “riabilitazione” di Tolkien per ragioni molto semplici:

    1) Riconosciamo,inevitabilmente, da tempo Tolkien come uno scrittore dedito alla Tradizione Nordica e quindi dedito ad un argomento culturale precedente di migliaia di anni del Nazionalsocialismo e del resto non responsabile della sua connotazione fascista, in quanto i fascismi europei hanno deciso di appropriarsi di certe Tradizioni di area Germanica, Celtica o Romana ma nessuno li ha mai legittimati.

    2) Pur ritenendo la Tradizione arcaica qualcosa di importante per i popoli in senso spirituale e culturale e pur ritenendo importante il concetto di mito come una sorta di “Costituzione culturale”contro le tentazioni di una certa modernità borghese (Cristianesimo, Capitalismo) riteniamo che sia troppo complicato “Socialistizzare” certe mitologie tra le quali quelle tolkeniane quando, per giunta, lo stesso Tolkien si definiva un conservatore cattolico e quando,nelle vostre discussioni è emersa tale dicitura, troviamo inconciliabile le vicende ed i personaggi con l’internazionalismo Proletario.

    Pertanto,lungi da noi, disturbare questa meravigliosa discussione, ma crediamo sia giusto porre ordine tra le cose al fine di non aumentare la confusione culturale che già regna padrona all’interno della sinistra Italiana in genere.

    Patria Socialista.

  59. Bella discussione, davvero molto interessante. Considerata la mia ignoranza in materia, volevo limitarmi a leggere, senza intervenire. C’è davvero molto da imparare…

    Leggendo la sezione “Chi siamo” del sito di Patria Socialista mi è però sorta qualche perplessità.

    In estrema sintesi: nel testo si parla di “spirito legionario”, “onore”, “sacrificio”, “volontà”… mi è chiaro il riferimento all’arditismo, e forse il mio intervento è per certi versi addirittura fuori focus; ma non trovate che si tratti di una retorica e di una simbologia pesantemente escludenti?

    Mi spiego. Anche mettendo tra parentesi per un attimo la componente escludente che è implicita in concetti come “patria” e “tradizione” (soprattutto il secondo, secondo me, è talmente pieno di incrostazioni che reinventarlo in ottica internazionalista mi pare quasi impossibile)… valori come quelli sopra citati sono l’anima di un cameratismo “da trincea”, tutto declinato al maschile.

    Che spazio c’è quindi per la “differenza” (di genere, di classe, di matrice culturale), con tutto il carico di conflitto e di contraddizioni che si porta dietro, in una retorica imperniata – esplicitamente – sul tema dell’identità di patria e di tradizione culturale, e – implicitamente – sulla rivendicazione di connotati tipicamente “di genere”.

    Un’ultima annotazione sul simbolo… la composizione ricorda a prima vista quella della bandiera della DDR, e ho come l’impressione che la somiglianza sia voluta. Ora, in quel simbolo c’era una triplicità di riferimenti: il martello per la classe operaia, le spighe per il settore agricolo, il compasso (immagino) per la dirigenza.

    Al che, osservando bene il simbolo di PS, vien da chiedersi che senso avrebbe utilizzare due elementi che rimandano allo stesso referente, ossia ruota dentata e martello come riferimenti alla classe lavoratrice…? A meno che quello non si tratti di un martello ma, semmai, di una specie di colonna con capitello dorico in prospettiva… un riferimento alla “tradizione” occidentale e alle sue radici greco-romane…?

    Boh, se qualcuno mi aiuta a capirci qualcosa, ringrazio in anticipo.

  60. @ Patria Socialista

    Giusta specificazione la vostra. E scusate se nella discussione può essere sfuggita qualche necessaria distinzione in merito alla serata.
    Chiarimento per chiarimento, dirò che su Tolkien non condivido nemmeno una parola di quello che avete detto, ma tant’è. Per intenderci: io credo che a J.R.R. Tolkien della Tradizione – soprattutto quella con la “T” maiuscola – non fregasse proprio niente. Può darsi che io sbagli, ma per il momento non ho ancora trovato qualcuno in grado di convincermi del contrario. Ma soprattutto, sincerità per sincerità e a scanso di equivoci, lungi da me l’idea di “socialistizzare” Tolkien. Lo dico subito forte e chiaro: nella Terra di Mezzo non c’è traccia di lotta di classe e per quanto riguarda l’autore, considerava un segno nefasto dei tempi il solo fatto che venisse venduto per strada il Daily Worker.

