Combattenti per la verità. Anas al-Sharif e i suoi colleghi, una strage avvolta nella menzogna

Anas al-Sharif

Anas al-Sharif, 1996 – 2025.

di Girolamo De Michele *

Il 10 agosto scorso il giornalista Anas Jamal Mahmoud al-Sharif, uno dei volti più noti delle corrispondenze giornalistiche da Gaza, è stato assassinato insieme ad altri cinque operatori dell’informazione.

Al-Sharif sapeva di essere da tempo nel mirino dell’esercito di occupazione israeliano. Nondimeno, come molti suoi colleghi e colleghe – Anna Politkovskaya, Giancarlo Siani, Pippo Fava, Mauro De Mauro, Simone Camilli, Maria Grazia Cutuli, Daphne Caruana Galizia, Veronica Guerin, Peppino Impastato, Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, Mauro Rostagno – ha continuato fino all’ultimo la sua battaglia per la verità, con le armi di cui disponeva: una telecamera, un microfono, i suoi occhi e la sua voce.

L’IDF dispone di droni in grado di colpire un singolo bersaglio: la ditta costruttrice Rafael Advanced Systems ha usato la ripresa di un assassinio mirato come spot pubblicitario (e Youtube non chiede la verifica della maggiore età per vederlo). Nondimeno, l’IDF ha scelto di colpire l’intero ufficio stampa di al Jazeera, situato in una tenda presso un ospedale.

La strage di giornalisti è avvenuta al culmine di una sequenza che è difficile pensare dettata dal caso.

Dapprima, 28 luglio, l’assassinio a sangue freddo dell’attivista Awdah Athaleen, che aveva partecipato al documentario vincitore del premio Oscar No Other Land.

Il giorno dopo, il tentativo da parte di un colono armato di impedire il reportage alla squadra del TG3. Quel giorno Lucia Goracci ha dato una lezione di giornalismo svolgendo imperterrita il suo lavoro avendo davanti il colono armato su un pickup a motore accceso (qui, dal minuto 8:25). Ma l’amaro commento che ha consegnato al suo post – «a me vengono in mente le parole con cui Michele Santoro commentò la morte di Libero Grassi, che era stato ospite suo a Samarcanda: “mi ero illuso che illuminare la battaglia di Libero, gli avrebbe fatto uno scudo intorno”» – lasciava presagire il peggio.

Infine, registrata l’indifferenza dei governi “democratici” e “occidentali” davanti alle violazioni della libertà di stampa, l’IDF ha svolto il compito assegnato con la strage di sei operatori dell’informazione.

La mafia, facendo tesoro di un metodo praticato da Italo Balbo, ha più volte accompagnato esecuzioni “eccellenti” con la diffusione di dicerie, il più delle volte a sfondo sessuale, sulle vittime. Con pari, se non maggiore, indegnità morale lo Stato d’Israele ha giustificato la strage del 10 agosto con la pretesa militanza di al-Sharif nelle file di Hamas.

Questa diceria è stata rigettata dalla BBC – «La BBC non può verificare in modo indipendente questi documenti e non ha visto prove del coinvolgimento di Sharif nella guerra attuale o del fatto che rimanga un membro attivo di Hamas» – e da Newsweek – «Newsweek non è stata in grado di verificare in modo indipendente i documenti e le fotografie forniti dalle IDF né il loro contenuto» –, oltreché dall’United Nations Office of the High Commission on Human Rights (OHCHR), dal Committee to Protect Journalists (CPJ), dalla Foreign Press Association e da Reporters Sans Frontières. Le accuse israeliane sono state definite baseless, infondate, e flimsy, inconsistenti.

Peraltro, va tenuto presente che il diritto internazionale in operazioni di guerra divide la popolazione civile in due categorie: i combattenti impegnati in operazioni militari, e i non combattenti; solo i primi sono bersagli legittimi, non i secondi, men che meno i giornalisti impegnati nel lavoro di informazione.

Quale che fosse il suo status, al-Sharif, in base alle norme di diritto internazionale non era un bersaglio lecito. La dichiarazione dell’IDF «Una tessera stampa non è uno scudo per terroristi» è una cinica dichiarazione di guerra al diritto internazionale e alla libertà di informazione. Ce la meniamo tanto con «l’unica democrazia in Medio Oriente»: ebbene, per essere una democrazia non basta mettersi il grembiulino del bravo cittadino e andare a depositare una scheda nell’urna ogni tot anni. Una democrazia rispetta il diritto internazionale, e se non lo rispetta non lo è. Le due cose non sono compatibili.

