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Note sparse su Guerra agli umani

di Tommaso De Lorenzis, maggio-giugno 2004

1. L'epica al Presente

Tommaso

Al termine di Guerra agli umani, quando i titoli di coda svaniscono nelle ombre della Bottega delle storie, uno strano senso di leggerezza comincia a pesare sul cuore. Inusuale, spiazzante, sorprendente per chi ha seguito il passo esitante di Gert sulla piana di Frankenhausen e ha strisciato insieme a Vitaliano Ravagli tra le fronde della foresta indocinese. Un inusuale senso di lievità, percepibile anche da chi ha riportato fratture scomposte alla mascella leggendo di Salvatore Pagano e di una memorabile partita di chemin de fer, senza per questo mettere in dubbio la densa potenza di quell'Antologia delle molte epiche che è 54.
Risposta e obiezione sono prevedibili. L'errore dovrebbe essere qui, a monte, facilmente individuabile. Non si paragonano mai libri concepiti in termini differenti, tanto più quando ciò che si confronta è l'«esperimento solista» di una band di scrittori.
La critica rischia di diventare ingiusta. Il vizio di forma sembra ineluttabilmente conficcato nel giudizio e il giudizio confuso. Peggio: scorretto.
Eppure, negli ultimi cinque anni, la pratica della scrittura collettiva e i suoi prodotti più pregiati hanno agito in profondità sulla sensibilità letteraria, creando aspettative e marcando solchi. Netti.
Il risultato è stato un epos pop, di strada, nutrito di azione cinematografica, complice del genere, che lascia parlare i santi predicatori come fossero puttanieri e frequenta con elegante nonchalance i bassifondi delle Lettere.
Avanti e indietro. A passeggio lungo il continuum. Passato e futuro sono stati acquisiti, rielaborati e utilizzati come armi contro il presente.
Dopo che le ultime pagine si dissolvono lentamente, mi chiedo da dove venga questo senso di leggerezza. Guerra agli umani è il titolo che più di ogni altro chiama l'epopea. Invece…
Forse all'Appennino manca l'esotismo, per quanto i dintorni di Castel Madero non siano certo luoghi comuni. Forse la dorsale italica non gode della capacità ammaliatrice dell'Europa cinquecentesca, della selva laotiana o della Jugoslavia del Maresciallo. Ciononostante non si tratta di un problema di luoghi. L'Università di Wittenberg del 1519 avrà ricordato a qualcuno, con un singolare sentimento di familiarità, il Quartiere Latino del 1968, mentre la doppia vita di Archibald Leach avrà evocato in altri la ben nota mitologia dell'eroe dai molti nomi e dalle molteplici esistenze.
Non è questione di esterofilia, perché, proprio in virtù delle continue ricadute sul presente, il racconto epico trasforma i posti più remoti, i personaggi più sfuggenti e le epoche più oscure, nella dimensione di una straniante consuetudine.
La domanda è un'altra: si può dare un'epica “del” e “nel” Presente? E in caso di risposta affermativa, quale prezzo occorre pagare?
E ancora: il timbro dell'assolo, cesellato in una sonorità contestuale e contemporanea, in che termini intreccia il motivo collettivo di quell'anomala epica storica sui cui accordi la band ha suonato fino all'ultima esibizione?
Collettivo non solo perché proprio degli autori e ben presente nelle opere precedenti, ma anche perché senso comune dei lettori ed elemento ben radicato in una precisa domanda e nella flessibile costituzione di prospettive intensamente condivise.
In tutt'altra situazione, in condizioni completamente differenti, con obiettivi diversi e risultati non comparabili, Wu Ming ci aveva già provato… e non c'era riuscito. Ci aveva provato con uno dei tre piani narrativi di Asce di guerra: Bologna 2000, al tempo delle tute bianche e della contestazione all'OCSE.