  61. @ Don Cave

    Io non ho nessuna intenzione di fare le pulci a Patria Socialista. Tanto più che, per quanto condivida le tue perplessità, devo tenere conto del fatto che non conosco a sufficienza la situazione romana, e soprattutto che vivo in tutt’altro contesto urbano e conflittuale. Tra l’altro proprio loro hanno appena tenuto a specificare che non sono tra gli organizzatori della presentazione romana perché l’argomento non gli interessa.
    Posso invece dire ancora qualcosa sul concetto di “patria” e i suoi molteplici usi. Abbiamo detto che i contesti sono importanti. Dieci anni fa, di questi tempi, mi trovavo in Messico. Partecipavo alla Carovana della dignità indigena, al seguito dello Stato Maggiore dell’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale. Gli zapatisti usano moltissimo la parola “patria”. Ad ogni evento pubblico cantano l’inno nazionale messicano e a seguire quello zapatista (che contiene il verso “La nostra patria grida e ha bisogno di tutti gli sforzi degli zapatisti”). Così la bandiera zapatista e il tricolore messicano vengono esposti affiancati sui palchi.
    La rivendicazione primaria dello zapatismo è quella di imporre nell’agenda nazionale il problema dell’emarginazione degli indios, i più sfruttati ed esclusi tra gli esclusi. Tuttavia non si tratta di una rivendicazione etnica, basata sul sangue e sul suolo, altrimenti il loro sarebbe anche potuto diventare un movimento secessionista/sub-nazionalista, una sorta di leghismo dei poveri (e sicuramente di questo sarebbero stati accusati). Invece nella stessa retorica del Subcomandante Marcos l’indio viene preso come paradigma dello sfruttato e del discriminato in ogni parte del mondo e proprio questo è ciò che ha reso internazionale e internazionalista la lotta degli zapatisti. In quella carovana infatti noi internazionalisti portavamo uno striscione con su scritto “Somos todos indios del mundo”. Rivendicare la patria messicana, per gli indios zapatisti significa rivendicare la lotta contro lo sfruttamento da parte della borghesia creola e contro la svendita dell’economia nazionale ai paesi ricchi. Come dicevo alcuni commenti fa, l’idea di patria in America Latina ha un’accezione molto diversa, paradossalmente più prossima alla tradizione illuminista repubblicana, e se vogliamo “garibaldina”, perché diversa è la storia del continente e diverso il contesto.

  62. L’intervento diretto di Patria Socialista, che ha sentito la necessità di precisare la sua estraneità all’organizzazione della serata (cosa che infatti non abbiamo sostenuto), fa capire che nel corso della discussione, nel turbinìo di esempi e richiami storici ed estetici, si è in parte persa una necessaria distinzione.
    Forse è anche un problema di mancata chiarezza nel post: noi abbiamo sì scritto che Avanguardia e Patria Socialista sono *due* gruppi, due gruppi diversi, ma nel concentrarci su cosa li accomuna (la volontà di lavorare su certe porzioni di immaginario “conteso”), abbiamo fatto passare in secondo piano le differenze d’approccio, che ci sono.
    La mia spassionata impressione – che, a giudicare dagli interventi qui sul thread, è condivisa da molti – è che Patria Socialista si spinga “più in là” di Avanguardia in quella che a sinistra viene percepita come una “zona di pericolo”, un luogo di violenta oscillazione dei segni e dei discorsi. L’uso della parola “patria” fin dal nome, il frequente ricorso alle maiuscole reverenziali quando si menzionano virtù ritenute necessarie, espressioni come “spirito legionario” etc. E’ comprensibile che a sinistra tutto questo susciti dubbi, interrogativi, anche rigetto. L’estetica e le retoriche (uso qui il termine in senso neutro) di Patria Socialista ci spingono a riflessioni più… tormentate. Per questo è interessante e importante prestarvi attenzione. Senza affrettarsi a liquidare, senza limitarsi a snobbare, senza trasformare l’analisi in un fare le pulci. Il rischio è quello di “fare le pulci” come dei “grilli parlanti” mentre altri fermano gli “scarafaggi” che vanno a caccia di “zecche”.

    @ Don Cave,
    il problema che evidenzi è il più grosso, è il principale, e va oltre il lavoro che stanno facendo queste realtà romane. Riguarda tutti noi e tutte le occasioni in cui la sinistra riscopre un immaginario combattente, di scontro. Il rischio della dinamiche escludenti e della cancellazione della contraddizione di genere è fortissimo. Certamente lavorare sull’arditismo, lo spirito legionario, porta a riproporre un sistema di riferimenti che è tutto maschile. Per questo dicevamo che ci sono dei mutatis mutandis alti come montagne di cui tenere conto.

    @ Patria Socialista,
    vi ha risposto WM4, io aggiungo: muoviamoci tutti con accortezza e senso della strategia, stiamo toccando (noi e voi, in modi diversi) punti nevralgici della politica culturale dell’estrema destra. L’accusa nei nostri confronti di voler “reclamare Tolkien alla sinistra” (cosa lontanissima dal vero e chiarissima se si guarda a come WM4 se ne occupa da anni) ce l’ha fatta gente riconducibile alla Fondazione Julius Evola. Toccare Tolkien fa molto male ai fasci, è evidentissimo. Gli stiamo “rompendo il giocattolo”, dimostrando che Tolkien non è l’autore che loro spacciano. I compagni RASH si sono attivati per questo. Questo per dirvi qual è il contesto.

  63. A proposito dei diversi utilizzi del concetto di patria, con particolare riferimento al contesto americano, mi viene in mente Toussaint L’Ouverture, che da nero ex-schiavo nato nell’allora Santo Domingo – quindi francese un po’ alla lontana… -, sosteneva di combattere per la Francia (rivoluzionaria) anche quando di fatto combatteva contro la Francia (tornata schiavista).