Potrebbe bastare. Nondimeno, un fact-checking sull’assassinio di al-Sharif è istruttivo. Non tanto per “riabilitare” un combattente per la libertà della sua terra con le armi dell’informazione, quanto per mostrare le strategie della menzogna istituzionalizzata del governo e dell’esercito israeliani. E anche per sfatare qualcuna delle bufale che si generano da sé per disattenzione o distrazione. Non servirà a convincere i negazionisti – che probabilmente non sono arrivati fino a questo punto nel leggere, e sono già a commentare sui loro social–, ma aiuterà a forgiare nuove armi per una battaglia che sarà di lunga durata.

Due premesse e una biografia (anzi, sei)

In primo luogo, le fonti.

Per questa inchiesta mi sono servito dei fact-checking di Snopes, il più noto sito del settore; inoltre, di articoli di fact-checking della BBC [12], di Newsweek, di Reporters Sans Frontières, e soprattutto del giornale israeliano +972 Magazine, che sta svolgendo, spesso in collegamento col quotidiano israeliano Haaretz, un formidabile lavoro di inchiesta sui crimini commessi dall’esercito israeliano.

Una di queste inchieste di +972 – «”Legitimization Cell”: Israeli unit tasked with linking Gaza journalists to Hamas» – ha portato alla luce ciò che in molti pensavamo dovesse esistere: la creazione di una unità speciale dell’esercito incaricata di trovare collegamenti fra i giornalisti di Gaza e Hamas, costi quel che costi, anche attraverso «questionable claims» [affermazioni discutibili], per poter legittimare l’assassinio dei giornalisti. «L’obiettivo era semplicemente trovare il maggior numero possibile di materiali per sostenere l’impegno nell’hasbara», scrive +972. Hasbara significa «spiegazione»: nell’uso che stiamo esaminando, il termine è risemantizzato in «propaganda».

Un esempio di queste affermazioni sospette è l’esplosione all’ospedale al-Ahli il 23 ottobre 2023, che ha causato centinaia di vittime. L’IDF l’ha attribuita al malfunzionamento di un razzo di Hamas, che avrebbe usato l’ospedale come base di lancio. Una successiva inchiesta indipendente del febbraio 2024 ha stabilito che l’esplosione filmata pochi secondi prima era stata causata dallo stesso Drone Interceptor che riprendeva la scena.

Un secondo caso è l’assassinio del giornalista di al-Jazeera Hamza Al-Dahdouh, assieme all’operatore video Mustafa Thuraya a Khan Younis nel gennaio 2024. L’accusa di star effettuando riprese con un drone – cosa che a dire dell’IDF giustificava la loro esecuzione – è stata confutata da una successiva inchiesta del Washington Post.

E ancora, la falsa accusa di essere un operativo di Hamas rivolta al giornalista Ismail al- Ghouls, uno dei più stretti collaboratori di al-Sharif, decapitato da un proiettile scagliato da un drone nel giugno 2024 – ma di questo parlerò più avanti.

Vediamo adesso chi era Anas al-Sharif.

Al contrario di ciò che si è letto, non era uno sconosciuto inopinatamente ingaggiato da al-Jazeera subito dopo il 7 ottobre 2023. Al-Sharif il mestiere di giornalista lo aveva nel sangue: aveva una laurea in comunicazione all’Università di al-Aqsa, e una specializzazione in radio e televisione. Dopo un apprendistato all’Al-Shamal Media Network, era stato assunto da al-Jazeera.

Quest’ultima, sia detto una volta per tutte, è un’emittente televisiva internazionale, la cui professionalità non può essere misurata sulla base dei pizzini letti dai generali dell’IDF o dal governo israeliano. È un’emittente araba, dunque… Una critica del genere ha lo stesso valore dei titoli del Vernacoliere sui pisani – salvo che al Vernacoliere sanno di fare satira, non antropologia criminale della toscanità.

Al tempo stesso, Al-Sharif era entrato a far parte della squadra dell’agenzia Reuters, partecipando alla copertura della guerra con la quale la Reuters ha vinto il Premio Pulitzer 2024 nella categoria Breaking News Photography.