È la caccia al viet di Romagna a salvare Daniele Zani, pessimo avvocato di movimento ma buon detective, capace di un'avvincente indagine nel passato rimosso dall'Ego, tronfio, della sinistra piccista. Da lì in poi, una certa retorica scivola sui tetti di Bologna.
Situazioni altre, condizioni differenti, obiettivi diversi e risultati non comparabili, dicevamo. Il problema, però, resta il medesimo: l'acquisizione dell'epica, e conseguentemente dell'epica come racconto di ciò che è comune ai molti, è compatibile con una narrazione del Presente?
Secondo chi scrive la risposta è una sola: la particolare forma di fiction ricamata nell'ordito della Storia e ri-declinata come genere ribelle, polifonico e moltitudinario, è inconciliabile con una narrazione dell'«Oggi».
Sulla prima pagina era scritto: «Nell'affresco sono una delle figure di sfondo» e la promessa era di non dimenticare, di portare il passato in salvo nella memoria, di tenere tutto stretto prima «che la distanza offuschi lo sguardo di chi si volge indietro». Occorre, allora, che lo sguardo si rivolga indietro oppure molto avanti, e che nelle gesta del singolo continui a pulsare l'energia del riscatto e una sorta di terribile eroica grandezza.
È pur vero che esistono molte epiche. Le vicende di un quartiere, i marciapiedi di una città, il destino di una sala cinematografica, il punto finale di una partita di poker e le avventure rupestri di Marco Walden modulano tensioni epiche differenti. Ma siamo ben lontani da quel mitico gioco di finzione e realtà che alimenta le fiabe nere della Rivalsa.
Al sole di una linearità narrativa lontana dal nesso oblio/ri-appropriazione, che fa smorfie giocose alla prosa del Secolo XVIII, Guerra agli umani opta per un'altra epica: quella della maturazione della scelta individuale nel contingente di un'esistenza.
La cesura consumata nei riguardi dello Stile è profondissima, assai più che in 54, dove l'alone lunare delle stars dello spettacolo penetrava attraverso fitte tenebre popolate da inquieti comunisti emiliani, da gangster in cerca del grisbì, da dolci e generosi borderline, da partigiani traditi e da malinconici televisori privi di segnale.
Nel solleone del proprio convincimento Marco si fa simbolo di un'epica in cui la secolare forza, informe e costituente, di fitte schiere di creature senza nome si raggruma nei limiti, nelle esitazioni, negli interrogativi e nel fisiologico balbettio di una coscienza; in cui la denuncia del disastro ambientale finisce per prevalere sull'effettiva incidenza delle azioni; e il registro comico-realistico, a tratti surreale e grottesco (nell'accezione dei fratelli Cohen), blinda in maniera monologica l'opzione caricaturale che domina l'impiego degli strumenti espressivi: dal cinema al noir, dai riferimenti americani alla fantascienza.
La scelta è rispettabile; in relazione all'obiettivo il risultato pare anche centrato.
Al tempo stesso, da parte di alcuni lettori è lecito nutrire dubbi, prediligere piani differenti e pretendere l'innovazione di un differente schema, pur nella consapevolezza che il rischio di scivolare in una qualche Scolastica è ben presente.
54 esorcizzava il pericolo, riformando l'approccio dall'interno con un'eccezionale spinta corale e polifonica. Guerra agli umani lo elude con la ripetizione di una risata scanzonata, figlia del buon umore à la Voltaire, che, solo nelle ultime righe, assume la fisionomia di un sorriso mesto e pensoso.
Dal tumulto della Battaglia alle sottili contraddizioni dell'Esodo? Dall'odore del sangue e della polvere da sparo alla minacciata fragranza del muschio? Dalla trasformazione di una civiltà all'ipotetica fondazione di un mondo nuovo al di là del cataclisma?
Eppure, c'era ancora modo per commerciare in spezie…
Così, un senso di inesprimibile leggerezza comincia a gravare sul cuore.