    Sulla riappropriazione di un concetto del genere, oggi e da noi, ho anch’io molti dubbi, per le stesse ragioni che avete espresso voi (in particolare condivido lo schifo). Si può riuscire a farne una parola non escludente? Si può riuscire a ripulirla? In linea di massima io direi di no e penso anche che non sia troppo giusto farlo, visto che soffriamo cronicamente di amnesie storiche e si rischia di incasinare ancora di più le cose.
    Però mi viene anche da dire che l’essere umano non ha una coerenza matematica, ma anzi compie continuamente sincretismi e nuove sintesi. Quindi se in un contesto così difficile è utile, se evita davvero che qualche ragazzino se ne vada in giro a prendere a catenate altri ragazzini o a picchiare gli immigrati, per esempio, ben venga. Sul breve termine occorre essere pragmatici, penso, pur tenendo fermi un bel po’ di paletti.

  64. Mi spiace, non era assolutamente mia intenzione fare le pulci o rivestire i panni del “grillo parlante” di turno.

    Neppure io conosco la situazione romana. Le mie riserve, però, non riguardano la loro azione sul territorio, che è sicuramente meritoria… il discorso è un altro: nella misura in cui il messaggio di Patria Socialista è un messaggio “forte” e per molti aspetti spiazzante, vorrei riuscire a chiarire (anzitutto a me stesso) alcune zone d’ombra che vanno ben al di là, secondo me, della “pericolosità” di cui parla WM1.

    Non mi sono neppure focalizzato troppo sulla questione della Patria. Ci sono stati molti interventi sul tema, e sebbene condivida alcune perplessità espresse da altri utenti, non voglio ripetere cose già dette, né costringere altri a ripeterle.

    Il mio problema è più che altro con il richiamo alla “tradizione”. Perché, ammesso che per “patria” sia possibile un recupero da sinistra in chiave “garibaldina” (o bolivariana), mi sembra invece che per la tradizione manchino del tutto i presupposti. Probabilmente è un mio limite, dettato dalla mia ignoranza… ma quando sento parlare di tradizione, il primo nome che mi viene in mente è quello di Evola.

    A maggior ragione se la lettura del martello-capitello nel simbolo di PS non è solo frutto di una mia errata interpretazione, dettata da semplice paranoia, ma ha un qualche fondamento…

    Per questo sarei più che grato ai compagni di Patria Socialista se mi spiegassero cosa intendono per “tradizione”, o a quale matrice culturale fanno riferimento nel richiamarsi a quel concetto, con la paziente condiscendenza che si riserva agli “ignoranti curiosi” come me :-)

  65. @ Don Cave

    Mi pare che chi ha scritto qui per Patria Socialista abbia detto che non è loro abitudine discutere su un blog. A me sinceramente non interessa forzare la mano a nessuno. Sarei invece più curioso di vedere intervenire qui i ragazzi della RASH, per sapere cosa pensano di questa discussione e magari motivare l’invito alla serata.

  66. Assoluto rispetto per la scelta di non discutere su blog, per cui non insisto oltre. Forzare la mano sarebbe oggettivamente poco rispettoso. Me ne torno in modalità “lurker” a seguire con rinnovato interesse lo sviluppo della discussione. Nel frattempo, grazie per le delucidazioni!

  67. Adrianaaaa scrive: “Sul breve termine occorre essere pragmatici, penso, pur tenendo fermi un bel po’ di paletti.”

    Ecco, a prescindere da Patria Socialista e da altre realtà che non conosco abbastanza, penso sia interessante discutere di questi paletti.

    Le “nuove sintesi”, i sincretismi, i ripescaggi dal passato possono essere fatti oggetto di un certo (mi si perdoni il termine) “marketing di strada”? E con quali attenzioni, se non lo si vuole fare alla maniera di Casa Clown?
    Mi vengono in mente due aspetti:

    1) Le “nuove sintesi”, i giochi con gli ossimori piacciono molto anche ai pubblicitari. Caffé decaffeinato, gelato di soia, crociera avventurosa… Gli ossimori sono affascinanti perché promettono di superare un limite, come gli eroi del mito e le sostanze psicoattive. Nel mondo ordinario il caffé contiene caffeina, e il gelato si fa col latte, ma noi ti porteremo in un mondo straordinario dove il caffé non fa male e il gelato non contiene lattosio.
    Il rischio – specie con le sintesi da laboratorio – è che l’ossimoro nasconda un inganno, anche involontario, e che l’amante dell’avventura si rompa le balle sulla nave da crociera e la faccia colare a picco tanto per distrarsi un po’.

    2) Se c’è una cosa che mi pare incompatibile con una pratica “di sinistra” è la distinzione dei militanti tra iniziati e manovali, tra un piano esoterico, nascosto e un piano essoterico, triviale. I “messaggi segreti” lasciamoli ai fascisti vecchi e nuovi. Il “marketing di strada” dovrebbe evitare come la peste di essere un discorso per i pischelli, buono per fare proselitismo nelle borgate, presupponendo però un livello 2, inaccessibile agli sbarbi e custodito da un’elite rivoluzionaria.

    Lo dico perché qualcosa di molto simile, secondo me, lo si è teorizzato e lo si teorizza, anche in ambiti di movimento molto lontani da Roma.

  68. @ Wu Ming 2

    Eh già.