La sua notorietà era costata la vita a suo padre Jamal, assassinato nel bombardamento della casa di al-Sharif nel campo profughi di Jabalia il 6 dicembre 2023, nel corso di una vasta offensiva dell’IDF contro le abitazioni delle famiglie dei giornalisti gazawi, fra il novembre e il dicembre 2023.

Al-Sharif aveva una moglie e due figli. La sua visione politica coincideva col suo mestiere; in ogni caso, aveva più volte espresso critiche ad Hamas, definendo il lancio di missili «un comportamento sconsiderato sia sul piano morale che su quello dell’interesse nazionale» (3 aprile 2025), e chiedendo ad Hamas di accettare il cessate il fuoco anche al prezzo della liberazione di tutti gli ostaggi: nel dicembre 2024, con un vocale, e nel luglio 2025.

Ultimo dettaglio: come testimoniato dal post del giornalista e anchorman Amit Segal, uno dei più importanti nomi della televisione israeliana, al-Sharif era stato arrestato durante il primo assedio e bombardamento dello Shifa Hospital, il 15 novembre 2023, interrogato, e poi rilasciato. Teniamo a mente questo evento.

Piccola digressione: l’ospedale al-Shifa fu attaccato con la motivazione che nei suoi sotterranei ci sarebbe stato un centro di comando di Hamas. L’accusa di un uso improprio dell’ospedale, compresi i tunnel sottostanti – alcuni dei quali di costruzione israeliana – è stata smentita da Amnesty International, che operava ad al-Shifa dal 2015:

«Amnesty International non ha prove che indichino che l’ospedale al-Shifa sia stato utilizzato per scopi diversi dal trattamento dei pazienti durante l’attuale conflitto del 2023. Amnesty International non ha finora visto alcuna prova credibile a sostegno dell’affermazione di Israele secondo cui al-Shifa ospita un centro di comando militare; al tempo stesso, Israele ha ripetutamente fallito nel produrre qualsiasi prova a sostegno di questa affermazione, che ha messo in circolazione almeno dai tempi dell’Operazione Piombo Fuso 2008-2009».

Ulteriori smentite dalla stampa internazionale, uno per tutti il Guardian:

«Israele ha ripetutamene affermato che Hamas operava da un comando e centro di controllo all’interno di tunnel vicini all’ospedale e sotto di esso, benché gli elementi forniti sinora siano lungi dal provarlo».

Ma ricordiamo anche gli altri cinque operatori dell’informazione uccisi il 10 agosto.

Anas al-Sharif e i cinque colleghi uccisi con lui

Mohammed Qreiqeh, 33 anni e padre di due figli, copriva le operazioni militari nel nord. Sua madre era stata uccisa nel secondo bombardamento dell’ospedale di al-Shifa nel marzo 2024, suo fratello nel bombardamento di Gaza City nel marzo 2025.

Il cameraman Ibrahim Zaher, 25 anni, veniva anche lui, come al-Sharif, dal campo profughi di Jabilia. Oltre che come giornalista, svolgeva attività di volontariato nei servizi sanitari.

Anche Mohammed Noufal veniva da Jabilia. Aveva perso nei bombardamenti dei primi giorni la madre e un fratello.

Il cameraman freelance Moamen Aliwa, laureato in ingegneria, svolgeva la sua attività di giornalista attraverso Instagram, come pure il freelance Mohammed al-Khaldi. Il suo ultimo video, una settimana prima del suo assassinio, mostrava una bambina di otto anni in pericolo di vita per l’inedia.

Non esiste, neanche inventata, alcuna evidenza di un collegamento di questi giornalisti con Hamas. Come non ne esistevano per il giornalista Yasser Murtaja, assassinato da un cecchino dell’IDF il 6 aprile 2018. Il suo legame operativo con Hamas risultò essere il suo arresto e la sua detenzione nelle carceri di Gaza! L’inchiesta aperta dall’IDF sul caso è rimasta a lettera morta, come sempre accade.

Quali prove esistono di una relazione fra al-Sharif e il braccio militare di Hamas?

L’IDF, tramite il suo account su X e il suo portavoce Avichai Adraee, ha sostenuto l’esistenza di documenti comprovanti la militanza operativa di al-Sharif nel braccio armato di Hamas. Adraee possiamo ignorarlo: il suo post ha come prova un suo post precedente nel quale, nell’ottobre 2024, lanciava le stesse accuse senza fornire prove del fatto che al-Sharif intendesse «fare carriera dentro Hamas» con la sua attività giornalistica. Ci si chiede come, invece, si faccia carriera dentro l’IDF – ma che te lo dico a fare?