2. L'Individuo, l'epica e il mito

Prima di diventare il supereroe troglodita di Castel Madero, novello Adamo della fuoriuscita dal ciclo entropico del consumo capitalistico, Marco è il campione di una libertà laica, individualista e pragmatica, generata dall'altra parte dell'Atlantico. La cittadinanza letteraria è americana, e sul passaporto narrativo sono indicati, a chiare lettere, luogo di provenienza e data di nascita: Concord, Massachussetts, United States of America, 1845. D'altronde, il soprannome «Walden» denuncia, senza falsi pudori né accortezze di maniera né cedimenti per la citazione ammiccante, origini, riferimenti e fonti.
La vita di merda condotta fino all'alba della decisione, spinge Marco a guardare il mondo con un sarcastico distacco.
In principio, quindi, c'è una scelta personale: la defezione, l'esodo, da un modello economico.
Ma la risoluzione va sottoposta alla verifica dell'esperienza, anzi al vaglio dell'«esperimento» per dirla con Thoreau.
La formazione del protagonista diventa la direttrice, assolutamente lineare, del narrare. Sulla tabula rasa della coscienza è incisa un'intenzione, ottimisticamente e stilisticamente voltairiana, empiricamente waldeniana. Così Guerra agli umani segue la meccanica dell'«esperimento».
Quest'intuizione di fondo comporta la dichiarata rinuncia al Personaggio aperto, all'Eroe dai cento volti, la cui caratteristica principale è di sopravanzare sempre, per costituzione mitica, il sapere del lettore. Nelle prime pagine di Q, Gert, destinato a vivere ancora molteplici esistenze, ha già un passato alle spalle che verrà dipanato non a caso attraverso la tecnica circolare del flash-back. A quel passato, si sommano, condensandosi in un plastico gioco di corrispondenze e allusioni, le infinite forme della ribellione ai poteri e ai potenti.
È uno schema di epica avventurosa, forgiata nelle varie articolazioni degli archetipi eroici e sovversivi a implodere in un diverso ordine di suggestioni. Un ordine dominato dal tema del Viaggio negli spazi della Natura. Una soluzione sorprendente, che trasporta una lunga tradizione dell'America letteraria sulle cime dell'Appennino. Ma James Ellroy ed Emilio Salgari non sono più uniti nella lotta.
I tempi stanno cambiando, e ora Candido e Walden scelgono la via del bosco.
Marco parte per abbandonare gli inutensili e sottrarsi allo sfascio del pianeta. È il figlio illegittimo e meticcio di un'America errabonda, che ha conosciuto le grazie e i favori della vecchia Francia, e, per farsi Italia, necessita forzatamente di una massiccia iniezione di comicità, ironia, sarcasmo, e di una lingua sentenziosa e aforistica.
Una soluzione sorprendente, stimabile nello sforzo ingegnoso di contaminazione dei materiali, ma che continua a risultare di difficile comprensione in relazione alle precedenti esperienze di scrittura collettiva, all'utilizzo di alcuni modelli fluidi, ai solidi rapporti di condivisione contratti con lettori dichiaratamente partecipi e, soprattutto, all'intricata relazione, di difficile reversibilità, che lega la cultura del Nuovo Mondo allo spirito del Vecchio Continente.
Marco cresce, estende il campo della sua esperienza, trova il modo di sottoporre al riscontro dei fatti il pacchetto completo dei suoi convincimenti, ma la brama con cui attinge alla sorgente di una conoscenza si trasforma in una famelica voracità. Il Vegetariano cannibalizza metaforicamente chi gli sta intorno, e il personaggio femminile finisce per ridursi a una funzione narrativa subordinata alla maggiore o, più precisamente, al polo scettico e dubitativo del protagonista. Così, a Gaia tocca in primo luogo il compito di formalizzare le perplessità e le esitazioni di Marco, e in un secondo tempo, quando la narrazione mette in gioco la decisiva questione del Mito, quelle dell'autore stesso. È lì che alla Rabdomante spetta il compito di illustrare, in chiave negativa, la Teoria delle mitologie su cui è cresciuta una parte della poetica di Wu Ming, mettendo il libro al riparo da una possibile accusa di incoerenza. Perché il viaggio del supereroe troglodita non sia percepito come il ritorno arcadico alla purezza di un Mito o come l'apologia aurea di un primitivismo insopportabile, Gaia è costretta a parlare da esperta di mitologemi e a beccarsi la piccata risposta del suo strambo amico.
Il rapporto conflittuale tra i due si gioca prevalentemente sul terreno del protagonista, e lo stesso vale per Sidney che, incontrando «Walden», perde inesorabilmente autonomia e spessore narrativo. A quel punto, il sacrificio umano diventa l'unica soluzione possibile.
Al termine della vita nei boschi, quando una luce tenue illumina lo spettacolo della Natura, il circolo dei riferimenti si chiude con un'immagine forte dalle sfumature differenti.
Per Thoreau la luce della civiltà è l'oscurità che acceca lo sguardo. L'alba di una differente economia non si darà con il semplice scorrere del tempo. Il giorno giusto è di là da venire e la luce del sole non è il lume che desta la ragione dell'uomo: «Tale è il carattere di quel domani, che il semplice passare del tempo non può mai fare spuntare. La luce che ci abbacina è oscurità, per noi. Per noi spunta solo quel giorno al cui sorgere siamo svegli. Ce n'è, di giorno, che ancora deve albeggiare! Il sole non è che una stella mattutina».
La scoperta della morte e dell'Ineluttabile ha consegnato Marco al dubbio. Anche la tiepida luce solare non è quella di un'alba remota e ben augurante, bensì quella di un tramonto che fissa, sul confine della notte, l'indecisione e l'incertezza. Si tratta di un chiarore soffuso, che proietta tutt'intorno ombre finalmente nere.
Un fuoco arde nel bosco, le braci si consumano, ma nessuno può più dire se il mattino le sorprenderà incandescenti, se qualcuno ravviverà la fiamma. Il lupo sceglie la via della valle, nel ribaltamento speculare di quella civiltà che aveva seguito di soppiatto Marco sulla montagna. Il quadro iniziale delle intenzioni, frantumato dall'impatto con la realtà, non trova modo per ricostituirsi, ma soltanto per scomporsi ulteriormente. Anche dopo una conclusione aperta, in cui, più che nelle atmosfere gonzo-noir del Marcio, di Mahmeti e dei combattimenti clandestini, risuona la purezza del Nero.