  69. Una mia opinione, da veterano della scena skinhead italiana.
    Proprio perchè non esiste alcuna Tradizione Primordiale non esistono simboli che, more geometrico, significano questo o quell’altro. Il problema inerente alla risemantizzazione di simboli che il movimento operaio ha utilizzato in una certa fase della propria storia non è una questione della cui validità si possa parlare in termini teorici, in astratto, senza mettere sul campo la questione decisiva dei rapporti di forza.
    A me pare che in questo momento l’immaginario combattentistico della Prima Resistenza possa essere efficace. Per me, anzi, questo è un dato, è fuori di dubbio. La cosa desta comprensibilmente tutto il mio interesse.
    Qui si assiste a un tentativo di passaggio da rivolta nello – o dello- stile a stile rivoluzionario. E’ un momento importante e difficilissimo.
    Da quando sono tornato a suonare coi Nabat, e batto il territorio a livello della strada – centri sociali, situazioni di autogestione ecc. mi sono accorto che in certe aree del paese quello agli Arditi del Popolo è un riferimento ormai quasi pervasivo. La consapevolezza che esiste un problema centrale, un nodo di giunzione tra istanze sociali e politiche che divengono stile di vita e di lotta dovrebbe essere più diffusa.
    Il problema dello stile -o della distanza tra (auto)disciplina e subordinazione- dovrebbe essere in questa temperie uno dei problemi centrali. Oggi ad essere obsoleti, paradossalmente, sono riferimenti stilistici molto più vicini nel tempo di quelli dei compagni della RASH. Degli anni ’70 ci portiamo dietro spesso opzioni stilistiche che sono ormai ciarpame, e non le buone letture, non l’urgenza, non la carica visionaria. I compagni della RASH hanno deciso di percorrere e ripercorrere con la parola e il confronto la distanza tra prassi, teoria, simboli e miti di lotta. Per me hanno tutta la dignità di interlocutori, e sono felice di chiamarli compagni.

  70. Scusate l’OT…
    Non sarebbe bello vedere prima o poi una bandiera simile?
    Fa un po’ Voltron Force, ma – direbbe Funari – è tanto libberatorio…

  71. spero che nessuno se la prenda. col mio nick, era ovvio che mi sarebbe tornato in mente questo :-)

    http://www.youtube.com/watch?v=sP2cqvtNsFo

  72. tornando seri, segnalo questo episodio poco conosciuto dell’ antifascismo della prima ora: le “barricate di torre” a pordenone nel 1921.

    http://www.casadelpopolo.org/spip.php?article41

    http://www.casadelpopolo.org/spip.php?article40

    a chi fosse interessato al “fascismo di confine” nel periodo ’18-’21, segnalo l’ uscita di questo libro che tratta l’ argomento dal punto di vista sloveno e croato:

    http://www.storiastoriepn.it/blog/?p=1394

    infine, per capire in che clima nacque l’ impresa di fiume e perche’ si tratta di materiale radioattivo, segnalo questo episodio del 1920 a trieste.

    http://it.wikipedia.org/wiki/Narodni_dom

  73. Sull’episodio del Narodni Dom, segnalato da Tuco, Boris Pahor ha scritto un bellissimo UNO (oggetto narrativo non-identificato): si intitola “Piazza Oberdan” e l’ha pubblicato la casa editrice Nuovadimensione di Portogruaro. Molto consigliato.

  74. Compagni, qui però c’è una generale sottovalutazione dell’argomento. Può darsi benissimo che la strada che RASH cerca di fare, faticosamente, partendo dal basso, dallo street level che è cospicuamente deficitario nelle file della “sinistra” attuale non porti da nessuna parte. Però è un tentativo di risposta e di elaborazione rispetto a problemi che, come tutti sappiamo, sono seri. Come si debba attuare un antifascismo militante in una situazione che ci vede lontanissimi dall’egemonia, ad esempio. Come confrontarsi con la nostra storia e con il rimosso della nostra storia. E, ripeto, il tentativo assolutamente ENCOMIABILE di chiudere con l’ombra degli anni ’70, almeno sul versante stilistico, su cui si gioca una partita di importanza centrale.

  75. Se l’obiettivo è chiudere con l’ombra degli anni ’70, ottimo!
    Ma non tanto (o non solo) sul piano dello stile, quanto sul piano politico.

    L’antifascismo degli anni Venti aveva una forte connotazione DI CLASSE: è questo aspetto che bisognerebbe recuperare, per riconquistare le periferie.

    Il classismo unifica, l’arditismo… meno.

  76. L’ultimo commento di WuMing5, secondo me, è una buona bussola. Ovvero, a prescindere dal ritrovarsi o meno nelle “scelte stilistiche” della RASH o, più in generale, dell’ambiente antifa, resta innegabile il fatto che, la risemantizzazione di determinati simboli, è parte integrante di quel lavoro di riappropriazione di territorio – quello che WM5 chiama, giustamente, street level – che la sinistra attuale ha dimenticato oppure attua in modo anacronistico.
    Tanto per fare un esempio, nella zona di Milano in cui sono nato, Lambrate – quartiere storico della Volante Rossa, fabbriche occupate, Banda Bellini, primo Leoncavallo…- per anni le attività di Rif.Com. rivolte ai giovani sono state, nell’ordine: banchetto libri, cineforum, cena multietnica. Tutte attività encomiabili, a cui ho anche partecipato, però di under 21 nessuna traccia.
    Poi, l’altra sera, mentre mi dirigevo verso casa dei miei per cena, trovo i manifesti di questi http://www.ideopolismilano.org/. Magari mi sbaglio, ma direi che, a cominciare dalla presentazione “non perdiamo tempo nel definirci di destra o di sinistra”, mi sembrano più vicini alla destra che alla sinistra. Dalle foto si capisce che sono molto giovani e già ben avviati verso una china pericolosa. Ecco, forse il riappropriarsi – dopo opportuna risciacquata- di determinati simboli e territori di vita (dalla strada allo stadio, e lo dice uno che non ci ha mai messo piede in vita sua…) è utile ad arginare derive di questo tipo.

