Un anno senza Blu a #Bologna

Blu Street Art

È trascorso poco più di un anno da quando una mano di vernice grigia ha coperto tutti i murales realizzati da Blu nella città di Bologna, per protesta contro la mostra Banksy & Co – l’arte allo stato urbano, che ne esponeva alcuni previamente staccati dai muri. I pezzi in questione stanno ancora dentro il palazzo che ha ospitato la mostra e i curatori fanno sapere che il Comune non si è mai fatto vivo per parlare del loro destino.

Che l’amministrazione non abbia mai avuto intenzione di entrare nel merito della spinosa faccenda si sa da un anno, cioè da quando il patron della mostra Fabio Roversi Monaco ipotizzò una donazione dei pezzi al Comune. In quel frangente il sindaco Virginio Merola se ne uscì con una citazione virgiliana: «Timeo Danaos et dona ferentes», parafrasando aulicamente una più prosaica vocetta interiore che gli diceva: «schiva l’oliva». Per esprimersi sulla faccenda preferì invece ispirarsi a Ponzio Pilato: «Cercare la ragione e il torto in questi casi è un esercizio inutile e non mi interessa schierarmi con nessuno.»

Ma piuttosto che andare a cercare sindaci o assessori nella nebbia vale la pena restare sui curatori di quella mostra, perché hanno scelto di “celebrare” l’anniversario uscendosene sul giornale con dichiarazioni meravigliosamente spudorate.

Sulla stampa locale, il prof. di storia dell’arte Luca Ciancabilla (mente dell’operazione) e il presidente di Genus Bononiae, Fabio Roversi Monaco (il finanziatore), si lagnano del fatto che in questi dodici mesi non sia nato alcun dibattito in città sulla questione sollevata dalla mostra. Roversi Monaco lamenta che «a Bologna c’è stato un boicottaggio da parte di una grossa fetta di addetti ai lavori». Mentre altrove se ne discute – gli fa eco Ciancabilla -, «qui a Bologna si ha paura anche solo di parlare di questi temi».

I due compari fingono di non sapere i motivi del velo pietoso calato sulla mostra, i quali però sono evidenti a chiunque. Contro l’operazione “grattamuri”, che ha stabilito il precedente per cui l’arte di strada è del primo che se ne impossessa (o tutt’al più del proprietario del muro), Blu stesso ha reagito per affermare che invece l’arte di strada o è di tutti o non è di nessuno, dunque l’ha fatta sparire. Di conseguenza la mostra organizzata da Roversi Monaco e Ciancabilla si è risolta in uno dei più clamorosi boomerang culturali tirati su Bologna negli ultimi anni. Anche perché la mostra è passata con infamia e senza lode, mentre i suoi effetti in città permangono.

I due compari parlano di dibattito mancato. Ma se i curatori della mostra avessero davvero voluto aprire un dibattito in città su cosa fare di quei pezzi di Blu – e più in generale sul destino della street art, sulla sua deperibilità e conservazione – l’avrebbero fatto prima di appropriarsene per inserirli in una mostra che arricchisse i loro curriculum e pubblicizzasse nel mondo l’expertise e la tecnica dei “grattamuri”. E oggi potrebbero vantare l’onestà intellettuale che invece millantano.

Sì, perché, a meno che nel frattempo non siano intercorsi passaggi di cui non siamo a conoscenza, risulta che i pezzi di Blu staccati dai muri di Bologna appartengono all’associazione Italian Graffiti, i cui soci sono…i medesimi curatori e finanziatori della mostra. L’associazione non ha scopo di lucro, cioè non può rivendere i pezzi, ma ne determina comunque il destino. E già li ha messi a frutto in una mostra al prezzo di 13 euro a biglietto, in un catalogo, nelle conferenze fatte in Italia e all’estero sulla mostra stessa.

C’è da meravigliarsi che nessuno in città abbia voluto dibattere con costoro? Chi parlerebbe di corda in casa dell’impiccato insieme al boia? Vero è invece che molti hanno voluto dibattere contro la mostra e coprire gli ideatori del dovuto disdoro.