TDL


Fast Forward

di Wu Ming 2

L'auteur

1) Per me è normale apprezzare un lavoro solista quando permette di scoprire qualcosa in più dell'anima di una band. Altrimenti, mi dico, che ti sei messo da solo a fare? Mi piace che il batterista di un gruppo indie rock mi prenda in contropiede con un album di elettronica, non che scriva una variazione sul tema dei dischi collettivi. Certo, alcune scelte di fondo devono rimanere salde, ma proprio lo stile ha senso in quanto cambia. Se scrivessi un libro intimista, di introspezione, minimale nella struttura narrativa e del tutto slegato da qualsiasi richiamo alla realtà, certo non pretenderei di firmarlo Wu Ming. Se invece cerco di percorrere la strada tortuosa di una mitopoiesi al presente, allora lo faccio tenendo ben alte le insegne del collettivo, a maggior ragione perché si tratta di conficcarle sul suolo vergine di nuovi territori.
Chiedo quindi che mi si seppellisca come scrittore se mai dovesse capitare a qualcuno dei miei lettori di pensare "Schiòdati, scrivi sempre lo stesso libro". Penso che uno scrittore onesto e vivo si riconosca proprio da questo: che i suoi lettori sono più conservatori di lui e lo rimproverano per non essersi fatto trovare là dove lo aspettavano, piuttosto che il contrario. Credo necessario, in alcuni momenti, scrivere romanzi contro una buona fetta del proprio pubblico.
E' quello che ho cercato di fare. Sarebbe meschino non accettarne le conseguenze. Sarebbe un insuccesso se nessuno si lamentasse.