  77. @ Giacomo
    a fine anni ’90 e un po’ oltre, voi dei Gruppi di Lotta Proletaria facevate un lavoro iconografico che non mi sembra distantissimo da quello che stiamo analizzando qui. Infatti mi sembra che tu stia criticando la terminologia più che le immagini. Io ricordo, sui vostri manifestini e sul vostro giornale, skinhead proletari bretelluti e anfibiati intenti a recidere le teste di draghi capitalistici e idre padronali etc. In rete non le trovo, ma sarebbero interessanti da esaminare oggi.

  78. @ Giacomo

    Quel che intendo dire, forse confusamente, è che non è un livello di analisi teorico o una preferenza o una opzione intellettuale a decidere se una tematica unifica e aggrega o meno. Torna fuori la questione dei rapporti di forza. Se una tematica appartiene a un gruppo minoritario è un conto, se è condivisa da settori via via più ampi è un altro. Se la consapevolezza che esiste ed esisterà sempre uno street level nella lotta, e che l’analisi teorica, in quanto immediatamente prassi, è deputata a entrare in risonanza con quel livello, allora cambia proprio tutto. Ecco che le tesi di una sinistra critica -comunista- diventano autorevoli e popolari. In altre parole: è un processo in corso, e l’esito dipende da noi. Troppo volontarista? :-)

  79. @ WM1
    sì, è vero, fin dall’inizio i GLP (http://lascarpadividar.splinder.com/post/20022763/ti-ricordi-i-gruppi-di-lotta-proletaria) si erano posti il problema di creare un nuovo immaginario e nuovi riferimenti simbolici, a partire dalla falce e martello. I GLP nascono infatti alla fine del ’91, poco dopo il crollo dell’URSS, su posizioni classiste e anti-staliniste, per cui si diceva: dobbiamo adottare un simbolo che richiami la falce e martello ma che allo stesso tempo sia diverso, perché il nostro comunismo non ha nulla a che fare né con il PCI né con l’Unione Sovietica di Stalin. E così ci inventammo questo: http://www.splinder.com/mediablog/lascarpadividar/media/24021714
    Luna e Martello di Thor… anche se ricorda di più il tomahawk di Zagor :D
    Verso la metà degli anni Novanta i GLP entrarono in contatto con il mondo dei redskin e ne rimasero affascinati perché era l’unica fetta di “movimento” che rivendicava la propria appartenenza alla working class in un periodo in cui il classismo era schivato come la peste. E così molti di noi “diventarono” skin e contaminarono l’iconografia fantasy dei GLP con quella skinhead: http://www.splinder.com/mediablog/lascarpadividar/media/24021730
    Curiosità: il testo della canzone “Luna ribelle” del gruppo punk oi! F.F.D. la scrissero i GLP dedicandola al loro omonimo giornale: http://www.sweetslyrics.com/359832.FFD%20-%20Luna%20Ribelle.html
    Ma nella terminologia i GLP rivendicavano tutti quei concetti e quei contenuti che certa sinistra – anche radicale – stava definitivamente abbandonando e che certamente non poteva confondersi con il “fumo” e con le ambiguità tipiche del fascismo, ossia la lotta di classe, l’internazionalismo proletario, il comunismo rivoluzionario.
    Io ancora oggi penso che la questione dell’immaginario sia importantissima, anche perché dobbiamo liberarci di tutta la zavorra staliniana che – nelle forme e nei contenuti – pesa ancora sul groppone dell’area comunista.
    E in questa direzione la fantasia è un’ottima arma: http://www.splinder.com/mediablog/lascarpadividar/media/24021768

