
Roma, festival Contrattacco, 14 giugno 2025: presentazione del libro di Wu Ming 4 Il calcio del figlio.
Una decina di giorni fa Loredana Lipperini ha chiesto a Wu Ming 1 un parere sulla profonda crisi dell’editoria italiana – certificata dall’ultimo rapporto AIE sulle vendite – e su certe polemiche speciose che proprio lo stato di crisi alimenta. Roba del tipo: «La provocazione-sfogo dello scrittore Pincopallino: “Non ha più senso presentare i libri”»
Lo scambio è diventato un’intervista e il raggio si è ampliato. Tra i temi toccati: la necessità, ora più che mai, di ritrovarsi e stare insieme; l’importanza dei gruppi di lettura; le peculiarità dell’approccio di Wu Ming e il senso del continuare a fare letteratura in questo paese.
Che poi è: il senso del continuare a fare in questo paese. A sbattersi, impegnarsi, lottare.
L’intervista è uscita oggi sulla rivista on line Lucy (sulla cultura). Ci teniamo a precisare che noi non le avremmo mai dato un titolo del genere, ma amen! 🫠 Buona lettura.
ciao, prima volta che commento.
ho letto l’intervista. a un certo punto wm1, parlando di majakowski, lo cita e dice qualcosa riguardo a una certa parola russa “byt”. “La barca dell’amore si è sfasciata contro la vita quotidiana”
studiando un po’ di russo (sono totalmente un principiante) ed essendo curioso mi son chiesto a quale parola facesse riferimento (forse бить cioè colpire? быть da escludere perché è il verbo essere – queste due parole si pronunciano simili a un orecchio italiano) o forse una parola più antica che non si usa molto al giorno d’oggi. niente ero curioso di sapere quale sia questa parola precisamente.
ciao grazie buona giornata
Ciao Gioele, nessuno di noi è esperto di russo, ma la parola è быт.
A quanto pare, deriva dal verbo essere, быть.
Qui e qui un paio di articoli sul tema e sul suo legame con la poesia di Majakovskij e il formalismo russo.
Vorrei far notare un particolare che, purtroppo, rende il quadro forse anche piú tetro.
Comprare un libro non significa leggerlo. Scaffali e comodini sono appesantiti da pagine e pagine di buone intenzioni.
Il valore del discorso commerciale, da questo punto di vista, credo sia valido ma puramente referenziale.
Basta poi guardrarsi intorno: leggere su carta stampata, un giornale per esempio, è attività di nicchia, un rito raro e bizzarro, al limite dell’incomprensibile per la stragrande maggioranza degli esseri coscienti. Una prassi tanto intima quanto anomala, mantenuta in vita forse solo per abitudine da una risoluta ma ristrettissima minoranza.
Esattamente come le presentazioni dei WM. E non è detto che ciò sia un male.
A proposito di quelli che WM1 chiama “fattori di disturbo”
« […] si parla molto delle serie TV.»
Aggiungerei che non si parla abbastanza dei videogiochi. Qualche dato.
Quella dei videogames è un’industria che vanta ormai un fatturato che supera di svariati milioni quello dell’industria musicale e del cinema/TV messe insieme. E questo accafe da anni; picchi vertiginosi sono stati raggiunti, immancabilmente, tra il 2019 e il 2022.
Giusto per farsi un’idea della “competition” e dare un contesto alla mia definizione di nicchia: al 2023, sul mercato globale, c’erano tre miliardi di giocatori/giocatrici definitx attivx.
Grand Theft Auto, uno dei giochi piú famosi ha un fatturato di $ otto miliardi. La cifra supera quella dei tre blockbusters hollywoodiani di maggior successo di sempre, messi insieme: Avatar, Avengers: Endgame e Avatar: the Way of Water.
Non si pensi poi che sia una questione esclusivamente generazionale oppure di genere: per quanto riguarda, per esempio, gli USA, secondo la Entertainment Software Association, il 76 per cento dei giocatori sono adulti e di questi il 48 per cento si identificano nel genere femminile.
Insomma, nel [poco] tempo libero, piú che guardare filmetti e serie TV, pare si smanetti di brutto.
A integrazione, va detto che, da quando esistono i libri, non c’è mai, ma proprio mai stata un’epoca in cui chi li leggeva non fosse parte di una ristretta minoranza. Non è far parte di una minoranza il problema, ci siamo abituatissimi. Il problema è che su quella minoranza gravano ulteriori e nuove difficoltà. Vita troppo di merda, troppi libri (e questo confonde le idee) e troppo costosi, troppo poco tempo per sé, troppi canti di sirene su come impiegarlo in altri modi, troppe incertezze sul ricambio generazionale (cioè sulla prospettiva di tramandare l’abitudine e la passione di leggere, ma va detto che certezze sul tramandare non ci sono quasi mai, in nessun ambito). A differenza di quanto strilla il titolo che hanno messo su Lucy, io non ce l’ho un’idea su come «salvare l’editoria italiana», ma ci sono buone pratiche che possono aiutare chi si ostina ad amare i libri, e di quelle volevo parlare.