2) Mitopoiesi al presente: proprio qui sta la sfida. Io credo che si possa, che si debba raccoglierla, che Wu Ming sarebbe molto poco coraggioso se si accontentasse di Daniele Zani e di quella parte di Asce di Guerra che è in realtà un puro pretesto narrativo.
Dopo gli anni del minimalismo e delle storie da pianerottolo, gli anni in cui l'invito tondelliano a occuparsi di ciò che si conosce veniva preso non tanto come stimolo ad allargare i propri orizzonti, quanto piuttosto ad attestarsi su quel poco che già si aveva sottomano in termini di rapporti sociali e col mondo, dopo quegli anni senza storie, ecco i tromboni della critica che richiamano all'ordine il gregge: "Basta chiudersi nelle proprie minuzie, occorre parlare della realtà". Ed ecco sorgere svariate antologie di scrittori giovani e meno giovani che certo, parlano della realtà, ricreano ambientazioni dure e crude, analizzano comportamenti sociali, ma dimenticano - ancora una volta - di raccontare. Si fa cronaca. Si fa sociologia. In alcuni casi si fa pure letteratura, chissà. Ma non si fa narrazione.
L'unico antidoto che abbia sfidato questa tendenza sul suo stesso terreno, - tanto da anticiparla, in molti casi - è stato il giallo, più o meno nero.
Ma alla lunga, anche il giallo/nero rompe i coglioni. Non possiamo continuare a parlare di Ellroy per i prossimi vent'anni. Lunga vita al maestro, ma kill your idols è sempre e comunque l'opzione migliore. Con il suo Romanzo Criminale, Giancarlo De Cataldo ha chiuso un'era, non l'ha aperta. Quale miglior suggello di quelle pagine, senza dubbio la miglior epopea sull'Italia che sia stata scritta negli ultimi trent'anni?
E' tempo di partire per altri orizzonti.
La terza via, il tentativo di Guerra agli umani non è affatto l'epica della maturazione di una scelta individuale. Non so dire se qui sei tu ad essere fuori strada o se sono io a non averla additata con sufficiente convinzione e chiarezza. Non è un romanzo di formazione, questo. Il procedimento è lo stesso dei romanzi collettivi: si piglia un mito e lo si rilegge, reinterpreta, decostruisce. Lo si smonta e rimonta, ci si guarda dentro, lo si porta all'orecchio per sentire che rumori ne attraversano le cavità, si prova a urlarci contro per sentire che eco ne fuoriesce.
Piuttosto sono nuovi gli strumenti della dissezione: cioè un misto di realismo tagliente e di surrealtà, di grottesco e di nero, di gonzo e di dramma. Le armi di Fargo, per intenderci, e del Grande Lebowski. Perché per fare mitopoiesi al presente, occorre comunque accostare al presente un filtro, una lente polarizzata - ma non per forza nera, che ne modifichi la percezione, che non lo renda quotidiano. Nella cronaca, come detto, non c'è epos.
Ma l'epica in questione, ripeto, non è quella di Holden e Bandini. C'è senza dubbio qualcosa di loro - e soprattutto del secondo - anche in Marco. Però c'è anche molto altro: il mito è piuttosto quello del rapporto tra Uomo e Natura. E' il mito del Buon Selvaggio e del Selvatico. E' il mito dell'Esodo. E' il mito delle scelte individuali e dei destini collettivi. Il mito della Speranza e del suo pervicace rifiuto di morire (che forse non è sempre così benefico, anzi, spesso, è una vera maledizione…)
Anche qui: non so davvero dire se ci sia un errore di percezione o un problema di equilibrio, il difficile equilibrio tra un romanzo di trama e uno di idee. Propendo per la prima ipotesi, solo perché ho registrato molte altre percezioni, molto diverse tra loro. La tua - e quella di altri - mi pare una lettura tutta schiacciata sulla figura di Marco, tipica di chi guarda soprattutto al versante ideale del romanzo, forse perché la trama - il gonzo-noir come l'hai definito - non lo soddisfa. E lì è questione di gusti, però vedi, Marco è senz'altro una figura preponderante, tuttavia, contando anche i capitoli in cui compare a fianco di altri, non si raggiungono comunque le 130 pagine. Cioè meno della metà del libro. E i monologhi sono ancora meno.

3) Se il mito in questione è quello della Speranza, ecco che il balbettio delle coscienze non è più ridotto a uno. Di fronte alla disperanza, il romanzo mette sulla scena diverse strategie d'azione: il terrore di Cinghiale Bianco e compagni, la resistenza di Gaia, il chiamarsi fuori - senza un 'fuori' dove piantare le tende - di Marco, il destino ineluttabile di Sidney - che di giocare con l'assenza di speranza non se lo può davvero permettere, le buone idee di Mahmeti…
(Tra l'altro, una lettura di questo tipo aiuta anche a far emergere, al di là degli aspetti comici, al di là del divertissement, tutti i passaggi amari, duri senza perdere la tenerezza, che colorano il romanzo con tinte ben diverse.)
Marco cannibale? Può darsi, ma non certo dell'intero piano narrativo, ché non basterebbe una tenia di due metri per mangiarselo tutto.
Marco che mangia Gaia? Certo. Ma è molto più vero che Marco non potrebbe esistere, nel romanzo, senza il controcanto della protagonista femminile. Non a caso, il 100% delle lettrici consultate finora si è detto pienamente soddisfatto del risultato. Cosa che ancora non era capitata a nessun romanzo di Wu Ming. Semplice: Gaia è l'alter-ego resistente di Marco e in quanto tale è non solo indispensabile, ma protagonista a pieno titolo della vicenda. Sono due voci che si richiamano: tanto è vero che Gaia ha capitoli autonomi e capitoli con Marco. Se fosse una mera appendice comparirebbe solo come spalla.
Sidney. Sidney non ha grande spazio perché questo non è un romanzo equo-solidale, dove il nigeriano buono può guadagnarsi uno spazio anche senza conoscere la lingua, anche con un destino segnato. Per come vanno le cose in Occidente, l'unico modello di riscatto per un clandestino, l'unico che al momento funzioni, è il modello Mahmeti. Il gangster che sfrutta senza scrupoli quelli arrivati dopo di lui. Tutto il resto è eccezione consolatoria.
E l'epos non è mai consolatorio.
In questo sta quel tocco di puro Nero che rimane ancora insostituibile in qualunque esperimento.