Le “prove” fornite, o fatte circolare, dall’IDF si dividono in tre sottocategorie: tre documenti provenienti «da un computer di Hamas nella striscia di Gaza»; un post di al-Sharif su Telegram del 7 ottobre 2023; alcune foto provenienti dal canale Telegram di al-Sharif. Andiamo per ordine.

I tre documenti

L’IDF non ha mai consentito ad alcuna verifica indipendente su questi pretesi documenti, non li ha mai mostrati in originale alla stampa, ha risposto negativamente a qualsivoglia richiesta di chiarimenti, non ha mai fornito indicazioni su questo preteso computer nel quale erano archiviati documenti concernenti gli affettivi di Hamas. Sempre in nome di quell’essere «l’unica democrazia del Medio Oriente».

In democrazia vige la presunzione di non colpevolezza, è l’accusa a dover fornire le prove di eventuali crimini. «È così perché lo dico io» può valere nella Fattoria degli animali (ma Napoleon aveva più classe), non in una democrazia.

Aggiungo che l’IDF avrebbe avuto tutto l’interesse a dimostrare l’autenticità di questi “documenti”: come minimo, avrebbe messo due testate informative importanti come al-Jazeera e Reuters in condizione di dover sospendere il loro rapporto con al-Sharif.

Reporters sans Frontières ha interpellato due studiosi, esperti di storia di Hamas, come consulenti, su questi screenshot spacciati come prove: «Per quanto riguarda l’autenticità del documento, uno degli esperti ha dichiarato di non aver mai visto un elenco simile nella storia della sua ricerca su Hamas.»

Andiamo però a vedere cosa dicono questi tre fogli.

Il primo, datato 2023, è una lista di combattenti «suspended» e «unassigned», nel quale al-Sharif risulta essere stato ferito in un’esplosione, e per effetto delle ferite invalidanti sofferente di «udito estremamente debole nell’orecchio sinistro, vista debole, e costanti emicranie e mal di testa».

Il secondo lo descrive come «group leader», e riporta la data del suo 17esimo compleanno come giorno del suo arruolamento (dal 2013 al 2017).

Il terzo lo dichiara membro dell’unità Nukhba, la punta di diamante delle Brigate al-Qassam (una specie di Battaglione San Marco di Hamas).

Ebbene, queste informazioni si contraddicono e sono incoerenti: il reclutamento in Hamas avviene non prima del conseguimento della maggiore età (18 anni) e due anni più tardi nel corpo d’elite Nukhba (come testimoniano gli esperti militari interpellati da RSF), e solo dopo anni di addestramento operativo, che al-Sharif non poteva avere, essendo stato – stando alle “fonti” – messo in disarmo per un’invalidità acquisita nel 2017.

È un caso isolato? No: le stesse fonti registravano l’ingresso nell’unità Nukhba di Ismail al-Ghouls, giornalista amico di al-Sharif, nel 2010, quando al-Ghouls aveva 10 anni; salvo, in un altro documento, fornire la data del 2017 per il suo reclutamento in Hamas – contraddittoria con la prima, e comunque al di sotto dei 18 anni. Peraltro, nel marzo 2024 al-Ghouls era stato arrestato e interrogato: se esistevano prove della sua militanza in Hamas, perché era stato rilasciato? La stessa domanda, com’è ovvio, vale per al-Sharif.

Resta che al-Sharif è stato un giornalista a tempo pieno. Lo diciamo con le parole del veterano della stampa statunitense Ryan Grim:

«L’idea che qualcuno si spacci per giornalista facendo reportage in diretta tutto il giorno, tutti i giorni, per due anni di fila – ma in realtà sia segretamente un terrorista (in quali momenti??) – è così stupida che dimostra quanto potere Israele crede di avere. Il pretesto per assassinare un giornalista noto a livello mondiale non deve nemmeno avere senso. Non importa quel che dicono: possono uccidere con impunità e lo sanno».

Il messaggio su Telegram

Alla morte di al-Sharif è comparso un messaggio dal suo canale Telegram, nel quale il giornalista, alle 14.49 del 7 ottobre, avrebbe esultato per ed elogiato «gli eroi» che dopo nove ore – ma in realtà sono otto… – stavano ancora «scorrazzando e catturando» israeliani.