  80. Mi imbatto per caso in questa discussione di assoluto interesse. Ho avuto modo di partecipare ad alcune iniziative promosse dalle organizzazioni di cui sopra proprio perchè persuaso dell’utilità politico-culturale di una “controffensiva”, come giustamente veniva definita, di questo tipo e su questo campo. Le velate accuse rivolte a queste organizzazioni di “criptofascismo”, non qui ma è una discussione che a Roma va avanti sottotraccia, è bene ricordare che vengono lanciate esclusivamente da coloro i quali hanno ostentatamente poca dimistichezza con l’ambiente militante romano. Partendo da questo assunto ho avuto l’impressione tuttavia che tra i rischi, di cui dicevano i Wu Ming, vi possa essere anche quello, a mio avviso già riscontrabile in alcune occasioni passate, di poter scadere in una qualche forma di sensazionalismo. Intendo cioè dire che questo lodevole processo di ri-significazione simbolico-sostanziale talvolta, io credo in maniera non voluta, si sia risolta in forme di provocazioni che più che suscitare interesse hanno suscitato perplessità.
    Credo quindi che questi elementi tendenzialmente vadano inseriti, negli ambienti culturali più ricettivi verso questo tipo di aggiornamenti, non a strappi, o a “traumi”, bensi dialetticamente. Il quadro in cui ci si muove sotto quest’aspetto è magmatico e per certi versi impermeabile, non mi risultano per di più, in tempi in cui i rapporti di forza erano ben altri politicamente e culturalmente, tentativi di questo tipo. Come mai nessuno del resto ha mai tentato di eliminare dall’arditismo e dal fiumanesimo quella patina reazionaria e oscurantista che il fascismo aveva ad arte affibbiato in toto? Si dirà, giustamente, che Tolkien è argomento di interesse dalla fine degli anni settanta non certo prima. Cionondimeno Tolkien si inserisce in un universo le cui stelle polari in origine erano proprio l’arditismo, il trincerismo etc.. Rispondere a questa domanda credo da una parte possa aiutare a renderci conto di quanto gravoso sia questo lavoro culturale in un contesto fortemente deteriorato come è quello italiano, motivo per cui è ancora più utile, e dall’altra, per restare in topic, ci ricorda che questa è davvero una battaglia epica!

  81. @ wuming 5

    scusa, mi è rimasto impresso questo tuo passaggio: E, ripeto, il tentativo assolutamente ENCOMIABILE di chiudere con l’ombra degli anni ’70, almeno sul versante stilistico, su cui si gioca una partita di importanza centrale.

    puoi spiegarmelo? purtroppo sono senza riferimenti.

  82. Discussione scivolosa.
    C’è il contesto romano. C’è da dire che dopo un po’ giri in certi quartieri della città noti una conflittualità coatta, uniforme, violenta. Una conflittualità popolare che si scaglia contro le forme dell’alterità: frikkettone, gay, pariolino (diverse forme non connotate solo politicamente, benché ok la differenza è politica in sé). Il coatto romano non è più il capellone degli anni ’70, ha i capelli corti o rasati, jeans non più aderenti stile anni ’90 ma leggermente calati, giubbotto corto e nero. Aborrisce la fantasia frikkettona, i piercing troppo evidenti, giacche di velluto a costine e i capelli lunghi non curati. Si mischia a volte con i raver e quindi tollera i piercing che non siano geroglifici di metallo sulla gaccia, i tatuaggi, il pantalone un po’ calato(non con il cavallo alle ginocchia però), strane rasature nei capelli corti.
    Da una parte uno stile uniforme e guerriero da stadio (capelli corti, giacca nera corta ), dall’altra un stile più stravagante e leggermente nichilista (cascami del raver).
    Sicuramente mai lo stile disfattista, bohemien, con il foulard da ultimo cineforum sul cinema sperimentale per confermare un identità e una diversità dalla massa.
    Questi sono i proletari romani (ma anche torinesi, bolognesi, milanesi, triestini, palermitani suppongo) che la maggior parte delle volte appartengono più alla schiera dei coatti che a quella degli intellettuali.
    Gli anni ’70 sono passati. Nel bene e nel male.
    Il problema è uno: ci frega qualcosa della gente che va allo stadio, lavora in ambiti non cognitivi, ha un intelligenza spiccatamente pratica, non gliene fotte nulla della politica, è abbastanza spiccia nei modi, mangia da mcdonalds e a volte pensa che gli immigrati siano un problema (e così via con banalità steretipate)?
    Ci interessa intercettarne e capirne l’immaginario?
    Qualcosa che non è solo stile, è qualcosa che costringe a mettere il culo nei luoghi di lavoro, arretrando o meglio spostandosi da battaglie sulla marjuana libera, il copyleft e la solidarietà con gli indigeni mai visti prima (ok è una provocazione questa). Il senso non è abbandonare questi terreni ma interrogarsi sull’antifascismo (che ha delle ricadute estremamente pratiche, non solo militari, tipo la gente che viene ai picchetti e alle iniziative parteciperà se capisce come quella cosa è parte di una lotta sul lavoro, la casa, il reddito, cose tangibili e non esperienza giustissime ma legate solo alla dimensione del divertimento che inevitabilmente producono clienti-utenti )e sulla costruzione di un immaginario. Quindi nuove macchine mitologiche. Quindi e qui viene il difficile il rischio del mito e del simbolo. Il rischio inevitabile di cadere nella tecnicizzazione del mito, mito come strumento di un fine altro (forse inevitabile nonostante le tesi di Jesi?).
    Un mito guerriero, di lotta, quello degli arditi del popolo, produce esclusione della differenza (non guerriera, più intellettuale, accogliente) o come si concilia con essa? Sento che è difficile trovare il bandolo.