A Bologna e non solo a Bologna il dibattito in effetti c’è stato, proprio nei giorni precedenti all’inaugurazione della mostra. Non si è tenuto in un cenacolo accademico, né al vernissage, o in una sala da conferenze, ma sui quotidiani e sui blog, ed è stato il frutto non già della mostra, ma del gesto artistico di Blu e di chi ne ha condiviso la scelta, cioè la copertura dei suoi disegni. Quell’opera d’arte, quella sottrazione, ha prodotto una mole di senso e di discorso che la mostra in quanto tale non ha mai potuto produrre. Infatti la mostra ce la siamo già bell’e dimenticata, mentre della reazione che ha provocato si parla ancora.

Roversi Monaco fa notare che la cancellazione delle opere ha eliminato il contesto, ha reso tutto grigio. Gli fa eco Ciancabilla parlando di un «paradosso». E’ proprio quel paradosso che rinfacciano a Blu i suoi detrattori. Tra i quali va annoverato il presidente del quartiere Navile, Daniele Ara, poco propenso (o poco attrezzato) a capire le motivazioni di quel gesto, e che parla di un «dispetto» che Blu avrebbe fatto alla città e al suo quartiere in particolare. In gran parte le polemiche si concentrano sul grande murale Occupy Mordor, che campeggiava sulla fiancata del centro sociale XM24, una delle opere coperte un anno fa.

Quel dipinto era stato realizzato per impedire che si abbattesse un pezzo del centro sociale per fare posto a una rotatoria. La soluzione in realtà si rivelò semplice: bastò costruire la rotatoria dieci metri più in là. Ma adesso che il murale “d’autore” è sparito sembrano sparite anche le remore di Ara e del sindaco Merola, che hanno deciso di non rinnovare la convenzione a XM24 e ingiungono lo sgombero entro giugno, applauditi da tutta la destra cittadina. Questo atteggiamento – così come le parole di Roversi Monaco e la sua mostra – rivela un’idea dell’opera d’arte come feticcio, qualcosa che ha valore in termini di prestigio e di mercato, e che in quanto tale va salvata dal deperimento. Tolta l’opera si può togliere anche il centro sociale, perché cosa mai può importare delle persone e delle attività che lo animano? Meglio farci qualsiasi altra cosa (una caserma dei carabinieri, una casa delle associazioni, o perché no, una rotatoria più grande…).

A nessuno dei summenzionati – siano professori, storici dell’arte, amministratori – che si lamentano del grigio, viene in mente la cosa più semplice. E cioè che in ogni momento quei muri potrebbero tornare a essere le tele di Blu, come già lo sono ridiventati per altri street artist. Basterebbe volerlo. Per usare una metafora giudiziaria, esiste un modo arcinoto con cui un ladro può avere uno sconto di pena: restituire la refurtiva.

Già, ma restituirla a chi? Se non c’è un legittimo proprietario della street art e se non si vuole accettare la logica dell’appropriazione selvaggia introdotta dai grattamuri, a chi andrebbe riconsegnata l’arte strappata ai muri di Bologna? Piaccia o no, non viene in mente un altro soggetto che non sia la comunità-palestra di Blu e di molti altri street artist. Quella che si è stretta intorno all’XM24 lo scorso 4 marzo, per rispondere all’ingiunzione di sfratto entro l’estate da parte del Quartiere. L’arte di strada snaturata può tornare soltanto al suo punto d’origine, sul ciglio della contraddizione urbana, nell’occhio del ciclone gentrificante. E’ il milieu stesso che l’ha prodotta a dover sciogliere il paradosso del suo destino, fosse anche con un potlach antifeticistico, per non farla morire di una morte peggiore, cioè sepolta in un museo a uso e consumo degli addetti alla cultura.

Sappiamo che non andrà così. E lo sappiamo proprio perché sarebbe l’unico giusto epilogo della vicenda. Ma il fatto di non credere ai lietofine è solo una spinta ulteriore a mettere questa città allo specchio.

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One commento su “Un anno senza Blu a #Bologna

  1. […] Sarà per il fatto che quest’arte è di tutti o non è di nessuno (quindi è diventata “del primo che se impossessa“) ma la cultura mainstream sembra avere un rapporto problematico con la graffiti art in […]