Questo messaggio, di per sé, non dimostrerebbe alcunché rispetto alle attività di al-Sharif: al più, è l’espressione di uno stato d’animo, criticabile o meno. Ma il messaggio è stato messo in forte sospetto, perché non figura nella cronologia, e perché è incoerente con la sequenza dei messaggi che al-Sharif lanciava dalla sua pagina social.

David Puente ha rintracciato nella Wayback Machine un salvataggio di questo messaggio datato 27 novembre 2023. Attenzione: Puente non ha dimostrato che il messaggio è autentico, cioè proveniente dal dispositivo di al-Sharif: ha dimostrato che questo messaggio è stato salvato cinquanta giorni dopo.

La precisazione è importante, perché, come si è scoperto con il caso del software spia Graphite di produzione israeliana installato – ancora non sappiamo ad opera di chi – nei telefonini degli esponenti di Mediterranea Luca Casarini, Beppe Caccia, don Mattia Ferrari e del giornalista di Fanpage Francesco Cancellato, l’esercito israeliano possiede un software in grado di introdursi nel sistema operativo e agire in proprio, inviando messaggi dalle pagine social degli utenti a loro insaputa, oltre che di attivare la telecamera.

Va aggiunto che due settimane prima di quel salvataggio del 27 novembre al-Sharif e il suo telefonino erano in mano militare israeliana, come abbiamo visto.

Per di più, quando al-Sharif avrebbe messaggiato, quel che si sapeva dell’attacco del 7 ottobre non sembrava motivo di eccessivo entusiasmo. In quel momento – si veda la prima pagina di Le Monde alle ore 15 – le notizie parlavano di 70 vittime israeliane, e già 198 palestinesi per la rappresaglia immediata, e di rapimenti ancora non si aveva notizia.

Ma facciamo un esperimento mentale: ipotizziamo che il messaggio sia autentico, che sia stato davvero lanciato da al-Sharif, e che questi lo abbia poi maldestramente cancellato. Dico maldestramente, perché non è vero che nulla si cancella dalla rete: se uno sa come fare – e al-Sharif aveva una laurea e una specializzazione nell’uso dei media – un file scompare per davvero. Provate a cercare in rete il famoso “file dblab” contenente i nomi degli atleti partecipi alla “cura Conconi”, che pure per qualche tempo è stato presente in rete…

Abbiamo dunque un militante entusiasta e parecchio preveggente, che però attende ben 8 ore – ma sbaglia a leggere l’ora e ne dichiara 9 – prima di lanciare un unico messaggio, che a quanto pare nessuno si fila, a dispetto di una certa notorietà come mediattivista del suo autore. A metà novembre, poi, al-Sharif è fermato e interrogato, ma i suoi inquisitori non si accorgono di questo messaggio – che però, il 27 novembre 2023, viene rilanciato su una pagina web, ed è per questo che il Web Archive lo “cattura”.

Nei 17 mesi successivi al-Sharif diventa sempre più popolare, ma il suo messaggio viene rilanciato solo altre due volte: lo screenshot di David Puente mostra infatti che al 6 aprile 2025 ci sono solo tre salvataggi. Fate voi…

I selfie con Sinwar

Nella pagina Telegram di al-Sharif ci sono alcune sue foto del 2021 con dirigenti di Hamas, fra i quali Yahya Sinwar.

Almeno due di queste foto sono come minimo sospette, ma non mi impelagherò in questa discussione: diciamo che sono tutte autentiche. Il fatto è che farsi un selfie con un dirigente di Hamas, soprattutto con il suo dirigente Sinwar, era cosa tutt’altro che rara. Molti giornalisti più noti e importanti di al-Sharif lo hanno fatto. Ne cito una: la cronista di guerra freelance Francesca Borri, che alla morte di Sinwar ha scritto un post rielaborando la sua intervista al dirigente di Hamas del 2018, corredando il testo con la sua foto accanto al capo di Hamas – senza che, com’è giusto peraltro, alcuno abbia eccepito alcunché su questa foto.

Le ragioni sono banali, a conoscere il contesto. In primo luogo, Sinwar è oggi il feroce pianificatore del pogrom del 7 ottobre, incarnazione del Male Assoluto o giù di lì, ma nel 2021 era il dirigente di Hamas col quale Israele credeva di aver più o meno raggiunto una sorta di tacito accordo di non belligeranza reciproca.