  83. @Giacomo
    bellissima l’ultima immagine! Completamente OT, scusate: il carattere usato per GLP (che è questo http://www.ascenderfonts.com/font/estro.aspx), dove diavolo l’avete trovato? Giusto per curiosità…

  84. @ clettox
    ce l’avevo sul mio pc, ma… correva l’anno 1993 : )

  85. @ paperinoramone

    Parto da un presupposto che anche altri del collettivo credo condividano. Per me lo stile è il piano dove scelta estetica e scelta etico-politica divengono indistinguibili.
    Molti pensatori nella tradizione marxista dedicano pagine e pagine allo “stile di lotta”: vedi Mao, ma il loro è un piano che ha un versante più strategico-militare. Zizek ha affrontato recentemente la questione, su un piano più filosofico e politico. Ogni fase storica elabora i suoi stili: ci sono fiumi carsici che appaiono e scompaiono, opzioni che in una certa fase non significano più nulla, e poi di nuovo sembrano entrare in risonanza con l’attualità, con la cronaca, con il presente, con la realtà quale la avvertiamo.
    Secondo me l’immiginario che deriva dagli anni ’70 è, sul versante stilistico, un fardello.
    E’ nato in un contesto che vedeva le nostre istanze egualitarie del tutto egemoni nella società reale. Per dire, uno delle prime canzoni che ricordo è la sigla di uno sceneggiato televisivo dal titolo “La Freccia Nera”: oggi il testo apparirebbe come un invito esplicito alla rivolta :-)
    E’ figlio di un’epoca dove esisteva un senso comune di strada “di sinistra”.
    Lo stile che molti adottavano è una forma di “dressing down option”: sottoconsumo ostentativo, apparire marginali, impoveriti, il che è l’opzione che percorrono di solito i ribelli provenienti dalla classe media. Molti compagni sono ancora lì, paradossalmente, perchè in quei segni è per loro racchiusa, appunto, un’identità di “sinistra”.
    Le opzioni stilistiche degli anni ’70 italiane erano un precipitato del tutto particolare di suggestioni che provenivano principalmente dal movement americano, ma che avevano senso, per il proletariato urbano, solo nelle condizioni particolari di allora. Fu un paradossale momento di chiusura, un’elaborazione tutta locale. (Sto parlando dello stile: come ci si veste, che musica si ascolta, eccetera- )
    Il sensocomunismo tardo seventies comportava ad es.rincorrere e malmenare i primi punk. Tale era la distanza che separava Bologna da Londra o da Berlino.
    Non parliamo poi dei primi skinheads: erano già fascisti prima che qualcuno, qui da noi, ne avesse visto uno.

    Il quadro oggi è diverso. Siamo reduci ad esempio da un trentennio di guerra serrata che il capitale ha portato alle classi lavoratrici di tutto il pianeta. Uno dei risultati è che sempre di più il quadro di rapporti della società del denaro e del profitto viene sentita come naturale. Anche gli straccioni, oggi, hanno in capo idee borghesi. Anche la canaglia parla di privacy, il “noi” del discorso trionfante sembra accomunare tutti.
    Per questo, come reazione istintiva magari e poi meditata uno stile stoico, resistenziale e classista come quello skinhead ha attratto molti compagni.
    Lo stile skinhead rimanda a un immaginario dickensiano, quasi ottocentesco. E’ un discorso stilistico elaborato in un contesto più rigidamente classista del nostro, ma oltre ai richiami allo slum operaio bianco è pregno di riferimenti allo stile e alla cultura nera. Molte scelte sono prese pari pari dai Rude Boys indoccidentali degli anni ’60, il che lo rende problematico, difficile da maneggiare, ma irrimediabilmente classista. Esige una forma notevole di autodisciplina.
    Gli skinhead si pongono dunque il problema del futuro, o del destino della classe operaia, lo fanno alla fine degli anni ’60 riconoscendo degli immigrati come fratelli e maestri di stile. I sociologi della scuola di Birmigham parlano di un tentativo di ricreare la solidarietà operaia attraverso l’adozione di un sistema di segni proveniente dalle indie occidentali e dall’america urbana nera. Si parla infatti spesso di” facce bianche, maschere nere” per indicare la prima fase dello stile.
    Occorre fare i conti con se stessi, quando un’immagine diviene uno stereotipo. E questo è un pericolo che tutti corrono, RASH compreso, è ovvio.
    Per quanto mi riguarda, a me i fricchettoni sembravano obsoleti già nel 1981. Ad alcuni dei più avvertiti, anche prima.
    Figuriamoci oggi :-)

  86. @ wu ming 5

    grazie molte; cavolo, è un sacco di robba. Oggi sono stato a sentire Sandro Portelli e mi si accavallono i pensieri.

  87. @ wu ming e tutti gli altri:

    guardate questa: Commandantes – Des Geyers Schwarzer Haufen

    http://www.youtube.com/watch?v=sLgpsM03KLI

    si’, e’ proprio quella, l’ armata nera di geyer

    loro sono “die commandantes”, gruppo oi! comunista di bielefeld.

  88. @tuco
    Sempre in tema di “furto di simboli”, mi pare che anche il significato di Des Geyers Schwarzer Haufen sia stato ribaltato dagli autori di quest’altro video

    http://www.youtube.com/watch?v=PNj5amOFSYk

    evidentemente l’equivalenza nero=fascismo per qualcuno è scontata

  89. Grazie ai RASH di Roma per l’anteprima del libro di Valerio Gentili. Si leggerà, si ragionerà insieme.

  90. e comunque disseppellire l’ascia di guerra vuol dire anche pulirla, ungerla, affilarla, mica solo usarla così com’è stata sotterrata. i simboli, le narrazioni, le immagini (i font, i layout grafici…) non fanno eccezione.

    poi, i miei due centesimi bucati a proposito di arditi e barricate: propongo un corto circuito con le discussioni su “roghi di libri”, leghismi e profondo nord: io a Torre di Pordenone ho fatto le scuole medie, nella scuola intitolata a Lozer, il prete citato. Però delle barricate ho saputo solo molti anni dopo. Nessuno ce ne aveva mai parlato (e io ero pigro).
    È un pezzo di storia scomoda (per il democristianismo e il leghismo culturalmente dominanti) che è lì pronta per essere raccontata di nuovo….