Una breve nota di Wu Ming 1

La sintesi personificata

Come collettivo, abbiamo il dovere di mantenere alta una poetica ma anche quello di ricorrere a tutto quanto possa spiazzare le abitudini consolidate dei nostri lettori, anche rispetto all'epica e all'individualità del personaggio, altrimenti rimarremmo schiavi della narrativa "à la Wu Ming", e di libro in libro saremmo sempre meno liberi.
L'esperimento dei romanzi solisti serve a salvare il collettivo da se stesso, perché la forza di Wu Ming è proprio questa: il collettivo e il singolare si valorizzano a vicenda, anziché limitarsi.
La mia libertà di autore finisce dove finisce quella degli altri quattro, non dove essa comincia.
Non c'è progetto collettivo se non c'è libertà del singolo di sperimentare, di "idiosincratizzare", di scostarsi (anche con operazioni dubbiose) dal "solco" dello "Stile", perché questo stile con la S maiuscola è stile canonizzato, quindi surgelato, quindi ridotto a "identità". Preferisco che la esse rimanga minuscola, e la desinenza rimanga plurale: gli stili di Wu Ming (e non "alla Wu Ming").
Se per conseguire questo risultato di libertà dovessi per forza passare attraverso la delusione di qualche lettore, non esiterei comunque a farlo, anche perchè non è possibile accontentare tutti con tutti i libri.
Proprio per questo, i problemi indicati da Tommaso - esattamente gli stessi problemi - io li ho visti fin da subito come i veri punti di forza di Guerra agli umani.
Quel senso di "leggerezza" è una cosa importante, da tenere cara, perché è quella leggerezza che può permettere al libro di viaggiare e avere ricadute multimediali. In un'ipotetica classifica, il nostro libro più "pesante" (in senso buono) rimane Q, ed è quello che ha avuto meno trasfigurazioni: c'è solo uno spettacolo teatrale sulla difficoltà di trasfigurarlo, proprio perché "pesante". E' la pesantezza novecentesca, è l'acciaio delle armature.
Al secondo posto metterei Asce di guerra, stesso discorso.
54, invece, è un libro che sa alternare pesantezza e levità, un libro dall'impianto "pesante" ma che è sulla levità come utopia, e finora è quello che ha avuto più trasfigurazioni: un reading, uno spettacolo, un cd, una retrospettiva di film (Ok, è stata un flop, ma c'è stata...)
Guerra agli Umani è anch'esso un libro sulla difficile, utopica riconquista della levità nel momento in cui il mondo rimane schiacciato sotto la pesantezza, la pesantezza della colossale montagna di rifiuti di cui non si sa che fare, la pesantezza delle acque destinate a inondarci... E non è solo un libro, ma un oggetto coerente integrato, che fa coincidere poetica, impegno e caratteristiche merceologiche.
Si dirà: "Quest'ultimo è un dato extra-letterario". Certo, infatti, ma se stiamo parlando di trasfigurazioni, siamo già proiettati oltre il libro.
In poco tempo, Guerra agli umani ha disseminato sulla Rete ogni sorta di aforisma, è diventato un reading musicato, ci ha portati per la prima volta in televisione alle nostre condizioni (reading su MTV), ha ricevuto un'offerta cinematografica (e forse è il più filmabile di tutti i nostri libri), si diffonde presso lettori che non ci avevano mai frequentato...
Insomma, parlando di mitopoiesi, si sta parlando di una dimensione che trascende il libro, che escresce, che "superfeta" da esso. La mitopoiesi si valuta nei rapporti che il libro contribuisce a rafforzare, nelle prospettive che il libro riesce a cambiare, nelle persone che il libro può fare incontrare, al di là dei limiti strutturali che esso può avere.
Da questo punto di vista, Guerra agli umani sta producendo molto ed è troppo presto per valutare.

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