In secondo luogo, a Gaza, dove prima del 7 ottobre il tasso di disoccupazione sfiorava il 50%, con una punta del 70% fra i giovani laureati, l’informazione era una delle poche merci che potevano essere prodotte e avevano un mercato internazionale, e quella di reporter forse l’unica strada professionale percorribile. Al-Sharif, lo abbiamo visto, era arrivato prima dei trent’anni alla Reuters, altri all’Associated Press o ad altre grandi agenzie. Il che implicava una forte concorrenza e la necessità di garantire la veridicità del prodotto, fosse un’intervista o un reportage. Il selfie alla fine dell’evento era una sorta di certificazione di autenticità, e non a caso tutte le foto in questione sono scattate in luoghi pubblici.

La foto del soldato morto

C’è un post del 26 ottobre 2023 in cui, sotto la foto di un soldato israeliano morto – non «un israeliano»: un soldato israeliano – al-Sharif ha o avrebbe scritto: «Ogni volta che ti senti giù di morale, ricordati che li abbiamo colpiti in testa nei loro siti militari».

Sempre ricordando che un mese dopo il telefonino del giornalista era nelle mani dell’IDF – posto che l’IDF abbia avuto bisogno del device per entrare nella sua pagina Telegram –, anche in questo caso assumiamo il post come autentico. Cosa ci racconta questo testo combinato con questa foto? Che, mentre l’aviazione israeliana martellava Gaza e l’esercito preparava l’invasione, al-Sharif, con un linguaggio crudo, diceva a se stesso e ai suoi lettori che i nemici non sono invincibili.

La durezza del messaggio può disgustare i delicati stomaci europeo-occidentali? Probabile: ma l’economia morale dei sottomessi e degli sfruttati non si misura con le categorie morali degli sfruttatori e degli oppressori. Resta che, accettabile o meno questo sfogo di rabbia, foss’anche di odio, esso attesta null’altro che questo: che qualcuno ha provato un sentimento di rabbia e di odio, motivato soggettivamente da una storia di oppressione, sfruttamento, miseria, colonizzazione. Un sentimento, o un’emozione. Non un fatto, un evento, un’azione.

Se ogni singolo post dei vostri social fosse convertito in prova di un’azione delittuosa, dove andremmo a finire? L’omofobo che si augurava che l’ISIS colpisse gli intellettuali omosessuali europei dovrebbe per questo essere inquisito come membro della rete di fiancheggiamento del terrorismo islamiso? Gli stronzi che fecero battute all’indomani della strage in discoteca a Corinaldo, sulla giusta punizione capitata a chi ascolta la musica trap dovrebbero essere indagati come possibile complici dell’evasione di uno dei membri della banda del peperoncino responsabile del panico che causò la strage?

Uno dei più noti giornalisti uccisi dalla mafia aveva militato in gioventù nella X Mas. Ci fossero stati i telefonini, avremmo forse trovato qualche suo discutibile post commemorativo del 28 aprile, e di sicuro Luciano Liggio ci avrebbe sguazzato. Giusto per capire a quale livello ci si colloca quando si identifica un post con una vita e un essere umano, e si emettono sentenze.

Postilla locale (anzi, no): al-Sharif, Bassani e i fucilati del 15 novembre 1943

È successa, a Ferrara, una tempesta in un bicchier d’acqua. Alla morte di al-Sharif, alcuni membri di un collettivo, palestinesi e italiani, ragazze e ragazzi, hanno apposto la foto del giornalista accanto alle lapidi che commemorano le vittime delle fucilazioni del 15 novembre 1943, immortalate dai testi di Giorgio Bassani e Piero Calamandrei, e dal film di Florestano Vancini La lunga notte del ’43.

Il film di Vancini sull’eccidio del Castello di Ferrara, tratto dal racconto di Bassani Una notte del ’43, è su Raiplay.

Apriti cielo! Leso antifascismo, lesa bassanianità. Calamandrei non pervenuto, pazienza. I giovani in questione si erano già fatti notare per alcune azioni “eclatanti” (siamo in provincia, ci si emoziona per un nonnulla): una contestazione in consiglio comunale, un manichino raffigurante Netanyahu impiccato (come Eichmann: genocida per genocida) e un paio di fumogeni accesi durante le manifestazioni.