  91. Vorrei fare un piccolissimo appunto sulla lotta per il recupero di “miti e simboli”. Adesso cade un po’ fuori tempo, ma non sono riuscito ad intervenire prima. Non critico nessuna delle posizioni precedenti, è solo un chiarimento.

    Ecco, mi premeva dire che – in my opinion – Tolkien e gli Arditi del Popolo non sono simboli. E a scanso di equivoci, neanche il SDA.
    Ciò che mi pare sia WM4 sia questi gruppi romani abbiano fatto è una ri-scrittura storica e\o letteraria rispetto alle vicende di tali persone e alle loro interpretazioni deformate ideologicamente – a tal punto da violare quelle che erano le “verità” originarie.

    Persone vere dunque e non simboli.
    Nessuna guerra – di strada o metaforica – potrà mai costringere qualcuno a dare un’interpretazione specifica di un certo simbolo.
    Anche perché cosa sappiamo noi di assolutamente certo su questi simboli?
    Parlando della svastica, essa esiste da migliaia di anni. Certamente so che andare in giro con una maglietta con su la svastica (intendendola per quello che fu sino al ‘900 il significato principale, ovvero la rappresentazione del disco solare) non sarebbe atto particolarmente furbo.
    Ma niente mi vieta in contesti meno confusionari di poterla apprezzare per quel che originariamente rappresentava (ad esempio nella bellissima posizione yogica che ad essa si è ispirata).
    Sicuramente ci vorrà del tempo prima che – come sosteneva WM1 – le pessime radiazioni con cui è stata contaminata svaniscano. Ma – anche qui – passa tutto tramite le persone. Che identificano il Nazismo in quel segno.
    Sarebbe stato il Nazismo più simpatico o più odioso se avessero scelto falce e martello invece della svastica?

    A proposito di uomini e simboli.
    Talvolta questi sono i rischi.

  92. @Giacomo: grazie mille, siccome era discretamente diffuso su vecchie insegne commerciali, ero curioso di sapere dove l’avessi trovato.

    @WuMing 5
    “Lo stile che molti adottavano è una forma di “dressing down option”: sottoconsumo ostentativo, apparire marginali, impoveriti, il che è l’opzione che percorrono di solito i ribelli provenienti dalla classe media. Molti compagni sono ancora lì, paradossalmente, perchè in quei segni è per loro racchiusa, appunto, un’identità di “sinistra”.” Da quotare in pieno!

  93. Le Donne di Carta a Mestre. La forza della parola contro il #rogodilibri. Cronaca con audio:
    http://bit.ly/hSpovj

  94. riguardo agli arditi del popolo e al loro uso nel dibattito politico, voglio citare una recentissima esternazione del deputato Pdl Giancarlo Lehner (sulle cui opere si basa un capitolo del libro “Nemici dello stato” del Luther Blissett project), che in risposta agli attacchi giudiziari subìti dal premier ha affermato quanto segue:
    “Ho testè allertato i sostenitori di Nuova Forza Italia – diceva ieri (15/2/2011) il deputato azzurro – chiedendogli di essere i nuovi Arditi del Popolo, l’unica organizzazione che intese davvero fronteggiare le squadracce fasciste”.

    super capovolgimento!

  95. Lehner è un po’ come la Maiolo: “sbandato per eccesso di coerenza”, fino a questi ultimi vaneggiamenti. Nel senso che quand’era di sinistra, negli anni Settanta, ce l’aveva con autoritarismo, stalinismo e politiche repressive, tutte cose che (non a torto, e all’epoca in buona compagnia) vedeva incarnate in certe istituzioni e in certe forze politiche. Dopodiché, ha appoggiato *chiunque* si opponesse – non importa per quale motivo – a quelle istituzioni (penitenziarie e giudiziarie). Fino a fare comunella con soggetti ancora più autoritari, stalinisti e repressivi, *pur di andare contro quelle istituzioni*. La sua crociata si era “autonomizzata” rispetto al fine. Combatteva (e combatte) il dito anziché la luna nera.

  96. […] venire i pruriti. Però vedo che qualcuno ci prova, e ci prova con l’intento di riprendersi roba che il fascismo ci ha tolto: forse è l’ultima frontiera, e in ogni caso faccio fatica a pensarla come una frontiera […]

  97. …speranze di trovare il podcast dell’incontro?

  98. I ragazzi della RASH mi hanno detto che appena hanno la registrazione della serata me la passano. Per il momento però nessuna notizia…

  99. Bologna, vittoria della mobilitazione, CasaPound non aprirà in via Guerrazzi
    http://bit.ly/faeoq3

  100. Discussione in francese sulle marce commemorative di RASH, Patria socialista etc.
    http://bit.ly/ihEfqP
    Diciamo pure che viene espressa una certa perplessità…

  101. L’impatto visivo è forte, il rischio di travisamento anche, ma è facile criticare stando seduti in salotto davanti al pc.