Insomma, non è volato un sasso, non è stato infranto un vetro, non s’è fatto male nessuno, tranne il sottoscritto, che è riuscito a scottarsi la mano con la cera in una fiaccolata, ma vabbé. Però al bon ton di tanti questi gesti paiono eccessivi: alcuni, fieramente colonialisti nella propria prigione mentale, pretendono di insegnare l’educazione occidentale ai barbari del sud del Mediterraneo; altri, afflitti dalla sindrome del colonnello Buendía, dall’alto delle loro 32 rivoluzioni perdute ritengono di dover spiegare ai palestinesi come si deve comportare un palestinese.

Nel frattempo gli studiosi di Bassani tacciono, impegnati in ben altre contese: divisi in due schiere fieramente avverse, stanno da anni disputando se il capolavoro di Bassani sia Il giardino dei Finzi Contini o Dietro la porta. Roba seria, nella città in cui gli eredi del fascista Carlo Aretusi detto «Sciagura» sono al governo.

Non è mio costume dire ad altri quel che è giusto fare o non fare, mi limito a due osservazioni bassaniane.

■ Nelle Cinque storie ferraresi, oltre alla narrazione della notte del ’43, c’è la storia di un rompicoglioni, Geo Jotz, tornato a Ferrara dai lager, unico sopravvissuto, che si aggira per la città con fare molesto, disturbando con la sua condotta, il suo abbigliamento, il suo dire una città che vorrebbe finalmente trovare pace e, magari, dimenticare. Nel suo piccolo, un velato omaggio a La peste di Camus, così come Una notte del ’43 è un omaggio a La fucilazione del 3 maggio 1808 di Goya. Ecco: quelle ragazze e ragazzi che rompono i coglioni e disturbano la quiete pubblica fanno proprio ciò che faceva Geo Jotz.

■ Nel racconto sulle fucilazioni del 15 novembre 1943 non ci sono solo i fucilati. C’è il già citato fascista Aretusi, personaggio tutt’altro che immaginario, che non ha le spalle al muro, ma che il muro dei fucilati lo guarda di fronte; e c’è il farmacista Pino Barilari, che guarda la scena dall’alto della sua finestra senza intervenire, per viltà.

Alcuni di quei fucilati – e in senso lato tutti – si battevano contro un governo illegittimo, fascista e colonialista. Proprio come Anas al-Sharif, che ha combattuto con le armi della verità contro un governo illegittimo, colonialista e fascista. Lo avevano già detto Primo Levi, Hannah Arendt, Albert Einstein che Menahem Begin, le sue pratiche e il partito che alla fine fondò, il Likud, erano fascisti, come fascista era il suo maestro Ze’ev Jabotinski e, oggi, il suo allievo Netanyahu.

Dunque l’effigie di Anas al-Sharif sta bene con le spalle al muro e lo sguardo rivolto a chi passa dal corso.

Anas al-Sharif sul muro del Castello Estense di Ferrara

C’è da chiedersi, piuttosto, chi sia oggi al posto di Carlo Aretusi, e chi di Pino Barilari.

__

* Girolamo De Michele (Taranto, 1961) vive e insegna a Ferrara. Collabora con varie riviste, cartacee e on line, fra cui Il manifesto, doppiozero, estense.com. Tra le sue pubblicazioni: Storia della bellezza, a cura di e in collaborazione con Umberto Eco (2004); La scuola è di tutti. Ripensarla, costruirla, difenderla (2010); Filosofia. Corso di sopravvivenza (2011); la curatela dell’autobiografia in tre volumi di Toni Negri Storia di un comunista(2015-20); If the Kids are United. Musica e politica tra i 60 e gli 80, con Fant Precario (2017) e Un delitto di regime. Vita e morte di don Minzoni, prete del popolo (2023); e i romanzi Tre uomini paradossali (2004), Scirocco (2005), La visione del cieco (2008), Con la faccia di cera (2008), Le cose innominabili (2019) e Lo scacchista del diavolo (2023).
Il suo prossimo libro, in uscita a novembre, si intitola Il profeta insistente. Raphael Lemkin, l’uomo che inventò la parola genocidio.

Scarica questo articolo in formato ebook (ePub o Kindle)Scarica questo articolo in formato ebook (ePub o Kindle)

Lascia un commento